Il socialismo di Fidel: sogno o utopia?

Il socialismo di Fidel: sogno o utopia?

di Maurizio Tiriticco

cheyfidelI sogni a volte si avverano! Le utopie, mai! L’utopia è il “non luogo”, di cui all’opera omonima di Tommaso Moro: un luogo che non c’è e che non ci sarà mai! La scomparsa di Fidel ci riconduce a riflettere sull’esperienza castrista di costruire, nel cuore del Continente americano, il primo Paese a regime socialista, ma… I “ma” sono moltissimi e, fin dai primi anni della rivoluzione castrista, i dubbi non hanno mai cessato di proporci interrogativi a non finire. E sono proprio le incertezze sulle cose da fare in situazioni prerivoluzionarie, se poi si deve scegliere di andare oltre e dar vita a rivoluzioni vincenti. E proprio il “Che fare”, appunto, fu quell’aureo libretto con cui Lenin, nel 1902, analizzava i problemi organizzativi e strategici che un partito rivoluzionario doveva proporsi e analizzare per avviare e condurre una rivoluzione vittoriosa. E sono gli stessi problemi che nei successivi anni venti si proposero allo stesso Lenin, a Trotsky, a Zinoviev, a Bucharin, al giovane Stalin e a tutti i protagonisti della rivoluzione russa, poi sovietica!

Il gran dilemma a cui si trovarono di fronte i dirigenti dei soviet bolscevichi fin dall’assunzione del potere e fino ai primi anni Venti era proprio quello del “che fare”. In effetti, la visione marxista prevedeva una rivoluzione a livello mondiale al fine di distruggere per sempre il sistema capitalistico e le sue appendici colonialiste ed instaurare così un nuovo ordine mondiale! Tra parentesi, anche il nazifascismo si propose l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale! Ed è sempre dei visionari – se vogliamo tirare in ballo anche due notissimi Magni, Alessandro e Carlo – sognare e costruire, o tentare di farlo, ordini mondiali sempre nuovi e sempre definitivi! Come se la storia degli uomini potesse avere un fine: cosa che non è e che mai sarà. E i cicli continueranno a svolgersi all’infinito, e sempre diversi, così come Vico intuì tre secoli fa: la “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”.

I primi anni Venti non furono affatto facili per i nuovi dirigenti sovietici. Da un lato occorreva costruire il nuovo Stato socialista, dall’altro occorreva fare i conti con la prospettiva rivoluzionaria che avrebbe dovuto aggredire il sistema capitalistico nella sua interezza mondiale. In effetti, la Rivoluzione, quella socialista, non sarebbe mai stata tale e definitiva, se non avesse coinvolto l’intero pianeta. Così predicavano i “sacri testi” del marxismo e così occorreva operare! E questa era la posizione di Trotsky. Ma Stalin, com’è noto, non ne volle assolutamente sapere! Per un sano realismo? Non so! Comunque, ciò che era stato realizzato nella Russia ormai sovietica, o meglio nell’URSS, nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, era per lui più che sufficiente. E bisognava consolidare i risultati della rivoluzione là dove era stata vittoriosa. E tale posizione venne ufficializzata – se si può dir così – con la teoria del “socialismo in un solo Paese”. Una tesi che i “sacri testi” di Marx ed Engels in effetti non avevano considerato! Una tesi che, ovviamente, vide del tutto contraria la corrente guidata da Trotsky, che, invece, sosteneva che la rivoluzione socialista, il cui motto era “a ciascuno secondo, il suo lavoro”, sarebbe stata tale solo a condizione che andasse oltre i confini dell’URSS e coinvolgesse l’intero pianeta. E solo allora il comunismo, come fase ulteriore e definitiva, avrebbe potuto dare “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Si scontrarono così nei primi anni Venti il realismo di uno Stalin e l’utopia di un Trotsky: la teoria del “socialismo in un solo Paese” e la teoria della “rivoluzione permanente”. E al congresso del PCUS del 1923 la tesi di Stalin ebbe ragione su quella di Trotsky. Ciò che accadde dopo è noto. Trotsky fu costretto ad emigrare e scrisse quell’aureo libretto, “La rivoluzione tradita” – tradita da Stalin, ovviamente – pubblicato nel 1936, quattro anni prima della sua morte… annunciata! Com’è noto, fu aggredito nella sua abitazione a Coyocan, in Messico, da un inviato di Stalin che gli sfondò il cranio con un colpo di piccozza. Con la sua morte, les jeux sont faits, come si suol dire e l’URSS staliniana si va sempre più consolidando. Basti ricordare i processi farsa e le grandi purghe del 1936/39. Ormai Stalin aveva liquidato tutti i suoi oppositori e nella famosa “Storia del partito comunista (bolscevico) dell’URSS: breve corso”, tradotto poi da tutti i partiti comunisti del mondo (ovviamente staliniani) fece scrivere, ovviamente a modo suo, l’intera storia della rivoluzione bolscevica.

Il lettore si chiederà: che cosa c’entra questo lungo excursus con la Cuba socialista di Fidel Castro? E con la sua morte? Ricordiamo in primo luogo che la rivoluzione socialista di Fidel ebbe la durata di 3 anni, dal 1956 al 1959. Stalin era morto nel 1953, quindi non poté prendere posizione nei confronti della prima repubblica socialista nel cuore del Continente americano. Eravamo in pieno regime di guerra fredda e l’Urss era divisa tra due poli: da un lato la nascita di un Paese socialista in Centroamerica; dall’altro i problemi che a livello internazionale ne sarebbero insorti, a mettere in crisi quello status quo che bene o male garantiva uno straccio di pace mondiale. Giova ricordare che allora la minaccia di una guerra atomica spaventava allo stesso modo sia popoli che governi. I dirigenti dell’Urss da un lato non potevano non plaudire alla nascita di una Repubblica socialista proprio in un continente che si sapeva controllato dagli Stati Uniti; dall’altro non potevano non considerare che certi equilibri non scritti ma di fatto esistenti tra due Potenze mondiali potevano essere messi in discussione. Per non dire che nel 1949 era nata quella Repubblica Popolare Cinese sotto la guida del “grande timoniere” Mao Tzè Tung. Così, quasi tre quarti del Continente asiatico erano di fatto sotto un regime comunista. E il cosiddetto mondo libero, quello che si trovava ad ovest della Cortina di ferro doveva fare i conti con un comunismo montante.

In uno scenario così incerto, quella piccola Repubblica socialista nel cuore delle Americhe da un lato sollecitò mille speranze: una rivoluzione socialista era quindi possibile, nonostante un assetto internazionale governato, pur sempre in precario equilibrio, dalle due superpotenze mondiali di allora! Da un altro lato diede luogo a mille preoccupazioni! In effetti – come tutti ricordiamo – la “crisi del missili” del 1962 portò il mondo intero sull’orlo di una guerra nucleare che sarebbe stata senza ritorno. E non so se fu più saggio un Kennedy o un Krusciov, i due leader mondiali da cui dipendevano le sorti del Pianeta. Fidel dovette di fatto accettare le decisioni di Krusciov, tese a restaurare una situazioni di pace: o di stallo?. Più tardi, nel 1967, uno dei compagni di lotta di Fidel, Ernesto Che Guevara, insofferente per lo stallo della rivoluzione castrista, forte del suo motto “Hasta la victoria siempre”, parte per la Bolivia con la certezza di sostenere una nuova rivoluzione e condurla alla vittoria! Ma viene catturato e ucciso dalle truppe governative.

Fidel tenne duro nel suo Paese, convinto che la Repubblica socialista cubana dovesse resistere, in attesa che maturassero tempi migliori per una ripresa rivoluzionaria. Ma nel corso degli anni il prezzo da pagare fu alto: restrizioni economiche e sociali all’interno, fuga di cittadini cubani negli Stati Uniti. Insomma, il sogno castrista di costituire in pieno Centroamerica una realtà socialista, che potesse essere da stimolo e da guida per rivoluzioni ulteriori, si è venuto mano a mano dissolvendo. Le ragioni di questo arretramento? Non è facile analizzarle: da un lato, il lungo embargo imposto dagli Stati Uniti e che solo un Obama lo scorso anno ha pensato bene di cancellare; dall’altro, l’incapacità del gruppo dirigente cubano di costruire veramente una società socialista. E ciò, forse, per “mancanza di dottrina” da parte dei governanti! E ancora, la scomparsa dell’Unione sovietica sembra aver convinto i dirigenti “marxisti” cubani che in effetti la costruzione di uno Stato socialista, da solo, è impossibile. Torniamo, quindi, all’impossibilità oggettiva di costruire il socialismo in un Paese solo? E qui ritorna – forse – l’attualità del pensiero trotskysta, secondo cui una rivoluzione socialista, se circoscritta e priva di una prospettiva mondiale, è sempre condannata al fallimento. Torniamo anche alla felice, ma desolante, intuizione che Trotsky ebbe, quando, nel lontano 1936 scrisse, appunto “La rivoluzione tradita”: una rivoluzione socialista o è planetaria o è condannata al fallimento.

E torniamo infine all’interrogativo del titolo: fu sogno o utopia la creazione di uno Stato socialista a Cuba? Fu un sogno per Fidel e i suoi compagni – tra i primi un Che Guevara – ma un’utopia per la storia! Perché in effetti, il paradiso, non quello dell’Eden, ma quello con la “p” minuscola non è di questa terra!