Riscatto della laurea, è boom di domande. Tutte le info utili

da La Tecnica della Scuola

Il riscatto della laurea piace. Il nuovo sistema agevolato entrato in vigore quest’anno ha fatto impennare le domande per utilizzare gli anni di università per la pensione.

In soli 4 mesi, da marzo a luglio, secondo i dati più aggiornati dell’Inps, le richieste sono state oltre 32mila, contro le circa 29mila totalizzate nell’intero 2018.

La maggior parte arrivano dai lavoratori del privato (27.348), mentre quelle del settore pubblico si fermano a 5.149.

L’incremento è stato forte soprattutto nei primi mesi di applicazione della misura: si passa infatti da 5.920 istanze a marzo, il mese in cui sono entrate a regime le nuove norme, a 7.020 in aprile fino alle 8.060 di maggio.

A giugno si riscende a 6.267 e a luglio a 5.230.

Riscatto della laurea, è boom di domande

I lavoratori iscritti alla gestione privata e alla gestione pubblica dell’INPS (per i periodi assicurativi che si collocano nel sistema contributivo) nonché i lavoratori e iscritti al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti e alle gestioni speciali di artigiani, commercianti, coltivatori diretti e coloni mezzadri (anche per i periodi collocati nei sistemi retributivo e misto) hanno uno strumento per valutare se valorizzare o meno gli anni universitari ai fini pensionistici.

L’INPS ha, infatti, reso disponibile un simulatore per calcolare l’onere da versare al fondo pensionistico di appartenenza.

L’INPS, con comunicato del 17 luglio 2019, ha reso noto che è disponibile sul portale istituzionale un simulatore mediante il quale si può calcolare la somma da versare al fondo pensionistico di appartenenza per riscattare gli anni del periodo di studi universitario.
Questo strumento, grazie al quale si può valutare se valorizzare o meno gli anni universitari ai fini pensionistici, può essere utilizzato dagli iscritti alla gestione privata e alla gestione pubblica, per i periodi che si collocano nel sistema contributivo, e dagli iscritti al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti e alle gestioni speciali di artigiani, commercianti, coltivatori diretti e coloni mezzadri, anche per i periodi collocati nei sistemi retributivo e misto.

Metodi di calcolo

È utile ricordare che il metodo di calcolo retributivo si applica ai periodi collocati:

– precedentemente al 1° gennaio 1996;

– fino al 31 dicembre 2011, in caso di un’anzianità contributiva pari ad almeno 18 anni di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995.
Al contrario, il metodo di calcolo contributivo si applica ai periodi collocati:
– successivamente al 31 dicembre 1995, in caso di un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni tale data;
– successivamente al 31 dicembre 2011, in caso di un’anzianità contributiva pari ad almeno 18 anni di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995.

Simulazione di calcolo dell’onere di riscatto

Così come segnala l’Inps, lo strumento di simulazione consente di effettuare il calcolo dell’onere di riscatto, sulla base dei dati immessi e con riferimento all’anno corrente.

L’importo ottenuto ha mera valenza orientativa e potrebbe discostarsi da quello effettivo che sarà comunicato con apposito provvedimento, a seguito della presentazione della domanda di riscatto.

Si rammenta che l’onere in parola è determinato in base alle norme che disciplinano la liquidazione della pensione con il sistema retributivo o con quello contributivo, tenuto conto della collocazione temporale dei periodi oggetto di riscatto.

Si ricorda, a tal proposito, che rientrano nel sistema di calcolo retributivo i periodi:

  • precedenti al 1° gennaio 1996;
  • fino al 31 dicembre 2011, se il richiedente abbia maturato 18 anni di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995.

Rientrano, invece, nel sistema di calcolo contributivo i periodi:

  • successivi al 31 dicembre 1995, se a tale data il richiedente non abbia maturato 18 anni di contribuzione;
  • successivi al 31 dicembre 2011, nei casi in cui il richiedente abbia maturato 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995.

Dati necessari per il calcolo dell’onere di riscatto

Una volta effettuata la scelta della gestione previdenziale nella quale si intende simulare il calcolo, scelta obbligatoria e propedeutica al perfezionamento dello stesso, l’utente dovrà inserire nel simulatore i seguenti dati, affinché la simulazione vada a buon fine:

anno di iscrizione all’Università;

numero di rate in cui frazionare il pagamento;

periodo o periodi da riscattare “dal…al” afferenti lo stesso anno solare.

In riferimento alle gestioni previdenziali per cui è possibile effettuare la simulazione del calcolo dell’onere di riscatto laurea nel solo sistema contributivo, oltre ai dati menzionati, la procedura richiede all’utente di inserire la retribuzione degli ultimi 12 mesi.

Se l’interessato seleziona un fondo per il quale ad oggi è possibile eseguire una simulazione solo nel sistema contributivo (Fondi speciali, Gestione pubblica, ecc.) e indica uno o più periodi collocati nel sistema retributivo, la simulazione non viene eseguita. In tal caso, appare un messaggio di “alert” con l’indicazione di rivolgersi alla Struttura Inps territorialmente competente per ottenere la simulazione richiesta.

Lo stesso messaggio di “alert” compare ogni qualvolta la simulazione non può andare a buon fine poiché si sono verificati errori nella elaborazione del conto, che necessitano dell’intervento dell’operatore Inps. Anche in tali casi si invita l’utente a rivolgersi alla Struttura INPS territorialmente competente.

Si ricorda, infine, che lo strumento di simulazione è stato realizzato tenendo conto del nuovo comma 5-quater dell’articolo 2 del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184, introdotto dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, secondo cui, per le domande presentate a decorrere dal 29 gennaio 2019, è previsto un ulteriore sistema di calcolo dell’onere di riscatto del corso di studi nei casi in cui la domanda di riscatto riguardi periodi che si collochino esclusivamente nel sistema di calcolo contributivo.

Per maggiori dettagli, all’interno dell’applicativo per la presentazione telematica della domanda di riscatto laurea è a disposizione l’edizione aggiornata del manuale per gli utenti, che illustra anche la simulazione del calcolo dell’onere nei casi in cui si scelga il nuovo metodo di calcolo sopra descritto.

Riscatto della laurea, come presentare la domanda

La domanda può essere presentata dal diretto interessato o dal suo superstite o, entro il secondo grado, dal suo parente e affine. In tutte queste ipotesi, l’onere versato è detraibile dall’imposta lorda nella misura del 50%, con una ripartizione in cinque quote annuali costanti e di pari importo nell’anno di sostenimento e in quelli successivi.

Per i lavoratori del settore privato, la domanda di riscatto può essere presentata anche dal datore di lavoro dell’assicurato destinando, a tal fine, i premi di produzione spettanti al lavoratore. In tal caso, l’onere versato è deducibile dal reddito di impresa e da lavoro autonomo e, ai fini della determinazione dei redditi da lavoro dipendente, rientra nell’ipotesi di cui all’articolo 51, comma 2, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.

Nei casi in cui la domanda sia presentata dal parente o affine o dal datore di lavoro, in fase di presentazione della stessa è necessario che sia acquisito il consenso del soggetto interessato.

La domanda da parte del diretto interessato o suo superstite si presenta online all’INPS attraverso il servizio dedicato. In alternativa, può essere effettuata tramite:

Contact center al numero 803 164 (gratuito da rete fissa) oppure 06 164164 da rete mobile;

Enti di patronato e intermediari dell’Istituto, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi.

Nel caso di presentazione della domanda da parte del datore di lavoro, dei parenti e affini entro il secondo grado, in attesa dell’implementazione della procedura per l’invio telematico, le domande sono presentate utilizzando il modulo reperibile online.

Riscatto della laurea, vantaggi fiscali

Un aspetto da considerare per il riscatto della laurea è che i versamenti fatti danno diritto a sconti sulle imposte.

Il riscatto della laurea per un figlio a carico che non ha mai lavorato dà diritto alla detrazione del 19% degli importi versati, quindi si pagano meno tasse.

Se si riscatta la propria laurea, invece, si può dedurre l’intero importo versato dal computo del proprio reddito imponibile.

Alla fine di ogni anno si pagheranno perciò le tasse sul proprio reddito decurtato delle cifre versate per il riscatto.

Ecco un facile esempio: se si rateizzano 50.000 euro l’anno per 5 anni, quindi pagando 10.000 euro l’anno, e il proprio reddito è di 50.000 euro l’anno, è come se si guadagnassero 40.000 euro.

Avviso 30 agosto 2019

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali
Direzione Generale per le risorse umane e finanziarie
Ufficio II – Reclutamento e formazione del personale del Ministero

Concorso pubblico, per esami, a 253 posti, per l’accesso al profilo professionale di funzionario amministrativo-giuridico-contabile, area III, posizione economica F1, del ruolo del personale del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, per gli uffici dell’Amministrazione centrale e periferica – (GU n. 25 del 27-3-2018)

Avviso 30 agosto 2019

Ministero dell’Istruzione, dell’ Università e della Ricerca
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione
Direzione generale per il  personale scolastico

Avviso 30 agosto 2019

Concorso dirigenti scolastici. Ulteriore assegnazione dei vincitori alle regioni a seguito di rinunce all’assunzione

Facendo seguito all’avviso prot. n. AOODGPER 38777 del 28 agosto 2019, è pubblicata l’assegnazione ai ruoli regionali di 61 vincitori a seguito dello scorrimento della graduatoria del concorso per Dirigenti Scolastici.

Decreto inclusione: “cose buone ci sono, ma non chiamatela rivoluzione”

Vita.it del 29.08.2019

Scuola. Decreto inclusione: “cose buone ci sono, ma non chiamatela rivoluzione” 

«Alcune cose sono ottime, ad esempio l’ICF è diventato lo standard su cui fare il profilo di funzionamento, mentre su altre cose non ci siamo per niente, come la specializzazione degli insegnanti di sostegno. Complessivamente l’aggettivo che mi viene in mente è “vecchio”», afferma Dario Ianes. «Rivoluzione sarebbe togliere gli insegnanti di sostegno, rendere tutti i docenti corresponsabili dell’inclusione e introdurre nelle scuole una équipe socio-psico-pedagogica, come previsto quarant’anni fa dalla legge 517»

Abbiamo una nuova legge sull’inclusione scolastica. È stato pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale il decreto legislativo n. 96 del 7 agosto 2019 che va a modificare il celeberrimo decreto legislativo n. 66 del 13 aprile 2017, figlio della delega contenuta nella Buona Scuola per migliorare l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, nel solco dell’ICF e della Convenzione Onu. La nuova legge entrerà in vigore il 12 settembre 2019, anche se – c’è da dire – c’è comunque bisogno di alcuni decreti attuativi nonché di una certa riorganizzazione del sistema, dalle commissioni che dovranno certificare la disabilità fino alla nascita dei GTI-gruppi territoriali per l’inclusione che prevedono l’esonero della docenza per circa 450 insegnanti. Se il decreto 66, approvato nel 2017, aveva scontentato bene o male tutti perché il cambiamento atteso non c’era per nulla, su quello attuale c’è un giudizio di luci ed ombre. Con Dario Ianes, professore di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento proviamo a capire le novità.

Quest’anno quindi alunni con disabilità e famiglie troveranno una rivoluzione?
Direi di no, non si accorgeranno di nulla, se non altro perché ci vorrà del tempo per realizzare quanto descritto. Rivoluzione sarebbe togliere gli insegnanti di sostegno, prevedere che tutti i docenti sono corresponsabili e introdurre nelle scuole una equipe socio-psico-pedagogica, come peraltro era previsto quarant’anni fa dalla legge 517, la prima sull’inclusione scolastica. Dare un giudizio globale è difficile, alcune cose sono ottime, ad esempio l’ICF è diventato lo standard su cui fare il profilo di funzionamento, mentre su altre cose non ci siamo per niente, ad esempio la specializzazione degli insegnanti di sostegno, in particolare per la secondaria. Bisognerebbe dare un giudizio pezzo per pezzo. Complessivamente l’aggettivo che mi viene in mente è “vecchio”: sono sempre le stesse cose, la certificazione, l’insegnante di sostegno… Ecco, direi che questo è un regolatore di antichità, certo non una rivoluzione copernicana. È un imbullonare il sistema vecchio, mettendoci anche qualcosa di buono.

Quali sono le cose buone?
Bisogna dare atto che l’articolo 1 è meraviglioso. Poi però si cambia subito registro e per tutta la legge si parla solo di inclusione degli alunni certificati. L’inclusione invece dovrebbe riguardare tutti gli alunni, con ogni tipo di differenza, non solo quelli che hanno la certificazione ai sensi della 104. Peraltro il MIUR ha da poco pubblicato i dati sugli alunni con DSA nell’anno scolastico 2017/18 e ci sono dati impressionanti, per cui al Sud Italia le diagnosi sono un quarto rispetto al Nord Ovest, è un divario discriminatorio, significa o che al Sud non ci sono bambini e ragazzi con dislessia o che lì la filiera dei servizi non funziona. È inclusione anche questa. Se inclusione è quella che l’articolo 1 promette… devi fare conseguentemente una serie di misure che si applicano a tutti, anche agli alunni con DSA, a quelli con BES e pure a chi ha un grandissimo potenziale intellettivo.

Altro?
Un punto positivo da segnalare è che c’è finalmente c’è una parte sulla valutazione della qualità dell’inclusione scolastica e si dà incarico a INVALSI di elaborare dei criteri che poi entreranno nella autovalutazione delle scuole. È importante, non si può più andare avanti a dire che in Italia facciamo tutti bene l’inclusione. La massima positività è che l’ICF è diventato lo standard su cui elaborare il profilo di funzionamento, dopo 20 anni. È una cosa ottima, sono molto contento. Ma qui cominciano i problemi.

Perché?
La sanità ha acquisito l’ICF con fatica, è stata più lenta e ha avuto più resistenze ad avere quella visione globale della persona che è il cuore dell’ICF. Il mondo pedagogico ha colto di più la novità. Il fatto è che nel nuovo decreto c’è comunque uno sforzo tremendo sul tema della certificazione, c’è un percorso ad ostacoli figlio della volontà di evitare abusi, per cui il medico dà un timbro che ti fa entrare nel novero dei soggetti aventi certi diritti. La composizione delle commissioni è migliorata, ok, prima c’erano cose assurde ora invece la commissione multidisciplinare che fa il profilo di funzionamento è composta bene, ci sono anche la scuola e la famiglia che collaborano, ma il ruolo della sanità resta centrale e la sanità, come dicevo prima, non ha ancora assimilato l’ICF.

Un successo è l’aver riportato nel PEI la definizione del numero delle ore di sostegno.
Sì, il decreto 66 allontanava il momento decisionale dalla scuola, era nel GIT e poi all’Ufficio scolastico, adesso con il GLO viene dato più ruolo agli insegnanti, alla scuola, alla famiglia… a quelli che conoscono bene il ragazzo. A me però preme sottolineare che su questo è la logica ad essere vecchia e sbagliata: molte famiglie combattono per avere più ore di sostegno, come se un alunno avesse uno zainetto con dentro le “sue” ore di sostegno, un gruzzoletto personale a cui ha diritto, perché sono risarcitorie. Una logica vecchia che pensa ad una attribuzione speciale di ore speciali perché sei certificato.

Quali criticità vede invece? Accennava alla specializzazione degli insegnanti di sostegno…
Esatto. Intanto di quelli della scuola secondaria praticamente non si parla, come se non esistessero. Le associazioni hanno chiesto per gli insegnanti di sostegno più specializzazione, 60 crediti in più, che sono un anno di università. In pratica 5 di scienze della formazione più uno di specializzazione, ma per farlo devi avere 60 crediti sulla didattica inclusiva: in pratica sette anni, come medicina. Le facoltà sono tutte in allarme, perché nessuno sa dove si devono trovare quei 60 crediti e dal decreto non si capisce. In più c’è una grande frattura tra chi vuole fare l’insegnante di sostegno all’infanzia e alla primaria e chi lo vuol fare alla secondaria. Lì, tolto il FIT, resta la laurea, il concorso per il sostegno e un anno di prova, dopodiché vado a ruolo avendo fatto pochissima formazione sulla didattica inclusiva. Nella secondaria però la carriera tra insegnante curricolare o di sostegno si biforca subito e questo a mio giudizio non è propriamente una scelta che esprime una logica inclusiva.

Un altro punto su cui, francamente, da non addetto ai lavori si capisce poco o nulla è tutto quel fiorire di sigle di organismi di supporto: GIT, CTS, CTI…
Il supporto tecnico su cui la scuola può contare per l’integrazione, è un altro punto debole. Non c’è una struttura chiara, si sovrappongono le competenze… Nella legge 517/77 – quella che ha stabilito il principio dell’inclusione scolastica – si prevedevano due cose: gli insegnanti specializzati e un servizio di supporto socio-psicopedagogico che nelle scuole desse un aiuto concreto agli insegnanti. Non si è mai visto. Abbiamo visto invece crescere il numero degli insegnanti di sostegno, 154mila, alcuni dei quali senza nessun titolo per esserlo. Quindi delle due misure immaginate dal legislatore, una ha preso un grande abbrivio e una non è mai nata, perché la scuola tende ad essere un’isola autoreferenziale. Io sono convinto che la storia dell’inclusione scolastica sarebbe stata diversa se da 40 anni avessimo dato un supporto competente alla scuola, invece di lasciare gli insegnanti al fai da te, nella solitudine. Ecco, questa sì che sarebbe una rivoluzione.

di Sara De Carli

Disabilità: un nuovo Governo per sfide antiche

Disabilità: un nuovo Governo per sfide antiche

Ascoltando con attenzione il primo apprezzato intervento del professor Giuseppe Conte, incaricato oggi di formare il nuovo Governo, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap non può che esprimere conseguenti aspettative per le condizioni di vita di milioni di persone con disabilità e per i loro familiari. Sono istanze complesse, note, drammaticamente presenti in tante quotidianità di Cittadini che vivono in Italia, ma che ancora non hanno trovato adeguate e strutturali risposte.

Quindi quando Giuseppe Conte pone al centro dell’architettura del programma di Governo, al pari della sostenibilità e delle sfide economiche, temi quali l’uguaglianza, l’inclusione sociale, il superamento delle disparità di genere, territoriali, di condizioni personali, non possiamo che ritenere che tutto ciò riguardi anche la disabilità, peraltro schiettamente richiamata dal Presidente incaricato.

Ci aspettiamo allora che l’attenzione alla disabilità trovi ancora maggiore espressione nel programma che verrà elaborato con le forze politiche della nuova maggioranza, orientando concretamente l’azione governativa e, vogliamo sottolinearlo, stimolando anche quella parlamentare.

In questo senso non va interrotto il percorso iniziato con l’istituzione del Ministero per le Disabilità e la Famiglia, ma anzi ne va ridisegnato il ruolo, rafforzandone le attribuzioni delegate, la struttura, le competenze in modo che non possa essere ritenuto una “riserva” in cui confinare un tema considerato erroneamente marginale, ma che diventi davvero la cabina di regia e di monitoraggio affinché tutte le politiche – tutte, non solo quelle di “settore” – assumano sempre come rilevante la disabilità che riguarda milioni di persone.

E di questioni aperte, di sfide antiche, ce ne sono parecchie e sempre più urgenti: la revisione dei criteri per il riconoscimento delle disabilità funzionali all’inclusione e ai progetti personali; le misure e i servizi per il sostegno alla buona occupazione e al mantenimento del posto di lavoro; i supporti per i caregiver familiari; le misure per favorire la vita indipendente, il diritto all’autodeterminazione, le pari opportunità; i sostegni e i servizi per l’abitare; il miglioramento dell’inclusione scolastica; l’accesso ai diritti e alla partecipazione civile; gli interventi per migliorare la mobilità, l’accessibilità e la qualità dei luoghi e dei servizi; il diritto alle cure migliori, all’abilitazione, alla diagnosi; il contrasto alla discriminazione plurima ad iniziare dalle condizioni di vita delle donne e delle ragazze con disabilità; il contrasto deciso all’impoverimento derivante dalla disabilità. E tantissimi altri nodi già ben indicati nella Convezione ONU sui diritti delle persone con disabilità che attende nel nostro Paese, a dieci anni dalla ratifica, adeguata attuazione. Un’indicazione il nuovo Governo ce l’ha già: è il Programma d’azione biennale approvato nel 2017 ma ancora lettera morta per l’assenza di una efficiente regia e di una volontà politica conseguente.

Se questa intende essere una stagione di riforme, non potranno essere eluse ancora queste istanze preliminari e indispensabili a quell’equità e inclusione apprezzabilmente invocate oggi da Giuseppe Conte e, ci auguriamo, accolte e sviluppate domani dalle forze politiche.

Cattedre vuote e stipendi impoveriti

USB Scuola: Cattedre vuote e stipendi impoveriti. Per una scuola che funzioni meno alunni per classe e assunzioni.

Le notizie sull’avvio dell’anno scolastico sono davvero inquietanti. Secondo il Messaggero in Lazio ci saranno 2.000 cattedre scoperte e in Sicilia più di 3.000 solo sul sostegno; mentre, secondo quanto riportato dai giornali locali, in Lombardia le cattedre scoperte saranno addirittura 13.000. Sono pezzi di un quadro davvero preoccupante. Anche quest’anno i dirigenti scolastici dovranno non solo scorrere completamente le graduatorie di Terza Fascia, ma anche chiamare chi si mette a disposizione senza altri titoli se non la laurea, solitamente giovani neolaureati, ma negli ultimi anni anche persone più mature espulse dal mercato del lavoro. Le cose non vanno meglio in realtà per il personale ATA, soprattutto per i collaboratori scolastici e gli applicati di segreteria, ormai in cronico sottorganico.

Da anni USB scuola si batte per un sistema di formazione e reclutamento docenti stabile, giusto, gratuito, che tenga conto degli anni di servizio prestati nella scuola statale e non sia un percorso ad ostacoli. Un sistema di reclutamento che deve necessariamente affiancarsi ad altri provvedimenti, che chiediamo da sempre: la conversione dell’organico di fatto in diritto, la messa a ruolo di tutti i posti nell’organico di diritto compresi i posti lasciati liberi da quota 100, la riduzione degli alunni per classe, la stabilizzazione delle cattedre di sostegno in deroga, il rispetto dei vincoli di legge per quel che riguarda il numero degli alunni nelle classi con la presenza di disabili. Tutto ciò a partire da quell’adeguamento reale degli organici, bloccati ormai dai tempi della famigerata riforma Gelmini, per il quale continuiamo a batterci.

Questa situazione, a dir poco vergognosa, cui nessun governo ha realmente messo mano, se non per peggiorare la situazione, come ha fatto Renzi con la L. 107 e i suoi provvedimenti fallimentari, a partire dalla chiamata diretta, si protrae e produce continuamente nuove categorie e sottocategorie di precari, che i provvedimenti disarticolati dei diversi governi finiscono per mettere gli uni contro gli altri: si cominciò nei primi anni 2000 con la contrapposizione tra vincitori di concorso, vincitori del concorso riservato e Sissini; siamo arrivati allo scontro tra seconde e terze fasce, TFAini e PASini; docenti di ruolo esiliati dalla 107 che vogliono tornare a casa e giovani precari del Sud; ex-LSU che hanno diritto alla stabilizzazione e personale ATA precario, in un continuo gioco al massacro per i lavoratori, cui noi come USB ci siamo sempre fermamente opposti: la soluzione sta in una lotta dei lavoratori della scuola per un aumento degli organici e la loro stabile copertura. Questa è la sola battaglia unitaria da portare avanti da tutti e per tutti.

Ma c’è una questione ancora più di fondo che è necessario sviscerare e affrontare, soprattutto alla luce delle inquietanti dichiarazioni del governatore della Lombardia, Fontana, secondo cui questa situazione potrebbe essere sanata dall’autonomia differenziata: la questione meridionale, mai risolta in questo paese e acuitasi ulteriormente da quando con la seconda Repubblica si è completamente dismesso ogni tentativo di supporto a un reale sviluppo del Sud Italia, da sempre colonia interna da sfruttare e, al massimo, corteggiare sotto elezioni. Se lo sviluppo industriale di questo paese si concentra nelle regioni del Nord, il flusso migratorio sia interno che esterno verso queste regioni, dove, seppur precario e sottopagato, il lavoro c’è, garantisce una popolazione scolastica se non in crescita, comunque stabile. Ciò produce una richiesta decisamente maggiore di docenti e personale della scuola tutto al Nord, rispetto ad un Sud, dove sono anche stati tagliati i posti in organico oltre ogni ragionevole limite. Questo produce necessariamente la migrazione dei giovani laureati del Sud, dove il tasso di disoccupazione giovanile supera il 50%, verso il Nord per poter insegnare. Laureati che in parte si stabiliranno nelle regioni di approdo, con il portato di sradicamento e di impoverimento sociale delle loro regioni di origine che ben conosciamo, ma in parte, una volta entrati in ruolo, tenteranno invece di tornare al Sud, provocando una saturazione dei pochi posti lì a disposizione e rafforzando questo circolo vizioso, che tanto contribuisce, peraltro, alla crescita dei pregiudizi e della diffidenza tra Nord e Sud che ha fatto la fortuna di quel partito xenofobo, al servizio dei padroncini del nord e schiettamente razzista, che è la Lega di Matteo Salvini.

USB Scuola, dunque, non può che ribadire al governo M5S- PD, che in queste ore sta nascendo, le richieste che più volte ha fatto ai governi precedenti: aumento dell’organico di diritto, diminuzione degli alunni per classe, stabilizzazione del precariato, scelta di un percorso di formazione e reclutamento ragionevole, che tenga conto degli anni di servizio e gratuito. Il tutto a garanzia di una scuola pubblica e statale inclusiva e omogenea nelle risorse su tutto il territorio nazionale. Ribadiamo infatti che l’autonomia differenziata altro non è che la legalizzazione degli squilibri e delle ingiustizie sociali che caratterizzano questo paese ed è inaccettabile sia perché lederebbe i diritti dei lavoratori – nessuno crede agli aumenti salariali che sappiamo bene che non compenserebbero mai legati l’aumento già considerevole dei carichi di lavoro e che sarebbero solo per pochi come il fondo del bonus di merito ha dimostrato in questi 3 anni – ma anche e soprattutto il principio di solidarietà e redistribuzione delle risorse fondante della Costituzione della Repubblica Italiana.

PRECARI: IL NUOVO GOVERNO ‘RIPESCHI’ IL DECRETO

PRECARI, GILDA: IL NUOVO GOVERNO ‘RIPESCHI’ IL DECRETO   
“Con la mancata pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto precari si getta alle ortiche un’occasione importante per stabilizzare migliaia di docenti, che da anni lavorano nelle nostre scuole con contratti a termine, e si tradiscono le loro legittime aspettative. È evidente che il provvedimento sia naufragato perché non c’è stata la volontà politica di firmarlo da parte di tutti i ministri”. A dichiararlo è Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, che auspica comunque un ‘ripescaggio’ del decreto: “Il provvedimento in questione – ricorda Di Meglio – è la traduzione in atto legislativo dell’accordo siglato il 24 aprile scorso a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio con i sindacati dopo una lunga e faticosa trattativa. Nonostante il cambio di Esecutivo, ci auguriamo che Giuseppe Conte, al quale è stata affidata nuovamente la guida del Governo, mantenga fede all’impegno assunto con i sindacati quattro mesi fa e concretizzatosi con il decreto legge licenziato il 6 agosto scorso dal Consiglio dei Ministri con la formula ‘salvo intese’”.
La Gilda degli Insegnanti sottolinea che, oltre alla partita dei precari, nell’intesa siglata ad aprile sono in gioco gli aumenti stipendiali che il prossimo rinnovo contrattuale dovrà prevedere e l’autonomia differenziata. “Su questo ultimo punto – conclude il coordinatore nazionale – chiediamo che la scuola continui a restare fuori da qualunque ipotesi di regionalizzazione”.

Droga e silenzi assordanti

Droga e silenzi assordanti

di Vincenzo Andraous

Chissà mai perché sul problema delle dipendenze, dell’assunzione di droga, c’è sempre a fare da voltagabbana la disinformazione, la politica d’accatto, come se fosse un disagio sociale del tutto periferico, appartenente ai soliti giovanissimi, invece che ai volti nuovi e alle conseguenti carni zigrinate dagli inciampi, dalle droghe tutte, dagli abbandoni seguiti a catena. C’è che la droga non conosce intoppi o rimandi, è sempre lì a ogni angolo di strada, sottocasa, proprio dove ti aspetti di trovarla.  

Viene da pensare agli abiti vecchi e al tempo che ogni cosa riporterà al suo posto, ma io che di tempo ne ho avuto tanto, a ben pensare non so ancora bene cos’è, figuriamoci se posso spiegarlo ad un giovanissimo che del tempo a venire non sa che farsene.

Mi rendo conto che nel tentativo di “tirare fuori”, di costruire e crescere insieme, non può resistere all’usura del tempo chi parte per “questa avventura” con un bagaglio di certezze inossidabili, di regole intransigenti, di binari singoli.

E’difficile sapere, conoscere e agire, quando un giovane se ne sta impettito, a muso duro, felice di avere scelto il vicolo cieco, è davvero difficile spiegargli quanto è doloroso, POI, il resto che se ne ricava.

Sulla droga prevenire con progetti condivisi e realizzabili rimane spesso una intuizione che soccombe alle pressioni economiche-politiche: reprimere costa meno che prevenire, ma il risultato è l’accettazione dell’esclusione, del “sei fuori dal gioco e ci rimani “.

Quando sento di un ragazzo o di una persona adulta che soccombono, che si uccide di eroina, o peggio che uccide gli altri, gli innocenti, perchè sballato guida o pensa di essere diventato invincibile, mi chiedo quale può essere il metro di misura da usare con chi è lacerato dentro, se poi questa vista prospettica richiesta è annebbiata dalla roba.

L’impressione che si ricava nel camminare insieme alle tante lentezze e devastazioni interiori, è che non solo è difficile ben operare a causa della marea di disagio dilagante, ma lo è anche soprattutto per l’avanzare di nuove forme di malessere, che non hanno più l’etichetta protestataria di un tempo. Malessere che si insinua più facilmente in chi non ha strutture mentali formate, in chi nell’evoluzione intellettuale ha ceduto sotto il peso di una libertà inconsciamente percepita come una prostituta, per l’incapacità ad onorare reciprocamente le proprie responsabilità. La droga è un disagio che intacca aree di vita in maniera sempre più esponenziale, ogni volta che un adolescente inceppa il potente meccanismo sociale, c’è qualcuno che innalza bandiere “giustificanti”, con qualche artificio clownesco portiamo in scena la rappresentazione sulla vita, poco importa se virtuale, su come viverla al meglio, infine, come sopravviverle quando non è di nostro gradimento.

Nel frattempo si ripetono accadimenti tragici, che non posseggono alcuna attrattiva se non quella di seminare indifferenza per chi è piegato in due dalle proprie fragilità e dalle proprie rese. Giovani alla spicciolata, uno sparo diritto a ogni banale conformità, a ogni inconfessabile obbedienza, che pesa come un macigno, insopportabile da trascinare appresso. Sulla droga sappiamo tutto, oppure per non pagare dazio non sappiamo niente, nonostante ciò si muore nel rumore e nel silenzio, in modo consapevole e più impertinente verso la vita trasformata in una danza inarrestabile in onore della sordità, del rigetto, del disamore. Si muore muovendo il corpo, ma non vedendo, non sentendo, non capendo più che c’è anche domani, si muore in gruppo, dentro il recinto, fuori da ogni reale condivisione, senza la pietà della compassione, privati di una mano amica a sorreggerti, accompagnarti, accoglierti. Mentre qualcuno si affanna a rimarcare che non tutta la droga fa male, che c’è quella buona e quell’altra cattiva, intorno ci sono quelli che allora provano per curiosità, per passioni incrociate che hanno l’esigenza di incontrarsi, di conoscersi, come fa la musica, alfabeto e vocabolario per riuscire a parlare tra irrequieti che in fondo non sono affatto. Forse occorrerebbe avere più attenzione sulle parole d’ordine, sulle immagini, che vorrebbero possedere carisma sufficiente per un pensiero di socialità, di unità e libertà. Forse è necessario usare le parole con un linguaggio che non fa curve inesistenti, dichiarando che l’alcol, la droga, qualche lama di coltello, non possono apparire come una periferia ambulante ove ognuno nel fine settimana può ritornare a “essere” qualcosa di non meglio definito. Continuo a pensare che siamo arrivati a un punto in cui c’è bisogno di una rinascita sociale di relazioni intelligenti, non perchè elitarie, ma perché sane e equilibrate, mai affidate a comportamenti che sbaragliano letteralmente la possibilità di continuare a crescere e migliorare insieme.  La droga c’è, forse il mondo adulto è scomparso.

La scuola, il governo, i concorsi, i ricorsi…

La scuola, il governo, i concorsi, i ricorsi…

di Maria Grazia Carnazzola

L’azione del Governo si arresta…”, così Giuseppe Conte nel suo discorso al Senato il 20 agosto 2019 nel corso del quale dichiara di rimettere il proprio mandato di Presidente del Consiglio. Nel discorso c’è stato posto anche per la scuola. “Ogni giovane che parte e non ritorna è una sconfitta per il nostro Paese” e ancora “…come imparare è più importante di cosa imparare, creando attitudine a migliorare le conoscenze.”   Già, il Governo si arresta e la Scuola, che nel nostro Paese non è mai in cima al pensiero dei politici, rimane in bilico tra concorsi ordinari e straordinari, aggiustamenti di aggiustamenti per l’inclusione, discorsi sulla meritocrazia, l’insegnamento obbligatorio dell’Educazione Civica, il monitoraggio – se mai lo si sta conducendo – sull’attuazione del Decreto 61/2017, sulla valutazione, degli apprendimenti, del servizio, dei Dirigenti Scolastici, sulla rendicontazione sociale…

Tutte cose che rimangono in sospeso. Ma la domanda è: da quanto tutto questo è in sospeso? Quanto le vicende della scuola dipendono dall’azione e dalla visione partitica di questo o di quel ministro, dalle mediazioni di questo o di quel governo, e quanto viene da lontano, da molto lontano? E quanto il mondo della scuola è responsabile di questa situazione?

Quello che viene maggiormente discusso e tiene banco nel dibattito sui media, è oggi la questione del reclutamento dei docenti, argomento senza dubbio centrale se si è convinti che c’è bisogno di una scuola che realizzi, ripensandolo, il cambiamento e non lo subisca, ispirata ai nuovi paradigmi culturali, sociali, psico-pedagogici, organizzativi. La qualità della formazione delle giovani generazioni dipende ancora molto dal sapere degli insegnanti, dalla loro cultura pedagogica, dalla loro professionalità che sono altro e di più del sapere disciplinare, indispensabile ma oggi quanto mai non sufficiente. Umberto Cerroni, molto tempo fa, sosteneva che la più grande minaccia sta diventando la “mezza cultura” e che l’unico rimedio per contrastarla e quello di alzare il livello generale dell’istruzione. Solo una cultura critica e diffusa può evitare una catastrofe culturale. C’è bisogno di ripensare strutturalmente la scuola e solo chi ci lavora può farlo, ma per farlo deve percepire l’urgenza e la necessità del cambiamento, riconoscendo e dando forma e significato ai problemi reali e curando la propria formazione iniziale e permanente.

La natura del problema.

Diceva Piaget che una scienza non si sviluppa se non in funzione dei bisogni e degli stimoli dell’ambiente sociale.  Accettando questa premessa, viene da sé che spetta alla Società indicare i fini dell’educazione delle giovani generazioni. E lo fa in due momenti: veicolando informalmente una visione del mondo, della famiglia, dei gruppi sociali, degli usi e delle consuetudini – anche attraverso i linguaggi-, cioè attraverso le pratiche che fondano e trasformano la Società stessa. E lo fa affidando allo Stato, e alle sue istituzioni, il compito formale di promuoverne i percorsi di sviluppo, tenendo conto delle relazioni esistenti tra la vita sociale e l’educazione, tra la scelta dei mezzi e il raggiungimento degli obiettivi. Da una parte, quindi, gli insegnanti, intesi come categoria sociale (reclutamento, strutture gerarchiche, visioni della professione …), dall’altra gli allievi, (la loro origine sociale, i livelli raggiunti, i disequilibri, le disomogeneità…).

Secondo Piaget, sono i problemi relativi alla popolazione scolastica quelli a cui sarebbe da riservare la massima attenzione. Ma si ha l’impressione che non sempre sia così. Pare, sottolineo pare, che l’azione dei governi che si sono succeduti negli ultimi tempi, abbiano come obiettivo prioritario quello della soluzione del problema del precariato, attraverso una serie di misure non sempre condivisibili sul piano etico. Fine nobile, ma che non può essere perseguito a discapito della qualità dell’insegnamento. Non sottovaluto né intendo negare il problema della mancanza di sicurezza che l’assenza di un lavoro stabile può generare e genera: la precarietà contrae il tessuto sociale e lo lacera e nel nostro Paese è diventata il più drammatico dei problemi a livello sociale, economico, culturale, valoriale e politico.

Ma, se nonostante tutto la qualità della formazione delle giovani generazioni dipende ancora in larga misura dagli insegnanti, dalla qualità del loro sapere, dalla loro sensibilità psicopedagogica, dalla loro competenza disciplinare, viene da chiedersi se l’immissione nei ruoli di docente a seguito di simi l- concorsi o di ricorsi, vada in questa direzione. Se è vero che la scuola ha ancora un ruolo fondamentale, occorre che gli insegnanti dispongano degli strumenti culturali per poter essere attori e costruttori del contesto in cui operano, presupposto per il riconoscimento sociale, personale e delle istituzioni, anche dell’istituzione scolastica. Sono gli insegnanti che tentano di trasmettere conoscenze, di promuovere competenze, di modellare i valori sulla realtà esistenziale delle giovani generazioni, a cercare di educarle alla verifica di nuovi valori o presunti tali. La famiglia, spesso, è alla ricerca di una nuova fisionomia e di nuovi linguaggi che permettano a genitori e figli di comunicare, magari con un fraintendimento piuttosto che con un silenzio. È rimasta la scuola, sono rimasti i docenti che non sono missionari, ma professionisti la cui professionalità va riconosciuta. Ma chi garantisce la promozione istituzionale di quegli strumenti professionali necessari ad evitare la trappola della semplificazione del complesso? Le strade principali sono due: la modalità di reclutamento, per aprire o sbarrare l’accesso a chi manca dei requisiti, e la formazione continua e strutturale in servizio. Solo così, ritengo, sarà possibile la costruzione di una solida identità professionale docente, valutata e riconosciuta dal contesto   sulla base di chiari indicatori di professionalità, di codificate norme sociali e di sistemi valoriali di riferimento. Dewey riteneva che l’eticità delle istituzioni, e dei costumi, fosse fondamentale per la realizzazione della libertà e della democrazia, nel senso di cultura e di etica prima ancora che di regime costituzionale. L’esercizio della cittadinanza attiva postula l’informazione sugli eventi e sulle manifestazioni mondiali e, parallelamente, la costruzione di strumenti per interagire attivamente con i media che filtrano e modellano la realtà, sostenendo l’accesso al sapere con solidi criteri di analisi, di discriminazione, di selezione e di elaborazione, cioè da uno strutturato pensiero critico. “Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze” sosteneva W. Thomas, e questo la dice lunga. Solo la scuola può promuovere la consapevolezza della natura della conoscenza, della specificità dei saperi formali e dei diversi valori di verità che veicolano.

I concorsi, il merito, la costituzione.

L’articolo 97 della Costituzione recita “…Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge…”. La scuola è parte della Pubblica Amministrazione, quindi le procedure di selezione del personale tutto, compresi i docenti, dovrebbero rispondere al dettato costituzionale. E il concorso consiste nella valutazione obiettiva del merito dei candidati. L’atto conclusivo è la graduatoria che elenca gli idonei in ordine al merito.  Il merito, si evince, viene indicato come un valore fondamentale per la selezione delle professionalità, fondata sulla valutazione, da effettuare per la promozione di una scuola di qualità. Il merito, cioè, deve continuare ad essere un valore fondamentale, ma deve essere riconosciuto da altri, non può essere mera convinzione personale che, o è presunzione o è millantato credito.  Urge un sistema organico di valutazione, in ingresso e in itinere, per dirigenti, docenti, personale ATA che introduca chiari indicatori di produttività e di qualità, collegato a una rendicontazione “oggettiva” e verificabile in grado di far emergere le responsabilità e, conseguentemente, il merito o il demerito di ciascuno. Non è un discorso sterile, se si considera che in un sistema scolastico dove manca una vera cultura della valutazione, che non si limiti alla valutazione degli apprendimenti, il fenomeno della dispersione non è un dato patologico ma fisiologico. “L’eccellenza” deve essere normale, ordinaria; il merito, nel senso dell’impegno e della responsabilità personale, professionale e sociale, diffuso e preteso. Quello del reclutamento dei docenti, ma anche dei dirigenti, è un problema complesso che richiede risposte articolate che considerino la necessità di costruire professionalità forti, figure esperte in grado di agire pratiche didattiche utili a generare livelli adeguati di dissonanza cognitiva, relazionale, culturale per significare le discipline di insegnamento, contribuendo a dare senso all’apprendimento attraverso la condivisione critica di esperienze e di riflessioni. 

La domanda di formazione, e di quale formazione, appartiene alla società e alla società deve tornare la risposta.  Educare alla complessità, al pensiero critico, alla responsabilità delle scelte …in altre parole educare alla cittadinanza attiva. Intendo qui per cittadinanza una condizione giuridicamente definita, un sistema di comportamenti fondati sul rispetto di sé e degli altri, e delle regole della comunità, per un corretto sistema di relazioni. E in questo il concetto si avvicina molto a quello di Educazione civica. La cittadinanza attiva è qualcosa di più: è un atteggiamento culturale che porta con sé costrutti come impegno civile, politico, e dimensioni etiche che implicano la convinzione che senza scelta e responsabilità non ci può essere giustizia sociale. La cittadinanza attiva (e qui condivido la posizione dell’amico Maurizio Tiriticco) è senso di appartenenza ed esercizio di democrazia e la democrazia diventa il risultato della contrapposizione, prima, e della mediazione poi. Questo dovrebbe fare la scuola pubblica, utilizzando la ricchezza culturale che le deriva dal suo pluralismo.

Ma lo possono fare docenti competenti, formati, disponibili al confronto, che sappiano smontare e rimontare i saperi disciplinari in modo epistemologicamente corretto. Dei bravi insegnanti. E per fare un bravo insegnante, sosteneva Claparède, ci vogliono almeno 10 anni di lavoro monitorato.

La scuola, i docenti…

Questa nostro è il tempo della complessità e chi dentro la scuola ci lavora, ha la sensazione di essere in un permanente cantiere aperto, dove si susseguono le richieste, a volte le stesse richieste con parole nuove. Ma la ripetizione del già detto ingenera confusione, sia essa disorientamento o convinzione di essere già allineati con le richieste. Le parole ripetute non generano cambiamenti, ma l’impressione di sapere già, di avere già fatto. Le parole troppo usate diventano frustre, diventano slogan, gli slogan che fanno pensare che chiunque possa insegnare, basta averci provato, un anno, due anni, senza valutazione alcuna e a volte formazione alcuna.  Senza significati condivisi non è possibile trovare il senso delle intenzioni e delle riflessioni comuni. Basti pensare ai fraintendimenti che ha generato il parlare e riparlare di cittadinanza attiva, trasformata in un obiettivo aggiuntivo, in una “materia” e non nella costruzione di un abito mentale, un principio ispiratore che orienta l’intero curricolo. A insegnare si può imparare, ma ci vogliono la voglia e la possibilità di farlo. Quindi, la scuola come luogo etico di formazione e di cittadinanza, prima che come collocazione di lavoro per il personale. Su questo anche il mondo sindacale dovrebbe fare una seria riflessione. Gli arruolamenti di massa, senza valutare la cultura e le competenze didattiche possedute, determinano inevitabilmente un livellamento verso il basso e la conseguente perdita di prestigio dell’insegnante, la messa in ombra dei contenuti culturali e della professionalità, nonostante la passione e l’impegno di molti docenti preparati. La scuola è un servizio pubblico   e come tale dovrebbe stare dentro un progetto politico che si raccorda con un sistema giuridico e si esplicita in un impianto organizzativo. Non bastano le innovazioni tecniche e le tecnologie (pure importanti), le idee di moda: c’è di mezzo il futuro.

C’è, quindi, bisogno di una scuola che delinei il cambiamento – ispirata ai nuovi paradigmi culturali, sociali, psico-pedagogici, organizzativi – e di nuovi strumenti operativi per sfidare e contrastare “la tendenza all’iperspecializzazione, da un lato, e il rischio di una formazione generica e astratta dall’altro” (Riordino scuola secondaria 2010). Questo lo possono fare professionalità dedicate e competenti, che sappiano tenere insieme le richieste di innovazione con le radici storico-culturali. Proprio quelle professionalità declinate nell’art. 27 del CCNL, Comparto Istruzione Ricerca 2016/2018 “Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate e interagenti…”.  Torna così in primo piano il problema del reclutamento: bisognerà decidere cosa andare a valutare e, una volta deciso, posizionare l’assicella della selezione molto in alto: i ragazzi hanno diritto a una scuola di qualità, a docenti padroni del sapere e del saper fare che possano essere esempio di comportamenti deontologici eticamente orientati, perché la correttezza, il rispetto e la responsabilità non si insegnano a parole. L’educazione non è un “evento” a sé stante, non è culturalmente indipendente e, quindi, non può essere progettata e gestita come se lo fosse. Esiste e vive dentro un progetto politico e dentro una cultura. I sistemi simbolici proprio di “quella cultura”, i valori o i disvalori che connotano il clima educativo di “quella” scuola determinano il modo in cui la capacità della mente si sviluppano e vengono utilizzate. Per questo conta moltissimo come i giovani vivono la loro scuola e la posizione che la scuola assume nella loro cultura. E questo vale ancora prima per i docenti e per i dirigenti.

U. Cerroni, La cultura della democrazia, Métis, Bari 1991;

N. Postman, Ecologia dei media, Armando Editore, Roma 1981;

J. Dewey, Democrazia ed educazione, Anicia, Roma 2017;

J. Piaget, Psicologia e pedagogia, Loscher, Torino 1970;

 La Costituzione della Repubblica Italiana.

E. Claparède. La scuola su misura, La Nuova Italia, 1971

CCNL, Comparto Istruzione e Ricerca 2016/18

Appello dei sindaci: approvare subito norma su trasporto scolastico

da Il Sole 24 Ore

di Redazione Scuola

«La mancata approvazione e pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della norma sul servizio gratuito di scuola bus, contenuta nell’art.5 del Decreto Scuola, mette i Comuni in forte difficoltà. Ancora una volta non si fa il minimo sforzo per comprendere che cosa sia concretamente il servizio pubblico offerto ai cittadini. E inoltre si interpreta in modo sbagliato la nozione di servizio pubblico confondendola con l’idea di un servizio a copertura pubblica integrale». Lo sottolinea Cristina Giachi, presidente della commissione Istruzione, politiche educative ed edilizia scolastica dell’Anci e vicesindaca di Firenze, riferendosi alla norma che, approvata dal Cdm il 6 agosto con la formula ‘salvo intese’, avrebbe dovuto concretizzarsi in un testo finale per approdare in Gazzetta entro il 28 agosto, in tempo per la ripresa dell’anno scolastico.
Per la mancata approvazione, causa crisi di governo, si torna allo scenario delineato dalla Corte dei Conti del Piemonte, che aveva definito il trasporto con lo scuolabus servizio a domanda individuale e non di trasporto pubblico, coi costi che dovrebbero ricadere sugli utenti e non sulle casse comunali. «Nessun servizio di trasporto pubblico è configurato in questo modo – evidenzia Giachi.-.Stabilire per legge che non possa essere prevista una tariffa come contributo per la copertura del costo di esercizio del servizio di scuolabus significa paralizzare il servizio comunale. E siccome in tutti i Comuni italiani tale servizio è organizzato prevedendo una tariffa a contribuzione e mai a copertura del servizio, la mancata approvazione del decreto rende inadempienti e perseguibili le amministrazioni comunali». Da qui il suo auspicio che «l’eventuale prossimo governo possa risolvere, al più presto, questa situazione di stallo».

Pasticcio educazione civica: si parte a settembre ma «in via sperimentale»

da Corriere della sera

E’ pronto il provvedimento che dovrebbe risolvere il pasticcio sull’educazione civica, la nuova disciplina con tanto di voto introdotta in tutti gli ordini di scuola con una legge appena pubblicata e che rischiava di dover essere rimandata all’anno scolastico 2020/2021. Poiché il testo non entrerà in vigore prima del 1 settembre, ma soltanto il 6, a causa di un ritardo nella pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, è la legge stessa a prevedere che si applichi a partire dal successivo anno scolastico per non mettere in difficoltà le scuole nell’organizzazione delle lezioni.

La sperimentazione obbligatoria

Per accelerare l’applicazione il ministro Bussetti, come aveva annunciato, trasformerà questo primo anno di applicazione in una sperimentazione obbligatoria nazionale. Per farlo è necessario un decreto che è stato già inviato al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (il Cspi, che è organo consultivo del MIUR). Una volta ottenuto il parere del Cspi, si potrà partire con la programmazione della nuova disciplina

Supplenze, ITP depennati da seconda fascia in caso di sentenze negative

da Orizzontescuola

di redazione

Nella circolare sulle supplenze diramata dal Miur il 28 agosto, si forniscono nuovi chiarimenti relativi al contenzioso ITP per l’inserimento in II fascia delle graduatorie di istituto.

La circolare richiama le sentenze del Consiglio di Stato n. 4503 e n. 4507 del 2018, che hanno dichiarato non abilitante il diploma ITP (ma anche altre analoghe successive) per cui ai docenti in possesso di tale titolo non spetta l’inserimento nella II fascia delle graduatorie di istituto.

Pertanto:

  1. i docenti inseriti in II fascia destinatari delle succitate sentenze e di altre analoghe dovranno essere esclusi dalla predetta fascia;
  2. in caso di provvedimenti di carattere cautelare o di sentenze non definitive, i docenti interessati dovranno essere inseriti in II fascia con riserva;
  3. in caso di sentenze favorevoli definitive e quindi  non più impugnabili (sentenze passate in giudicato), si dovrà confermare l’inserimento in II fascia “pleno iure”

Nel caso di attribuzione di supplenza a docenti ITP inseriti con riserva, il contratto dovrà contenere apposita clausola risolutiva espressa, che lo condiziona alla definizione del giudizio.

Si evidenzia che resta fermo il diritto all’inserimento a pieno titolo degli ITP nella III fascia delle graduatorie di istituto.

Supplenze 2019/20, ecco circolare Miur: diplomati magistrale, sostegno, continuità didattica, priorità 104, ITP. [Anteprima]

Personale ATA, novità per le supplenze. Ecco le info utili

da Orizzontescuola

di redazione

Ci saranno novità per quanto riguarda le supplenze del personale ATA, emerse ieri durante il confronto tra sindacati e Ministero circa la circolare specifica che sarà pubblicata a breve.

Scarica la circolare sulle supplenze

Il resoconto della FLCGIL

  • Viene definito chiaramente che, oltre a poter lasciare una supplenza al 30 giugno per una al 31 agosto, è anche consentito, prima della stipula del contratto, rinunciare ad uno “spezzone” per accettare una supplenza su posto intero sino al 30 giugno o 31 agosto, purché all’atto della convocazione non vi fossero cattedre o posti interi. È fatta salva comunque la possibilità del completamento orario anche attraverso il frazionamento di posti interi.
  • Le deleghe ad accettare la nomina possono essere conferite a terzi o direttamente all’amministrazione.
  • All’atto della stipula del contratto a tempo determinato, analogamente a quanto avviene per le assunzioni a tempo indeterminato, i lavoratori possono immediatamente fruire degli istituti giuridici contrattuali previsti dal CCNL, per cui non occorre prendere servizio (aspettativa, congedo, etc…).
  • Si conferma che il diritto alla proroga (in caso di assenze successive del titolare intervallate solo da giorno libero e/o festivo), previsto dal regolamento dei docenti, è valido anche per il personale ATA.
  • Si specifica, analogamente a quanto indicato lo scorso anno, che la priorità nella scelta della sede (L. 104 artt. 21 e 33) si attiva solo all’interno dei posti spettanti (come durata e quantità di ore) nel senso che, se si è in posizione utile per un posto al 30/6 non si può scegliere prioritariamente su quelli al 31 agosto e così via. La priorità prevista dall’art. 33 comma 5 e 7 (assistenza a familiare) opera solo per le scuole del comune di residenza del familiare da assistere e, solo nel caso non vi siano posti, per le scuole di un comune viciniore all’interno della stessa provincia.
  • Per quanto riguarda le riserve Legge 68/99 si precisa che la quota del 50% va calcolata solo sui posti interi (sia al 30 giugno che al 31 agosto) nei limiti della capienza del contingente provinciale di riserve.
  • Riguardo ai vincoli sul conferimento delle supplenze brevi, nella nota si ribadisce la validità delle due note ministeriali (2116/2015 e 10073/2016) che forniscono indicazioni ai Dirigenti scolastici per sostituire il personale assente anche in deroga alle norme generali. Inoltre, si chiama ancora la norma introdotta dall’art. 1, comma 602, della legge 205 del 27 dicembre 2017, con la quale si prevede che le istituzioni scolastiche ed educative statali possono conferire incarichi per supplenze brevi e saltuarie in sostituzione degli assistenti amministrativi e tecnici assenti, a decorrere dal trentesimo giorno di assenza.
  • Viene ribadito che, come anticipato nella nota MIUR 36462 del 7 agosto 2019, è preclusa la possibilità di effettuare nomine a tempo determinato sulla dotazione organica aggiuntiva degli ex co.co.co.

Regolamento delle supplenze 2019/2020, arriva la nota Miur

da La Tecnica della Scuola

Pubblicata il 28 agosto 2019 la nota Miur n.38905 sulle istruzioni e indicazioni operative in materia di supplenze al personale docente, educativo ed A.T.A. per l’anno scolastico 2019/2020.

Normativa di riferimento per le supplenze dei docenti

A sensi dell’articolo 4 della legge 3 maggio 1999, n. 124 è stato scritto il Decreto Ministeriale del 13 giugno 2007 relativo al “ Regolamento per il conferimento delle supplenze al personale docente ed educativo.

È utile sapere che l’accettazione scritta della relativa proposta di supplenza di un docente inserito in GAE o anche in Graduatoria di Istituto, può essere sottoscritta dal diretto interessato o da un suo delegato.  Per quanto riguarda l’istituto della delega, disciplinato dall’art. 3, comma 2, del Regolamento adottato con D.M. n. 131 del 13 giugno 2007, si ricorda che la delega, se conforme alle indicazioni dell’art. 3, comma 2, deve intendersi ugualmente valida sia nella fase di competenza degli Uffici territoriali che nella successiva fase di competenza dei dirigenti scolastici delle scuole di riferimento.

Non hanno titolo a conseguire le supplenze gli aspiranti che non siano presenti alla convocazione e che non si siano giovati di alcuna delle tipologie di delega sopra specificate.

Posti potenziamento e supplenze brevi

I posti del potenziamento introdotti dall’art. 1 comma 95 della Legge 13 luglio 2015 n. 107 non possono essere coperti con personale titolare di supplenze brevi e saltuarie, ad eccezione delle ore di insegnamento curriculare eventualmente assegnate al docente nell’ambito dell’orario di servizio contrattualmente previsto nel rispetto dell’art.28 comma 1 del CCNL 2016/18 e purché si tratti di assenze superiori a 10 giorni.

Secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 85, della sopra richiamata Legge 107/2015, tenuto conto degli obiettivi di cui al comma 7 dell’art. 1 della Legge citata, il dirigente scolastico può effettuare sostituzioni di docenti assenti per la copertura di supplenze temporanee fino a 10 giorni con personale dell’organico dell’autonomia, che sia in possesso del previsto titolo di studio di accesso. Detto personale, ove impiegato in gradi di istruzione inferiore, conserva il trattamento stipendiale del grado di istruzione di appartenenza.

Supplenze per spezzoni pari o inferiori a 6 ore

Ai sensi dell’art. 1, comma 4, del Regolamento le ore di insegnamento, pari o inferiori a 6 ore settimanali, che non concorrono a costituire cattedre o posti orario già associate in fase di organico di fatto non fanno parte del piano di disponibilità provinciale da ricoprire in base allo scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, ma restano nella competenza dell’istituzione scolastica ove si verifica la disponibilità di tali spezzoni di insegnamento.

La predetta istituzione scolastica provvede alla copertura delle ore di insegnamento in questione secondo le disposizioni di cui al comma 4 dell’art. 22 della Legge Finanziaria 28 dicembre 2001, n. 448, attribuendole, con il loro consenso, ai docenti in servizio nella scuola medesima, forniti di specifica abilitazione per l’insegnamento di cui trattasi, prioritariamente al personale con contratto a tempo determinato avente titolo al completamento di orario e, successivamente al personale con contratto ad orario completo – prima al personale con contratto a tempo indeterminato, poi al personale con contratto a tempo determinato – fino al limite di 24 ore settimanali come ore aggiuntive oltre l’orario d’obbligo.

Solo in subordine a tali attribuzioni, nei casi in cui rimangano ore che non sia stato possibile assegnare al personale in servizio nella scuola, i dirigenti scolastici provvedono all’assunzione di nuovi supplenti utilizzando le graduatorie di istituto. Si fa presente che tutto quanto sopra esposto va riferito agli spezzoni in quanto tali e non a quelli che potrebbero scaturire dal frazionamento di posti o cattedre.