Per la scuola dateci il meglio

da Corriere della sera

Ho fatto un sogno. Un sogno semplice, modesto, quasi banale, eppure apparentemente irrealizzabile. Il sogno che a governare la disastrata scuola italiana ci sia una persona seria, competente, capace, una guida sicura, brillante, eccellente, una persona cui tutti noi affideremmo volentieri il futuro dei nostri figli con piena fiducia, giusta ammirazione, motivata speranza.

U n eventuale avvicendamento al ministero dell’Istruzione risolverebbe i problemi della scuola? Ovviamente no. Salverebbe però la rispettabilità di un alto ruolo istituzionale e la dignità di un’istituzione fondamentale. Non è poco, non è affatto poco. Dignità e rispettabilità sono valori cruciali quando si attraversa una grave e cronica crisi di risorse materiali e d’idee progettuali, sono l’ultima trincea prima del «si salvi chi può». Io li invoco quei valori, sia a difesa della rispettabilità del ministero dell’Istruzione sia, soprattutto, a difesa della dignità della scuola.

Scrivere articoli sulle necessità e difficoltà della scuola italiana è una sorta di penitenza, una meditazione sulla vanità del tutto (e, soprattutto, di noi stessi): per quante volte tu possa lanciare il tuo accorato, avveduto, sincero grido d’allarme, non accade mai nulla, il grido resta voce nel deserto (si vedano, per esempio, i due ottimi articoli di Carlo Verdelli pubblicati di recente sull’argomento). E, allora, io sento il dovere di trasformare la geremiade sui mali cronici della scuola italiana in giaculatoria. Alla lamentela lenta, ossessiva e vana è ora di sostituire la preghiera semplice, breve, ostinata: per la scuola dei nostri figli pretendiamo il meglio; dateci quanto di meglio è disponibile per la scuola dei nostri figli; dateci il meglio, il meglio, vi prego, il meglio.

Perché questa patetica implorazione? Perché, confermando una pessima tradizione di malgoverno che dedica alla scuola risorse — economiche e umane — in misura inversamente proporzionale alla suprema importanza dell’istituzione preposta all’istruzione delle nuove generazioni, durante i mesi dell’emergenza Covid — duole davvero dirlo — la gestione della ministra Azzolina è stata infima. Credo sia esatto dire che, in estrema sintesi, si è risolta in colpevoli silenzi alternati a risibili annunci. La ministra ha taciuto a lungo, troppo a lungo, abbandonando allo smarrimento milioni di studenti, di presidi e d’insegnanti. Poi, quando ha parlato, ogni volta che ha parlato, è stata sistematicamente costretta a ritrattare, costringendo quell’esercito allo sbaraglio — esercito per numero non per natura — a passare dallo smarrimento allo sgomento. La pubblicazione delle attesissime linee guida per il rientro in aula il 14 settembre non ha fatto che raggiungere il colmo di una lunga sequenza di manifeste incompetenze e palesi incapacità. Il coro di proteste levatosi dal mondo della scuola, all’unisono, non ripudiava questa o quella linea guida ma la totale assenza di una guida affidabile. Il Governo, per tramite del ministro competente, ha rimesso ogni responsabilità — e le relative difficoltà — ai singoli presidi e istituti scolastici e lo Stato italiano, per tramite del suo Governo, ha abdicato al proprio ruolo, una sorta di 8 settembre in salsa scolastica.

Per mesi, chiunque conoscesse il mondo della scuola ha riso — riso amarissimo — dei velleitari annunci su distanziamento tra banchi, turni dei docenti, divisori in plexiglass, consapevole della cronica mancanza di spazi che affligge le scuole italiane e della normativa ministeriale, ancora vigente, che obbligava i presidi a rispettare il criterio del divisore tra studenti e numero di classi pari a 27 e, quindi, ad accorpare le classi con meno di 22 alunni. Poi, quando a fine giugno, sono finalmente arrivate le linee guida, era passata anche la voglia di ridere di fronte al ridicolo dell’ennesima licenza poetica dei burocrati ministeriali i quali, nel documento ufficiale, per indicare la fenditura tra le labbra, usavano l’espressione «rime buccali».

Non c’è proprio niente da ridere. Anche lasciando da parte ogni considerazione sull’enorme importanza della cultura per la crescita individuale e sociale, nel mondo tardo-moderno la ricchezza si produce o negli avallamenti della produzione a basso costo o sui picchi della ricerca tecnologicamente avanzata. Questi ultimi si raggiungono con l’eccellenza nell’istruzione. Detto in altri termini: si può essere ricchi e ignoranti per una generazione ma non per due.

No, non c’è proprio niente da ridere. Il nostro Paese e il nostro Governo — non solo in materia d’istruzione — mostrano la pericolosa tendenza a considerare la pandemia come una parentesi, un intervallo caratterizzato da eventi anomali e transitori rispetto al convenzionale svolgersi della vita. Io credo fortemente che ci sia, invece, bisogno di una diversa punteggiatura esistenziale, storica e politica. La pandemia deve segnare come minimo un «a capo» nella nostra epoca, un momento di passaggio dall’argomento, dalle consuetudini, dalle priorità che hanno dominato il capoverso precedente a nuovi argomenti, consuetudini, priorità. Uno dei tanti «a capo» che dovremmo tracciare riguarda la qualità dei nostri governanti. Dopo il dramma collettivo, non possiamo più tollerare che a governarci siano gli incompetenti, gli incapaci, gli inetti o, in taluni casi, addirittura i corrotti, i cialtroni, i disonesti. Punto e a capo.

Sarebbe un triste, maldestro, penoso racconto quello che riducesse le nostre vite a un periodare stracco, a una stringa di frasi sminuzzate, balbettanti, senza senso, punteggiate da una sequela infinita di parentesi vuote.