Ripensare il Clil: è se venisse reso facoltativo?

da Il Sole 24 Ore

Ripensare il Clil: è se venisse reso facoltativo?

di Flavia Foradini

Il neonato Piano Nazionale di Formazione dei docenti prevede fra le altre cose un generale miglioramento delle competenze di L2, in particolare dell’inglese, da elevare a livello B1 o B2, mentre per i docenti di discipline non linguistiche si punta al livello C1 nel triennio fino al 2019, con un focus al potenziamento del CLIL (Content and Language Integrated Learning). Alla presentazione del 3 ottobre scorso, l’ex ministro Giannini aveva incluso la formazione linguistica “fra i pilastri del Piano”, ipotizzando la partecipazione di 130.000 insegnanti.
Come traguardo per l’innalzamento delle competenze linguistiche, il Piano stesso prevede “particolare at¬tenzione” al CLIL: “percorsi di metodologia CLIL sono fondamentali per attuare pienamente quanto prescritto dai Regolamenti di Licei e Istituti Tecnici, nonché per ampliare l’offerta formativa attraverso contenuti veicolati in lingua straniera in tutte le classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado e, in misura crescente, delle scuole primarie.”

Le indicazioni ministeriali
Il MIUR continua dunque a ritenere che il CLIL sia cosa buona e giusta per l’odierno sistema scolastico italiano. Tuttavia, i dati forniti all’opinione pubblica sull’effettiva applicazione delle relative disposizioni, raccontano di una macchina che nella pratica fatica ad andare a regime. Sul sito del ministero, i documenti più aggiornati sono datati autunno 2015, manca un elenco esaustivo delle scuole che effettivamente dispongono di docenti DNL con livello C1, pienamente formati per il CLIL, e che lo praticano su DNL per il monte ore previsto. Mancano anche dati sugli esiti a livello di discenti, in termini di reali, appurati vantaggi derivati dall’apprendimento di una DNL in L2, mentre sul sito INDIRE si legge in materiali recenti che nel 2010/11 un sondaggio aveva constatato l’interesse di 16.000 docenti, ma i corsi di perfezionamento offerti dal 2012 al 2016 hanno formato metodologicamente al CLIL meno di un migliaio di insegnanti, e linguisticamente al livello C1 di una L2, prevalentemente inglese e francese, poco più di 300 docenti. Anche ipotizzando percorsi metodologici alternativi e corsi di formazione linguistica individuali presso i classici centri che erogano certificazioni internazionali, i numeri degli insegnanti dotatisi fin qui di tutti i requisiti per l’insegnamento CLIL sono necessariamente assai modesti.

La fotografia sul campo
La sensazione è che in questi anni, in annunci e circolari a ogni livello, si sia tenuto l’acceleratore premuto sul CLIL, senza aver fatto il punto della situazione con dati concreti alla mano, che però trapelano in modo drammatico dai numeri impressionanti di docenti ancora da formare anche solo ad un livello base in L2, condizione ineludibile per il CLIL. (Del resto lo certificano tutti gli studi internazionali: in Italia la popolazione ha un livello minimo di competenza L2.)
Si è dunque messo il carro davanti ai buoi: palesemente le risorse umane non ci sono ancora in modo congruo per poter offrire percorsi CLIL a tutta l’utenza, epperò li si prescrive.

Il confronto internazionale
Un modo di procedere che fa pensare anche ad una profonda non conoscenza da parte dei legislatori, dei tempi di apprendimento di una lingua straniera e di come la si trasmetta. Lo suggeriscono i corsi che sono stati offerti in passato ai docenti di scuola elementare per imparare l’inglese, prima di catapultarli ad insegnarlo. Lo suggerisce il fatto che nelle scuole secondarie superiori sono stati incoraggiati docenti di DNL con livello anche solo B1 ad entrare in classi di pari livello linguistico o magari già in livello B2, cioè non di rado superiore (almeno sulla carta) a quello degli insegnanti. E di nuovo nella nota MIUR del 13 ottobre scorso, per il “Progetto Eccellenza CLIL A1 “, si stanziano soldi per iniziative nella secondaria di primo grado, prevedendo contestualmente la possibilità di insegnare una DNL con un livello B1. Come a dire: facciamoci del male tutti, a cominciare dai discenti, dei quali sembra non si vogliano tenere in considerazione i diritti ad una buona glottodidattica né gli svantaggi di base rispetto ai loro coetanei del Lussemburgo, dell’Olanda o dei Paesi scandinavi, che crescono anche con programmi TV per esempio in inglese, non sottotitolati, e che quindi a 16 anni hanno una fluidità di comprensione, di interazione e di eloquio, almeno da tranquillo B2: se ascolti di tutto anche in L2 da quando avevi 4 anni, è chiaro che alle scuole superiori non vuoi annoiarti nelle ore di lingua straniera e quindi accetti di buon grado che ti spieghino anche un po’ di matematica, di fisica, o di storia, o di economia aziendale, o filosofia, o storia dell’arte in L2: il CLIL diventa naturale, visto che anche i docenti hanno elevate competenze linguistiche.
In realtà il solco tra quei Paesi e l’Italia è ben più profondo, visto che là sono stati raggiunti da tempo i traguardi europei del trilinguismo. Gli adolescenti di quelle nazioni hanno competenze solide perché naturalmente immersi, come i loro docenti, in contesti multilingue.

Gli aggiustamenti continui
In Italia non è così. Alla maturità mezze classi non hanno un solido livello B2, qualcuno neanche B1.
Nel frattempo, dal punto di vista delle disposizioni ministeriali è continuato il gioco al ribasso, nel tentativo di conservare l’etichetta CLIL, cercando di rendere il progetto più realizzabile. E’ stato ridotto drasticamente il monte ore dall’originario 100% della DNL al 50%, laddove un recente studio della Cattolica di Milano svela che circa tre quarti del CLIL avviene a tutt’oggi per meno del 50% delle ore di una disciplina non linguistica. Dunque il CLIL, se attivato, viene di fatto realizzato appieno solo in circa un quarto delle scuole.
In mancanza di risorse umane CLIL, il MIUR ha concesso anche la possibilità di realizzare semplici moduli ovvero percorsi pluridisciplinari, che coinvolgono quindi più materie: però questo tipo di attività veniva già realizzato prima dell’avvento del CLIL, senza bisogno di ulteriori denominazioni, e certamente i percorsi pluridisciplinari possono essere solo “con utilizzo di metodologia CLIL”, ma non sono CLIL.
Questi continui aggiustamenti in corso d’opera stanno via via ridimensionando la cornice attuativa, riportandola in un alveo meno roboante, ancorché sempre più pasticciato.
Ciò che invece si continua ad ignorare, è il fatto che un insegnante DNL che non abbia un adeguato livello linguistico può fare grandi guai dal punto di vista glottodidattico, oltre a rischiare di scadere in autorevolezza, se venisse a trovarsi in evidente difficoltà davanti alla classe: l’estate scorsa un sondaggio dell’Università Cattolica di Milano ha appurato che la maggior parte degli insegnanti DNL che hanno provato attività CLIL, ha un livello che non supera il B2. E’ da questo dato che bisognerebbe partire, per sanarlo, prima di imporre l’impossibile.

L’importanza della lingua straniera
In tutto ciò si continua inoltre a considerare gli insegnanti di lingua straniera come semplice supporto ai docenti DNL, benché da sempre essi trattino contenuti CLIL, soprattutto nei tecnici, come certifica un semplice sguardo ai programmi ministeriali, che comprendono interi moduli di civiltà, di storia, di economia, di geografia, di diritto, di questioni globali. E presentano il vantaggio di creare, nei più disparati settori, set di conoscenze e competenze paralleli all’italiano, e non sostitutivi. Come accade appunto quando sei bilingue o trilingue.
Un effetto secondario del ruolo dei docenti di lingua come mero supporto al CLIL, è stata finora anche la proliferazione di corsini e moduletti di fatto affidati a lettori madrelingua già in forza nelle scuole, ovvero a personale più o meno qualificato esterno: due modalità che essendo in perfetta violazione formale delle disposizioni CLIL, impediscono la denominazione di quelle attività come CLIL.
Le disposizioni CLIL alle scuole continuano a escludere anche una fondamentale considerazione delle più impellenti necessità dei discenti, che nel sistema educativo italiano sono soprattutto quelle – certificate più e più volte dall’OCSE – di acquisire in primo luogo adeguate competenze alfanumeriche di base, e anche competenze in lingua straniera, in mancanza delle quali non si fa altro che frustrare i ragazzi con lezioni di fisica o diritto o filosofia in un idioma che essi non padroneggiano a sufficienza per poter ottenere un qualche vantaggio.
E semplicemente non è vero che il CLIL sia un gran successo ovunque in Europa. Vi sono dibattiti internazionali da oltre un decennio anche sulle ricadute negative di programmi CLIL in Paesi non pronti. L’Italia palesemente non lo è, né dal punto di vista dei discenti né in larga misura per quanto concerne i docenti (a meno che non si voglia fare degli insegnanti formati nel CLIL e competenti linguisticamente, dei globetrotters che girino l’Italia proponendo i loro contenuti a tutte le scuole). Data la situazione italiana, a parte le debite lodevoli eccezioni, il CLIL continua ad essere in troppi casi un ostinato “vorrei ma non posso e però lo faccio lo stesso”, è a dire: velleitario, approssimativo, didatticamente inconcludente se non dannoso.

La proposta
Sensato sarebbe sospendere l’obbligatorietà del CLIL, almeno fintanto che non vi siano le condizioni per una generale attuazione, lasciando che venga realizzato, su base volontaria e condivisa da docenti, studenti e genitori, in quelle scuole dove vi siano tutte le risorse necessarie e ve ne sia il desiderio.
Sensato è certamente incoraggiare sia i docenti che i discenti all’acquisizione di competenze in L2 che siano le più alte possibile. Ma se hai una competenza adeguata e padroneggi una lingua straniera in tutte le sue abilità, il lessico specifico di una materia lo impari velocemente senza nemmeno bisogno di un docente. Se capisci un grafico e lo sai descrivere e commentare in italiano, e hai una buona competenza in una lingua straniera, con qualche ora di studio del lessico specifico sei in grado di spiegare grafici e tabelle anche in quell’idioma. Se invece lo impari solo in inglese, vivrai il paradosso di aver bisogno del vocabolario per spiegarlo a qualcuno nella tua lingua materna.
E mentre si aspetta che il sistema scolastico italiano emendi i propri deficit in termini di lingue straniere, sarebbe altrettanto utile ripensare all’opportunità didattica, e alle ricadute culturali e sociali, di veicolare in tutti gli ordini di scuole certi contenuti solo o prevalentemente in inglese o in altra lingua. Perché non è così che si arriva al trilinguismo giustamente auspicato per i cittadini europei di domani.