Dalla penna alla tastiera

Dalla penna alla tastiera: un passaggio non facile!

di Maurizio Tiriticco

Ma perché chi scrive in word non impara a utilizzare correttamente la tastiera? Lo so! In effetti si tratta di un passaggio non facile! Un conto è scrivere con la penna/carta; altro conto con il tasto/schermo: ma di questo “altro conto”, in realtà siamo in pochi a tenere un debito… “conto”!

Io – lo confesso – sono stato aiutato da anni di lavoro redazionale, per cui conosco – o almeno penso di conoscere – tutte le difficoltà di una scrittura a “stampa”, difficoltà che non si rilevano, non appaiono, nella scrittura con la penna. Qualche esempio. Nel capoverso (si chiama così) in cui sto scrivendo, sono apparse quattro lineette ( – ) che non vanno confuse con i trattini ( – ). Specifico la differenza che corre tra il trattino ( – ) e la lineetta ( – ). Il trattino si usa per le espressioni del tipo centro-sinistra o Emilia-Romagna. La lineetta si usa nel corso di un periodo. Esempio: La vicenda di cui si parla – si veda l’articolo di “la Repubblica” di oggi – non è stata trattata da altri quotidiani. La linetta non esiste – infatti il correttore me lo segnala in rosso – se non come diminutivo di Lina, quindi Linetta! Seguono alcune considerazioni.

Una cosa è una “e” senza accento, congiunzione, altra cosa è una “è” con l’accento grave, voce del verbo essere, altra cosa una “é” con l’accento acuto come in “perché”, “affinché”. Nella scrittura a penna queste differenze non compaiono! Ricordiamo: le nostre vocali non sono cinque, ma sette: a, i, u, è, é, ò, o. Caffè (non caffé, come perché); céra e primavèra; Como e comò; pero e però.

L’uso delle parentesi tonde. Mai una parentesi e poi uno spazio: la parola segue immediatamente; mai uno spazio prima della chiusura della parentesi. Se dovessimo accentare (non accentuare, ovviamente, che è un’altra cosa) per scritto il periodo che segue, dovremmo scrivere: “Io hò vinto un terno al lòtto; loro no”. Tra il “lòtto” come gioco e “io lòtto”, c’è una bella differenza, ma l’accento, non indicato, non me lo dimostra. La “u” ha un solo accento (più); la “e” ne ha due (come sopra: perché e caffè).

L’uso della slash, o barretta: /. Si scrive solo quando tra il primo elemento scritto e il secondo c’è una certa contiguità o continuità. Esempio: lo sviluppo/crescita di un bambino; ed ancora: l’insegnamento/apprendimento; o l’apprendimento/insegnamento; il biennio 1890/1892; il dibattito idealismo/marxismo. Ed ancora: “Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o luoghi e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale”.

Attenzione! Il linguaggio pubblicitario si sottrae a queste regole; pertanto, non occorre mai prenderlo come esempio per una scrittura corretta.

Occorre anche considerare le funzioni che un linguaggio assume. Ad esempio, un conto è dare un’informazione; altro conto e imporre un ordine; altro conto è porre una domanda, e così via. Il noto linguista russo Roman Jakobson ha individuato sei funzioni linguistiche, a seconda del fine che un parlante/scrivente si propone: ad esempio, un conto è dare una informazione, altro conto è chiederla, altro conto è esprimere una meraviglia, e così via. Le sei funzioni sono le seguenti: referenziale, se il riferimento è al contesto, all’oggetto di cui si parla o si scrive; emotiva, riferimento al parlante/scrivente; conativa, riferimento al destinatario; fàtica (dal latino for, faris… parlare, non fatìca), riferita al tipo di contatto tra due interlocutori (immediato o mediato da qualche mezzo, una lettera, il telefono, il cellulare, ecc.); poetica, riferita al messaggio; metalinguistica, riferita al codice adottato tra i due interlocutori. Ad esempio una funzione conativa “calda” (un comando, una dichiarazione d’amore, un insulto) è altra cosa rispetto a una funzione informativa, in genere “fredda”… che però diventa “calda”, ad esempio, se la banca mi informa che il mio conto è a zero. E ancora: la morte del nonno può provocare dolore nel nipote affettuoso o una grande gioia nel nipote erede di un lascito cospicuo (attenzione! Non si scrive “cospiquo”, anche se la lettura o l’ascolto sono i medesimi). Che strano! Diciamo cuggino o colleggio, ma dobbiamo scrivere cugino o colegio. Infine, per quanto riguarda un’anali seria del linguaggio, non vanno dimenticati gli “analitici inglesi” (vedi ad es. Williams, Bernard – Montefiore, Alan, a cura di, Filosofia analitica inglese, Lerici, Roma, 1967). E rinvio anche alla “Teoria degli atti linguistici”(locuzione, illocuzione, perlocuzione) di Marina Sbisà.

Occorre anche considerare che all’interno del linguaggio comune, quello del vocabolario – l’insieme delle parole – e quello della grammatica – le regole con cui si combinano le parole – si collocano anche i linguaggi settoriali: quello dei medici, quello degli avvocati, quello degli ingegneri, quello tipico di tutti i linguaggi tecnici. Spesso certi vocaboli cambiano di significato e di funzione a seconda dell’area linguistica settoriale in cui vengono usati. Ad esempio, una “operazione” assume significati diversi a seconda che si tratti di un linguaggio aritmetico, medico, militare, economico, bancario. Da sottolineare che il participio presente “significante”, usato per sottolineare qualcosa di particolarmente importante, rilevante, nella linguistica saussuriana costituisce la componente fono-acustica, materiale – direi – utilizzata per esprimere un dato significato. Posso anche ricordare che Ferdinand de Saussure soleva dire che il significante (ciò che un “segno” vuole esprimere) e il significato (il “segno” espresso) non sono separabili, in quanto sono come le due facce dello stesso foglio.

Infine, mi piace ricordare la differenza che corre, secondo Chomsky, tra la struttura profonda (di un discorso, o di un pensiero non formulato) e la struttura superficiale del linguaggio (quando di fatto si parla o si scrive). La prima è comune a tutti i parlanti umani (sta dentro le loro teste fin dalla nascita), i quali, poi, quando “parlano” concretamente, adottano le strutture superficiali, appunto, di “quei” parlanti e non di “altri”, di quel Paese e non di un altro. Un bambino nato da genitori italiani, ma adottato da subito da genitori di un’altra cultura, parlerà “imitando” la lingua dei nuovi attanti.

Chomsky pensa che il linguaggio sia un fatto innato umano, potremmo dire. Ma il de Saussure non è affatto d’accordo. Per lui la lingua, la “langue” è un fatto culturale sociale, costruito nei secoli. La “parole” è l’espressione della langue in un dato contesto socio/culturale. Da notare che ho usato lo slash, non il trattino: Perché? Al lettore l’ardua sentenza…

Lo stesso vale per ‘langue’ e ‘parole’, termini/concetti che vanno rigorosamente mantenuti in francese, anche se hanno la rispettiva traduzione italiana. La langue è strutturata secondo una grammatica (ortografia, morfologia e sintassi) ed è stata convenzionalmente stabilita (non nasce, insomma, dal caos né tantomeno ad esso è soggetta); è un fatto sociale, dunque: un sistema di riferimento per ogni singolo parlante o scrivente. La parole, invece, è un fatto individuale, perché riguarda le produzioni linguistiche di ciascuno di noi. In effetti è la “concretizzazione” della langue.

Ed ora basta! Ho chiacchierato un po’ con me stesso, anzi… ho superficializzato le mie strutture profonde!