Le covergenze paralelle

LE CONVERGENZE PARALLELE

di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia delle scuole avrebbe dovuto essere il vero indicatore del cambiamento degli ultimi trent’anni. Proveniente dall’apertura alla partecipazione della famiglia-società, è passata attraverso il decentramento della pubblica amministrazione, per arrivare a configurare la personalità giuridica ad ogni istituzione scolastica mettendola in grado di dialogare con il “sistema” delle autonomie sul territorio. Il tutto rinfrancato dalla riforma costituzionale del 2001 che introduceva un nuovo ruolo delle regioni nella programmazione del servizio in concorso con lo Stato che si sarebbe dovuto occupare di “norme generali” a carattere nazionale. Da qui era partita da un lato la revisione degli organi collegiali e, dall’altro, l’elaborazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” dai quali dedurre i “costi standard”.

In attesa di recidere il cordone ombelicale che le collegavano all’amministrazione scolastica, il dibattito era acceso su quale collocazione politico-istituzionale le scuole autonome avrebbero assunto: o più simile ad un comune, soprattutto per quanto riguardava l’autonomia finanziaria e la dimensione partecipativa, o assomigliare di più ad un “corpo intermedio” per la sua caratteristica comunitaria e la vocazione educativa , o rimanere nell’ambito delle “scuole della Repubblica” come promozione del “diritto allo studio” per tutti i cittadini e garanzia dell’uguaglianza sociale.

Praticamente la discussione è rimasta ai preliminari in quanto le scuole sono appese al cappio amministrativo statale per ragioni finanziarie e di gestione del personale, senza che però gli Enti Locali e soprattutto le Regioni rivendicassero come in altri paesi europei una competenza specifica e soprattutto assumessero precisi impegni economici e di governo. Nessuna delle parti in causa ha fatto quello che doveva sulla base del riformato dettato costituzionale: lo Stato ha mantenuto le competenze gestionali sulle scuole e poche regioni hanno provveduto ad una legge di sistema. Risultato, anni di impasse con evidenti conflitti di attribuzioni e gran lavoro per l’alta Corte.

Senza dunque aver mai dato compiuta applicazione alla predetta revisione, con l’inevitabile contenzioso dettato in gran parte da dispute giuridiche prive di esperienze concrete, si apre una nuova stagione, sia sul piano della legislazione in campo scolastico, sia sul modello costituzionale: una grossa operazione che ancora come filo rosso ha l’autonomia. Sembra di capire però, se non vi saranno successive modifiche, che si cambi rotta e cioè che vi sia più autonomia nella scuola, ma meno della scuola. La legislazione precedente faceva arrivare al singolo istituto un carico di competenze e responsabilità per cui allo stesso tempo avrebbe dovuto lavorare per la promozione della propria comunità e raggiungere gli standard nazionali (sistema nazionale di valutazione), lasciandosi alle spalle uno stato regolatore e custode dei diritti dei cittadini.

L’attuale dibattito parlamentare sembra improntato alle convergenze parallele dove la parola autonomia è largamente spesa nell’ottica del “come” fino anche ad arrivare all’autofinanziamento, ma il governo del sistema sembra restare nelle mani del centralismo amministrativo che sarà mantenuto per effetto della “controriforma” del titolo quinto e rappresentato dal dirigente scolastico, che certo non può essere pensato elettivo, anche se viene chiamato “sindaco”, ma magari nominato direttamente dal presidente del consiglio. Gli uffici amministrativi centrali e periferici dell’istruzione, che si pensava sparissero in ossequio al predetto sistema delle autonomie locali di cui la scuola entrava a far parte, si vedono potenziati in un’operazione di ricentralizzazione complessiva.

Nel rapporto del commissario sulla spending review non si propongono tagli per l’istruzione pubblica e questo se da una parte è un fatto positivo, dall’altra mantiene tutto l’apparato così com’è, mentre si sarebbe potuto effettuare qualche risparmio sui predetti uffici amministrativi, in previsione dell’annunciata riforma della governance e dell’accentuazione dell’autonomia scolastica, con economie da riversare sulle scuole stesse, come aveva già previsto la legge 440/1997.

Il segnale più forte dell’inversione di tendenza lo troviamo nella nuova riforma del titolo quinto approvata alla Camera, all’art. 30, dove modificando l’art. 116 della Costituzione si parla di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia…che potranno essere concesse alle Regioni……”(virtuose, senza cioè deficit di bilancio) nelle “politiche attive del lavoro e istruzione e formazione professionale”, materie queste ultime che la Costituzione aveva attribuito come competenze esclusive alle regioni stesse. Prima vengono tolte, attraverso la modifica dell’art. 117, e poi per gentile concessione potrebbero venire di nuovo attribuite.

Nell’ultima versione di questo articolo oltre alle “disposizioni generali e comuni sull’istruzione” si ribadisce la competenza esclusiva dello Stato “sull’ordinamento scolastico”. Alle Regioni la “potestà legislativa” per “l’organizzazione…dei servizi della formazione professionale, … scolastici, di promozione del diritto allo studio”. Mentre per sanità e welfare si parla anche di programmazione, nel settore educativo sembra molto depotenziata tale potestà, al punto che assomiglia di più alle funzioni che oggi svolgono le Province che saranno abolite e sotto il controllo degli Uffici Scolastici Regionali del Ministero. Manca altresì un’importante funzione oggi regionale che è quella della programmazione della rete scolastica, che in passato non si è mai riusciti ad integrare con gli altri servizi sociali e che in futuro sarà difficile far entrare nel processo di riorganizzazione dei Comuni: si parla genericamente di “pianificazione del territorio”.

In queste condizioni a poco servirà la partecipazione delle Regioni alla formazione degli atti normativi dell’UE, in un’Europa che sarà sempre più dei governi regionali, ed ancora più complicata sarà la pratica relativa ai fondi europei. Qui non si tratta più soltanto di sostituire le regioni inadempienti, ma di ristatalizzare, come si è detto, tutto il processo.

A conclusione di questo primo ma fondante filone di riforma c’è da chiedersi a cosa può servire il Senato, come Camera nazionale di coordinamento di politiche federali che con tale impianto si possono dare per abbandonate. Non toccando poi le regioni a statuto speciale si accentua la distanza tra il sistema nazionale e quelli locali.

Un’altra strada si sarebbe potuta intraprendere se si voleva razionalizzare il regionalismo e cioè quella della riorganizzazione territoriale nel tentativo di costruire macroregioni più omogenee. In tal senso era sorta una commissione al ministero delle regioni, ma il governo ha ribadito che non esistono le condizioni (ministro Boschi, audizione alla commissione bicamerale per il federalismo fiscale il 20/11/2015): segno di una volontà anche politica di neocentralismo, che forse coglie un favorevole momento di debolezza delle regioni stesse.

Diventa perciò politicamente contraddittorio vedere che il disegno di legge sulla buona scuola dedica tanto spazio all’autonomia delle istituzioni scolastiche. Sembrava più coerente ai tempi delle riforme Bassanini con un decentramento della pubblica amministrazione che sfociava in un’articolazione di autonomie territoriali di cui quella scolastica avrebbe fatto parte, in una prospettiva di autodeterminazione. Una governance soggetta alle norme generali sull’istruzione da parte dello stato, leggi regionali relative all’autogoverno del sistema scolastico territoriale, autonomia didattica, finanziaria, di ricerca e sviluppo da parte delle scuole in una prospettiva di valutazione nazionale.

In questo nuovo ddl si vorrebbe “garantire la massima flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio….e l’integrazione con il contesto…” Si richiede addirittura una programmazione triennale dell’offerta formativa ad una scuola che sul piano costituzionale rimane saldamente ancorata alle competenze esclusive dello stato che le esercita attraverso il Ministero e le sue articolazioni.

Il sospetto che l’autonomia sia soltanto una questione metodologica viene dalla proposta di modificare l’art. 21 della predetta legge Bassanini, che introduceva l’autonomia in un’ottica decentralistica, a cui segue il rafforzamento della funzione del dirigente scolastico.

Insomma per garantire “ i livelli unitari e nazionali di fruizione del diritto allo studio” si poteva agire come previsto da un governo dei vari ambiti territoriali per arrivare alla nuova camera delle autonomie e ad un consiglio nazionale dell’autonomia scolastica, mentre qui si sceglie la strada restauratrice del centralismo burocratico.

Non mancheranno certo le discrasie tra una simile importazione programmatica e organizzativa delle scuole autonome ed i compiti degli Enti Locali, rispetto anche alle risorse da impiegare, a meno che non si pensi di far governare la scuola dall’Ufficio Scolastico Regionale (di organi collegiali si parla molto poco), che approva i piani triennali, di scaricare di fatto sugli Enti Locali l’operatività del servizio (lo Stato vuole aprire le scuole al pomeriggio, le Province le vogliono chiudere anche il sabato mattina perché non hanno i soldi per il riscaldamento) e farlo pagare agli utenti attraverso modalità di investimento e di defiscalizzazione.

Scorrendo l’articolo due del ddl governativo si vede come l’autonomia proclamata viene gradualmente ridotta ad un asse: dirigente scolastico-Ufficio Scolastico Regionale-Ministero. E qui si registra la convergenza con l’impostazione della riforma del titolo quinto. A che serve il consiglio di istituto ?

Un altro esempio che sul piano della governance non convince completamente riguarda l’istituzione dei “poli per l’infanzia”. Mentre da un lato è da superare la parcellizzazione di un servizio ancora definito a “domanda individuale”, facendolo diventare un bene generalizzato della Repubblica, dall’altro è da valutare il suo trasferimento sotto lo Stato in relazione all’attuale governo degli Enti Locali.

Un’ultima questione che una vera autonomia avrebbe contribuito a risolvere è il rapporto tra le scuole statali e quelle paritarie. A parte la necessità di dare piena attuazione alla legge 62/2000 è solo a livello territoriale che si può superare la difficoltà costituzionale del finanziamento. Le paritarie infatti oltre ad essere l’esempio della libertà di educazione devono svolgere una funzione pubblica comprendendole in una programmazione territoriale, come già avviene per la scuola dell’infanzia e per la formazione professionale, nonostante una progressiva e non chiara statalizzazione di questo segmento. Tutto ciò perché abbiano piena cittadinanza le provvidenze per il diritto allo studio ed altre forme di autofinanziamento che saranno introdotte anche per le scuole statali, fino ad arrivare al possibile pagamento dei docenti da parte dello Stato, attinti a loro volta dagli “albi regionali”.

Con delega al Governo saranno disciplinati gli organi collegiali in base a “nuovi criteri” (sic ?) che valorizzano la partecipazione, individuando “le articolazioni funzionali all’esercizio dell’autonomia”. E’ previsto per ciascuna scuola l’adozione di uno “statuto”, già presente in precedenti progetti di legge, ma con ben altra concezione dell’autonomia, che rasentava la privatizzazione. Nel principio della delega si parla di organi rappresentativi a livello nazionale, regionale e territoriale, pensati però come filone a parte rispetto alla potestà legislativa e amministrativa delle Regioni ed Enti Locali. Qui manca il potere sostitutivo e di vigilanza, che ovviamente dovrà competere ai predetti Uffici Scolastici Regionali; inevitabilmente come nel passato regime dei “decreti delegati” del 1974 in cui i Provveditori agli Studi finirono per attrarre a sé le autonomie scolastiche allontanandole da quelle territoriali.