Chi insegna ad insegnare?

Chi insegna ad insegnare?

di Francesco Scoppetta

Il discorso sulla scuola italiana procede sempre e comunque in termini generali ed astratti, come se l’insegnamento fosse simile ad un agevole lavoro d’ufficio e ogni insegnante lavorasse in scuole “facili”. Oggi invece l’insegnamento si svolge o in scuole difficili oppure in scuole impossibili. Gestire gruppi difficili di studenti e situazioni scolastiche spinose una volta era un’eccezione (riguardava scuole periferiche o istituti professionali), oggi è il faticoso quotidiano compito di ogni docente italiano. Nonostante si accumulino libri e saggi scritti sull’argomento la mia impressione (magari sbagliata, perché no?) è che questo tema resti marginale nel dibattito. Gli inglesi, che al contrario di noi queste situazioni le hanno sempre prese sul serio e studiate, descrivono così il problema:

“Sopravvivere in una scuola difficile è analogo al tentativo di salvarsi la vita da parte di un fante della Prima Guerra Mondiale nella sua trincea mentre gli strateghi, a numerosi chilometri dal fronte, stendono grandiosi piani irrealistici per vincere la guerra. Ci sarà sempre un divario significativo fra coloro che insegnano in una scuola difficile e coloro che redigono i piani di miglioramento dei sistemi formativi. Alla fine, sarà necessario che entrambe le parti instaurino una qualche forma di rapporto costruttivo se non vogliono andare in direzioni differenti, antagonistiche e controproducenti”.

Quando leggevo queste parole di un preside di Londra, Paul Blum, era il 2000, e per diventare dirigenti (prima eravamo presidi) ci fecero seguire ponderosi corsi di formazione, molto ben fatti, solo che la maggior parte degli illustri relatori erano giuristi. I quali con tutta la buona volontà non sono in grado di spiegare a un dirigente cosa debba fare per migliorare gli apprendimenti degli studenti, che a pensarci bene è lo scopo principale della scuola.

A chi non l’ha mai provato sulla sua pelle sfugge completamente la sensazione che un giovane insegnante alle prime armi sente entrando in una classe per provare a far lezione. Far cessare il chiasso, riuscire a far sedere tutti gli alunni, a rendere tollerabile il brusio diffuso, a interrompere gli scherzi, riuscire a parlare facendosi sentire anche da quelli degli ultimi banchi, fare l’appello, insomma ottenere le condizioni minime per cominciare una lezione e, ammesso che ci si riesca, a portarla avanti sino al suono della campanella, ecco le sensazioni più resistenti e penose di un insegnante.  Molte scuole difficili assomigliano spesso a prigioni o caserme in cui molte persone riluttanti devono stare, sono costrette a stare contro la loro volontà.

In tante scuole (mi si perdoni l’eccesso di generalizzazione) il veleno è rappresentato dal “devo”, dall’obbligo che unisce personale e discenti a starvi dentro, mentre, se potessero scegliere, vorrebbero trovarsi da un’altra parte. La sfida più impegnativa per un docente non è dunque capire come strutturare un’Uda o saper fare la programmazione o un Pei ma far sì che gli alunni si sentano dell’umore di ascoltare e lavorare. L’unico obiettivo che egli si pone è quello di stabilire buone relazioni con gli alunni (o con la maggior parte), i loro genitori, i colleghi e i dirigenti. Chiamiamolo pure “sopravvivere”, il lavoro è (soprattutto) questo. Solo che, arrivo al punto, insegnanti (che poi diventano dirigenti) non sono preparati a questo compito, nel migliore dei casi sanno spiegare bene la propria materia e vi costruiscono sopra l’autostima. Nessuno in Italia insegna “come” fare per raggiungere tale obiettivo, ti insegnano i rudimenti di una disciplina e poi il “lavoro nelle classi difficili e con alunni demotivati” è “privatizzato” e lasciato all’inventiva pratica dei singoli insegnanti. Non è faccenda culturale che riguardi lo Stato e/o il Ministero. Ti buttano a mare e ognuno impara a nuotare come può, solo che molti annegano nella frustrazione o dimenandosi troppo.

Certamente a questo punto qualcuno obietterà che le scuole difficili (oggi quasi tutte, dalla primaria ai licei) hanno bisogno non soltanto di insegnanti molto seri ed impegnati ma anche di maggiori risorse, classi meno numerose, di materiali di recupero e sostegno e anche di obiettivi realistici. Ma quel che vorrei far notare è proprio questo automatismo che tali obiezioni fanno scattare: il particolare dell’insegnante a cui nessuno insegna a sopravvivere prima di mandarlo in classe viene nascosto e rimosso nei piani generali delle risorse aggiuntive, compensative, riparatorie. Anche se lo stipendio degli insegnanti aumentasse molto non diminuirebbe la loro frustrazione continua di dover fronteggiare alunni difficili senza sapere “come” fare. Quegli stessi alunni che impediscono a tutti di far lezione perchè sono demotivati e ormai “non-studenti” noi li mandiamo ai corsi di recupero, quasi sempre svolti dagli stessi docenti la mattina impediti a far lezione. E’ il “come” che in Italia non interessa, non appena abbiamo stabilito “cosa” fare, siamo a posto. Ecco i contenuti, ecco i “risultati di apprendimento”, tocca a te insegnante inventarti “come” far lezione e “come” ottenere quei risultati. Vedi un pò tu, se ci riesci avrai comunque lo stesso stipendio di un tuo collega che non insegna per niente, si assenta molto e non ottiene nessun apprendimento, basta mettere voti positivi a tutti e le carte sono a posto. Neppure la motivazione (al lavoro) dei docenti dunque allo Stato interessa, se interessasse comincerebbe con gratificazioni, premi ed una carriera per i docenti più meritevoli, è chiaro.

Come rimanere calmi in classe davanti a provocazioni e confronti continui, come non perdere le staffe, come evitare di gridare e abbandonarsi alla frustrazione e alla rabbia, come portare avanti strategie positive di gestione del comportamento per creare la motivazione degli studenti? E’ compito lasciato al singolo, tranne sporadici corsi di aggiornamento che qualche scuola organizza su competenze trasversali convocando psicologi piuttosto che giuristi e pedagogisti. In ogni scuola la motivazione e l’educazione all’affettività dovrebbero essere, questo è il mio parere, muri portanti e invece sono accessori, essendo soltanto le materie, i voti e i “progetti” ciò che la fabbrica produce. Ci si occupa di tutto quello che la società mette a fuoco (in questi giorni la pace) trascurando le due tematiche fondamentali che riguardano gli studenti: la loro motivazione allo studio e i loro sentimenti. Studenti demotivati e anaffettivi (incapaci di riconoscere le proprie emozioni) affollano le scuole dove gli adulti si occupano di tutto non avendo più tempo e spazio per affrontare le vere sfide educative.

Così siamo arrivati all’altra parola essenziale, “educazione”. Il fatto è che gli insegnanti sono inconsapevoli di essere anche “educatori”. E lo sono così tanto da non capire che potranno essere sostituiti in quanto fornitori di informazioni (già lo sono con tutte le lezioni on line, che bisogno c’è di spiegare la Seconda guerra mondiale se hai ormai il podcast di Alessandro Barbero?) ma nessuno potrà mai rimpiazzarli nella funzione educativa di prendersi cura della crescita dei propri studenti. Una bellissima lezione frontale ormai è facilmente rintracciabile in rete, magari la platea farà più silenzio guardandosela in tv, ma le competenze educative di ogni insegnante non sono surrogabili perchè vanno svolte in presenza e attraverso una relazione umana. La scuola non è un supermercato dove c’è chi compra e chi vende, ma è un incontro di persone. L’insegnante consapevole di essere anche un educatore ha bisogno di elaborare una propria visione pedagogica, non gli basta la preparazione disciplinare (ammesso che ce l’abbia).

Sono un insegnante e non sono uno psicologo, so insegnare bene la mia materia, ma non è mio compito capirli, comprenderli, educarli”, ecco il teorema dell’insegnante in-consapevole che intende riempire la testa vuota dello studente con le sue informazioni. Solo se capisce che può essere molto altro, un allenatore che si mette al fianco dell’alunno per facilitare nello studente il contatto con le proprie risorse, con le proprie difficoltà, con i propri processi mentali, il prof diventa un educatore, una guida. Che poi, guarda caso, è esattamente il compito affidato alle lezioni private, quando si ricorre ad un altro insegnante il quale si mette di fronte allo studente e gli dice:

Fammi vedere come fai questo e spiegami cosa succede dentro di te mentre lo stai facendo. Dov’è che incontri delle difficoltà e dove ti blocchi?

In questo modo l’allenatore suggerisce strategie per migliorare il “saper fare” (un tema, un esercizio, l’interrogazione orale), orienta l’attenzione verso ciò che avviene dentro il cervello dello studente, rende consapevoli i processi mentali di generazione di idee e ipotesi. Parte da quello che lo studente sa già fare per utilizzarlo nelle acquisizioni successive di nuove competenze, in questo modo l’allievo avverte che non deve cominciare sempre da zero. La scintilla che accende il fuoco è l’entusiasmo per la scoperta e l’esplorazione delle proprie potenzialità così da sviluppare la progressiva consapevolezza metodologica del proprio funzionamento cognitivo.

Come si vede, una cosa è l’insegnamento concepito dal nostro “sistema” come abilità di trasmissione delle conoscenze, organizzate in una bella sequenza di unità didattiche. Un prodotto finito anche misurabile e confrontabile sul piano regionale, nazionale e mondiale. Altra cosa è prendersi cura della formazione della mente degli studenti, utilizzando l’automonitoraggio continuo, la consapevolezza strategica, il dialogo e la ricerca fatta insieme. Basti pensare alle tecniche adoprate sul campo dagli sportivi, un maestro di sci o di tennis, per comprendere come non ci sia bisogno prima della teoria e del libro e poi degli esercizi, ma come tutto si svolga nella pratica del “saper fare”, allorchè le paure di non riuscire nell’allievo diminuiscono via via che la sua testa guida e armonizza corpo e gesti secondo le indicazioni dell’istruttore. Al contrario invece come può un docente capire dove l’alunno Tizio incontra le difficoltà se ha spiegato a scuola e assegnato gli esercizi per casa senza assistervi? E’ chiaro che tra la spiegazione e la successiva valutazione col voto manca un momento, l’insegnante che a fianco dell’allievo si renda conto da dove nascono le sue difficoltà. Se fosse questo il metodo giusto per far apprendere, anche i maestri di sci terrebbero dapprima al chiuso e al caldo le lezioni teoriche e frontali lasciando agli apprendisti sciatori il compito di esercitarsi da soli. Infine dopo una settimana il giorno delle gare registrerebbero chi arriva prima e chi ultimo.

Potremmo continuare con molti altri interrogativi, ma ne enuncio soltanto qualcuno. Per esempio, quanti insegnanti, oltre a far capire, si preoccupano anche di far memorizzare? E quanti utilizzano una tecnica di memoria che illustrano ai propri allievi (convinti che per imparare devi leggere e ripetere un paragrafo) o spiegano come prendere appunti o procedere per parole chiave? Oppure, quanti capiscono che troppa attenzione verso l’allievo problematico alimenta e mantiene la difficoltà dello scolaro, per cui anche la disattenzione talvolta è necessaria? Infine, quanti sanno che le nostre aspettative di insegnanti influenzano anche i comportamenti altrui? Queste domande significano che l’insegnante italiano voluto come esperto disciplinare è inadatto a fronteggiare scolaresche difficili perché non padroneggia sia le tecniche e il metodo di studio, sia i rudimenti di una cultura psicologica. E’ capace di insegnare molte nozioni ma non insegna a come apprendere ad apprendere. Le classi difficili sono piene di alunni che dopo ripetuti fallimenti e senza modificare nulla sul piano operativo (cambiare metodo di studio o riorganizzare gli obiettivi) si illudono di poter andar meglio la volta successiva per magìa, affidandosi alla dea Fortuna. Noi adulti, così come tutto un sistema formativo, siamo stati capaci di far diventare lo studio come una prova da superare. Studiare non è più un fine, è il mezzo per passare l’interrogazione o l’esame. Si studia per il professore, non per sè stessi. Solo che nella società del tutto e subito, dove tutto è così facile e alla portata di tutti, ormai perchè sforzarsi tanto per studiare e apprendere? Abbiamo ad un certo punto rinunciato a trasformare il dovere dello studio nel piacere di farlo così come ormai in Italia abbiamo rinunciato a contenere l’evasione fiscale.

La riprova sta nel fatto che ancora lo scarso rendimento scolastico nel senso comune della scuola militante è quasi sempre spiegato come il prodotto del binomio volontà-capacità. Invece di considerarlo un problema, ormai affrontabile con brevi cicli di psicoterapia, lo si ritiene molto semplicemente l’effetto di svogliatezza, scarso impegno, oppure di ridotte capacità. In realtà pessimi studenti si diventa non per cause “cognitive-motivazionali”, ma come conseguenza di una insistenza verso soluzioni inefficaci delle difficoltà di studio (prima in alcune materie e poi con un blocco generalizzato che sfocia nell’abbandono). Insistendo nell’applicare qualcosa che non funziona, la soluzione tentata diventa un problema innanzitutto psicologico (Paul Watzlawick). Non esistono studenti incapaci ma solo problemi mal risolti. Le tentate ed inefficaci soluzioni cronicizzano l’ansia, alimentano il problema e lo rendono persistente nel tempo. “Si tratta di interrompere questo meccanismo togliendo la legna da sotto il calderone, eliminare le cause che alimentano il problema per ri-orientare le persona e le sue risorse verso un equilibrio di maggior benessere”. A me appare incredibile che di fronte alle difficoltà dello studio o al blocco dello studente ancora oggi non si vada oltre nelle nostre scuole e famiglie a sollecitazioni del tipo “Studia di più”, o “Impegnati, dai”. Dietro e dentro gli abbandoni scolastici e i drammi di studenti che non riescono a cavarsela a scuola o all’università c’è una complessiva arretratezza culturale della scuola italiana che insiste con soluzioni ormai vecchie ed inefficaci. Chi voleva (soltanto) trasmettere nozioni dalla cattedra non è riuscito a comunicare, chi era costretto a riceverle non ha acquisito nulla. Il fallimento degli apprendimenti (malgrado tante scuole buone o prestigiose) in Italia lo si è aggirato con i voti finti e le promozioni fasulle.

Note:

Mario Polito, Guida allo studio, la motivazione, Muzzio editore, 1997

Paul Blum, Sopravvivere nelle classi difficili, Erickson, 2000

Alessandro Bartoletti, Lo studente strategico, Ponte alle Grazie, 2013