Il territorio sfasciato

IL TERRITORIO SFASCIATO 
di Gian Carlo Sacchi

Una notevole quantità di provvedimenti andrà presto ad influire sulla programmazione del servizio scolastico e dintorni. In parte sono l’epilogo dell’eredità lasciata dalle varie riforme degli enti locali e della pubblica amministrazione messe in atto nell’ultimo decennio del secolo scorso ed in parte riguardano la recente revisione del titolo quinto della Costituzione in vista dell’abolizione delle province e anticipata dalle unioni/fusioni dei Comuni e dalla riorganizzazione dei poteri statali di cui si parla nella legge sulla “buona scuola”.

Gli amministratori in questa prima fase sono più preoccupati di altri servizi: anagrafe, demanio, polizia locale, ecc., meno di tutto ciò che ruota attorno al più generale sistema educativo; nel frattempo lo Stato sta riprendendo in mano non solo quanto nell’ultimo ventennio stava andando verso il decentramento, ma anche ciò che è oggi appannaggio dei Comuni, ai quali potrebbero essere poi conferite le competenze delle Province, oppure quelle che erano soggette esclusivamente alla legislazione regionale. Dentro a questo insieme di scatole cinesi ci dovrebbe essere l’autonomia delle scuole, le quali, come abbiamo più volte sottolineato in questa rubrica, non è una scatola alla pari delle altre nella rete territoriale (statuto delle scuole autonome e loro rappresentanza nei diversi livelli politico-territoriali), ma è dentro a quella più grossa dello Stato (rete tra scuole) che ne delimita il perimetro e ne condiziona i principali strumenti di funzionamento.

La nuova Costituzione mantiene allo Stato l’ordinamento scolastico, si sta statalizzando il segmento 0-6 e si pensa di costituire un’agenzia nazionale con annessa sperimentazione su istruzione e formazione professionale. Alle Regioni un ritorno al DPR 616/1977 per organizzare il servizio scolastico.

Dalle predette unioni/fusioni dei Comuni si dovranno disegnare nuove istituzioni scolastiche, che alcune regioni intenderebbero farle coincidere con i servizi socio-sanitari. In sede di prima applicazione dei provvedimenti sull’autonomia era demandato infatti alle stesse di individuare “gli ambiti territoriali ottimali” e ad una concertazione tra autonomie scolastiche ed enti locali eventuali modifiche successive. Tale impostazione però non fu mai del tutto seguita, perché fu lo Stato ad attribuire l’autonomia sulla base di parametri quantitativi, e così si rimase in balia di un sostanziale conflitto tra le Regioni che deliberavano sulla rete (modificando magari le stesse determinazioni di comuni e province) e il ministero che doveva attribuire il personale; oggi sono gli UUSSRR a definire anche gli “ambiti territoriali” nei quali i dirigenti scolastici andranno a scegliere l’organico e si costituiranno le reti tra le scuole.

Sempre da parte del ministero dell’istruzione sono state emanate linee guida per l’insediamento o il mantenimento di scuole nelle zone di montagna o disagiate del territorio (aree interne).

In conclusione, da una parte c’è di nuovo il sicuro potere del ministero che brandendo l’arma del personale interviene sia nella fornitura dell’organico degli istituti mediante l’approvazione dei piani triennali dell’offerta formativa, sia nella ripartizione dello stesso per ambiti territoriali. Questa situazione pur emancipando la capacità delle scuole stesse di gestire in modo più flessibile le risorse umane, le lascia comunque confinate in un quadro dato. Dall’altra parte c’è la assai più fragile azione degli enti territoriali ai quali manca ancora un quadro generale di programmazione, ma non se ne vede nemmeno l’impegno per una sua rapida elaborazione.

Come si è detto questi temi non sembrano prioritari e sono poco presenti nel pur vivace dibattito in atto sul riordino degli enti locali. Autonomie scolastiche e nuovi agglomerati comunali, senza le province, devono misurarsi con parametri numerici, magari da spending review, che lo Stato potrebbe far crescere: è un po’sibillina l’affermazione contenuta nella legge 107 circa il futuro ridimensionamento del numero delle dirigenze, con esigenze dei territori e nel rapporto tra servizi sociali.

Ricostruire una governance territoriale non sarà ne facile ne breve; a livello intercomunale si può lavorare sul primo ciclo: sarebbe già una conquista se si riuscisse a generalizzare il modello degli istituti comprensivi, anche in vista di una più organica riproposta del predetto percorso 0-6.

Per quanto riguarda il secondo ciclo le attuali province sui generis rischiano di chiudere le scuole per mancanza di riscaldamento, ma non mollano, mentre potrebbe essere proprio questo periodo di transizione il più opportuno per una nuova organizzazione anche qui dei nuovi comuni.

Sul versante dell’istruzione e formazione professionale infine solo alcune regioni hanno cercato di adeguare il proprio impianto legislativo, spingendolo però verso le esigenze del lavoro, mentre il governo nazionale ha già inquadrato tutta la materia riportandola sempre di più sotto l’egida statale: agenzie nazionali per il lavoro e la formazione professionale, apprendistato, linee guida sull’alternanza, laboratori territoriali per l’occupazione.

L’evolversi dei processi normativi da l’idea di un territorio sfasciato e disorientato, incapace di riprendersi una leadership di governo a partire dai peraltro tanti movimenti locali che esprimono esigenza di partecipazione civica. Non si riesce e per certi versi non si vuole ricostruire a partire dal basso, unica modalità che potrebbe far riavvicinare i tanti delusi alle istituzioni.

Le articolazioni della Repubblica rischiano di essere decorative se tutto viene manovrato dal centro ed il recente aspro conflitto tra governo e regioni, oltre ad alcune questioni di merito, fa capire il tentativo in prospettiva di ridurle, come si è detto altre volte, ad uno strumento di gestione amministrativa di area vasta. Nel nostro settore esse sono perlopiù un contenitore nel quale continua a governare indisturbato, anche dalla riforma della pubblica amministrazione, l’ufficio scolastico regionale.