La riforma impossibile

Perché riformare la scuola è impossibile

di Francesco Scoppetta

Se raccogliessimo le proposte di riforma formulate dagli intellettuali (non dai politici) sulla scuola italiana, apparse non tanto sui libri ma soltanto sulla stampa, riempiremo intere biblioteche. Oggi voglio comparare due sole proposte che mi appaiono, tra le tante, degne di considerazione eppure destinate, come molte altre, a restare -purtroppo-  sulla carta (magari le studieranno i posteri o gli storici). 

La prima è di un noto scrittore, Marco Lodoli, che nella scuola ha insegnato sino alla pensione e quindi l’ha vissuta direttamente così come la sua collega Paola Mastrocola. L’altra l’hanno scritta insieme due esperti di pubblica istruzione, Francesco Luccisano e Marco Campione. Cominciamo con Lodoli, il quale avanzando scherzosamente la sua autocandidatura a ministro dell’Istruzione (il Foglio, agosto 2022), come semplice insegnante di lettere dell’istituto professionale con nessuna competenza amministrativa, legislativa, tecnica, ha voluto esprimere alcune sue convinzioni che ora riassumo. Sono ildecalogo di un fantasioso programma.

1. Dal momento che la missione della scuola è educare, preparare, formare, gli insegnanti non devono essere riempiti con compiti burocratici che sottraggono tempo allo studio e alla preparazione. Pertanto è necessario semplificare. La scuola deve insegnare la chiarezza, dunque anche ogni suo documento e ogni suo pensiero devono essere chiari.

2. La tendenza di questi anni è quella di moltiplicare licei di ogni genere, talvolta semplici creazioni ministeriali.Occorre rilanciare gli istituti tecnici e professionali, cioè le scuole dove gli studenti, immigrati compresi, possono apprendere un lavoro, che produrrà stipendi e indipendenza. 

3. Aumentiamo notevolmente le ore di educazione fisica ogni giorno, così come fanno in Croazia e in Slovenia. Iragazzi hanno bisogno di muoversi, correre, saltare, altrimenti in poco tempo ingrassano e si trascinano. 

4. Lezioni di cinquanta minuti e poi dieci minuti di pausa, come accade nelle scuole scandinave. Ogni ora pertanto sia divisa tra studio e aria aperta, concentrazione e poi rilassamento.

5. Due o tre ore alla settimana di musica a scuola, dalle elementari alle superiori. I ragazzi amano la musica, che è matematica e sensibilità, e sarebbero felici di imparare a suonare uno strumento, da soli e insieme agli altri.

6. Siccome i ragazzi amano il presente, sono necessari corsi di aggiornamento per gli insegnanti che non siano quelle noiose lezioni su come si usa il registro elettronico o come si organizza una programmazione. Magari pensare a corsi su cosa è accaduto negli ultimi trent’anni o quaranta nella letteratura, nella scienza, nell’arte, nella storia del nostro paese e del mondo. Aggiornare deve significare arricchire davvero la cultura di chi va in classe per spiegare il passato e il presente.

7. Cancellare l’alternanza scuola-lavoro per i licei classici e scientifici e rafforzarla per i professionali e tecnici. Nei licei è tempo perso, nei professionali è fondamentale e inoltre agli studenti piace moltissimo.

8. Basta con i proff trasfertisti che arrivano stanchi, amareggiati e infelici sul posto di lavoro. Riformulare le graduatorie scolastiche per evitare gli spostamenti geografici degli insegnanti costretti a svegliarsi alle tre di mattina per prendere un treno che li porterà in scuole lontane centinaia di chilometri da casa loro. 

9. Ridurre al massimo la precarietà. Essa consiste nel tremare ogni settembre nel timore di non essere richiamato dopo aver insegnato a scuola già dieci, quindici, vent’anni. Essa consiste nel cambiare scuola ogni anno perché si rinviene un posto libero da occupare, almeno per un poco.

10. Aumentare necessariamente gli stipendi ai professori per togliere loro almeno l’ansia di arrivare a fine mese. Si comincia con 1.400 euro, che neppure bastano per trovare una sistemazione decente in una scuola con cattedra libera di una città sconosciuta.

Se mi si consente un rapido commento (il mio scopo è soprattutto divulgare proposte che trovo molto interessanti),i punti 1 (semplificare), 2 (potenziare tecnici e professionali), 8 (riformulare la graduatorie scolastiche), 9 (eliminare la precarietà), 10 (stipendi migliori), sono “astratti”, sono destinazioni alle quali non si sa con quali mezzi arrivare, mentre gli altri punti sono facilmente realizzabili attraverso atti normativi (aumentare ore di educazione fisica, di musica, ecc…).

Veniamo adesso ad un altro articolo (“4 tabù da infrangere sulla scuola”) apparso sempre sul Foglio ma ad agosto del 2021, scritto da due esperti di istruzione, Francesco Luccisano e Marco Campione:

Tabù1 (Mobilità): La mobilità è un tabù perché alimenta il precariato. Occorrerebbe uniformare le regole per la mobilità dei docenti a quelle di tutta la Pa, fare concorsi a livello di scuola o reti di scuole, introdurre (il modello è quello della provincia di Trento) il periodo di prova per i docenti precari. Gli insegnanti italiani cambiano troppo spesso scuola e tutti i tentativi di limitarne la mobilità, rendendola simile a quella di ogni altro dipendente pubblico, sono stati finora inefficaci. L’effetto è una didattica spezzettata tra un supplente e l’altro, oltre che danni agli apprendimenti.  Secondo un dossier di Tuttoscuola, l’Italia spende per i docenti di sostegno quasi 8 miliardi di euro l’anno e quasi due terzi degli studenti con disabilità cambia il docente ogni anno. 

Tabù 2 (Carriera): La scuola -si ripete sempre- non è un’azienda, per cui con tale tabù si combatte ogni proposta di far crescere in responsabilità e in retribuzione una parte del corpo docente sulla base del merito, delle responsabilità assunte, della permanenza in contesti difficili. Siamo tutti uguali, le gratifiche possono al massimo decidersi in contrattazione scuola per scuola. In questo modo la scuola non attrae i migliori talenti tra i giovani laureati. Si dovrebbe proprio fare il contrario di quello che si fa oggi. I percorsi di valorizzazione professionale non devono essere né contrattati di anno in anno, né a pioggia. L’obiettivo dovrebbe essere quello di passare dal riconoscimento informale delle diverse funzioni che operano in ogni scuola, a quello formale. Il Pnrr sembrava andare in questa direzione, ma forse quel treno è stato indirizzato su un binario morto.

Tabù 3 (Valutazione): Sul sito “Scuola in chiaro” del ministero basta cercare una scuola qualsiasi, si troveranno il numero di laboratori, l’età media degli insegnanti, lo scostamento dai risultati Invalsi di quella regione, il numero di ragazzi che cambiano scuola durante l’anno, il numero di alunni per classi, il turn-over dei docenti. Ormai disponiamo di un’infinità di dati per aiutare le famiglie a scegliere bene la scuola, e per spingere ogni istituto a migliorare. Tutto inutile, le famiglie scelgono ancora sulla base del passaparola, ignorando ad esempio che spesso le differenze maggiori non sono tra le scuole, ma tra le classi. I presidi non sono valutati e pagati per come riescono ad operare miglioramenti misurabili nella propria scuola. Gliispettori di cui dispone il Ministero sono pochi (meno di 200 in pianta organica, in servizio poche decine); i finanziamenti non premiano le scuole che migliorano di più, né rafforzano quelle più in sofferenza. Pur con tanti dati a disposizione l’allergia alla valutazione produce una scuola senza strumenti e senza direzione, in cui il successo formativo dipende soltanto dalla buona volontà del suo personale. Che fare? Valutazione dei presidi, che incida sulla loro carriera; progressivo incremento del corpo ispettivo che lo porti in 5 anni almeno a 1.000 unità; piani di miglioramento per le scuole più vulnerabili.

Tabù 4 (Autonomia e parità): “Scuola della Repubblica” e “scuola di Stato” non sono affatto sinonimi, autonomia e parità hanno rotto quello schema, ben radicato anche nella prassi delle burocrazie ministeriali. Dal concetto di autonomia scolastica (il focus è sull’organizzazione) si passi dunque a quello di scuole autonome (il focus è sulle organizzazioni); si valorizzino le scuole come luogo delle autonomie (degli studenti, dei docenti, dei dirigenti e delle scuole stesse); si torni all’impianto della Conferenza del 1990. Sabino Cassese in quella sede disse: “Non si può attribuire a una comunità scolastica autonomia didattica se non le si concede in qualche misura autonomia di organizzazione, di destinazione delle risorse e anche di ricerca di risorse finanziarie, di scelta del personale”. Per strada si sono perse la scelta del personale e la ricerca autonoma di risorse finanziarie.

IL QUINTO TABU’ Ora, tutte le questioni poste nei due articoli sopra riassunti in fondo si risolvono affrontando il quinto tabù “trasversale” di cui parlano anche Luccisano e Campione: la centralità dello studente. Nessuno a parole la nega ma in realtà la scuola italiana è stata costruita e pensata mettendo al centro le sole esigenze del personale (magari con tessera sindacale). Gli esempi per dimostrare tale logica sarebbero molteplici, mi limito a qualche accenno. Addirittura, visti i bassi stipendi, è ormai senso comune accettare il doppio lavoro per cui avvocati e commercialisti, assicuratori e imprenditori insegnano solo per rimpinguare le proprie entrate e lo fanno beninteso nei ritagli di tempo. La scuola fornisce ormai spesso ai propri dipendenti un salario accessorio e l’insegnante si sta trasformando in un faccendiere (un lungo discorso a parte meritano i dirigenti e gli Ata). La classe, l’orario, il calendario, la lezione, la valutazione, la bocciatura sono tutte costruzioni pensate in funzione degli adulti (il professore, il preside o il provveditore), alle quali gli alunni devono solo adeguarsi. Le esigenze degli studenti devono piegarsi ai “diritti” degli adulti altrimenti i primi diventerebbero, si osa dire, clienti/utenti di un’azienda.

Si pensi, per fare un secondo esempio tratto dalla prassi delle scuole meridionali, che tutte le assemblee sindacali (ogni docente ha 10 ore di lezione all’anno per parteciparvi) devono per forza svolgersi di mattina (e non di pomeriggio) sottraendo ore di lezione agli studenti. Assemblee, beninteso, alle quali i docenti, pur dichiarando di voler aderire, di fatto sono liberi di non presenziare.

Rovesciando questa prospettiva e mettendo al centro della scuola le esigenze degli alunni, forse anche gli altri tabù verrebbero giù come un castello di carte. E’ chiaro come il sole che è questo quinto tabù per ragioni politiche-sindacali  a non poter essere smantellato in Italia.

Concludo dicendo che le proposte di Lodoli, Luccisano e Campione nella loro profondità e buon senso resteranno irrealizzabili per un motivo culturale ormai ben identificato. 

Tale motivo vorrei spiegarlo utilizzando le parole usate da Antonio Gurrado (“Liberiamo l’Italia dagli italiani”, il Foglio) a proposito del fatto che una buona metà degli italiani o non paga le tasse o sfrutta benefici statali o vive a carico dell’altra metà. Gurrado pertanto ha scritto: “Vige dunque una situazione in cui – dopo essere stati per secoli vessati dai francesi, dagli spagnoli, dagli austriaci – gli italiani celebrano centocinquant’anni di piena indipendenza riuscendo nell’impresa di vessarsi da soli. Siamo al culmine di quella che qualche anno fa Geminello Alvi aveva chiamato la dominazione italiana sull’Italia. E se da un lato, dopo un’intera storia nazionale trascorsa sotto il tacco di oppressori stranieri, non possiamo nascondere la soddisfazione di essere diventati noi stessi un popolo oppressore, dall’altro manteniamo la triste consapevolezza di essere rimasti un popolo oppresso”.

C’è una ragione culturale che consente agli italiani di convivere con l’evasione fiscale e anche, aggiungo, con una scuola costruita intorno al personale e non agli studenti.