Dalla parte della conoscenza

Dalla parte della conoscenza

di Giovanni Fioravanti

La cultura della destra, la cultura della sinistra, la cultura della chiesa, la cultura delle minoranze, la cultura della gente credevo che stessero tutte dentro ad uno stesso contenitore, forse più che recipiente, diciamo, universo.

Che fossero il contesto, i contesti delle vite terrene, che stanno dentro e fuori di noi, in cui si è immersi e da cui si emerge.

Il farsi una cultura pensavo che fosse il nuotare in questi oceani, a volte stagni o forse piscine. Mi pareva che l’idea di una collisione tra  culture fosse questione da crociate, anzi fosse addirittura il negare la propria natura di cultura per trasformarsi, per usare antichi linguaggi, in sovrastruttura, qualcosa di artefatto che perde  le caratteristiche e i connotati della cultura, semmai per divenire  catechismo, ideologia, visione parziale del mondo che si contraddice col respiro e l’apertura propria della cultura.

La cultura è la pratica di un valore e non esibisce etichette, quel valore si chiama conoscenza. Non accetta abiti cuciti addosso che finirebbero per sterilizzarla, cosa che non è possibile, perché la conoscenza è prolifica e produce sempre altra conoscenza. 

Che senso ha costruire isole di cultura destre e sinistre che siano, se non inaridire il fiume della conoscenza, che mentre scorre genera altra conoscenza. Pretendere un’egemonia che rischia la sua fragilità appena viene a contatto con il divenire del tempo e dei valori.

Indossare i panni del domatore in gabbia con il cerchio e la frusta per addomesticare una folla riluttante, distratta e deviata da pericolose sirene.

Ha il senso della propaganda che brucia i cervelli, l’inganno della manipolazione, la vendita di merce avariata ad una clientela di bocca buona.

Culture statiche, conservate in bacheche, che si pretenderebbe di far uscire dai loro tabernacoli per consegnarle ai nuovi sacerdoti perché diffondano il verbo, convinti che altre religioni hanno occupato gli interstizi mentali del popolo, di una massa che pensa per procura ed ora potrebbe essere affascinata da nuovi procuratori a cui delegare i loro pensieri.

In questa rincorsa ad accaparrarsi una egemonia nella mente collettiva c’è un vizio d’origine, il vizio dell’ignoranza che è l’avversaria della conoscenza. 

È da tempo ormai che indifferenza e diffidenza coltivano la cultura dell’ignoranza come approdo sicuro, lontano dai saperi colti dei radical chic, solitamente quelli di sinistra. Poi c’è il sapere dogmatico, tipico delle chiese e delle religioni, ma quelli sono saperi più identitari con i quali maggiore è la familiarità.

In queste condizioni diventa arduo parlare di conoscenza, di capitale umano, di secolo della conoscenza, di Europa della Conoscenza.

Qui siamo all’analfabetismo. E ciò che più preoccupa è quello che viene dopo. Le nuove generazioni, chi deve formarle, quali adulti, quali famiglie, quali istituzioni educative. Quale scuola.

Imparare, apprendere, istruirsi per divenire cittadini della cultura, per essere egemoni della cultura anziché esserne egemonizzati. Ricevere il testimone per continuare la narrazione che altri hanno compiuto della nostra storia di uomini e di donne, dei suoi miti e dei suoi simboli.

Ciò che chiamiamo educazione con termine improprio è il nostro  ingresso nella cultura, la chiamata a divenire protagonisti delle pagine che la cultura scrive, a continuare quella narrazione che ora dipende anche da noi. Cultura come coltivazione di saperi, come somma dei saperi che nel corso dei secoli l’uomo ha messo a disposizione di sé, È quello che ci serve a stare insieme, a cercare di progredire a condivide la cultura come condizione della nostra convivenza.

II tema della contesa oggi sono invece le culture, quelle plurali, i saperi di cui ognuno è portatore. Il sapere non è mai un punto di arrivo, ma un punto di partenza, per andare oltre per ricercare, è per questo che la cultura si fa narrazione. Quella narrazione che noi abbiamo ingessato, smembrato, inaridito nelle discipline, nelle materie scolastiche, come abbiamo svilito, impoverito l’incontro con la cultura, l’ ingresso nella cultura con i nostri riti scolastici, con il nostro giocare con le parole educazione, istruzione, formazione, calpestando il vero significato della cultura, parola ampia e dinamica, mai paga di sé.

I rigurgiti egemonici culturali non possono che preoccuparci, come segnali di un arretramento pericoloso di valori e di civiltà, come segno di un’insipiente ignoranza che si appresta a spostare all’indietro il futuro, a rinchiudere le menti tra gli steccati dell’antico.

Come se la scienza fosse un convitato di pietra della cultura, una presenza inquietante, nemica del proprio paradigma coniugato al passato remoto, prima che le conquiste della  ricerca spuntassero le armi ai nemici della società aperta.

A meno che si confonda la cultura con gli occhiali che si indossano e si pretendesse che tutti fossero miopi allo stesso modo. Imporre i propri occhiali agli altri, convinti che solo questi consentono universalmente di percepire la realtà. Allora non è più questione di cultura è piuttosto questione di imbonitori, di Dulcamare dei tempi moderni.

La cultura come ingegneria sociale, come igiene del pensiero collettivo, anestetico per procurarsi la sintonia tra governanti e governati.

Ma farsi paladini di una cultura conservatrice piuttosto che illuminista ha più a che fare con l’ignoranza che con la conoscenza.

Edgar Morin ci ricorda che conoscere vuol dire negoziare, lavorare, discutere, battersi con l’incognito che si ricostruisce senza sosta, giacché ogni soluzione di un problema produce una nuova questione. Così come il progresso della scienza è un’idea che implica in se stessa incertezza, conflitto e gioco. Non si può assolutamente porre in alternativa progresso e regresso, conoscenza e ignoranza.

Chi pone la cultura in alternativa pretendendo di possederne l’egemonia si pone di traverso ad ogni progresso della cultura stessa, dimostrando di ignorare o temere la complessità che da sempre è compagna di strada del progresso e della conoscenza. 

Per dirla, prendendo in prestito il lessico del pensiero tedesco da Herder a Weber, più che di fronte a questioni di “Kultur” ci troviamo ancora una volta a fare i conti con un problema di “Zivilisation”.