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Poveri insegnanti! Troppe sigle e poca didattica

Poveri insegnanti! Troppe sigle e poca didattica

di Maurizio Tiriticco

 

Giancarlo Cerini lamenta su FB che oggi a scuola dovremmo fare un po’ di pulizia semantica: RAV, PdM, PTOF, (POF 3.0), PNSD, Fase C, organico potenziato, IND/2012, 107, 3, SNV, NIV, NEV, CdC, PON… e così via! Condivido in pieno le sue perplessità. Non sono un laudator temporis acti, ma ai miei tempi – si dice così – insegnavo! Punto e basta! Ora il povero insegnante è impegnato per legge in mille altre attività, di cui alle sigle riportate da Cerini. Abbiamo avuto in un quindicennio e più tanti ministri, Berlinguer, De Mauro, Moratti, Fioroni, Mussi, Gelmini, Profumo, Carrozza, Giannini – se non dimentico qualcuno – e ciascuno, chi più chi meno, ha dovuto mettere le “mani in pasta”. Ma nessuno è riuscito a metter mano nelle cose che più urgono, un riordino complessivo dei cicli! In effetti, quando a una torta attendono più pasticceri, si ha soltanto un… gran pasticcio!!! Di qui, chiacchiere su chiacchiere, ammantate di belle ma oscure parole. Segnali di fumo per le scuola!

Infine arriva la 107!!! La nostra Costituzione è fatta di 139 articoli, se non erro, e disciplina da decenni la vita di un intero Paese! La 107 consta di un solo articolo… che bello!!! Potremmo dire! Nient’affatto, perché quel solo articolo consta di 212 commi! Ma che razza di legislatori abbiamo!!! E poi nessun comma conclude un oggetto, perché rinvia a un altro comma, e poi ancora ad un altro! Tant’è vero che la GU ha dovuto ripubblicare – che delirio!!! – l’intera legge con le relative note e rinvii! Ben 92 pagine fitte fitte! Siamo alla follia! I DS si interrogano e si arrovellano! Gli insegnanti scoppiano saltellando da una carta ad un’altra! Tra RAV e progetti di miglioramento… per non dire delle prove Invalsi sempre più sibilline! Una volta, invece – o tempora o mores – passavano da un’aula ad un’altra! E poi ci si mette pure l’USR a far da grancassa alla fanfara del Miur!

Intanto le competenze sono come l’araba fenice: “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”: parafrasando il Metastasio. Competenze chiave? Boh! Competenze culturali? Ancora boh! EQF? Un altro boh!!! Intanto il mondo del lavoro non sa che farsene di diplomi che non certificano nulla. E i nostri ragazzi continuano a stare tra i banchi fino a 19 anni accumulando crediti e inseguendo punteggi e, quando ne escono, hanno un pezzo di carta, tanto ambito fino a qualche decennio fa, ma che oggi lascia il tempo che trova. E’ dal 1997 – di quell’anno è la legge di riforma dell’esame di maturità – che le competenze si dovrebbero certificare perché già da allora ce lo chiedeva l’Europa, come si suol dire!! Sarà varato presto il decreto delegato sulle competenze terminali? Ma – mi chiedo e sono cattivo – i nostri scriba del Miur, che dal ’97 hanno dormito, sanno che cos’è una competenza? Finora ci hanno sempre detto e scritto che per certificare una competenza bisogna fare aggio sui voti! Che orrore!!! Per non dire poi che i voti di norma sono dieci e andrebbero, di norma, usati per intero! Eppure da sempre nelle nostre scuole si insiste con i più, i meno, i mezzi. Ancora non abbiamo i terzi e i quarti, ma i meno meno abbondano!!! E nessuno interviene! Se ancora non sappiamo nulla di misurazione, di valutazione, né al Miur né nelle aule, che cosa presumiamo di fare in materia di certificazione? E poi non mi si venga a dire che un 14enne è competenze anche “se opportunamente guidato, svolge compiti semplici in situazioni note”! Ci faremmo curare da un dentista competente purché “opportunamente guidato”?

E ancora! E’ noto ai nostri esperti che, se intendono marciare veramente e seriamente verso le competenze, è l’intera didattica funzionale da sempre al voto che deve essere messa in discussione? In una scuola in cui da sempre c’è una confusione enorme tra misurare e valutare, sarà possibile certificare? Sappiamo tutti che ancora oggi un 2 ottenuto perché quel giorno l’alunno ha dichiarato di non essere preparato fa media con l’8 ottenuto in altra data. Ma che ci azzecca quel 2 con quell’8? Così va spesso il mondo… nella notte della valutazione degli imbrogli: parafrasando Manzoni.

Però c’è l’alternanza! Ma è una cosa vecchia! L’ha introdotta la Moratti nel 2005, sulla carta, e sulla carta resterà ancora per chissà quanto tempo! Perché fino ad oggi l’alternanza zoppica? Non basta un comma ad attivarla! Il problema è strutturale, non formale. A tutt’oggi mancano le condizioni oggettive, tranne i rari casi che conosciamo (ad esempio, l’eredità zoppicante della “terza area” e delle “aree di progetto”), perché le imprese aprano all’alternanza. E qui mi fermo… e lascio i miei lettori a districarsela con le sigle ricordate da Cerini. Poveri insegnanti dell’era della 107! Costretti a farsi assumere tre anni dopo tre anni, ad accumulare titoli e referenze per non ricadere nel buco nero dell’“ambito territoriale di riferimento”: ad accattivarsi l’amicizia e il favore del DS e del comitato di valutazione. E qui c’è pure lo studente… è bene tenerselo caro! E allora che imparino bene tutte quelle sigle! Altro che padronanza nella disciplina e nella didattica. Le sigle contano e guai a dimenticarsene una!

Dalla repubblica delle autonomie alla repubblica delle banane?

Dalla repubblica delle autonomie alla repubblica delle banane?

di Maurizio Tiriticco

 

Che cosa sta succedendo nella nostra Repubblica? Si sta discutendo dell’abolizione delle Regioni e, forse, dell’istituzione di alcune macroregioni. Abbiamo da poco cancellato le Province, abbiamo cancellato il Senato! Un processo di semplificazione? Tutto per rendere più rapida la macchina amministrativa? Quindi la democrazia è un limite più che un’occasione, anzi l’occasione prima per un corretto funzionamento della macchina “statale”? Confesso la mia preoccupazione!

Avevo vent’anni quando, in quel primo gennaio del 1948, venne promulgata la Costituzione, la prima Costituzione democratica della nostra storia. La mia emozione fu enorme! Finalmente avevamo costruito uno Stato autenticamente Democratico! Sì, con la D maiuscola, perché lo Statuto albertino di cento anni prima era fortemente limitativo nei confronti di quelle libertà personali da sempre da molti auspicate, ma mai pienamente realizzate. Per non dire poi della violenza perpetrata dal fascismo con la fondazione di uno Stato di regime fondato su una Camera e un Senato fascistizzati e poi sulla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

La nostra nuova Carta era veramente rivoluzionaria rispetto all’intero nostro passato, contrassegnato da quel manzoniano “volgo disperso che nome non ha”. E mi segnarono profondamente quei primi 12 articoli dei “principi fondamentali”: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1). E in particolare mi segnò l’articolo 5: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Per non dire dell’articolo114: “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”, e del 115: “Le Regioni sono costituite in Enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Si disegnava uno Stato assolutamente nuovo, i cui poteri sarebbero passati gradualmente dal centro alla periferia, dall’autorità centrale ai cittadini. Insomma, quelle Regioni, i cui nomi avevo imparato a scuola, ma che allora costituivano solo un’espressione geografica, parafrasando Metternich, sarebbero diventate il motore fondante di un governo decentrato e autenticamente democratico.

Ma l’attesa fu lunga. Ciò che i Padri Costituenti avevano scritto non era di facile attuazione. Da sempre noi Italiani avevamo “assaggiato” solo qualche briciolo di democrazia! C’era da ricostruire fisicamente un Paese distrutto dalla guerra e tale urgenza era assolutamente prioritaria Così il cammino del decentramento autonomistico fu molto lento. Nel 1948 furono istituite le cinque Regioni a statuto speciale, ma le altre videro la luce tardi, solo negli anni Settanta. Il cammino del decentramento autonomistico non era cosa facile.

Comunque, il dibattito sull’autonomia era sempre acceso, e la svolta si ebbe con la legge 241/1990, “nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Ne seguì la lunga stagione della realizzazione delle autonomie, a partire da quella legge 59/1997 con cui fu affidata la “delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”. Ne seguì il dlgs 112/1998, relativo al “conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali”. Ebbe così il concreto inizio della stagione delle autonomie, contrassegnata dal varo di quelle Carte dei servizi, che com’è noto, interessò anche le nostre istituzioni scolastiche. E infine, per ciò che riguarda l’istruzione, con il dpr 275/1999, venne adottato quel “regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche”, il cui articolo 3 è stato recentemente modificato e arricchito dall’articolo 1, comma 14 della legge 107/2015.

Quindi, abbiamo avuto un fin de siècl fortemente innovativo fino al punto che si ravvisò necessaria anche una modifica della stessa Costituzione. Così, con la legge costituzionale 3/2001 l’intero Titolo V, intitolato “Le Regioni, le Provincie, i Comuni”, venne totalmente riscritto. E la parola autonomia ve la ritroviamo per ben dieci volte! E’ importante sottolineare le innovazioni che sono seguite. L’articolo 114, “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”, viene così riscritto: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane,dalle Regioni e dallo Stato”. Una virata di 360 gradi! Si passa veramente da uno Stato del 1948, che potremmo definire ancora “verticale” a uno Stato del 2001, che potremmo definire veramente “orizzontale”. E con il novellato articolo 117 vengono definite le aree di competenza legislativa dello Stato e delle Regioni.

Non sto qui a ripercorrere i nuovi problemi che si sono aperti, anche in forza di interpretazioni diverse che si possono dare dei singoli passi del nuovo articolo 117. Mi interessa sottolineare l’adozione di nuovi principi, aggiunti – se così si può dire – a quelli della Carta del 1948. Tali principi si possono così riassumere: a) questi sono i principi costituzionali del 1947, ovvero dello “Stato verticale”: democrazia; lavoro; solidarietà politica, economica e sociale; uguaglianza e libertà; persona e minoranze; diritto d’asilo; ripudio della guerra; iniziativa libera ma socialmente utile; le autonomie (definite e sancite); i diritti della famiglia; i tre poteri indipendenti; b) questi sono i principi “aggiunti” con la “Costituzione del 2001”, ovvero dello “Stato orizzontale”; sussidiarietà; coesione; solidarietà; equità; responsabilità; differenziazione; adeguatezza; le autonomie (realizzate); le iniziative autonome.

E mi interessa anche riprodurre il quarto comma del novellato articolo 118: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadine, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Insomma si disegna veramente una Repubblica assolutamente nuova proiettata verso un futuro di ampie e sempre più articolate autonomie, anche personali.

Ma… che cosa è successo in questi ultimi anni? Il principio e la pratica stessa dell’autonomia sono stati assolutamente stravolti. Consiglieri comunali, provinciali, regionali tesi più alla caccia di gettoni di presenza o allo scambio di mazzette che non a una pratica corretta e produttiva di quell’autonomia che una rinnovata Carta costituzionale ha loro concesso. Sprechi di danaro pubblico, incompetenza dilagante, ponti che crollano, acquedotti che… fanno acqua, opere pubbliche mai terminate, territori che cedono alla prima pioggia, un’autostrada incompiuta ormai da oltre mezzo secolo! Per non dire poi dell’assoluta incapacità di affrontare convenientemente quel fenomeno immigratorio che attanaglia ormai tutte le periferie delle nostre città e che produce una criminalità sempre più dilagante e incontrollabile. E ciò per segnalare solo i fenomeni più macroscopici.

In tale contesto, che ne è dell’autonomia? Che ne è della responsabilità politica e civile di tanti cittadini da noi eletti e impegnati nella politica e nella gestione degli Enti locali? Abbiamo un Parlamento in cui non si parla, si urla e si improvvisano sceneggiate circensi! Abbiamo un proliferare di mazzette di cui sono protagonisti uomini pubblici ad ogni livello di responsabilità

E’ in tale contesto che l’autonomia, da principio costituzionale, diventa invece il brodo del malaffare! E allora, si comincia a buttare a mare l’autonomia stessa, il bambino incolpevole e l’acqua sporca di un malaffare che dilaga come un fiume in piena. E si cancellano quelli che dovevano essere i presìdi stessi dell’autonomia, le province oggi e le regioni domani. Non dico delle Città metropolitane che di fatto non esistono se non nell’utopia autonomista della fine dl secolo scorso.

Ciò che mi preoccupa è che, in un mondo che si fa sempre più difficile, la capacità di governo nei e dei singoli territori va sempre più peggiorando. E, se gettiamo a mare l’autonomia oggi, domani getteremo a mare la democrazia? Non so! Per ora ci limitiamo a gestire la cosa pubblica nel peggiore dei modi possibili. E rischiamo di aprire il varco a chi alla nostra democrazia e a noi stessi vuole addirittura tagliare la testa.

Je suis l’empire à la fin de la décadence!

Il liceo dei licei

Il liceo dei licei

di Maurizio Tiriticco 

 

LOGO VIRGILIO BLACKQuella del “liceo dei licei”, avanzata dal dirigente scolastico del Liceo Virgilio-Redi di Lecce Dario Cillo, è un’espressione efficace e, per certi versi, rivoluzionaria. Ma rivoluzionaria per l’assetto attuale del nostro attuale sistema scolastico, non davvero per la realtà dei concreti bisogni di Educazione, Istruzione e Formazione di cui necessitano i nostri giovani. Si tratta di concetti chiaramente esposti nella normativa che ha fatto seguito all’avvio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche alla fine del secolo scorso. In effetti all’articolo 1, comma 2 del dpr 275/1999, leggiamo testualmente: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

Il successo formativo che dobbiamo garantire a tutti – non uno di meno – si può realizzare proprio a condizione che il nostro sistema scolastico educhi ai valori della democrazia e della solidarietà, formi le persone nel pieno rispetto delle attese di ciascuno, le istruisca a quei saperi che garantiscano il raggiungimento di quelle competenze che consentano l’accesso a studi ulteriori all’accesso al mondo del lavoro.

Questo è l’impegno che abbiamo assunto quindici anni fa, ma che ancora non siamo riusciti a realizzare pienamente. In effetti, se leggiamo attentamente gli articoli 3, 4 e 5 del dpr 275/1999 – considerando anche che l’articolo 3 è stato profondamente rinnovato e implementato dall’articolo 1, comma 14 della legge 107/2015 – vi ritroviamo tutte le condizioni per un rinnovamento radicale dei nostri percorsi di studio.

Che cosa non ha permesso di avviare quel riordino implicito nel dpr 275/1999? A mio vedere, i maggiori ostacoli sono stati due: a) la difficoltà di applicare totalmente quanto indicato nei citati tre articoli del dpr 275 a causa della oggettiva rigidità del sistema; b) un mancato riordino dei cicli.

Ora, la riscrittura del citato articolo 3 sarà sufficiente a far sprigionare quelle energie idispensabili per quel necessario rinnovamento dei percorsi di studio e della didattica? Non credo, in quanto i laccioli pregressi, di cui – come si suol dire – alla normativa vigente, non sono stati rimossi. E ancora: l’insistere su percorsi di studio frammentati in quanto sia a gradi che ad ordini non aiuta quel rinnovamento auspicato ed estremamente necessario. Si tratta di gradi e ordini che vengono da lontano, che si sono sovrapposti l’uno sull’altro in seguito a necessità che nel corso degli anni sono venute emergendo e che non sono state mai affrontate con una visione di insieme e una prospettiva di lunga durata. Comunque, va dato atto a due ministri, anche se di visioni opposte, Luigi Berlinguer e Letizia Moratti, di aver tentato di por mano a riordini complessivi dei cicli, ambedue fallimentari per ragioni diverse e che in questa sede non occorre analizzare.

Ma vediamo quali sono le maggiori difficoltà. Che senso ha avere istituito un obbligo di istruzione decennale che poi si consuma e si sbriciola, letteralmente, lungo tre spezzoni che spesso tra loro non si parlano? E con un primo ciclo che termina con un esame complicato e pesante che sembra concludere un “qualcosa” che invece non conclude nulla? Ed è anche noto che la certificazione delle competenze di cittadinanza (di cui alla Raccomandazione UE del 18 dicembre 2006 e da noi fatte proprie con il dm 139/2007) e delle competenze culturali (di cui a quattro assi culturali pluridisciplinari e al secondo livello dell’European Qualifications Framework del 23 aprile 2008) è, nella stragrande maggioranza dei casi, un’operazione semplicemente formale. Per non dire poi della eterna frammentazione in tre ordini dell’istruzione secondaria, che riflette la politica scolastica di sempre, da Gentile in poi, inossidabile: i licei per i cosiddetti alunni migliori, i tecnici per i “così cosi” e i professionali per gli “sfigati”! Un assunto che oggi è assolutamente fuori dalla realtà sia dei nostri giovani che del mondo del lavoro. Per non dire poi delle ulteriori polverizzazioni: sei percorsi liceali; due settori e sei indirizzi tecnici; due settori e undici indirizzi professionali! E tutti rigidamente canalizzati! Le cosiddette passerelle da un percorso a un altro inoltre, pur previste, sono sempre di difficile realizzazione.

In un simile contesto, l’iniziativa assunta dal dirigente scolastico Dario Cillo non è soltanto lodevole per l’originalità, ma estremamente necessaria. Non si tratta solo di una “sperimentazione”, stricto sensu, ma di un vero e proprio indispensabile suggerimento di cui le cosiddette autorità competenti dovrebbero prendere atto.

Che cosa significa un Liceo dei licei? O meglio, un Polo liceale? Semplicemente questo: progettare nell’arco ampio di un triennio – come previsto dal Piano triennale dell’offerta formativa, di cui all’articolo 1, comma 5, della legge 107/2015 – un curricolo in cui sia prevista, accanto a un percorso comune e indispensabile mirato all’acquisizione delle competenze linguistiche e logico-matematiche indispensabili, un’offerta di discipline tarata sui bisogni concreti espressi dagli studenti e debitamente verificati dagli insegnanti nel corso dei primi due anni con cui si conclude l’obbligo di istruzione. E’ importante rilevare che, in ordine proprio a quanto disposto dal dm 139/2007, che all’articolo 2 prevede che occorre assicurare “l’equivalenza formativa di tutti i percorsi” (quindi liceali, tecnici e professionali con le relative scansioni), occorre garantire al biennio il massimo della flessibilità per rispondere sia ai concreti livelli di partenza degli alunni sia ai loro bisogni espliciti e impliciti e alle loro aspettative. E di tale flessibilità il Polo liceale proposto tiene il debito conto.

Ovviamente, l’operazione progettata non è cosa semplice, stante la tradizionale rigidità dei pacchetti orari annuali delle singole discipline e degli orari di scuola degli studenti. Ma lo spirito e la lettera della citata legge 107 spingono al loro superamento, anche se i decreti delegati a venire dovranno essere più espliciti in materia. Comunque, nella medesima legge è previsto il potenziamento dell’organico dell’autonomia (commi 18 e 79-83), l’erogazione di un fondo di funzionamento (comma 11) nonché una più ampia offerta disciplinare (comma 7). E l’assunzione del personale docente (commi 95-113 della legge 107) con contratti triennali, se saggiamente mirata a quanto il progetto del Polo liceale si propone, permetterebbe di erogare, accanto all’offerta formativa fondante, un’offerta formativa supplementare più ricca e articolata. I percorsi avviati saranno sostenuti da intense attività di orientamento e riorientamento, di passaggi interclasse che ovviamente non sarà facile governare, anche con il supporto di una scuola “aperta” al sociale e impegnata nell’alternanza scuola-lavoro.

Ovviamente l’impresa non sarà cosa facile. La legge 107 da un lato “apre” all’arricchimento dell’offerta formativa e a all’innovazione, dall’altro “lascia in piedi” i curricoli di sempre e non liquida la cosiddetta legislazione vigente in materia di orari, cattedre e classi di età. I miei rilievi critici sulla legge li ho già espressi in altra sede! Ma la legge c’è e ogni comma può essere un’occasione preziosa per un rinnovamento che parta dal basso. In effetti sono solo le scuole e i loro dirigenti e insegnanti che possono veramente innovare. La sfida il dirigente Cillo l’ha lanciata al territorio e all’amministrazione. Dario Cillo ha intelligenza, coraggio ed esperienza! E sono tre virtù che possono garantire il successo dell’iniziativa.


quotidiano121115

Ormai è guerra… ricordando Valeria

Ormai è guerra… ricordando Valeria

di Maurizio Tiriticco

 

Non c’è da farsi illusioni: una buona parte del mondo islamico ci ha dichiarato guerra. Si tratta di quel mondo che non è stato contaminato da quei movimenti che hanno interessato da secoli e per secoli noi dell’Occidente del mondo. E quanta fatica e quante sofferenze abbiamo dovuto affrontare per giungere al Rinascimento, all’età dei lumi e a quelle tre grandi rivoluzioni, quella industriale, quella francese e quella russa. Abbiamo combattuto e abbiamo battuto ogni forma di intolleranza religiosa e abbiamo pagato da sempre con scomuniche, torture efferate imposte da una inquisizione cosiddetta santa, roghi a non finire, decapitazioni! Se oggi abbiamo un Papa Francesco, non credo lo si debba tanto alla Chiesa in sé, quanto a quella cultura liberale che anche nella Chiesa con enorme fatica nel corso dei secoli ha fatto breccia. La Chiesa non si è rinnovata per risorse interne: va sempre ricordato che l’insegnamento evangelico nulla ha a che vedere che con la Chiesa secolare costantiniana (Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! Dante, Inferno XIX).

Ricordiamo l’arretratezza di un Pio IX! I diritti dell’uomo del 1779? Una carta scritta dal demonio! Un papa che ha resistito in mille modi contro il diffondersi dello spirito liberale, saldamente represso con le efferate pubbliche decapitazioni di Mastro Titta, ben 516, fino al 1870, e con una pena di morte che è stata formalmente abolita nello Stato pontificio solo nel 2001. Se poi si è giunti alle Rerum Novarum e, più recentemente alla Laborem excercens, ciò lo si deve a quello spirito liberale – non chiamo in causa lo spirito laico che è altra cosa – che da cent’anni a questa parte ha contaminato la Chiesa.

Quei diritti dell’uomo, fatti propri dall’Onu nella Carta del 1948, che integrano e arricchiscono le quattro libertà fondamentali enunciate dal presidente Usa Roosevelt nel 1941, “di parola, di credo, dal bisogno e dalla paura”, e ben presenti anche nella nostra Carta costituzionale varata nel 1947, sono i fondamenti del nostro convivere insieme nel rispetto del pensiero libero di ciascuno e di tutti.

Non è un excursus inutile ciò che ho scritto finora. Intendo soltanto dire che ogni religione è, per sua originaria natura un’altra cosa rispetto allo spirito liberale! La religione “lega” prima di “liberare”! E quando poi una religione è monoteista, cominciano i guai. Ciascuna sostiene che solo il suo dio è vero! Altra cosa il politeismo! Il politeismo greco e latino è stato uno dei fondamenti di due grandi culture e civiltà. Nel mondo classico non ci sono state quelle guerre di religione che invece hanno sconvolto l’Europa per secoli.

E l’Islam – non vanno dimenticati gli altri credi diffusi sull’intero pianeta; parlo dell’Islam perché è quello che ha a che fare con la nostra civiltà europea e con il nostro continente – ebbene, l’Islam purtroppo non è stato ancora contaminato! So bene che esiste un Islam moderato, ma… si tratta di quell’Islam che obtorto collo convive con religioni e culture “altre”: una moderazione indotta dalla necessità. In effetti quell’Islam che non deve convivere, ma che è dominante, è tutt’altra cosa! Io allibisco quando vedo che a Dubai hanno costruito il grattacielo più alto del mondo e quelle arditissime Palm Islands sul Golfo persico – segno di tecnologie avanzatissime – ma frustano, lapidano e decapitano le donne secondo un diritto degno del più immondo nostrano medioevo! Rileggetevi Tertulliano, un Padre della Chiesa: quante ne dice contro le donne! Il fatto che non debbono uscire a volto scoperto è solo una finezza! D’altra parte, quale valore possiamo attribuire a un essere che è solo una diaboli ianua, una porta del diavolo? E’ tutta colpa di Eva, se Cristo è dovuto salire in croce per liberarci!!! Lo scrive Tertulliano! Allora, come posso stupirmi, se i militanti dell’Isis schiavizzano, stuprano, ammazzano le donne, anche se vecchie e bambine!!! E sono militanti pronti anche a farsi esplodere! Tanto nel paradiso di Maometto troveranno altrettante donne, le Uri, tutte giovani e vergini, pronte a soddisfare tutti i loro bisogni sessuali! Un paradiso ridotto a casa di tolleranza! Non vorrei!

Con i fanatici che non solo aspirano a rafforzare l’Isis (Islamic State Iraq Syria), ma a costruire con la forza uno Stato islamico mondiale c’è poco da scherzare! Abbiamo già percorso una strada simile, quanto un certo Hitler pensava che solo la pura razza ariana germanica fosse degna di governare il mondo! E quanto abbiamo sofferto.

Sono fortemente preoccupato!

Ingrao non c’è più

Ingrao non c’è più: un compagno come pochi

di Maurizio Tiriticco

 

Pietro Ingrao è stato mio direttore a l’Unità, dove nel 1953/54 fui redattore agli esteri con Alberto Jacoviello e Ennio Polito. C’erano anche Maurizio Ferrara, padre di Giuliano, Alfredo Reichlin, Tommaso Chiaretti et al: una bella squadra! Dalle quattro del pomeriggio – riunione di redazione per impostare il numero – fino alla tarda serata, dopo avere scritto i pezzi, con le rumorose macchine da scrivere, rafforzati dai ritagli delle telescriventi, sempre attesi e sempre benvenuti. E, quando si sentiva il loro ticchettio, si correva! Che ci dice l’Ansa? Che dice la Reuters? Che cosa è successo nel mondo? Notizie grosse, importanti, da richiedere riflessione e scrittura attenta, eventualmente da ridiscutere in redazione! E poi notizie meno importanti, quelle brevi brevi, “a una colonna”, che spesso finivano con il riempire i “buchi” della pagina esteri.

E, a fine giornata… scendi giù in tipografia dove si stampa il giornale. E lì a discutere faccia a faccia con i tipografi e i linotipisti, sempre poco disponibili… “qui devi tagliare”… “questo titolo non c’entra” e poi… le rotative… e io a sistemare articoli, occhielli, titoli e titoletti. Quanto piombo! Quanto rumore! Quanto vociare: redattori e compositori hanno sempre a che dire! Questo pezzo è troppo lungo! Questo troppo corto. E poi i caratteri dei titoli: altre discussioni! E aggiungi poi un grande odore di acetato e tante bottiglie di latte. E tutto in grande fretta! Il giornale deve chiudersi, deve partire!

L’Unità, direzione, redazione e stampa allora erano situate, a Roma ovviamente, in Via Nazionale, un po’ più su della libreria di Tombolini. Un edificio grande a più piani. E tornare a casa alle tre o alle quattro di notte non era sempre facile, con i mezzi notturni dell’Atac, anche allora sempre scarsi. Eravamo già nel cuore del boom economico, ma le prime Seicento sarebbero apparse solo nel ’55. Pertanto, piedi, biciclette, vespe e lambrette avevano un bel da fare!

Due gravi lutti in quegli anni, Stalin, nel 1953, e De Gasperi nel 1954. E Ingrao sempre lì con noi tutti: una presenza soft, sempre discreta, poche parole, molti incoraggiamenti e molto molto lavoro. Ingrao, antifascista della prima ora: eppure era stato iscritto ai GUF, gruppi universitari fascisti, come me all’ONB, opera nazionale balilla e poi alla GIL, gioventù italiana del littorio. E quante chiacchiere cattive allora da parte dei missini su questa iscrizione: Ingrao, un voltagabbana!!! Va detto, invece, e con forza, che l’iscrizione alle organizzazioni fasciste, giovanili e non, era assolutamente obbligatoria! Per tutti, dai figli della lupa alla tarda età, per la quale c’era il dopolavoro, spesso nella casa del fascio. E non era un caso che il PNF, partito nazionale fascista, da tutti era letto diversamente: per necessità famigliari! I GUF avevano le loro riviste, e su queste si discuteva, anche se con tutte le cautele del caso. E non è un caso che, secondo Giorgio Napolitano, il Guf “era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato” (Edmondo Berselli. Lord Giorgio d’Italia , L’Espresso del 18 maggio 2006). Altra cosa era, invece, la “Critica fascista”, diretta da Giuseppe Bottai! Per non dire de “La difesa della razza”, rivista fascistissima, sputatamente antiebraica, diretta da Telesio Interlenghi.

Dopo l’esperienza all’Unità non ho più avuto occasione di interagire con Ingrao, ma ne sono stato sempre un suo attento osservatore, se non un fautore. E, quando nel Partito il centralismo democratico, di lontana matrice staliniana (com’è noto, il Partito comunista d’Italia era nato nel 1921 per opera di Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, come sezione italiana della Terza internazionale comunista), cominciò a sfaldarsi (in seguito ai fatti di Ungheria del ’56, all’invasione della Cecoslovacchia nel ’68, all’improvvisa e inattesa morte di Togliatti a Yalta sempre nel ‘68) e alla nascente “destra” di Giorgio Amendola si oppose la “sinistra” di Pietro Ingrao, io fui con e per quest’ultimo. Ingrao riteneva che la sirena della socialdemocrazia potesse allontanare il partito dalla sua naturale e storica vocazione di promuovere un cambiamento radicale nell’assetto della società. Avvertiva – come del resto tanti di noi – che la crisi delle Terza internazionale comunista potesse spingere tutti i partiti comunisti sulle sponde di quella socialdemocrazia che di fatto da tempo aveva rinunciato a una lotta radicale contro l’organizzazione capitalistica della società e lo stesso Stato borghese. La “via italiana al socialismo” non era l’obiettivo della socialdemocrazia.

Sono stato un ingraiano – come si soleva dire – perché la visione politica di Ingrao era di lungo respiro. Ma poi le vicende del ’68 hanno suscitato e prodotto quel Sessantotto che ha spinto tutti noi verso posizioni “altre”: innescate da quella palingenesi che nel giro del breve tempo avrebbe indicato nuove prospettive di lotta e orizzonti assolutamente diversi e nuovi. E poi nuovi e sempre più intensi rivolgimenti! La caduta del muro di Berlino ha aperto brecce che vanno ben oltre le polemiche tra ingraiani e amendolaiani. E fu ed è così che oggi la destra amendoliana e la sinistra ingraiana sono più oggetto di studio che non prospettive reali di cambiamento! Ruit hora o, se vogliamo, tout passe, tout casse, tout lasse!

Addio Pietro! Sei stato un grande! Ci hai insegnato molto! E vivrai sempre nei nostri cuori! E nelle nostre teste!

Dell’insegnare oggi senza ignorare il passato

Dell’insegnare oggi senza ignorare il passato

di Maurizio Tiriticco

 

Caro Sergio!

  1. In primo luogo, checché tu ne dica, io non ti ho insegnato nulla! Anzi, io non mai insegnato nulla, anzi, non ho mai insegnato. So benissimo che da sempre tutti ci “insegnano” che non c’è apprendimento senza insegnamento; molti – e forse anch’io sono caduto in questo luogo comune – scrivono insegnamento/apprendimento con quella slash che ne sottolinea l’inscindibilità, ma – almeno a mio vedere – non è così, e non è mai stato così. Non ho mai preteso di insegnare nulla, anche e soprattutto perché non è facile sapere “che cosa” insegnare! I luoghi comuni e i programmi scolastici se la cavano! Infatti, ti fanno un elenco di contenuti, dalla tavola pitagorica all’alfabeto, dalla sofistica alla prima guerra di indipendenza, dal teorema di Pitagora alle equazioni, ai poligoni, ai fiumi più lunghi del mondo e ai monti più alti. Ce n’è veramente per tutti e per tutte le stagioni: anni e anni di scuola, di Classi, Cattedre e Campanelle (ovviamene con tanto di maiuscole, perché sono loro le padrone delle scuole). E mettici anche gli otto anni dell’obbligo di istruzione: non “scolastico”, come i più dicono, anche al Miur… Signore, perdona loro che non sanno quel che… dicono! Insomma, non ho mai insegnato, perché non c’è nulla da insegnare mentre, invece, c’è tutto da apprendere.

Ho sempre fatto mio l’insegnamento – chiamiamolo così – di Socrate, che “non sapeva” nulla e, come una valente levatrice, aiutava a tirar fuori dalle testa e dalla bocca dell’interlocutore le “verità”, sempre tra virgolette perché il vero, il buono, il bello e il giusto sono sempre concetti discutibili. Lo sapevano i sofisti e lo sapeva pure Socrate, anche se tra i primi e il secondo correva una bella differenza: detto in soldoni, per i primi è vero ciò che conviene al singolo, per il secondo è vero ciò che è utile alla polis. Se questi “insegnamenti” sono “veri”, ne consegue che colui che viene da sempre definito insegnante deve semplicemente limitarsi a creare le condizioni perché l’alunno – colui che dovrebbe essere alimentato – apprenda. E l’alunno, o meglio ciascuno di noi apprende, quando si trova in una situazione motivante: se io leggo e “apprendo” che quel paio di scarpe che mi piace da morire costa 300 euro, le acquisto, se sono ricco; oppure passo a un altro negozio se sono… guarda caso, un insegnante, per di più italiano!

Bando alle chiacchiere! Cercavo sempre di creare le condizioni perché i miei alunni apprendessero! Bastava che rivelassi la mia ignoranza su quelle maledette guerre puniche, che non interessano a nessuno, perché tutti si adoperassero a rendermene conto. E quanto mi divertivo a confondere Annibbale con Asdrubbale – li scrivevo con due b – perché tutti si sentissero in dovere di correggermi. Non erano così scemi da non sapere che “giocavo”, ma, in effetti, giocando si impara. Per non dire dei vituperati temi! Quanti anni abbiamo impiegato per abolirli! Ricordi? Con il “nuovo” esame di Stato, con Berlinguer e le sollecitazioni di De Mauro, finalmente ci eravamo riusciti, ma… il reale è sempre più forte dell’ideale e, dopo le tipologie innovative A e B (vedi il Regolamento, il dpr 323/98, a cui ambedue mettemmo allora le mani), fummo “costretti” a reintrodurre il tema, con altre due tipologie, quel tema che piace tanto agli insegnanti, quelli che “insegnano”, che tracciano segni sulla testa degli alunni, come i vasai dell’antica Roma tracciavano i segni decorativi sulle “testae”, le anfore! Lo sai meglio di me! Non c’è nulla di più falso di un tema! Nessuno nella vita scrive temi, se non a scuola! Nella vita si scrivono racconti, poesie, diari, dichiarazioni d’amore, lettere a non finire! E oggi anche con i cellulari. C’è il professionista che scrive romanzi, favole, testi scientifici! E’ c’è pure chi scrive testi scolastici! Uno più pesante dell’altro! Orrore degli orrori! Per trovare una informazione che serva veramente, ti devi cibare pagine su pagine, illustrazioni su illustrazioni, letture su letture, quadri su riquadri, prove di verifica assurde… Mi dici poi a che serve un libro di grammatica, quando la grammatica vera è quella che costruiamo nella nostra testa interagendo tra noi giorno dopo giorno?

Io sollecitavo racconti o poesie con gli stratagemmi più arditi! Scrivemmo anche un fotoromanzo: allora i “Bolerofilm” erano sotto i banchi di quasi tutte le mie alunne! Fabula e intreccio, ordine e durata, topic e point e altre diavolerie della linguistica erano di casa nei loro scritti, anche se di linguistica non sapevano nulla! E poi sollecitare il nesso che corre tra l’immagine e la parola scritta – è il mondo dei fumetti, il legame che corre tra cervello sinistro e cervello destro – significa sollecitare scritture autentiche, vive, utili, soprattutto per loro, gli alunni, alla felice e non facile scoperta del loro mondo dei produttori di pensieri e di testi, orali e scritti. Disegnavano, coloravano, scrivevano… a volte era una vera e propria fucina, anche se non sono mai ricorso alla tipografia di Freinet. Per tutte queste ragioni non sono mai stato un insegnante, ma ho sollecitato tanti tanti apprendimenti.

  1. Ma ora veniamo al secondo luogo. A proposito! Sai meglio di me che oratori e politici di un tempo non utilizzavano appunti, ma la memoria. E la tecnica dei “loci” era quella ricorrente: associare il primo argomento al primo luogo di una casa o di una strada: il secondo al secondo e così via. Il secondo luogo, appunto, è quello della politica scolastica del Progetto 92 e delle innovazioni che riuscimmo ad apportare all’istruzione professionale. Fu così che riuscimmo a dare dignità alla scuola degli “sfigati”. Per la prima volta i nostri “diplomati” potevano concorrere con i diplomati dell’istruzione tecnica, e ci favorì anche quella coda del cosiddetto boom che dagli anni Cinquanta aveva garantito al nostro Paese uno sviluppo tale da farci diventare una delle prime potenze industriali del pianeta. Poi la fine degli anni Novanta e l’avvio di quel declino che a tutt’oggi ancora non riusciamo a battere. E’ il declino di tutto il “sistema educativo nazionale di istruzione e formazione” come volemmo chiamare la nostra scuola con le riforme di Berlinguer. E con il nuovo millennio assistiamo addirittura – e ne soffriamo ancora – all’avvio del diluvio: la destra al potere con la riforma Moratti e tutte le successive. Una scuola sempre più martellata da leggi e leggine spesso tra loro in concorrenza, se non addirittura in contraddizione. Dirigenti e insegnanti sollecitati da un lato (di quale palazzo? di quale strada?) dalle possibilità offerte dall’autonomia (il dpr 275/99), dall’altro dalla rigidità di un sistema di norme sempre più imperative.

L’attesa di un messia è cosa di altri tempi, ma l’attesa di un governo di sinistra – o giù di lì – che rimetta un po’ d’ordine, se non le cose a posto, era forte in un corpo insegnante che, com’è noto, con la destra in genere ha sempre avuto poco a che fare. E poi il miracolo!? Arriva la Buona scuola! Bene arrivata, ma, ma, ma che cos’è? Chi l’ha scritta? Mah! Nessun pedagogista, nessun linguista, nessuno scienziato! Eravamo abituati alla nostra sana tradizione: al ministero operavano gruppi di lavoro di esperti, e di ogni orientamento politico e culturale! E in tempi distesi! Ne uscivano documenti con tanto di firme! Ma poi? La Buona scuola!!! Una fatica a leggere e comprendere. E poi una legge: un solo articolo! Che bello! Sarà semplice semplice! Niente affatto! 212 commi! E nove rinvii a successivi decreti. Una singola materia spezzettata in più commi! Il salto della quaglia per capire le competenze di un dirigente, i nuovi criteri per assumere un insegnante… già assunto, ambiti territoriali che sconquassano graduatorie nazionali, ecc! Una Gazzetta ufficiale che si preoccupa di ripubblicare il testo della legge con “note a margine”, tant’è difficile leggerla!

Capisco che tu possa ritrovarvi alcuni spunti a noi noti! A noi che abbiamo avuto l’onore e l’onere di lavorare con un Direttore generale un po’ sceriffo, ma… i ‘ma’ sono tanti, caro Sergio! Il nostro sceriffo dribblava le norme, ma il consenso e l’entusiasmo che suscitava era enorme, anche e soprattutto perché l’impianto dell’Istruzione professionale ne traeva illico et immediate vantaggi di grande rilievo. Dovevamo a volte misurarci con le famiglie! Ricordi? “Mi’ fijo deve fa’ er cuoco! Che lo fate studia’ a fa’ l’itagliano e la storia? E lo volete fa’ studia’ puro pe’ cinque anni???”. Ma quel cuoco oggi è un Vissani! Quel sarto un Valentino! Quel meccanico segue la Ferrari in tutti i circuiti mondiali!

Lo sai meglio di me! Non c’è più lavoro oggi che non richieda conoscenze di base – si chiamano così – e specialistiche forti e aggiornate. Anche perché i tre settori della tradizione, agricoltura, industria e servizi, oggi non hanno più confini. Tic e tecnologie, computer e automi investono ogni campo lavorativo; e le conoscenze di base di una volta oggi sono COMPETENZE! E ci sono ben due Raccomandazioni europee, una del 2006, una del 2008, che ci descrivono con chiarezza otto competenze culturali e civiche e otto livelli di competente lavorative. E si tratta di competenze che riguardano ben 28 Paesi membri! E la nostra scuola, o meglio il nostro “sistema nazionale di istruzione” – come la chiama la destra – sarà in grado di rispondere a questa sfida, se le competenze che dovrebbe sollecitare e certificare sono del tutto ignorate? Si giocherella, e male, con le competenze, anche abbastanza risibili, di fine terza media, e si ignorano quelle che sia le Indicazioni nazionali per i licei che le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali indicano con sufficiente chiarezza. Per non dire dello spezzatino dei curricoli!!! Sai meglio di me che nessun maestro elementare è tenuto a conoscere quali competenze civiche e culturali i suoi alunni sono tenuti a raggiungere a 16 anni di età. Sai meglio di me che la certificazione delle competenze dei sedicenni è solo un noioso e inutile – così viene considerato dai più – adempimento formale.

Il riordino dei cicli con il progetto di un curricolo verticale, il superamento dei tre ordini dell’istruzione secondaria, l’uscita dalla scuola a 16 anni, sono assolutamente ignorati dalla legge 107. La liquidazione delle tre C (classi di età, cattedre rigide, campanelle e tempi eguali per tutti) è semplicemente accennata, ma i tetti orari nazionalmente prescritti veramente potranno essere driblati? Penso che tu pensi di sì! Ma come mai dal ‘99 ad oggi solo in poche realtà gli articoli chiave 3, 4 e 5 del dpr 275 sono stati recepiti e resi operativi? E non ti sto a citare il Pacioli di Crema, il Fermi di Mantova, il Volta di Perugia, il Savoia Benincasa di Ancona, il Marco Polo di Bari, il Majorana di Brindisi, scuole che conosci meglio di me e che hanno sconvolto la didattica tradizionale! Dove ci sono insegnanti che… “non insegnano”! Sono realtà attuate anche a norma vigente! Quindi, anche senza la 107 certe cose è possibile farle. A meno che la 107 non costituisca un limite.

Mah! Non so! Staremo a vedere! Comunque ho molta fiducia nel saper fare dei molti DS – ne conosco tanti, anzi TANTE, più che brave – e di molti insegnanti, o meglio“non-insegnanti”. E non nutro alcuna fiducia nei tanti piccoli monstrua della 107. Un abbraccio di cuore,

Maurizio

Riflettere sul passato per costruire il futuro

Riflettere sul passato per costruire il futuro
lettera a Maurizio Tiriticco

di Sergio Bailetti

Caro Maurizio, per commentare il presente tu mi hai insegnato a riflettere sulle esperienze passate. E così il pensiero mi è andato alla fine degli anni ottanta, quando un Direttore Generale illuminato (e un po’ sceriffo) dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, Giuseppe Martinez y Cabrera, mise mano alla riforma degli istituti professionali (oltre 500.000 studenti) con il “permesso” del Ministro Sergio Mattarella.

L’economia della produzione e dei servizi non era più organizzata da un sistema fordista e, già da allora, si era cominciato a lavorare con la testa e a pensare con le mani e quei 500.000 ragazzi e ragazze avrebbero dovuto inserirsi in un mondo del lavoro cambiato, più esigente e complesso. Non più ore e ore di lima per sagomare un pezzo di ferro o battere all’infinito tasti di una macchina da scrivere per compilare pedissequamente e velocemente bozze preparate da altri.

Nel curricolo degli istituti professionali entrarono le discipline “culturali” del bienno Brocca, perche i nuovi profili anche dei lavoratori con mansioni esecutive e tecniche prevedevano che si dovesse saper parlare e scrivere con proprietà, conoscere la storia, le scienze della terra, la fisica e la matematica. Nuove discipline vennero inserite nel curricolo e qualcuna ne uscì perche non più rispondente alle competenze richieste dal mondo del lavoro. Per la prima volta sui diplomi del Ministero dell’istruzione, oltre alla votazione finale, venivano indicate, in cinque lingue comunitarie, le competenze raggiunte. Ma non era solo questo che doveva cambiare, bisognava intervenire, oltre che sul curricolo, sulle metodologie didattiche e sull’organizzazione del lavoro scolastico.

La caratteristica più significativa fu la “rivoluzione” della didattica con l’organizzazione modulare dell’insegnamento, un monte ore free assegnate all’istituto per organizzare il recupero e/o l’approfondimento nei primi anni e un monte ore per l’alternanza scuola-lavoro negli ultimi anni di corso, da realizzarsi anche d’estate; ore non assegnate preventivamente ad alcuna disciplina (e non c’era ancora l’autonomia). Le nomine degli esperti venivano fatte direttamente dai presidi scelti in base al curriculum vitae.

Così, dopo un triennio di sperimentazione, il Progetto ’92 partì puntualmente.

Massiccio piano di formazione in servizio con ritmi di oltre 30.000 corsisti l’anno: ispettori, presidi e docenti; non solo per aggiornare al nuovo ma anche per produrre i “moduli”, strumenti di lavoro essenziali per gli insegnanti: moduli su tutte le discipline attraverso l’aiuto delle eccellenze della ricerca didattico-formativa, universitaria e non; e nuovi flussi di risorse finanziarie dal Fondo sociale europeo per sostenere il recupero e la professionalizzazione nell’alternanza.

Fu un modello da imitare e, in buona parte, imitato fin nella Buona scuola.

Perché il successo di una riforma così importante è stato parziale?

Ti sottoporrei alcune mie riflessioni che, credo, abbiano influenzato anche la costruzione della L. 107/15 e ne minaccino la realizzazione.

1) Il tourn over del personale degli istituti professionali, che supera spesso il 50% dell’organico (prima scuola d’approdo nei trasferimenti e prima ad essere lasciata per istituti meno impegnativi; vale anche per i presidi), vanifica l’investimento fatto nell’aggiornare i docenti in servizio. Oggi nella L.107 l’organico funzionale aumenta le risorse umane per gli obiettivi del POF triennale e la stabilizzazione dei precari permette un concreta continuità didattica.

2) L’atteggiamento ottuso dell’Amministrazione, specialmente periferica, che non ha voluto né conoscere né comprendere il modello del Progetto ’92 e lo ha nuovamente irrigidito assegnando d’ufficio l’area di approfondimento a discipline fisse nell’orario cattedra settimanale. La cultura anacronistica dell’Amministrazione per le 3 C, Classi/Cattedre/Campanelle, condizionerà ancora il successo della L. 107/15?

3) Il ruolo che ha l’istruzione professionale nella società italiana. L’incapacità di fare orientamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado. La miopia e, anche qui, il ritardo culturale del mondo delle imprese per l’alternanza. L’incertezza politica della collocazione tra Stato e Regioni. Sono problematiche ancora oggi irrisolte.

Ma altri fattori hanno frenato allora il cambiamento. Un malinteso tipo di concertazione sindacale ha avuto un ruolo importante nella non piena efficacia della riforma. In quell’occasione furono sostituite alcune discipline, ritenute obsolete, con altre più rispondenti all’innovazione richiesta dal mondo del lavoro. Prendo l’esempio della sostituzione della Dattilografia e della Stenografia con Trattamento testi. Quest’ultima disciplina non traduceva più pedissequamente su carta cose scritte o dettate da altri, ma produceva, elaborava, rielaborava e memorizzava testi con tecnologie che nulla avevano a che fare con le macchine da scrivere. Per produrre o elaborare un testo ci vogliono conoscenze più estese e spiccate competenze linguistiche, quindi livelli culturali più elevati, anche per il profilo delle “segretarie d’azienda”; cioè già si voleva che si pensasse con le mani e si operasse col cervello. Quindi furono individuati i docenti di informatica (non fu necessariamente la migliore scelta) in luogo dei docenti diplomati che insegnavano Steno e Dattilo. Si ebbe una pioggia di ricorsi, anche alla Corte suprema della UE, per mantenere queste discipline nel curricolo.

Tu sai come è andata a finire la concertazione: la nuova disciplina Trattamento testi fu “aperta”, previo corso di riqualificazione farsa ovviamente senza verifica, alle classi di concorso di Steno e di Dattilo, con la conseguenza che i docenti laureati in informatica, mediamente molto più giovani, trovarono la porta sbarrata dai docenti con-più-anzianità-di-servizio, che ancora oggi definisce il livello di competenza (e di remunerazione) dei docenti. E la qualità e l’efficacia dell’innovazione andò, come si suol dire, a puttane!

Contro la Buona scuola si parla di deportazioni, di migranti laureati, di violenza ai precari; non dei contenuti della riforma per le giovani generazioni. Quel 20% di ragazzi che oggi non completa nemmeno l’obbligo scolastico quanto dovrà migrare per avere un posto di lavoro? Con quali strumenti culturali e professionali affronterà la società della conoscenza nel mondo globalizzato? Anche quei giovani, a cui la scuola attuale ha dato una formazione di infimo livello come si confronteranno con le popolazioni dei migranti?

Mi piacerebbe parlare delle potenzialità di far fare a tutti gli studenti un periodo di alternanza, di quale didattica fare per attuarla e valutarla. Vorrei capire come si può capitalizzare, per la carriera docente, il significativo investimento per la formazione in servizio, individuale e collettiva. Mi piacerebbe parlare di come si possa destrutturare un gruppo classe che non è più costituito da un gruppo omogeneo di ragazzi da costringere dentro un’aula. Mi piacerebbe parlare di come tutto il sapere, buono e cattivo, che è nell’etere, alla portata di tutti, possa venir ricercato, usato, arricchito di nuovo sapere e restituito all’etere. Mi piacerebbe parlare di come si possa “servire al meglio” il territorio. Mi piacerebbe parlare di come si distingue un docente bravo da uno non bravo. Mi piacerebbe … parlare del Nuovo, per quello che c’è nella L. 107, e di quello di cui ci sarebbe ancora bisogno.

La riforma è per le giovani generazioni, per il futuro del nostro Paese.

In questi giorni è stato mai intervistato un vincitore di concorso in Polizia, in Magistratura, alle Poste o in Banca? Gli idonei di quei concorsi mica vengono immessi in ruolo, ricominciano da capo. I tre quarti degli ingegneri dell’ENEL lavorano nei cantieri all’estero. Decine di migliaia di giovani lavorano a Londra o a Berlino; in molti casi l’esperienza dell’Erasmus li fa sentire a casa loro.

Ancora oggi i nostri ragazzi escono dalla scuola superiore a 19 anni, un anno dopo i loro colleghi europei; ma del ruolo dei sindacati nella riforma Berlinguer ne parliamo in un’altra occasione.

Un abbraccio

Sergio Bailetti

CORSI DI LETTURA PER ADULTI

CORSI DI LETTURA PER ADULTI

di Maurizio Tiriticco

 

Questa cosa del gender, o di che diavolo è, io non la capisco!!!

Ma la gente è scema? E’ ignorante? Non sa leggere?

Che diavolo leggono nel comma 16 dell’articolo 1 della legge 107/15?

E sanno leggere che cosa c’è scritto all’articolo 5 del decreto legge 93/13?

In effetti sono COSE che ormai diciamo da anni, anche se con minore incisività!!!.

Basti rivedere quanto abbiamo scritto, in tempi in cui del gender e di altre diavolerie del genere nessuno sapeva nulla, sia nei “nuovi programmi” della scuola media del ’79 che in quelli della scuola elementare dell’85!

E ribadito anche nel Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche!!!

Abbiamo detto e scritto più o meno le stesse cose, circa l’attenzione che si deve a un soggetto in età evolutiva!

Maschio o femmina e di qualunque cultura ed etnia! Mah!!!

Forse qualcuno rimpiange le bacchettate, quando la scuola era sì veramente seria???

E allora iscrivessero i loro figli… maschi ovviamente, perché le bambine è meglio che stiano casa a prendere le botte dai fratelli e dai padri, nelle scuole di qualche Paese altro… più a est che a ovest… dove la differenza di genere è più che netta e dove gli omosessuali o finiscono in galera o vengono lapidati.

Che il Miur sia costretto a scrivere una nota esplicativa di quanto detto nel citato comma 16 è veramente umiliante per i tanti italiani che non sanno leggere e non sanno nulla della nostra scuola…

Sintesi e chiavi di lettura della legge 107/2015

Sintesi e chiavi di lettura dei 212 commi dell’articolo 1 della legge 107/2015

di Maurizio Tiriticco

1 oggetto e finalità del riordino

2, 3 programmazione triennale e flessibilità dell’autonomia didattica e organizzativa (PTOF)

4 copertura finanziaria per la dotazione organica

5 istituzione dell’organico dell’autonomia

6 fabbisogno delle ISA (istituzioni scolastiche autonome)

7 fabbisogno dei posti dell’organico dell’autonomia

8 convenzioni con scuole di insegnamento bilingue Friuli Venezia Giulia e centri musicali

9 servizi di refezione scolastica

10 tecniche di primo soccorso per studenti

11 erogazione alle ISA del Fondo di funzionamento

12,13,14,15, 16,17 piano triennale della programmazione formativa

18 il DS individua il personale da assegnare ai posti dell’organico dell’autonomia (anche 79,80,81,82,83)

19 risorse per il PTOF

20 docenti di inglese, musica, ed. motoria nella scuola primaria

21,22,23,24,25,26,27

28 insegnamenti opzionali, curriculum e identità digitale dello studente

29 valorizzazione del merito degli studenti

30 curriculum studente ed esame di Stato

31 docenti per coordinamento degli insegnamenti opzionali

32 orientamento degli studenti stranieri

33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 alternanza scuola lavoro

44 istruzione e formazione professionale – IeFP

45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 istituti tecnici superiori ITS

56 57 58 59 piano nazionale per la scuola digitale

60 laboratori territoriali per l’occupabilità

61 62 responsabilità dei soggetti esterni per l’utilizzo dell’edificio scolastico

63 64 65 66 67 68 69 organico dell’autonomia

70 71 reti tra ISA

72 73 74 adempimenti amministrativi

75 organico dei posti di sostegno

76 77 lingue in Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Trento, Bolzano

78 79 80 81 82 83 84 85 competenze del DS

86 fondo unico nazionale per la retribuzione di posizione e di risultato dei DS

87 88 89 90 91 92 93 94 ancora sui DS

95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 assunzione a TI del personale docente

114 115 116 117 118 119 120 concorso per titoli ed esami per assunzione docenti a TI

121 122 123 124 125 formazione in servizio dei docenti

126 127 128 valorizzazione del merito dei docenti

129 130 valutazione dei docenti

131 132 133 134 135 contratti di lavoro a tempo determinato

136 137 138 139 140 141 portale unico dei dati della scuola

142 143 problemi relativi alla gestione amministrativa e contabile

144 risorse per potenziamento del sistema di valutazione delle scuole

145 School Bonus

146 147 148 soggetti titolari di credito di imposta

149 150 somme erogate da parte di soggetti beneficiari e copertura finanziaria

151 detraibilità delle spese sostenute per la frequenza scolastica

152 riconoscimento della parità scolastica

153 154 155 156 157 158 scuole innovative

159 osservatorio per l’edilizia scolastica e la sicurezza nelle scuole

160 161 162 edilizia scolastica

163 PON FESR 2007-2013

164 riduzione sanzioni per violazione del patto di stabilità del 2014

165 166 167 recupero risorse per l’edilizia scolastica

168 procedure di estrema urgenza

169 centralizzazione degli acquisti

170 destinazione delle economie accertate

171 monitoraggio degli interventi di cui agli artt da 159 a 176

172 otto per mille e edilizia scolastica

173 risorse in favore delle istituzioni AFAM

174 175 pulizia nelle scuole

176 incremento della rata di ammortamento mutuo (art. 10 dl 104/13)

177 178 179 indagine diagnostiche di soffitti e solai

180 delega al Governo in materia di SISTEMA NAZIONALE DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE

181 principi per l’esercizio della delega di cui al 180

182 183 184 procedura per l’adozione dei decreti legislativi

185 copertura finanziaria

186 187 188 189 190 191 disposizioni per la provincia autonoma di Bolzano

192 193 194 deroghe

195 scuole italiane all’estero

196 inefficacia di norme e procedure dei contratti collettivi contrastanti con la legge 107

197 198 disposizioni insegnamento sloveno o bilingue in Friuli Venezia Giulia

199 200 abrogazioni

201 limiti di spesa per l’incremento della dotazione organica del personale docente

202 fondo “La Buona Scuola”

203 incremento del fondo per la Scuola nazionale dell’amministrazione

204 205 copertura finanziaria

206 207 208 comitato di verifica tecnico-finanziaria e clausola di salvaguardia

209 ricostruzione della carriera del personale scolastico

210 variazioni di bilancio

211 clausola di salvaguardia per le regioni a SS e Prov. Trento e Bolzano

212 entrata in vigore

Gli insegnanti della “buona” scuola: luci e ombre della legge 107/15

Seminario di studio organizzato dall’Uil-Scuola Campania
I DIRIGENTI SCOLASTICI SI INTERROGANO SULLA LEGGE 107/2015
Napoli, Hotel Ramada, 31 agosto 2015

intervento di Maurizio Tiriticco

Gli insegnanti della “buona” scuola: luci e ombre della legge 107/15

 

La legge con cui si riordina il Sistema Nazionale di Istruzione ha suscitato, com’è noto, più critiche che consensi. In effetti, si tratta di una legge con cui si intende dare una vigorosa spinta al processo di autonomia delle Istituzioni Scolastiche, avviato con la legge 59/97 (art. 21) e il dpr 275/99, ma mai portato a compimento. In effetti, la possibilità di realizzare concretamente quanto indicato negli articoli 4, 5, 6, 8, 9 e 11 del suddetto dpr, relativamente all’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo, alla definizione dei curricoli, all’ampliamento dell’offerta formativa e alle iniziative finalizzate all’innovazione, urta contro un sistema scolastico in cui la rigidità formale delle cattedre, delle classi di età e degli orari di insegnamento rende di fatto difficili modifiche intese a innovare profondamente i percorsi di studio e gli stessi curricoli. Tuttavia, nonostante questi limiti, va ricordato che ci sono istituti secondari, quali il Pacioli di Crema, il Fermi di Mantova, il Volta di Perugia, il Savoia Benincasa di Ancona, il Marco Polo di Bari, il Majorana di Brindisi, che innovano costantemente, profondamente e con lusinghieri risultati, la didattica tradizionale.

Va, comunque, sottolineato che i curricoli, di fatto, nonostante i recenti riordini, rimangono quelli di sempre. E non c’è ricerca metodologico-didattica che, invece, non solleciti l’estrema necessità di costruire un percorso curricolare obbligatorio decennale articolato, continuo, progressivo e verticale: che sia finalizzato a garantire a tutti gli alunni quelle competenze di base, di cittadinanza e culturali che le Raccomandazioni europee del 18/12/2006 e del 23/04/2008 indicano a noi e a tutte le scuole dei 28 Paesi membri dell’Ue. Per non dire, poi, della estrema necessità che i percorsi secondari si concludano ai 18 anni di età con la certificazione di quelle competenze di cui si parla da anni, ma che il Miur, in effetti, ha sempre omesso di proporre al Sistema nazionale di istruzione. Di fatto, si tratta di finalità totalmente disattese e ignorate dalla legge 107, anche se descritte nelle Raccomandazioni citate e fatte proprie dal Governo italiano (cm 139/2007 e Accordo quadro del 20 dicembre 2012).

Va anche aggiunto che la legge è, di fatto, estremamente ponderosa e di lettura non sempre facile. Si sviluppa per 50 pagine formato A4 – 90 con le note – e consta di un solo articolo scandito in 212 commi. Il che, a mio vedere, rende complessa la realizzazione delle singole norme, che necessiterà di tempi non brevi. Per non dire, poi, del fatto che, per una messa a regime conclusiva, saranno necessari almeno otto ulteriori decreti attuativi di competenza del Miur.

Si tratterà di operazioni non facili. Basti pensare che, a tutt’oggi quegli spazi di flessibilità, aggiunti a quelli dell’autonomia, introdotti nei tre percorsi dell’istruzione secondaria di secondo grado con i dpr 87, 88 e 89 del 2010, le istituzioni scolastiche, nella larga maggioranza, difficilmente riescono a utilizzarli e continuano a progettare e a realizzare i lori curricoli sulla base dei consueti quadri orari ministeriali, applicati con scansioni rigidamente settimanali. In ordine a tale situazione di stallo, la legge 107 intende, comunque, dare “piena attuazione all’autonomia delle istituzioni scolastiche” (comma 1).

A tal fine, l’intero articolo 3 del dpr 275 concernente l’adozione del Pof (Piano dell’offerta formativa) annuale viene completamente riscritto (comma 14) e viene introdotto un Pof triennale da realizzare con procedure assolutamente diverse e molto più articolate rispetto a quelle abrogate. Il Pof triennale deve prevedere essenzialmente, oltre ai contenuti di cui al dpr 275/99, “il fabbisogno dei posti comuni e di sostegno dell’organico dell’autonomia” e il “fabbisogno dei posti per il potenziamento dell’offerta formativa”. In tale nuovo scenario, al dirigente scolastico vengono attribuiti nuovi e particolari poteri, non solo per quanto riguarda l’ampliamento dell’offerta formativa, ma anche e soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i docenti, in quanto è il dirigente scolastico l’esecutore di un Pof che prevede contenuti e obiettivi molto più ampi e dettagliati rispetto al consueto Pof annuale.

In tale scenario cambia profondamente anche il sistema di assunzione del personale docente. Gli insegnanti di nuova nomina, sotto il profilo della prestazione del servizio, mentre fino ad oggi sono stati assegnati alle istituzioni scolastiche dall’amministrazione in base ai titoli e ai punteggi che possono vantare, a partire dall’anno scolastico 2016/17 saranno invece scelti dal dirigente scolastico. In effetti è lui che individua e coopta il personale da assegnare ai posti dell’organico dell’autonomia “con le modalità di cui ai commi da 79 a 83”, alla cui complessa e non facile lettura si rinvia. Si tratta di commi che ridisegnano completamente competenze e compiti del dirigente scolastico.

Di fatto, i nuovi insegnanti vincitori di concorso assunti a tempo indeterminato non sceglieranno più la sede di servizio tra quelle offerte dall’amministrazione in quanto, stando al comma 64, “a decorrere dall’anno scolastico 2016/2017, i ruoli del personale docente sono regionali, articolati in ambiti territoriali, suddivisi in sezioni separate per gradi di istruzione, classi di concorso e tipologie di posto”. E da questi ambiti, di cui non si indica l’estensione, gli insegnanti saranno scelti dal dirigente scolastico sulla base di criteri che la legge non indica e che saranno a completa discrezione del dirigente stesso. Il servizio da loro prestato ha una durata triennale e, alla fine del triennio, l’incarico “è rinnovato purché in coerenza con il piano dell’offerta formativa” (comma 80). Il docente, pertanto, potrebbe – si sottolinea il condizionale – essere confermato dal dirigente oppure no, a sua assoluta discrezione, e si troverebbe a dovere optare per un’altra scelta proposta da un altro dirigente. Nel caso in cui non venisse scelto, sarà l’Ufficio scolastico regionale ad assegnarlo d’ufficio. Ma secondo quali criteri? Si incrociano e si alternano competenze di cui non si vede con estrema chiarezza quale sviluppo avranno.

Tutto ciò costituisce una svolta a 360 gradi rispetto alle norme pregresse. E, per di più, vengono a cadere due tradizionali punti di forza: la certezza del posto di lavoro per chi insegna e la stessa continuità didattica per chi apprende, almeno come fino ad oggi è stata intesa.

Con la nuova legge, al dirigente scolastico vengono affidati compiti che poco o nulla hanno a che vedere con un’amministrazione pubblica e vengono introdotti, invece, meccanismi di assunzione tipici del settore privato, laddove un “capo” è libero di assumere dal mercato – come si suol dire – i suoi collaboratori e dipendenti. E non è detto che un curricolo valga più di una segnalazione: e ciò si verifica nel settore privato.

Fino ad oggi, chi aspira a una cattedra di insegnamento con il concorso pubblico, conosce quali sono i criteri per vincere un posto di lavoro e per essere assunto, in quanto sono dati dal bando e dalle procedure d’esame. Con la nuova legge, il vincitore di concorso non sceglie il posto di lavoro tra quelli offerti dall’amministrazione, ma, inserito nelle suddette liste in ambiti territoriali, deve attendere l’offerta da parte di un dato dirigente scolastico. Il che crea disparità di trattamento, in quanto i criteri che un dirigente adotta sua sponte, anche se opportunamente declinati e dichiarati, saranno pur sempre diversi dai criteri adottati da un altro dirigente. Non solo, ma la certezza della continuità didattica non esiste più, in quanto, alla fine del triennio, il dirigente – come abbiamo già detto – sempre secondo criteri da lui adottati, potrebbe anche procedere a una scelta diversa, giustificata da scelte diverse apportate ai percorsi curricolari. Inoltre, non si capisce perché viene mantenuto il sistema dei concorsi quando, ai fini dell’assunzione, potrebbe essere sufficiente il titolo di studio culturale, eventualmente supportato da un percorso formativo professionalizzante e da un curriculum, mirati alle esigenze del sistema nazionale di istruzione.

Si introduce, inoltre, un sistema di valutazione della professionalità di un insegnante (comma 129), di cui fanno parte anche rappresentanti dei genitori e, limitatamente al secondo ciclo di istruzione, anche gli studenti. Il che costituisce un vulnus per un insegnante che si trova ad essere valutato anche da chi viene costantemente e quotidianamente da lui valutato.

Con tali innovazioni, si introduce un fattore di privatizzazione in un settore pubblico quale il sistema scolastico è stato da sempre ed è, garantito peraltro da una serie di articoli della Costituzione, quali il 2, il 3, il 9, il 33, il 34, il 117. Di fatto, si va verso l’istituzione di un sistema scolastico ibrido, che non è totalmente pubblico e non è totalmente privato. Si tratta di un sistema in cui – a mio vedere – il contenzioso potrebbe anche assumere forme imprevedibili. Ad esempio, un insegnante non scelto, che si considera meritevole per i titoli di studio e di lavoro accumulati nel tempo, potrebbe ricorrere contro quel dirigente che, a suo giudizio, ha scelto un insegnante con titoli e competenze di minor valore. Altrettanto dicasi per quanto riguarda la valorizzazione del merito del personale docente (dal comma 126 al 130). Il solo fatto che spetta al comitato di valutazione di ogni istituto “individuare i criteri della valorizzazione dei docenti”, si potrebbero avere istituzioni scolastiche più rigorose rispetto ad altre: e un insegnante, che presso un’istituzione viene valorizzato e debitamente compensato in danaro, in un’altra potrebbe non esserlo, laddove siano stati adottati criteri più rigorosi. Si tratta di un ulteriore fattore per cui quella eguaglianza di trattamento, che da sempre ha garantito il riconoscimento e l’apprezzamento del lavoro docente, viene a incrinarsi. E ciò non potrà non avere serie ripercussioni anche nello stesso contratto di lavoro dei docenti

In conclusione, si tratta di iniziative legislative che favoriranno e incrementeranno una progressiva differenziazione tra istituzioni scolastiche, per cui alcune saranno considerate e valutate – di norma, purtroppo – “migliori” e altre “peggiori”. In tal modo quella eguaglianza della offerta educativa, quale si evince dagli articoli 2 e 3, della Costituzione, stante anche quel principio dell’equità, che negli ultimi anni ha inteso animare e arricchire l’intera azione amministrativa, sembra costituire una finalità non più da perseguire. E sarà estremamente pericoloso quando avremo, quasi “per legge”, insegnanti e scuole di serie A e insegnanti e scuole di serie B.

Quando, invece, è il perseguire con costanza l’eccellenza, sempre e comunque, che deve caratterizzare l’azione della scuola e lo stato di civiltà di un Paese.

 

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NB1 – E’ opportuno vedere anche la legge 7 agosto 2015, n. 124, Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (G.U. n. 187 del 13 agosto 2015)

NB2 – E’ opportuno anche considerare quanto indicato dalla “Raccomandazione del Consiglio europeo sul programma nazionale di riforma 2014 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità 2014 dell’Italia” (2 giugno 2014)estratto – “È necessario compiere sforzi per migliorare la qualità dell’insegnamento e la dotazione di capitale umano a tutti i livelli di istruzione: primario, secondario e terziario. L’insegnamento è una professione caratterizzata da un percorso di carriera unico e attualmente da prospettive limitate di sviluppo professionale. La diversificazione della carriera dei docenti, la cui progressione deve essere meglio correlata al merito e alle competenze, associata ad una valutazione generalizzata del sistema educativo, potrebbero tradursi in migliori risultati della scuola. Per assicurare una transizione agevole dalla scuola al mercato del lavoro, sembrano cruciali, nel ciclo di istruzione secondaria superiore e terziaria, il rafforzamento e l’ampliamento della formazione pratica, aumentando l’apprendimento basato sul lavoro e l’istruzione e la formazione professionale. A seguito del decreto legislativo del 2013 in materia, è essenziale istituire un registro nazionale delle qualifiche per garantire un riconoscimento delle competenze a livello nazionale. In aggiunta ai primi interventi in questa direzione, assegnare i finanziamenti pubblici destinati alle università in funzione dei risultati conseguiti nella ricerca e nell’insegnamento avrebbe il merito di contribuire a migliorare la qualità delle università e, potenzialmente, di accrescere la capacità di ricerca e innovazione che, in Italia, accusa ancora un ritardo”.

 

Allegato

Possibili criteri da adottare da parte del ds per il conferimento dell’incarico ai docenti assegnati all’ambito territoriale di riferimento

I criteri saranno diversi da ds a ds e si avranno disparità nelle scelte. Pertanto, a livello di rete sarebbe opportuno adottare criteri comuni e condivisi. Eventuali elementi da considerare:

  • Titoli di studio
  • Esiti del/i concorso/i vinto/i
  • Titoli culturali e pubblicazioni
  • Carriera professionale anche extrascolastica
  • Modalità con cui progetta, promuove, valuta i processi di apprendimento
  • Modalità con cui conduce l’autoanalisi continua e finale dell’insegnamento
  • Attività particolari svolte che siano coerenti con il fabbisogno espresso dall’ISA nel POF triennale

Occorrerà anche decidere quale “peso”, anche in termini di punteggio, dare a ciascun indicatore. Ad esempio: le “attività particolari svolte che siano coerenti…” potrebbero meritare un’attenzione maggiore rispetto ad altre voci. Altrettanto dicasi per le voci 5 e 6. E non sarà un’impresa facile!

Un delitto contro l’umanità

Un delitto contro l’umanità

di Maurizio Tiriticco

 

Non solo gli uomini dell’ “Islamic State of Iraq and Syria” distruggono tutto ciò che è il nostro e il loro passato, ma straziano e uccidono anche coloro che questo passato lo cercano, lo studiano, lo conservano per trasmetterlo alle generazioni a venire. Distruggono e uccidono tutto ciò che, secondo loro, non coincide con le leggi della Sharia.

Ho un rispetto profondo per tutte le culture che i diversi gruppi umani hanno prodotto nella loro lunga storia, nella misura in cui queste dettano regole per la conservazione e lo sviluppo del gruppo sociale che le esprime, ma… troppo spesso certi limiti vengono superati. Non dimentichiamo che il fanatismo, purtroppo, è la divisa di tutte le religioni monoteistiche, ciascuna delle quali è convinta di essere depositaria di una pretesa Verità.

Basti pensare come in nome di Cristo i Crociati straziarono e uccisero l’intera popolazione di Gerusalemme nel 1099, o a tutti quei milioni di donne (non esagero) che, nel corso della storia, sono state torturate, straziate e uccise perché accusate di stregoneria! E, se la nostra Chiesa cattolica, oggi, non è più quella di poco più di cento anni fa (il solo Mastro Titta annotò nel suo taccuino più di 500 esecuzioni!!!), ciò lo si deve all’insorgere e allo svilupparsi dello “spirito laico”. E’ la stessa laicità – un corpus culturale, in effetti, estraneo ad ogni proclamata fede religiosa – che ha permesso alla Chiesa cattolica di fare significativi passi in avanti per ciò che riguarda il superamento del primato che ha sempre vantato in materia di una pretesa “verità”. Le vicende di un Campanella, di un Galileo e di un Bruno sono su tutti i libri di storia.

E perché non ricordare l’accorata lettera di Pio IX a Vittorio Emanuele II, nella quale lo scongiurava di non rendere obbligatori gli studi elementari, perché avrebbero costituito un vero e proprio “flagello”, sottraendo alle scuole cattoliche il primato che da sempre vantavano in materia di educazione, istruzione e formazione? Le religioni tutte, anche quelle monoteistiche, possono convivere solo se condividono e fanno propri quei principi di laicità sanciti in tutte le Carte dei diritti umani che dal Settecento ad oggi (la Carta dei diritti dell’Onu e la nostra stessa Costituzione) hanno garantito – e ancora possono garantire – una convivenza libera e produttiva tra fedi diverse.

Oserei dire che lo stesso Papa Francesco non direbbe e farebbe ciò che dice e fa, se non ci fosse stata la lenta e la faticosa affermazione della spirito laico. Mi piace sempre ricordate quanto disse il nostro Azeglio Ciampi quando definì la nostra Carta Costituzionale la sua Bibbia Laica!

Una riforma in perfetta continuità con la scuola del centro-destra

Una riforma in perfetta continuità con la scuola del centro-destra *

di Maurizio Tiriticco

“Una società distinta in classi deve prestare attenzione speciali soltanto all’educazione dei suoi elementi dirigenti. Una società mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunque essi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione. Ne conseguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno”.

John Dewey, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1949, p. 111 – Democracy and Education vide la luce a New York nel 1916 per i tipi della The Macmillan Company

 

 

Le considerazioni di De Mauro

In un recente articolo apparso sulla rivista “Internazionale” Tullio De Mauro denuncia i “tre silenzi del governo che fanno male alla scuola”. Ovviamente, il riferimento è alla legge recentemente approvata dalla Camera dei Deputati, con la quale si riorganizza l’intero impianto del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione” [1].

I tre silenzi, in rapida sintesi, sono i seguenti: 1) il mancato riconoscimento per ciò che la nostra scuola pubblica ha fatto dalla Liberazione e per tutta la seconda metà del secolo scorso; 2) i vincoli che la Costituzione ha posto alla scuola pubblica, che non è un pezzo qualunque dello Stato, ma un organo costituzionale a cui sono affidati precisi doveri, compiti e obiettivi; 3) la progressiva dealfabetizzazione della nostra popolazione adulta, denunciata da tutte le ricerche internazionali e non, di cui la scuola, e soprattutto quella media superiore, ha una precisa responsabilità.

Ovviamente, gli autori della Buona scuola e della legge che ne è seguita potrebbero obiettare che, anche se tali fenomeni non sono stati contemplati e opportunamente analizzati – in primo luogo nella Buona scuola, in quanto documento introduttivo all’atto legislativo – ciò dipende dal fatto che uno strumento normativo non può farsi carico di argomentazioni introduttive particolarmente mirate, e che il retroterra storico-culturale che è a monte del testo si evince dal suo impianto e dalla sua stessa lettura. E il punto è proprio questo: che emerge, invece, un retroterra che poco o nulla ha a che fare con la storia del nostro sistema scolastico e dello stesso nostro Paese. La legge della Buona scuola intende innovare a tal punto da rompere addirittura con una tradizione che non possiamo assolutamente disconoscere né addirittura stravolgere. In effetti, la legge prefigura una scuola – o, se si vuole, un sistema di istruzione – che è altra cosa rispetto a una consolidata tradizione. Innovare è necessario. Stravolgere è pericoloso.

Ovviamente è lungi da me il pensare che la nostra scuola non necessiti di un profondo riordino: e un riordino che, del resto, viene da lontano. Per essere più precisi, occorre partire da quanto è accaduto alla fine del secolo scorso. Voglio ricordare che la legge 30/2000, varata dall’allora governo di centro-sinistra con il ministro Berlinguer, e in seguito – com’è noto – abrogata dalla legge del governo di centro-destra 53/2003, meglio nota come “riforma Moratti”, si proponeva un complessivo riordino dei cicli scolastici. Quali le ragioni? Erano essenzialmente tre: 1) permettere ai nostri giovani di uscire dall’intero sistema di istruzione a 18 anni di età, come avviene già da anni in altri Paesi dell’Unione europea e non solo, ed evitare di trattenerli “sui banchi di scuola” anche se maggiorenni; 2) adoperarsi perché i diplomi loro rilasciati non fossero più generici documenti attestanti livelli di maturità, sempre difficili da accertare, ma veri e propri certificati che dichiarassero le concrete competenze conseguite; il che avrebbe consentito di rendere leggibili i diplomi anche in contesti internazionali e soprattutto nell’ambito dell’Unione europea; 3) innalzare l’obbligo di istruzione ottonnale di almeno due anni per rispondere a una fondamentale esigenza: garantire a tutti i cittadini il conseguimento di quelle competenze di cittadinanza e culturali di base utili e necessarie per le ulteriori scelte di vita e di lavoro.

 

La necessità di un riordino dei cicli

A tal fine si poneva come necessario un complessivo riordino dei cicli: occorreva superare la frammentazione verticale e orizzontale dei gradi e degli ordini scolastici, ereditata da un lontano passato, e dar luogo a un vero e proprio sistema articolato al suo interno. Per la prima volta non si parlava più di scuole in quanto unità scolastiche, di “edifici”, ma in quanto, invece, di “istituzioni scolastiche autonome” (si vedano sia la legge 59/97 che il dpr attuativo 275/99), operanti all’interno di un progetto statuale di ampio respiro (si veda tutta la storia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e della sua costituzionalizzazione – se si può dir così – nel novellato articolo Cost. 117 [2]). Con la legge 30/2000 per la prima volta nella nostra storia si giungeva a una visione complessiva e unitaria dell’intero Sistema educativo di istruzione e formazione.

Ma per quale ragione una legge che affrontasse in toto e ad ampio spettro l’organizzazione dell’intera scuola nazionale? E’ opportuno riflettere sul fatto che la storia della nostra scuola – fin dalla prima legge Casati – è costituita di continui e progressivi aggiustamenti, indotti dalle esigenze culturali, strumentali, socioeconomiche e lavorative che via via si andavano sviluppando nel Paese. In effetti, mancava sempre un’idea di scuola in quanto tale, con le sue finalità e la sua autonomia, in grado di rispondere ad esigenze culturali di alto livello. Le iniziative di riforma costituivano risposte sempre parziali, legate alle emergenze che via via si sviluppavano in un Paese che da fondamentalmente agricolo, frazionato da sempre nei suoi innumeri staterelli, si avviava, invece, a sviluppare settori industriali e manifatturieri nonché un settore terziario che potesse costituire l’ossatura amministrativa e finanziaria di un Paese unitario di recente istituzione: com’è noto, la proclamazione del Regno d’Italia è del 1861. Possiamo anche ricordare che solo la riforma Gentile, avviata dal 1923, si propose per la prima volta finalità e obiettivi educativi e culturali che potremmo definire totalizzanti, ma, com’è noto, solo al fine di costruire una scuola a senso unico, in grado di “produrre” uomini “ad una dimensione”, fascisti certi e fedeli, in grado di credere, obbedire e combattere.

Fu solo nell’immediato dopoguerra, dopo la parentesi della scuola fascista, che ci si rese conto che occorreva ripensare totalmente alla nostra scuola. E i Padri e le Madri Costituenti ne hanno tracciato finalità e contenuti di base, una scuola per tutti e per ciascuno e che garantisse ai capaci e ai meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. Cost. 34). Per l’intera seconda metà del secolo scorso ci siamo sempre adoperati, pur con governi di diversa ispirazione politica, a costruire, via via, pezzi di scuola – se mi è consentita questa espressione – che, pur cercando di rispondere alle esigenze sempre crescenti di un Paese che anno dopo anno sempre più si industrializzava e si terziarizzava, però tenesse sempre fermi i principi costituzionali che ne configurano finalità e contenuti essenziali. I “pezzi forti” di questo lungo e faticoso ma premiante percorso sono noti: l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, nel ’62; i nuovi programmi della scuola media nel ’79; quelli della scuola elementare nell’85 e nel ’90; gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia nel ’91. Per non dire dell’impennata dell’istruzione tecnica e di quella professionale che hanno dato un notevole contributo a quel boom che nel secolo scorso ha fatto del nostro Paese uno dei primi tra quelli ad alto sviluppo. Il tutto, infine, coronato da una scelta strategica e organizzativa di primaria importanza: l’autonomia delle istituzioni scolastiche da realizzarsi nel più vasto processo autonomistico che nell’ultimo decennio del secolo scorso ha interessato l’intera organizzazione statuale del nostro Paese. Si è trattato di un processo descritto e sancito dalla stessa Costituzione repubblicana del ’47, ma di difficile realizzazione negli anni dell’immediato dopoguerra: in effetti, non era facile trasformare in breve tempo un forte regno centralizzato, costituito di sudditi “regnicoli” obbedienti, in una forte repubblica decentrata affidata all’iniziativa di cittadini responsabili.

 

I provvedimenti regressivi del centro-destra

Tutte le innovazioni che hanno interessato la nostra scuola negli ultimi decenni del secolo scorso sono state realizzate sempre nel solco dei precetti costituzionali. Il riordino complessivo avviato con le leggi del Governo di centro-sinistra alla fine degli anni ‘90, in una certa misura, tendeva a chiudere l’intera esperienza del mezzo secolo trascorso e a costruire una complessa ma articolata organizzazione scolastica.

Ma poi? Che cosa è accaduto con l’avvento del governo di centrodestra? Con la riforma Moratti si ebbe il primo avvio della costruzione di una scuola “diversa”. La definizione di “Sistema educativo di istruzione e formazione” venne mantenuta; la stessa cosa avvenne per l’autonomia. Ma ciò che cambiava profondamente erano le finalità del “nuovo” sistema, in effetti sottese e mai esplicitamente dichiarate. Tutti ricordiamo come una certa lettura della normativa sull’autonomia poteva direttamente portare alla scuola/azienda, allo studente/cliente, al preside/manager: dizioni e concetti assolutamente estranei alla visione di una scuola autenticamente ispirata ai principi costituzionali. Ebbene proprio questa visione era – ed è tuttora – sottesa all’idea che della scuola hanno le posizioni del centro-destra.

Tutti noi ricordiamo i “Piani di studio personalizzati” della legge Moratti, di fatto l’introduzione del concetto di personalizzazione con cui si moltiplicarono gli obiettivi terminali di un percorso formativo in funzione del fatto che occorreva “dare a ciascuno il suo”, ma in senso regressivo. La Moratti più volte ha ripetuto che non è l’alunno a servizio della scuola, come sarebbe sempre avvenuto nella scuola “governata dalla sinistra”, ma viceversa: la scuola al servizio dell’alunno: in altri termini, l’alunno chiede e la scuola offre. Il concetto di personalizzazione in effetti scardinava la funzione costituzionale della nostra scuola che si era da sempre ispirata, invece, al concetto di individualizzazione.

La differenza non è affatto di poco conto, perché vede e dà vita a due modelli antitetici di scuola. Nella “scuola della Costituzione”, quella che si ispira ai concetti così mirabilmente espressi negli articoli 2, 3, 9, 33, 34 e 117, è fondante il principio della individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento, per cui si tengono ferme le finalità e gli obiettivi terminali, modulando invece le attività didattiche con tutte le opportune attività di recupero precoce, di sostegno, di rinforzo e quant’altro. E la teoria del curricolo e della programmazione educativa e didattica costituivano e costituiscono il fondamento di tale scelta. Con la personalizzazione, invece, si curvano obiettivi e finalità alle esigenze dell’alunno. Si rompe così l’unitarietà (non parlo di unità che è altra cosa) dei processi di insegnamento/apprendimento in funzione delle esigenze “personali” dell’alunno. E non è un caso che con le indicazioni della legge 53 si passò dalle unità didattiche, centrate sull’oggetto da apprendere, alle unità di apprendimento, curvate, invece, sul soggetto che apprende: il che comporta anche una sorta di “devoluzione” degli obiettivi, a seconda delle particolari esigenze dell’alunno. In altri termini, con tale scelta si va verso quella scuola centrata sul cliente che rinvia ai concetti della scuola azienda e del “preside manager”. Il disegno del governo di centro-destra era chiaro.

E ancora più chiaro fu il disegno del successivo governo di centro-destra, dopo la parentesi del governo Prodi. Perché con i ministri Gelmini e Tremonti i tagli alla scuola si fanno più pesanti che mai? Perché è inutile investire nella scuola, in quanto “con la cultura non si mangia”. Questi sono i concetti di fondo, anche se non esplicitamente dichiarati: l’alunno che va avanti, procede per suo merito: chi resta indietro, si arrangi. Perché si ritorna al voto nella scuola dell’obbligo? Perché il voto separa nettamente il “bene” dal “male”: il giudizio, invece, è un insieme di parole che “non dicono nulla”! E non serve a una scuola che intende tornare alla selezione di sempre, o meglio a quella scuola che include i cosiddetti migliori ed esclude i cosiddetti peggiori.

 

Una Buona scuola che non affronta le carenze emergenti

L’excursus che ho condotto sin qui costituisce una chiave di lettura della Buona scuola e della legge che ne è seguita. La Buona scuola non è nata per caso. In tempi non lontani, se si trattava di pensare in grande, rivedere programmi di studio, definire contenuti disciplinari, addirittura proporre testi di riforma, Il Ministero istituiva commissioni di studio e di lavoro a cui partecipavano esperti di ogni estrazione politica e culturale. E nessun ministro in carica, anche il più fervente DC, avrebbe mai pensato di avanzare una proposta così impegnativa, come una legge di riordino è, scavalcando le istanze che istituzionalmente si occupano di scuola e di insegnamento. Renzi nel discorso di investitura aveva tenuto un discorso ricco di accenni e di indicazioni concrete sul problema della scuola: un discorso che mai altri presidenti del consiglio avevano tenuto! Ricco di spunti e indicatore di una Buona volontà di mettere le mani a un riordino. E di un riordino abbiamo assolutamente bisogno! Ma di quale riordino? Quello dei cicli, in prima battuta, cosa che aveva già tentato Berlinguer, spinto da una oggettiva necessità. E quello della didattica che implica l’avvio di un rapporto totalmente nuovo tra disciplina e conoscenza, tra docente e alunno al fine di superare la triade di sempre: lezione cattedratica, compiti a casa, interrogazione. Le iniziative innovative in tal senso non mancano [3] e non necessitano quindi la Buona scuola e la legge che ne è seguita perché un rinnovamento radicale e reale si possa produrre nel nostro Sistema di istruzione.

E a questo punto, ritorno a quanto ci dice Tullio De Mauro. Ci troviamo a dover applicare una legge piovuta non si sa né da dove né da che cosa né da chi, e che non si innesta sul solco di quelle innovazioni che nella seconda metà del secolo scorso hanno consentito di costruire una scuola conforme al dettato costituzionale. Ci troviamo di fronte a una legge che difficilmente potrà portare a qualcosa di Buono! Si tratta di una legge che non mette in discussione cicli ormai asfittici e chiusi in se stessi e che non accenna affatto alla necessità di un loro riordino.

Abbiamo un percorso obbligatorio di dieci anni che si sviluppa lungo tre segmenti, primaria, media e primo biennio secondario. Ma si tratta di un percorso fantasma, spezzettato in tre gradi, ciascuno a suo modo referenziale e centrato solo su se stesso. Purtroppo esiste ancora la scuola “elementare” delle “maestre”, la scuola media delle “professoresse” – nonostante gli istituti comprensivi verticali – e un primo biennio dei “professori”. I primi due gradi si concludono con una supposta certificazione delle competenze che, riguardando bambini di 11 e adolescenti di 14 anni, costituiscono solo faticose e inutili operazioni degli insegnanti che nessuno tiene nel debito conto, perché in effetti il loro valore educativo e legale è nullo. E poi, quando al termine del biennio decennale si dovrebbero certificare competenze vere, di sedicenni, che poi coincidono anche con quelle di cui al secondo livello del Quadro europeo delle qualifiche [4], non accade assolutamente nulla, se non una semplice trascrizione dal voto a un sintetico giudizio verbale… che nessuno legge e che a nessuno serve! Comunque, la forma, il vuoto adempimento normativo – di cui ai dm 139/2007 e 9/2010 – sono soddisfatti!

Ma non finisce qui. Quest’anno 2015 è andato a regime il riordino degli istituti secondari superiori avviato dal ministro Gelmini nel 2010. Ebbene sia nelle Indicazioni nazionali dei licei che nelle Linee guida degli istituti tecnici e professionali soni individuate e descritte – nelle Indicazioni, comunque, in modo più sfumato – le competenze finali da certificare. La legge di riforma dell’esame di maturità, fin dal suo varo – siamo nel 1997 – prevede che al termine dei percorsi vengano certificate le competenze acquisite dai candidati. E’ successo qualcosa? Assolutamente no! Semplicemente il Miur non è in grado, in 18 anni, di adempiere alle leggi e ai provvedimenti che in molti casi esso stesso si è dato. E il che non consente ai nostri studenti di disporre di un diploma che attesti con chiarezza in Italia e in qualsiasi Paese dell’Unione europea che cosa veramente “sa fare”. Eppure il modello di certificazione che certifica il nulla è scritto in cinque lingue! Il moloch della forma è salvo!

 

La Buona scuola non è nata per caso

Si tratta di semplici accenni a problemi macroscopici che da anni ci portiamo dietro e che non riusciamo a risolvere. Eravamo in molti a pensare che, con i provvedimenti annunciati da Renzi, si mettesse mano a queste problematiche annose. Invece, no! Dal cappello dell’illusionista è uscita la Buona la scuola! Chi l’ha scritta? Mistero! Nessuno specialista del settore! E da un secondo cappello è uscita la legge. Chi l’ha scritta? Mistero! Chi l’ha difesa? Il ministro Giannini, solo con qualche cenno di assenso ogni tanto – mai un discorso organico e articolato sulla legge – e due o tre onorevoli che poco o nulla sanno realmente e concretamente di scuola. Viene il sospetto che a scrivere questo testo siano stati specialisti di organizzazioni “altre” rispetto a quelle che caratterizzano la nostra scuola e i nostri istituti universitari.

In effetti, nulla nasce a caso. C’era un disegno da riprendere, da portare avanti e da concludere, quello dell’autonomia, ma in chiave centro-destra, cioè dell’autonomia che consente l’aprirsi a ventaglio delle offerte più disparate e, soprattutto, più differenziate. Il motto della “Scuola buona”, quella della Costituzione indica da sempre: una scuola per tutti e per ciascuno e, soprattutto una scuola che permetta a ciascuno di raggiungere quel “successo formativo” che concettualmente è scritto nella Costituzione e formalmente nell’articolo 1 del dpr 275/99. Il motto della “Buona scuola” è un altro… detto in soldoni: armatevi e partite! Datevi da fare e vinca il migliore! Sono previsti un sacco di soldi, questo è vero, anche se pensiamo alle ristrettezze a cui le dissennate politiche del risparmio sempre e comunque ha condotto le scuole a rendere obbligatori i contributi volontari delle famiglie.

Così, la grande kermesse ha inizio! La gara è aperta! I presidi – pardon, i dirigenti scolastici – cosiddetti migliori, i più intraprendenti, i più scaltri faranno incetta nei mercatini provinciali degli insegnanti. Saranno dei veri manager, non paventati, come si temeva, ma anzi sollecitati da qualche dollaro in più, i quali troveranno appoggi, sostegni e denaro per costruire progetti triennali che più belli non si può! Il mercato è l’anima nuova che illumina e guida tutte le attività, quindi anche quelle delle scuole. E gli insegnanti migliori non saranno più i più alti in graduatoria per titoli di studio ed esperienza professionale, ma quelli che “servono” a quel progetto triennale. E ogni scuola sarà diversa dall’altra, come vogliono le normali leggi del mercato. Avremo senz’altro Scuole migliori, ma… non avremo una Scuola migliore. Ne conseguirà oggettivamente – per la mera legge di mercato – che avremo scuole migliori e scuole peggiori. Di conseguenza, avremo dirigenti, insegnanti e scuole migliori, da premiare e gratificare! E dirigenti, insegnanti e scuole peggiori da lasciare indietro.

 

Un attacco alla scuola della Costituzione che occorre respingere

Ha inizio a mio vedere un attacco alla scuola pubblica, alla scuola della Costituzione. Si fanno largo istanze diverse, avanzate in parte da Confindustria, in parte da Treellle, in parte dalla Fondazione Agnelli: istituti di ricerca di tutto rispetto, ma orientati più alle concrete esigenze del mercato che non a quelle del singolo cittadino. A monte c’è una considerazione di questo tipo: l’istruzione della Costituzione, garantita a tutti, è estremamente impegnativa. In un mondo sempre più globalizzato, in cui in cui le leggi esplicite del mercato – e del danaro, purtroppo – si fanno sempre più forti rispetto alle leggi implicite di una convivenza democratica di cittadini che debbono godere di pari opportunità e di pari diritti, l’esplicito materiale si impone sull’implicito civile. Domandiamoci anche il perché di queste insistenza, da anni sempre più ossessiva, sulla valutazione delle scuole, dei dirigenti, degli insegnanti. Perché questa esigenza nasce oggi e non è nata quando abbiamo fatto le grandi riforme dal dopoguerra fino agli anni Novanta? Non dovevamo distribuire premi e punizioni, ma sollecitare tutti a fare al meglio il proprio dovere. Non si erogavano premi, ma anno dopo anno si innalzava la cultura degli italiani, e anche il loro benessere: il boom degli anni Cinquanta. Per non dire di quelle “150 ore” con cui abbiamo permesso a un alto numero di adulti di acquisire quelle competenze di leggere, scrivere e far di conto che una società ingiusta aveva loro negato.

Ovviamente, i tempi sono cambiati e le competenze civili e culturali di base si sono notevolmente innalzate. Però – di qui la denuncia di Tullio De Mauro – i nostri adulti non brillano affatto in quanto a competenze di base di literacy. E non solo: i numeri dei nostri diplomati e dei nostri laureati sono tra i più bassi di Europa. Il che significa che negli ultimi anni siamo venuti man mano perdendo i vantaggi che tanto faticosamente avevamo conquistato con l’avvio della Scuola della Costituzione.

Tutto ciò comporta l’assoluta necessità di rimetter mano alla scuola, se si vuole veramente garantire a ciascuno di raggiungere quel “successo formativo”, che abbiamo già ricordato, di cui all’articolo primo del dpr che regola l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Ma la legge 107 non si propone finalità di questo tipo, di raggiungere, cioè tutti e ciascuno e garantire un vero salto qualitativo per quanto riguarda la cultura e le competenze di base di tutti i cittadini, non uno di meno. Perseguire e premiare l’eccellenza significa prevedere e tollerare la mediocrità. Di fatto, per altro, questa tolleranza è in atto da almeno un quindicennio, da quando, con le dissennate riforme avviate e consolidate dal centro-destra e con una visione distorta dell’autonomia di ciascuna istituzione scolastica, il livello di efficienza e di efficacia di molte scuole è venuto sempre più peggiorando.

La legge 107 legittima questa situazione, invece di sanarla, anzi la esaspera. Per tutte queste ragioni gli operatori scolastici tutti, dal prossimo settembre dovranno impegnarsi perché gli effetti dannosi che la legge di fatto provocherà siano contenuti al minimo. E in parallelo, dobbiamo riprendere tutti le redini perché la Scuola della Repubblica sia anvora e sempre quello strumento di crescita e di sviluppo per tutti e per ciascuno come dettato dalla Costituzione.

 

Per eventuali approfondimenti sui temi trattati si vedano, dello stesso autore, reperibili sul web in “tiriticcheide”, i seguenti articoli:

  • Settembre 2015: parte la scuola “altra”
  • Per una scuola a dimensione europea
  • La goccia che fa traboccare… l’urna
  • Ritornare alla scuola della Costituzione, di tutti e di ciascuno
  • Morin, Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione
  • L’esame di Stato… e la scadenza del 2015!
  • Ho fatto un sogno!
  • La scuola come quarto potere costituzionale
  • La Buona scuola: l’ottimismo della ragione non è di casa
  • La Scuola che non c’è e non ci sarà
  • Verso un esame di Stato… incompetente!
  • Caro Luigi! Mai più margaritas ante porcos!

 

* Pubblicato sul numero di agosto 2015 della rivista “Valori”


 

[1] E’ la definizione che si ritrova sia nella legge 30/2000 (Berlinguer) che nella legge 53/2003 (Moratti). Nell’attuale legge di riforma 13 luglio 2025, n. 107 si ritrova l’espressione ”Sistema nazionale di istruzione e formazione”. In ogni caso, il sostantivo istruzione indica le attività di competenza della scuola statale e paritaria; il sostantivo formazione indica le attività dell’istruzione e formazione professionale, di competenza delle Regioni.

[2] Si veda la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 concernente “Modifiche al Titolo V della Parte seconda della Costituzione”.

[3] Chi legge, può facilmente trovare sul web quali tipologie di didattica innovativa già è in atto in alcuni istituti italiani, quali: Il “Pacioli” di Crema, il “Fermi” di Mantova, il “Volta” di Perugia, il “Savoia Benincasa” di Ancona, il “Majorana” di Brindisi, il “Marco Polo di Bari. Si tratta di innovazioni in atto da anni in regime di autonomia e, come si suol dire, a normativa vigente.

[4] Si veda la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio europeo del 23 aprile 2008, concernente l’European Qualifications Frameworh, Quadro europeo delle Qualifiche. Si veda anche la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio europeo del 18 dicembre 2006, concernente le competenze chiave di cittadinanza per l’apprendimento permanente. Con la prima si indicano competenze culturali e professionali, distribuite in 8 livelli, dal primo, relativo agli apprendimenti di base, all’ultimo, relativo alle alte specializzazioni. Si tratta di livelli a cui sono tenuti a uniformarsi tutti i sistemi scolastici dei 28 Paesi dell’Unione europea. Con la seconda si indicano quelle competenze di cittadinanza a cui ogni sistema scolastico dell’Unione deve tendere e uniformarsi. Sono provvedimenti che tendono a indicare ai sistemi scolastici di istruzione generalista e di formazione professionale obiettivi e finalità comuni e condivisibili da parte di ciascun Paese membro.

Settembre 2015: parte la scuola “altra”

Settembre 2015: parte la scuola “altra” *

di Maurizio Tiriticco

 

Penso che tutti sappiano – favorevoli o meno alla riforma avviata dalla legge 107 – che nel nostro Paese dal prossimo anno scolastico ci avviamo a costruire una scuola “altra”. In effetti non si tratta di un riordino, come da sempre è avvenuto dalla Liberazione a oggi, via via che si considerava necessario rendere il nostro sistema di istruzione e di formazione professionale sempre più rispondente ai cambiamenti in atto nella struttura economica e sociale del nostro Paese, ma di tutt’altra cosa, rispetto alla nostra storia.

Della quale mi limito solo a rapidi accenni: l’innalzamento dell’obbligo di istruzione nel ‘62, la legge quadro 845 del ’78 in materia di formazione professionale, i nuovi programmi della scuola media nel ‘79, quelli della scuola elementare dell’85, gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia del ’91, i progetti assistiti nell’istruzione tecnica, il Progetto ’92 nell’istruzione professionale. Per concludere con un complessivo riordino del cicli con la legge 30/2000, meglio nota come riforma Berlinguer, abrogata nel 2003 con la riforma Moratti, con cui si apriva il quindicennio delle riforme dei governi di centro-destra (Moratti e Gelmini), tranne qualche breve ma scarsamente significativa parentesi di governi di centro-sinistra.

Perché questi accenni? Solo per dire che, con l’avvio del nuovo millennio, hanno cominciato a confrontarsi nel nostro Paese due modelli di scuola: il primo, strettamente legato alle indicazioni della Costituzione, orientato a coniugare costantemente l’innalzamento della cultura e delle conoscenze della nostra popolazione TUTTA con i cambiamenti economici e strutturali del nostro assetto produttivo: il secondo, invece, più preoccupato di garantire una scuola ai cosiddetti MIGLIORI, incurante della sorte dei cosiddetti PEGGIORI. Si tratta di una cultura della scuola tipica di certi Paesi, ma estranea assolutamente alla nostra tradizione repubblicana e costituzionale.

In effetti, i meccanismi che saranno messi in moto dal prossimo settembre. per quanto riguarda il funzionamento delle singole istituzioni, sono noti: assunzioni “di massa”; POF triennali; offerte formative più ricche; raddoppio del fondo di funzionamento; un dirigente scolastico che formerà la sua squadra, che assumerà il personale in funzione degli obiettivi assunti con il POF, insegnanti che dovranno essere “scelti” dal dirigente per un triennio e poi da lui “valutati”, indipendentemente dai titoli concorsualmente conseguiti; valorizzazione delle eccellenze; incremento dell’alternanza scuola-lavoro; una card per l’aggiornamento degli insegnanti e valorizzazione del merito; un bonus per le famiglie che intendano iscrivere i figli alle scuole paritarie. Il tutto dovrebbe essere sostenuto e garantito da uno stanziamento di fondi estremamente copioso.

Nulla da eccepire rispetto a un articolato così ricco, ma… si tratta della nostra scuola o di una scuola altra? Viene da chiedersi: se i finanziamenti saranno così copiosi – e sono anni che le nostre scuole languono – quale necessità c’era di scompaginare un assetto che si è sempre mostrato funzionante e che ha permesso di innalzare il livello culturale della nostra popolazione? Sappiano tutti benissimo che i livelli di literacy dei nostri adulti oggi sono preoccupanti, ma ciò non dipende dal fatto che la nostra scuola non abbia “funzionato”, ma dal fatto che da anni non è stata messa più in grado di “funzionare”. E’ stata soltanto umiliata e messa ai margini, in nome del fatto che “con la cultura non si mangia”.

E allora, solo oggi ci accorgiamo che con la cultura, invece, “si mangia”? Ma la nostra scuola da sempre ha voluto garantire che tutti, non uno di meno, potessero “mangiare”! Che succederà ora con l’avvio della legge 107? Che le scuole saranno messe tra loro in concorrenza, come se vendessero oggetti di consumo e non fossero tenute, invece, a promuovere quelle competenze che l’intero mondo della cultura e del lavoro oggi ci chiede, e in un ambito europeo e transnazionale.

La concorrenza sarà spietata, perché ciascun dirigente vorrà accaparrarsi i docenti “migliori” e i fondi più cospicui. Così diremo addio alla scuola della Repubblica e della Costituzione. E ciò che amareggia, soprattutto, è che i promotori di questa scuola “altra” sono uomini – e donne, ovviamente – di un governo di centro-sinistra.

* pubblicato sul n. 7-8 de “Il Maestro”

Lo spazio/tempo, lo sviluppo, l’apprendimento

Lo spazio/tempo come condizione primaria per i processi di sviluppo/crescita e apprendimento

di Maurizio Tiriticco

  
Ottime le considerazioni di Agostina Melucci a proposito della progettata costruzione e/o ricostruzione degli edifici scolastici (edscuola del 4 agosto). Ottimi i rinvii a studi che in tal senso ci hanno fornito Piero Bertolini e, più recentemente, Maria Grazia Contini e Vanna Iori. Quanto le coordinate spazio/temporali condizionino i nostri comportamenti e, in misura assai rilevante, gli atteggiamenti e i comportamenti dei soggetti in età evolutiva, è noto a chi insegna: forse meno noto ai tanti architetti che hanno costruito gran parte delle nostre scuole. Nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla finalmente conseguita Unità nazionale, furono varati due obblighi, quello scolastico e quello militare. E non fu un caso che caserme e scuole di nuova costruzione obbedissero a criteri analoghi: ampi e lunghi corridoi che consentivano l’accesso ad aule o a camerate, in genere tutte eguali. In effetti, non faceva poi eccessiva differenza l’obbedire al frustino del tenente o alla bacchetta del maestro. O tempora o mores! Occorreva far presto per costruire un Paese che potesse concorrere con potenze europee di più antica costituzione.

Da quegli anni è trascorso più di un secolo. Abbiamo abolito la leva militare e abbiamo, invece, incrementato l’obbligo di istruzione: la società della conoscenza richiede competenze sempre più elevate, nonostante la crisi che oggi investe l’intero mondo del lavoro. In parallelo, abbiamo “imparato” tante cose circa lo sviluppo/crescita e l’apprendimento. Sappiamo che un nuovo nato, subito dopo il “grido” con cui ci annuncia il suo ingresso nel mondo, comincia la sua faticosa marcia per conquistarlo e farlo proprio: e i processi di assimilazione, accomodamento e adattamento, di cui ci parla Piaget, garantiscono la lunga e faticosa marcia per il successo.

Lungo l’asse e il piano orizzontali dello spazio il nuovo nato costruisce, e non con poca fatica, i suoi rapporti fisico-sensomotori: può cominciare a vedere e ad ascoltare, solo se luci, colori, immagini, suoni, stimolano la sua capacità visiva e auditiva. Comincia a toccare e ad afferrare: sono i primi passi del futuro prendere e maneggiare. Infine conquisterà la posizione eretta e imparerà a gestire i primi campi del suo spazio vitale. I cosiddetti cinque sensi sono un insieme di facoltà che solo con il contatto diretto e attivo con l’ambiente e i suoi stimoli “si accendono” e si sviluppano, almeno per il primo anno di vita e/o poco più. Il corpo non è tanto l’oggetto che appare, quanto un insieme di movimenti intelligenti, attivi e produttivi, via via sempre più articolati e organizzati. Il corpo – o meglio lo schema corporeo – viene di fatto “costruito”, momento dopo momento, attività dopo attività, dal nostro nuovo arrivato.

Lungo l’asse verticale del tempo il nuovo nato costruisce e memorizza le sue prime ed essenziali conoscenze. E il faticoso sviluppo del linguaggio ne è la spia: prima la conquista delle parole essenziali, “pappa”, “mamma”, poi dei loro legami sintattici, “mamma voglio pappa”. Il vocabolario e la grammatica non sono i libri adottati dalle scuole – a quando la loro abolizione? – ma una continua e progressiva costruzione condotta non senza fatica dal nuovo nato. Costui, se ha a che fare con attanti (in genere i genitori) “ricchi” sotto il profilo grammaticale (fonologia, morfologia e sintassi) e sotto quello dei contenuti (lessico e semantica: c’è quel bel libro di Federica Casadei, edito da Carocci, Roma), non ha difficoltà a costruire un linguaggio altrettanto ricco. Tale costruzione si avvicenda minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, mese dopo mese, lungo l’asse verticale del tempo.

L’asse dello spazio fisico, visibile e concreto, è orizzontale (una suggestione ci può essere offerta dallo spazio vitale di Kurt Lewin); l’asse del tempo, invisibile e concettuale, è verticale. Dall’immaginario centro di incrocio si diparte verso il basso l’asse della memorizzazione/conservazione dei ricordi del passato, verso l’alto quello della immaginazione e dei progetti per il futuro. Il nostro nuovo arrivato si trova al centro di questo incrocio spazio/temporale e sta a lui, in ordine agli stimoli che gli vengono lanciati, costruire giorno dopo giorno la progressiva spirale della conquista del Sé, del Sé con gli Altri, del Sé con le Cose. E non è un caso che le competenze chiave per l’apprendimento permanente, da conseguire al termine dell’obbligo di istruzione decennale, siano descritte e definite proprio in tal senso (si vedano la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 dicembre 2006 e il dm 139/2007, che le fa proprie e le declina). Il rinvio all’illustrazione allegata può rendere più chiaro un concetto che richiederebbe argomentazioni molto più mirate.

Se le considerazioni fin qui condotte sono vere, la gestione dello spazio e dei suoi oggetti diventa una questione fondamentale per lo sviluppo/crescita e l’apprendimento di un nuovo nato, e non solo per la fase infantile, ma per tutta l’età evolutiva. C’è da augurarsi che i prossimi architetti costruttori di scuole si avvalgano del supporto dei pedagogisti.

Grazie, Agostina, di avere avviato il dibattito su un argomento così vitale per il futuro della nostra scuola, o meglio, del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione”.