E. Fiorentino, Una breve stagione d’amore

Enzo Fiorentino, Una breve stagione d’amore 

di Carlo De Nitti

Per deformazione intellettuale e professionale, radicatasi nel corso degli anni (magari! dei lustri, dei decenni…) di rado chi scrive si approccia alla lettura di romanzi: quado lo fa, lo spingono, di solito, motivazioni più che valide: lo scenario storico-politico della vicenda narrata e/o la conoscenza diretta dell’Autore del libro.  

Nel caso del ponderoso volume di Enzo Fiorentino, Una breve stagione d’amore che ha visto recentissimamente la luce a Roma per i tipi della Albatros, le motivazioni a cui si accennava sono mirabilmente compresenti e fuse in uno. 

L’Autore è persona di grande spessore umano e culturale, prima ancora che scolastico e professionale, in un mondo, come quello della Scuola, che lo vede da sempre protagonista indiscusso e “magister” di tanti operatori del settore a tutti i livelli. Una bella persona a tutto tondo. 

Con Una breve stagione d’amore, Enzo Fiorentino, che ha al suo attivo molte altre importanti pubblicazioni su argomenti di carattere sociologico, didattico e pedagogico, esperisce, con la sua scrittura ariosa ed efficace, un genere letterario per lui finora inusitato: il romanzo storico. 

Il volume – costituito da quattro capitoli (la ripartenza, il sogno negato, la svolta, la scelta per l’impegno) ed un epilogo – si snoda attraverso quegli anni importanti per la storia, italiana e non solo, del XX secolo – dalla seconda guerra mondiale agli anni della ricostruzione postbellica – mediante le vicende del protagonista, Zeno, giovane e brillante neolaureato in Finanze ed economia, che ama, riamato, Adelaide, una sua ex compagna di scuola liceale, figlia di un importante industriale metalmeccanico del paese, don Raffaele, non alieno da collusioni con il regime, da cui la sua azienda riceve commesse e prebende.

Non è esplicitata nel romanzo la collocazione geografica della storia, probabilmente a dirne l’universalità: il paese in cui è ambientata la storia non è identificato, neppure con un nome di fantasia: è sicuramente sul mare, ha un nucleo antico, é legato alle attività agricole, ma anche sede, negli anni in cui è ambientato il romanzo, di un forte insediamento industriale: a chi scrive pare invenire in esso un centro rivierasco della nostra Puglia. Ma, si sa, la vaghezza amplifica la poeticità del racconto.

Colpisce il titolo Una breve stagione d’amore: breve ma intensissima, quella tra Zeno ed Adelaide, il breve tempo che “il futuro era disposto a concedere loro” (p. 197). Una felice intuizione editoriale … non già un infausto pronostico di vita. La stagione d’amore tra Zeno ed Adelaide – ragazza meravigliosa, ma di cagionevole salute, che esita tragicamente dopo il ritorno dell’amatissimo Zeno – è vissuta con assoluta consapevolezza degli “anni difficili” che incombono su di loro con lo scoppio imminente della guerra. Una storia che tante persone di quella generazione hanno vissuto con fidanzate/mogli lasciate a causa della guerra.

I nomi dei personaggi appaiono eponimi: Zeno, di cui non sfugge essere l’anagramma di Enzo, ma come non pensare pure a Zeno Cosini? Dice Zeno a Nanà: “mia madre accanita lettrice di uno scrittore di queste parti se ne è invaghita imponendolo anche a mio padre che avrebbe optato per un altro nome proprio della nostra tradizione. A me piace e lo porto con fierezza” (p. 341). La differenza caratteriale tra l’“inetto” sveviano ed il protagonista di questo romanzo è palmare; anche l’etimo del nome Adelaide probabilmente veicola al lettore qualcosa sulle peculiarità del personaggio; Mimmo, diminutivo di Domenico, ovvero del Signore, fedele sottoposto e compagno d’infanzia e d’armi del tenente Zeno; Giuliano non a caso viene dalla Venezia Giulia, dove Zeno vivrà la sua Resistenza da militante antitotalitario. Altresì non pare casuale neppure il nome di Tommaso, il leader sindacale dei lavoratori dell’acciaieria.

Lo stile di Enzo Fiorentino è certamente ricco di parole mai scontate o banali, utilizzate con una grande maestria, tale da coinvolgere tutti i lettori – da augurare numerosissimi – con riferimenti culturali importanti. Piace citare – un esempio per tutti – Johan Huizinga (1872 – 1945), il celebre storico olandese autore, tra gli altri suoi importanti volumi, La crisi della civiltà, non a caso deceduto, com’è noto, in un campo di prigionia nazista: mai nominato ma sovente evocato sia da Zeno che dal professore antifascista, relatore della sua tesi di laurea. Molte anche le citazioni del pensiero economico e sociologico classico, nonostante, in quegli anni, in Italia, la sociologia non godesse di buona stampa, anche a causa dell’ostilità della filosofia neoidealistica (gentiliana e crociana) dominante.

Interessante anche come Enzo Fiorentino affronta il rapporto tra italiani e sloveni durante la resistenza e l’argomento, talvolta considerato ancora tabù, delle foibe. Non è un caso che il rapporto di Zeno con i capi della Resistenza siano conflittuali perché egli non rinuncia mai a far valere le sue inoppugnabili ragioni di oppositore democratico nei confronti di tutti gli autoritarismi di qualunque colore politico, nonostante gli inviti a tacere di Nanà, staffetta delle Resistenza: “per aver contrastato opponendomi al capo dei partigiani per un’azione punitiva per nulla condivisa, sfociata come avevo previsto nella morte di altri partigiani di contrarie e differenti idee, ho dovuto subire la sua reazione indignata nei miei confronti. Ma non ho ceduto, non ho rinnegato i mei ideali e le mie convinzioni politiche e ho deciso piuttosto di lasciare, anzitempo, la resistenza” (p. 51).

La peculiarità del bel volume di Enzo Fiorentino è quella di trattare i passaggi storici del romanzo da sincero democratico, attento al valore della persona, come Zeno, ostile al fascismo ed al comunismo in via di instaurazione alle frontiere orientali dell’Italia. Parimenti democratiche e profondamente innovative sono anche – illo tempore – le idee di Zeno sulla leadership per la conduzione dell’azienda del suocero, che eredita quasi sull’orlo del fallimento e che rilancia. Paiono echeggiare in Zeno suggestioni olivettiane – non l’uomo per la fabbrica ma la fabbrica per l’uomo – a cui il sociologo Enzo Fiorentino non è, di, certo insensibile. Lo scrittore ed il sociologo si stringono la mano: Zeno è il prototipo dell’uomo nuovo sortito dalle macerie della guerra, nucleo fondamentale di una società diversa, democratica, umana sempre più umana.

Insieme a Nanà, la bella “mula” partigiana conosciuta durante la resistenza, Zeno vivrà quella maturità dell’esistenza, che è nell’explicit del romanzo: “Prendeva coscienza che con le sue sofferte esperienze forse gli era riuscito, nuovo Prometeo della nuova condizione umana, di circoscrivere solo in minima parte l’oscurantismo della civiltà scaduta nella leggerezza del quotidiano consumata rappresentazione di traguardi sempre vaneggiati e sospirati, ma mai raggiunti e conquistati dall’umanità, sempre pronta a ghermire la felicità con l’alba della nuova e radiosa primavera” (p. 550).


Intervista ad Enzo Fiorentino 

E’ un vero piacere incontrare e dialogare – come a me è capitato in sorte che accadesse – con Enzo Fiorentino, autore di un recentissimo ed interessante romanzo, Una breve stagione d’amore, pubblicato a Roma per i tipi della Albatros.

Enzo Fiorentino, studioso di letteratura francese, sociologo, docente, preside, docente universitario, autore di numerosi studi su argomenti di tipo sociologico e pedagogico – in unum uomo di cultura a tutto tondo – approda con questo testo alla narrativa, mostrando una inattesa vena letteraria, accanto alla nota capacità di affabulazione.

CARLO DE NITTI: Sei ben conosciuto come autore di testi di argomento sociologico e pedagogico i tuoi lettori scoprono questo approdo alla narrativa. Da dove origina questa passione – che è evidente nelle pagine del libro – per questo tipo di scrittura? 

ENZO FIORENTINO: È una passione coltivata da tempo che non ho potuto tradurre in realtà perché la presidenza e gli impegni con i contratti universitari mi hanno sostanzialmente distolto da questa passione. Era un’idea che coltivavo da tempo e sempre con la speranza di poterla tradurre in un romanzo, quale quello che è stato appena pubblicata da Albatros e, non ti nascondo, mi sento veramente appagato: da giovanissimo, diversi professori mi dicevano: perché non scrivi? Perché ho avuto sempre questa tendenza a scrivere molto disinvoltamente. Quando è venuto il COVID, che ci ha costretto, come tu ben sai, a restare in casa, è stata l’occasione per incominciare a pensare di portare il romanzo a termine. Durante la fase preparatoria, non ti nascondo che prendevo appunti ovunque: mia moglie spesso mi diceva ma che fai? Prendi appunti? Era ciò che poi ho raccolto e che ho ben conservato in una borsa, perché sono i ricordi di qualcosa che potrei anche riscoprire.

CARLO: Il ponderoso romanzo – che definirei storico perché non è ambientato nel nostro presente – nasce soltanto da riflessioni storico-politiche o anche da suggestioni autobiografiche? 

 ENZO: Caro Carlo, in realtà, elementi autobiografici sono presenti nel romanzo. Mio padre ha combattuto in Russia, sul Don, con l’ARMIR: quando ero piccolo, vicino al braciere, mi piaceva ascoltarlo quando ci raccontava delle sue vicende. La ferita di cui parla Zeno che riceve soprattutto nella ritirata è una ferita riportata realmente da mio padre. Questi elementi autobiografici sono presenti: anche il paese che il romanzo descrive senza mai nominarlo, in realtà, è il paese nel quale ho avuto il piacere di vivere e di passare la mia giovinezza, gli anni più belli, insomma. Una confessione che mi sento di fare è che, in realtà, il romanzo, pur partendo da un periodo storico preciso, vuole affrontare temi che sono anche attuali. Per esempio, l’avvento del fascismo ed il pericolo sempre incombente nel popolo italiano: quello che Eco chiamava il “fascismo eterno”. Zeno vede per il futuro uno Stato che non deve finanziare il capitale passivo ma il capitale attivo, con il quale ci si impegna a far crescere i propri beni a vantaggio di molti, perché può essere un modo per far sì che il popolo partecipi ad un progetto realmente innovativo.  

CARLO: Approcciandosi al protagonista, al nome Zeno, sovviene subito alla mente di ogni lettore, un suo omonimo, Zeno Cosini, il protagonista del più importante romanzo di Italo Svevo pubblicato nel 1923 ed intitolato com’è noto, La coscienza di Zeno. Che ci sia memoria di lui lo dice il protagonista stesso: “mia madre accanita lettrice di uno scrittore di queste parti se ne è invaghita imponendolo anche a mio padre che avrebbe optato per un altro nome proprio della nostra tradizione. A me piace e lo porto con fierezza” (p. 341). La differenza caratteriale tra Zeno Cosini ed il personaggio protagonista di questo romanzo è palmare: il tuo Zeno non può esser definito certamente “inetto”. Zeno, il protagonista, è l’eteronimo, oltre che l’anagramma, di Enzo? 

ENZO: Zeno è anche l’anagramma di Enzo il diminutivo perché tu sai che, venendo dagli studi di lingue, Vincenzo non esiste: in tedesco, il nome corrispondente è Heinz, e questo mi ha sempre affascinato. Sono Enzo per tutti e, per questa ragione, ho desiderato che sul romanzo fosse riportato il mio nome come Enzo. L’ho chiesto espressamente all’editore, che mi ha subito accontentato. Per quanto riguarda la questione della madre lettrice è un pochino me stesso, perché tu sai che ho avuto modo di studiare in lingua tutta la letteratura francese, autori che mi hanno sempre incantato: dal preromanticismo fino diciamo ai giorni nostri. Autori che mi stanno a cuore: per esempio, scrittori come André Maurois,  François Mauriac; filosofi come Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, che ho letto in lingua di cui conservo gelosamente i libri, pubblicati per la maggior parte da Gallimard e che diventano una tentazione prossima a riprenderli per mettere su eventualmente un altro romanzo.

CARLO: Breve ma intensissima la stagione d’amore, che il titolo anticipa, tra Zeno ed Adelaide – ragazza meravigliosa, ma di cagionevole salute – che la vivono con assoluta consapevolezza degli “anni difficili” che incombono con lo scoppio della guerra. Una grande storia molto verosimile che tante persone di quella generazione hanno vissuto con fidanzate/mogli lasciate per la guerra: mi sovvengono i Racconti della prigionia, pubblicati nel 1987 da Matteo Fantasia (che tu ricordi sicuramente), sposatosi nel 1943 poco prima di partire per il fronte greco, che ha conosciuto la sua prima figlia, nata nel febbraio 1944, solo a settembre 1945, dopo il ritorno dalla Germania dove era stato come IMI. Sola fantasia la tua o ispirazione tratta da una realtà conosciuta e sapientemente romanzata da par tuo? 

ENZO: Non ti nascondo che la ragazza di cui si parla in realtà non è mai esistita però è esistito questo grande imprenditore che riesce ad emergere proprio per la sua perspicacia, pur provenendo da umili condizioni, ed a collocarsi nell’alta borghesia.  La Resistenza nelle zone di confine non e’ una mia invenzione, ma nasce dalla mia prima esperienza di preside in Friuli-Venezia Giulia, dove i miei professori mi raccontavano delle contraddizioni all’interno della Resistenza tra i partigiani “bianchi” ed i partigiani “rossi”, che sognavano la grande Slovenia voluta da Tito e dai titini, staccandola dall’Italia. Ho vissuto quelle vicende nei sentimenti dei miei docenti.

 CARLO: In Zeno mi piace vedere un animo simile a quello del Socrate e del “Fedone” platonico, che obbedisce alle leggi della polis anche se ingiuste: l’atteggiamento di un “eroe borghese” come tanti ce n’erano all’epoca (accanto ai pur numerosissimi “Luca Cupiello”, il noto personaggio eduardiano) degli avvenimenti narrati e tanti ce ne sono ancora oggi. Sbaglio? 

ENZO:  La democrazia come partecipazione alla vita della polis viene vissuta attraverso quelli che sono i bisogni e le esigenze e le richieste della piccola borghesia. Come diceva giustamente Paolo Sylos Labini, la piccola borghesia è una classe servile che sostanzialmente si mostra famelica e non sempre capace di recepire realtà diverse. La piccola borghesia è stata ritenuta da alcuni studiosi intorno agli anni ‘50 come la classe delle vestali cioè che doveva trasmettere la cultura dell’alta borghesia o, meglio, della cultura della classe dominante. Non è da trascurare il fatto che Zeno anteponga la necessità di obbedire ai dettami della propria morale rispetto anche alla felicità. Egli sa che con la sua partenza negherà ad Adelaide quella felicità appena acquisita con il matrimonio. Il titolo del romanzo Una breve stagione d’amore si riferisce proprio alla storia che intercorre tra Zeno e Adelaide: quando Zeno ritorna a casa, Adelaide è minata dal male che poi la conduce a morte. Per lui la morale rimane al di sopra di tutto: anche quando prima di partire il suocero lo spinge ad accettare un incarico importante nella sua azienda, in prospettiva del futuro che lo vedrà sicuramente come quale unico leader di una grossa realtà imprenditoriale. Zeno rinuncia e, quando ritorna, sa che la sua morale impone un altro, ulteriore, dovere, però si rende conto che così ha negato ad Adelaide la felicità cui aspirava con lui. Dietro le pressioni di donna Carla, la suocera, decide di accettare quell’incarico di direttore dell’azienda di famiglia, inserito in un nuovo contesto sociale dove il capitale non è, e non può, essere disgiunto dal lavoro.  

CARLO: La morale che Zeno esprime è, da un lato, di matrice schiettamente kantiana che prescrive l’adempimento dell’imperativo morale di considerare “l’umanità sempre come fine e mai come mezzo”; dall’altro, Zeno incarna un’etica del dovere che non scende a patteggiamenti con nessuno, a cominciare dalla propria coscienza, anche a scapito del proprio vantaggio personale (arruolamento e partenza per la Russia) e che sceglie sempre la ricerca del bene comune (in Russia e nella Resistenza in terra friulana). 

ENZO: Zeno agisce per impulso di obbedienza al dovere morale, pur potendo – tramite il suocero, che era in contatto con gli ambienti romani del partito fascista che contavano – evitare di andare in guerra e rimanere tranquillamente nel suo paesino. Si rifiuta perché si rende conto che è un dovere: è bene lottare contro chi offende la libertà e chi la nega. Nonostante la contrarietà del fratello Paolo, che ritiene che potrebbe non partire e che potrebbe fare resistenza anche nel posto in cui si trova, Zeno è convinto che non sia nemmeno giusto rispetto alle masse popolari ed alle loro condizioni di vita.

CARLO: Questa storia può essere letta come la possibile autobiografia di una generazione, quella dei nostri genitori, carissimo Enzo, che ha vissuto ed attraversato il “secolo breve”: il ventennio fascista, la Seconda Guerra Mondiale, la resistenza in tutte le sue forme, la ricostruzione e il boom economico per rimanere all’ambientazione del volume? 

ENZO: Sicuramente sì, una generazione che si è dovuta adattare a circostanze ed a situazioni storiche e sociali diverse: dall’avvento del fascismo, l’adesione al quale è stata passiva perché si aveva paura. Del resto, quando Zeno parte volta le spalle al gagliardetto e, per questa ragione, è ripreso dal segretario del Fascio del suo paesino. Solo l’intervento autorevole della suocera lo salva da prospettive riservate a chi si mostrava fascista. Voglio dire che mio padre, a cui mi sono tanto rifatto era un uomo di sinistra, che credeva profondamente nell’antifascismo. Di questo ne parlo quando dico che Zeno eredita dal padre questa sua tendenza, perché il padre era controllato dalla polizia fascista.

CARLO: Zeno si manifesta sempre come un vero leader democratico – durante la guerra con l’ARMIR, nella Resistenza, nell’azienda ereditata dal suocero – il cui stile è sempre quello di coinvolgere e convincere gli altri senza mai incutere paura per imporre decisioni. Come non vedere in ciò lo stile precipuo dell’amatissimo e stimatissimo dirigente che è nel DNA dell’Autore di questo bel volume? In quest’ottica vanno letti, credo, i rapporti tra Zeno e Gianni, l’amico di sempre, tra Zeno ed Anna, la segretaria, tra Zeno e Tommaso, il rappresentante sindacale delle maestranze dell’azienda. 

ENZO: La scuola si trova nel punto di convergenza che unisce il Paese: ha avuto da sempre questa responsabilità. Non ho mai pensato a me stesso come colui che era chiamato a “bacchettare”: ho sempre pensato ad un team con i miei collaboratori che, raccordandosi, gestiva la complessità dell’istituzione, coinvolgendo tutti nelle decisioni che dovevano essere collettive. Tutti devono essere convinti: forse tranne qualcuno, ma mi sembra che anche loro conservino un grande ricordo della mia esperienza. Vanno coinvolte le organizzazioni sindacali che devono crescere e che devono avere un ruolo importante nella scuola e nella società. Non è possibile pensare una società dove il lavoro non sia fondamentale: non può esserci una società in cui le persone decidono un giorno di non lavorare, perché, si sa, che esiste il lavoro se esiste il capitale e viceversa. Una reciprocità che può essere come quella che io ho cercato di stabilire tra me ed i miei collaboratori. Essi dovevano vedere in me non colui il quale riempiva il registro di richiami o di note; no, assolutamente, non l’ho mai fatto in tanti anni della mia esperienza. Una cosa molto importante: il responsabile di una istituzione scolastica deve essere un uomo di cultura. Può essere anche che sia chiamato a mettere in atto e ad osservare le leggi però è anche vero che non può essere ridotto solo a questo compito. Il ruolo del preside riguarda il mondo futuro: questo me lo disse, in una chiacchierata tenuta a Bari presso La Scuola editrice, Lanfranco Rosati. Una sera si intrattenne nell’ufficio di Andrea [il direttore della filiale, N.d.C.] che ritenne opportuno, bontà sua, chiamarmi e ricordo sempre che disse questo. La frase mi colpì, mi coinvolse in maniera molto ma molto profonda: se la scuola perdesse questo compito, fallirebbe. E’ questa la ragione per cui ho sempre pensato di essere leader in un luogo in cui tutti quanti erano chiamati a collaborare ed il leader stava sulla stessa lunghezza d’onda dei suoi collaboratori.  

CARLO: Nell’attenzione che ho posto ai nomi dei personaggi (di nessuno c’è un cognome, sia pure di fantasia) non mi pare casuale quello di “Tommaso”, leader sindacale dei lavoratori dell’acciaieria. Sbaglio? 

ENZO: No, non sbagli: Tommaso Sicolo è stato un grande sindacalista che, da operaio, ha sempre rappresentato i lavoratori con intelligenza ed apertura. Nel 1956 ricordo che ci fu una rivolta con gli operai bloccarono i treni in transito: ebbe una capacità di coinvolgimento dei lavoratori e di mediazione.

CARLO: Quanto di Enzo Fiorentino c’è in questo libro? Quanto della sua esperienza di vita e di cultura, in unum di scuola?

ENZO: Io credo che l’elemento autobiografico attraversi il romanzo: in esso è emersa la mia esperienza di responsabile di una struttura importante, come deve essere in una società democratica, una scuola, anche se in questo periodo l’elemento burocratico prevale su quello formativo. Le nuove generazioni si formano senza altre strutture che favoriscano l’ingresso nella società.

CARLO: Per concludere, un ponte verso il futuro: ci anticipi la tua prossima fatica editoriale? 

ENZO: Sarà un saggio, che parte dall’esperienza di un settimanale brillante che da giovani compravamo, benché le nostre tasche fossero molto povere, Settegiorni [1], una rivista che era affidata a due “penne” e uomini di cultura molto apprezzati come Ruggero Orfei e Piero Pratesi. Purtroppo dopo Moro, Falcone e Borsellino, con i grandi limiti della politica italiana, che non obbedisce a quei canoni descritti da Robert Michels, Vilfredo Pareto e Giovanni Mosca, si giunge a ciò che si sta verificando oggi con il populismo ed il sovranismo. Ho detto di aver elaborato lo schema di un romanzo di cui ho anche il titolo provvisorio, ma preferirei rimandarne la divulgazione ad una prossima intervista.

CARLO: Complimenti per il bel romanzo e grazie mille per la piacevole conversazione. A la prochaîne!

ENZO: Grazie mille a te!


[1] “Settegiorni” fu luogo di dialogo tra cattolici e socialisti, e mondo progressista in genere. Scopo della rivista fu di arricchire il dibattito all’interno del mondo cattolico. La direzione fu affidata congiuntamente a Ruggero Orfei e Piero Pratesi. “Settegiorni” nacque appena due anni dopo la conclusione del Concilio Vaticano II (1962-1965), nel pieno del fermento che stava attraversando il mondo cattolico. In politica, la rivista segnò una stagione di vivace confronto e di dibattito su tutti i temi che caratterizzarono la vita nazionale, dalla riforma delle istituzioni alla politica economica, dalle questioni del welfare ai problemi internazionali [N.d.C.]