La lezione frontale dentro e fuori della scuola
di Francesco Scoppetta
Quando facevo il liceo negli anni sessanta chiesi al professore: -Lei ci ha spiegato finora la poetica di Leopardi, potrei vedere una sua foto per capire com’era? – Avevo infatti letto “In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso” (F. De Sanctis, La giovinezza, Torino 1971) ed ero curioso. Nella scuola italiana, che è astratta, le foto dei poeti e degli scrittori non erano contemplati allora, mentre uno come me che ha una memoria visiva Carducci se lo sarebbe ricordato se avesse visto il suo faccione barbuto, o Pascoli per i suoi baffi. No, la scuola italiana (anzi la società italiana) da sempre è convinta del seguente dogma: “io spiego e loro capiscono”. Insomma, è basata sulle parole e concepita per chi ha una memoria uditiva. Uno parla, ma chi ascolta non sempre capisce, non sempre ricorda. Certamente uno ricorda di più quello che ha fatto.
Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa; ogni mattina tante scolaresche italiane escono dalla scuola e vanno a sentire una conferenza. “Quanto siamo ripetitivi”, come il titolo di un saggio di Remo Bassetti. E’ Il giorno della marmotta o è cieca fiducia nella prevedibilità? Una volta c’erano i programmi scolastici, adesso ci sono le indicazioni nazionali per i traguardi di sviluppo degli apprendimenti, e così tanti contenuti “extra” vengono sviluppati attraverso esperti esterni o politici che parlano agli studenti. Ogni giorno appaiono sui media (corredate da foto indispensabili a testimoniare l’evento) notizie di convegni predisposti su svariate tematiche e destinati a scolaresche di ogni età.
Fuori della scuola le lezioni frontali continuano dunque ad opera di esperti che trattano argomenti “culturali”. Viene chiamata educazione non formale. Ovidio ci aveva avvertiti: “Verum velle parum est” (Di buone volontà è pieno l’inferno). E’ l’educazione civica diffusa sul territorio, per cui sin da bambini gli scolari capiscono che dovranno abituarsi (sembra il loro destino) ad ascoltare i “maestri”, gli adulti, dentro e fuori della scuola. A casa poi devono studiare e fare i compiti. A casa ci si esercita in privato; i compiti, non si è mai capito perchè, non si possono fare a scuola. Il cd merito comincia da qui, chi fa i compiti a casa è bravo, chi non li fa è asino. Magari chi li fa è assistito dai genitori, ma questo è un altro discorso.
L’immutabile scuola fatta di tante lezioni frontali continua (con o senza Avanguardie educative), come se il tempo si fosse fermato, nonostante il web e l’informatica e i social e l’AI. Perchè avviene questo? E’ facile capirlo, questa modalità di insegnamento adoperata ancora in Italia in modo prevalente si basa su un semplice immutabile convincimento: chi ascolta, impara.
Pertanto è buona per tutti gli usi e per tutti gli scopi, che nella scuola sono chiamate educazioni: educazione ai valori, all’affettività, alla salute, all’ambiente, alle differenze. Alle relazioni, alla sessualità, finanziaria, scientifica. Vogliamo educare i giovani sulle droghe e le dipendenze più diffuse, sui pericoli del bullismo o del cyberbullismo, sui rischi dei social network? Propiniamo loro un bel discorso di un esperto e il gioco è fatto. Le finalità sono innumerevoli, ma il mezzo resta uno solo. Ascoltato un lungo discorso, gli studenti si pensa che abbiano appreso cose che prima non conoscevano. Sono stati avvertiti, allarmati, formati. Troppo semplice per esser vero. E’ l’ottimismo di chi crede che alla lunga la goccia d’acqua spaccherà la pietra.
Certo, ogni conferenziere ormai è sgamato, sa usare il power point, la lavagna luminosa, filmati accattivanti e musiche, utilizza la lezione sincrona o la videoconferenza. Ma, più o meno sgamato e aggiornato, è convinto come tutti dell’efficacia della parola lanciata verso il canestro di una platea attenta e silenziosa.
Solo nello sport si apprende facendo, infatti nessun maestro di sci o di tennis o di calcio si sogna di svolgere conferenze teoriche introduttive, passa subito alle lezioni pratiche. Dal momento che l’attenzione è sia una funzione cognitiva che uno stato psicofisico è chiaro poi che star seduti su una sedia comoda o in una bella sala aiuta, al contrario non aiuta il caldo o la folla o il brusio.
Quello che è ormai senso comune, ovvero che per mantenere alta l’attenzione degli studenti a scuola è buona abitudine alternare attività più complesse con pause rigeneranti, fuori della scuola è scoperta ancora non pervenuta, basti pensare ai convegni con molti relatori (si chiamano passerelle) dove gli studenti servono più ad esaurire i posti in platea che a prestar attenzione ai contenuti proposti.
Tutti sappiamo, nel 2023, che se io parlo ed espongo 10 pensieri, chi mi ascolta si ricorderà i primi 3, il resto magari lo sente ma lo dimenticherà, per cui tanto varrebbe decidere quali siano le prime 3 cose importanti da dire e farla finita. In un’ora di lezione, sono essenziali, dopo i saluti, i primi dieci minuti, essendo l’attenzione destinata ad affievolirsi sino a scemare del tutto. Tutti abbiamo queste consapevolezze ma nella miriade di seminari di alto livello a cui ho partecipato gli esperti che li hanno messi in pratica sono stati pochissimi. Come mai? Umberto Eco la sua Bustina sull’Espresso la scriveva in modo molto semplice mentre il linguaggio specialistico lo adoperava nei suoi trattati di semiologia. Il filosofo Massimo Cacciari parla sempre in modo adeguato al pubblico che si trova davanti, quando appare in tv non usa la stessa terminologia iniziatica e oscura che adopera nei suoi seminari o quando presenta un suo libro. Cacciari è una eccezione, perchè molti docenti universitari o intellettuali in genere ritengono che l’uomo di cultura non debba adeguare il suo linguaggio al pubblico che ha davanti (Battiato cantava: C’è chi si mette degli occhiali da sole/ Per avere più carisma e sintomatico mistero).
Questi conferenzieri del sintomatico mistero possono essere spiegati attraverso un paragone con i libri di testo scolastici. Tutti i libri adottati nelle scuole sono ponderosi e pesanti. Come la maggior parte dei conferenzieri oscuri. Sono costruiti sul presupposto logico che dentro ci va messo tutto (l’intero menù) e sarà poi ogni docente a selezionare il 20%, decidere quali pagine (argomenti) insegnare e quali trascurare, l’80%.
Il conferenziere per studenti si muove con la stessa logica, io devo dire tutto quello che posso (e infatti i tempi debordano), senza trascurare nulla, poi ciascun studente porterà a casa o immagazzinerà in testa quello che vi entra. Tutto, si pensa, dipende allora da quanto sia grande il cervello di ciascun ascoltatore, e la conferenza-lezione consiste nell’operazione “neutra” di immettere nel contenitore tutte le nozioni che il cervello possa contenere. Siccome ci saranno cervelli che contengono 10 e altri che contengono 1, il conferenziere deve trattare tutte e 10 le nozioni. Il fatto è che non sa quanti siano i cervelli grandi e quanti quelli piccoli, pertanto espone tutto il campionario anche se, talvolta, è visibile che solo 1 ascolta e tutti gli altri fanno altro. Si capovolge come in un gioco di prestigio il procedimento, facendolo dipendere dunque dalla testa capiente degli ascoltatori, non dalla bravura del conferenziere.
Su questo versante, che è quello della cultura non solo frammentata in parti staccate ma anche spezzata in due blocchi (scientifica e umanistica), ha già detto tutto Edgar Morin partendo da Montaigne: “E’ meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”. (v. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Cortina Editore, 2000)
L’importanza della cultura e dell’educazione non risiede secondo il filosofo francese nella mera accumulazione quantitativa dei saperi, ma nel determinare un’attitudine generale a porre e trattare i problemi, nel saperli collegare e organizzare.
Fatta questa premessa, la riflessione principale che vorrei fare riguarda le nostre convinzioni culturali generali (o credenze) perchè è chiaro che se la “lezione frontale” la si adopera nella scuola ma anche fuori per comunicare con i giovani significa che la società, sia quella politica che quella civile, dà per scontato quello che non lo è più. Costruisce su fondamenta ormai sbriciolate, ripete di continuo un rituale che spesso (non sempre) non ha più senso. Quelle cose che si fanno perchè si è sempre fatto così, senza chiedersi perchè. L’uomo che parla ai giovani e affronta (anche per un tempo limitato) argomenti altissimi, nobili, profondi (si pensi a tutte le occasioni in cui si svolge una celebrazione, per es. si intitola una strada o si commemora qualcuno) dà per scontato che le sue parole abbiano un effetto, come una freccia che colpisce il centro del bersaglio.
La lezione frontale funziona in pochi casi (con un abile conferenziere) dentro e fuori della scuola perchè è risaputo come il trascorrere del tempo rende qualsiasi operazione umana “antiquata”, “superata”. Cosa diremmo di un contadino che oggi volesse coltivare i terreni con gli attrezzi dell’ottocento, o di un medico che volesse curare i pazienti come si faceva nel buon tempo antico? Ecco perchè Morin ha inteso affrontare il legame tra vita e educazione e proposto anche una riforma del pensiero. Perchè il tema della testa ben fatta piuttosto che piena è sicuramente interessante ma controverso soprattutto quando pensiamo alla sua fase realizzativa. Pertanto non sto proponendo di cancellare i convegni e le conferenze, tutti sappiamo che il risultato dipende dalla qualità del conferenziere, ma soltanto di non sviluppare la sindrome del karaoke. Il karaoke consente a tutti di cantare su una base musicale, imitando l’originale, e molti sono convinti di poterlo fare anche meglio del cantante famoso.
In fondo gli insegnanti con la lezione frontale non fanno altro che, senza accorgersene, tentare di imitare un loro vecchio professore universitario che è rimasto loro impresso. Ma con tutta la buona volontà non tutti gli insegnanti sono in grado di ottenere efficacia e qualità (si tratta solo di capire i propri limiti, o di migliorarsi, tutto qui) per cui sarebbe più utile proporre agli studenti di “fare” qualcosa invece di imporre l’ascolto in silenzio (anche scrivere o leggere è preferibile all’ascoltare). Insomma, invece di entrare in classe pensando “cosa gli dico oggi?”, il docente dovrebbe chiedersi “cosa gli faccio fare oggi?”. Il mondo cambia, e quindi se sono diminuiti quelli che vanno al cinema a vedersi un film di 120 minuti e aumentano quelli che a casa preferiscono vederselo a spezzoni (streaming), magari andando indietro o avanti a piacimento, perchè la scuola insiste nel solito rituale delle docce mattutine che si susseguono ogni ora della settimana (italiano, matematica, scienze e così via)? Certo che ci sono quelli disposti a star seduti per due, tre ore a vedere in silenzio il teatro o il balletto o l’opera, così come quelli disposti a sentire una conferenza, ma per l’appunto tutti concordiamo che si tratta di un pubblico di “appassionati“. Fanno questo perchè sono cultori di teatro o danza, o sono curiosi, disposti ad ascoltare un poeta, uno scrittore, un giornalista, un regista. Ma per quale motivo fingiamo, attraverso quel processo mentale ben conosciuto come wishful thinking, che le scolaresche siano composte da appassionati di argomenti importanti? E’ vero il contrario, proprio perchè non lo sono si deve trovare il modo migliore di incuriosirli, di interessarli. Di accendere la loro passione. La precettazione, condurli fuori dalla scuola per seguire una conferenza, può produrre l’effetto contrario, così come l’annosa cura de “I promessi sposi” di Manzoni, da leggere e ripetere all’interrogazione, ha allontanato molti dalla lettura e dalla letteratura in età adulta piuttosto che incentivarle. Forse.
Chi studia i sistemi scolastici internazionali sa bene che quello italiano ha una peculiarità: durante le lezioni gli insegnanti sono abituati a parlare troppo e pretendono che gli studenti restino passivi in silenzio. Nella scuola di de Amicis il maestro poteva avere questa convinzione, ma averla oggi quando Vongola72 ha preso la parola e vuol dire la sua sui social su qualsiasi argomento sbeffeggiando gli specialisti, forse pecca d’ingenuità. Non a caso quando parliamo di gentilezza, di buona educazione, di rispetto, amicizia, virtù, gratitudine, insomma di buoni sentimenti, la definiamo “una scuola da libro Cuore”. Possiamo averne nostalgia ma quel che è passato non ritorna.