L’abolizione delle Province per una maggiore autonomia nel governo dei territori?

L’abolizione delle Province per una maggiore autonomia nel governo dei territori?

di Gian Carlo Sacchi

Il processo di riforma costituzionale è ripreso in Parlamento, ma la strada per l’approvazione definitiva si sa è ancora lunga. Il dibattito fin qui ha riguardato la riforma del Senato, trasformato nella camera delle autonomie, al quale gli attuali senatori hanno recitato il “de profundis”, rinunciando all’elettività diretta.

Il quadro costituzionale cambia con la revisione del “titolo quinto” sulla governance del nostro sistema istituzionale, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle Regioni, per arrivare all’abolizione delle Province ed alla riorganizzazione (unioni/fusioni) dei Comuni.

Del superamento delle province si parla da tempo; fin dall’entrata in vigore delle regioni a statuto ordinario si era posto il problema di come rendere più funzionali certi servizi secondo modalità di programmazione territoriale che si scontravano con strutture amministrative imposte dallo stato-nazione, a fronte di poteri legislativi attribuiti alle regioni stesse.

Non erano dunque le province il sindacato dei piccoli comuni, che attraverso le unioni/fusioni debbono diventare grandi, per essere in grado di adempiere alle loro funzioni secondo parametri di efficienza organizzativa ed economica, fino ad arrivare alle “città metropolitane”. Così i confini provinciali potevano essere di intralcio all’efficacia di azioni amministrative che richiedono di potersi aprire a territori di “area vasta”. Vi sono state iniziative addirittura interregionali su emergenze naturali, come ad esempio la rete degli enti locali sul fiume Po, oppure la formazione professionale proiettata ad uno scambio di qualifiche addirittura a livello europeo; tematiche che oggi vanno trattate in modo più ampio e rendono inutile la presenza della provincia come ente autonomo.

La Repubblica è strutturata in Comuni, con una dimensione adeguata, Regioni per le competenze legislative legate al territorio, ma anche qui qualche ritocco alla geografia andrebbe fatto, e lo Stato non più visto in un’ottica di gestione centralistica ma di “norme generali”, livelli di prestazioni a garanzia dei diritti sociali, valutazione dei risultati, in un’ottica di scambio internazionale, con una Camera nzionale che si preoccupa dell’equilibrio dei poteri locali. Delle province come presidio non si sente davvero la mancanza. Un risparmio che non è tanto originato dall’abbattimento dei costi della politica, ma dallo svecchiamento del nostro impianto istituzionale.

Nelle grandi aree urbane le strutture delle attuali province andranno ad irrobustire le nuove città metropolitane, nelle piccole realtà esse replicano con risorse diverse e altro personale le stesse funzioni che potrebbero essere svolte da una buona organizzazione dei Comuni. La maggior parte delle competenze sono delegate dalle regioni; queste stesse potrebbero mantenere le medesime funzioni sul territorio con uffici regionali o comunali, sempre intendendo unioni significative per numeri e rappresentatività locali. Non c’è bisogno di un altro ente per elargire contributi che i comuni stessi potrebbero già trattenere sul piano fiscale o per coordinare iniziative finalizzate alla ottimizzazione dei servizi.

In attesa che la riforma costituzionale vada in porto, siamo in una fase di transizione con una legge che deve accompagnare soprattutto i Comuni nei loro processi di riorganizzazione, che si sa non sono facili, soprattutto per questioni identitarie e manageriali, e non continuare ad amministrare al posto degli stessi, come se si trattasse di scelte politiche autonome derivanti da un mandato degli elettori.

La legge Del Rio ha cercato la dolce morte per le province, probabilmente complicando la vita ai sindaci: un bel commissario prefettizio forse sarebbe stato più sbrigativo, ma questo governo di secondo livello dovrebbe proprio essere un laboratorio per arrivare a consolidare l’assetto definitivo delle unioni/fusioni dei Comuni, in rapporto con le Regioni . Non si tratta infatti di un mandato politico e di una nuova forma di governo, ma di un servizio soprattutto in quelle realtà dove questa riorganizzazione ha bisogno di aggiustamenti o di interventi di rinforzo, cosa che magari le province prese da istinto conservativo non hanno supportato a sufficienza.

In questo periodo di elezioni delle rappresentanze comunali l’attenzione è concentrata su come si formeranno le diverse maggioranze sui territori, e si nota positivamente il prevalere di schieramenti atti a sostenere tale passaggio; quello che però rimane in dubbio è se, come ci si attenderebbe dallo spirito della revisione costituzionale, l’abolizione delle province procedesse ad un maggiore decentramento dei poteri dello Stato verso Regioni e Comuni, tolti i vincoli geografici e amministrativi intermedi. Qui occorre una verifica di coerenza di tutto il percorso, perché l’eliminazione della “legislazione concorrente” tra lo Stato e le Regioni stesse sembra riportare più competenze verso il centralismo statalista.

Non si vorrebbe che le province fossero soltanto un sacrificio sull’altare del risparmio e della semplificazione, quando invece la posta in gioco è che i territori possano contare di più.