AMBIENTE, GLOBALIZZAZIONE, SVILUPPO SOSTENIBILE, SCIOPERO, RESPONSABILITÀ
di Maria Grazia Carnazzola
Lo scenario
Più di quarant’anni fa si svolgeva a Stoccolma la prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano che inseriva, di fatto, l’ambiente nell’agenda internazionale. Altri incontri al vertice seguirono negli anni e si pensava che tutti, poveri e ricchi della Terra, si fossero messi d’accordo per una visione comune per la crescita, l’equità, la conservazione dell’ambiente. Non è andata proprio così: la situazione ambientale continua ad essere instabile, le discussioni sulla finanza e sull’economia globale sembrano ancora riservare all’ambiente il ruolo di ospite tollerato: si fatica a comprendere che tutti abbiamo interesse a proteggere l’ambiente e a promuovere, senza allarmismi ma con determinazione, forme di sviluppo sostenibile da fondare sulla costruzione di una responsabilità etica globale.
A partire dagli anni ’70 del secolo scorso cominciano ad assumere contorni sempre più netti due problemi: il permanere dello squilibrio tra sviluppo e arretratezza e il manifestarsi inequivocabile degli esiti negativi dello sviluppo, soprattutto nello spreco di risorse e nel degrado ambientale. Occorre ora capire se l’umanità è in grado di sopportare la “smisuratezza” della crescitao se invece sia urgente connotare lo sviluppo di eticità, sottolineandone i limiti necessari. L’insostenibilità della crescita illimitata è evidente sia negli effetti sull’equilibrio della biosfera sia sull’equilibrio dell’ordine sociale. Nel dibattito attuale, politico, economico e sociale, uno dei vocaboli maggiormente ricorrente è globalizzazione, termine complesso, pervasivo, dai contorni sfumati, percepito come un’idea-chiave attorno alla quale costruire le spiegazioni dei fenomeni culturali, sociali, economici e politici della contemporaneità. Al di là delle sfumature semantiche, il termine veicola l’idea di un pianeta come scenario unico di avvenimenti interrelati, dove i processi hanno carattere transnazionale e gli eventi non coinvolgono solo i grandi sistemi. Sostiene Domenico De Masi che la globalizzazione non è un fenomeno recente e non ha un’unica forma. Nel corso del tempo le scoperte geografiche, gli scambi commerciali, le colonizzazioni, la diffusione delle idee – facilitata oggi dalle potenti tecnologie dell’informazione -, l’istituzione degli Organismi Internazionali hanno accelerato il processo di unificazione mondiale. Gli effetti sono evidenti sul piano dei rapporti sociali, economici, dell’organizzazione del lavoro, degli assetti politici, del modo di sentire e si manifesta da una parte nella massificazione dei consumi e dei gusti, dall’altra nell’arroccamento di identità etniche in carne ed ossa dentro uno spazio. È importante tenerlo presente e ricordarlo nel dibattito politico, perché lo spazio virtuale non è lo spazio pubblico: questo richiede, simultaneamente, la parola e il corpo. Il corpo vive, vede, ricorda e trascrive; la rete informatica annulla la distanza e mette a rischio le culture particolari entro le quali si può essere individuo e gruppo. La distruzione della memoria porta all’omologazione, perché la memoria è legata all’esperienza e ai valori del viverla che esprimono una visione del mondo, una cultura, trasmessa da gruppi umani e da esperienze collettive. Ma globalizzazione è da intendersi come sinonimo di omologazione? Ed è sinonimo di occidentalizzazione? Nei dibattiti che hanno accompagnato le manifestazioni di Fridays for future pare di sì. C’è stato chi ha dichiarato “Avete rubato i miei sogni…” Ma ci sono solo i sogni e i desideri dei ragazzi formati e cresciuti nel pensiero occidentale? I bambini, gli adolescenti, i giovani, che a questo progresso, che nausea chi partecipa alle manifestazioni di piazza, non hanno avuto accesso, che direbbero? Ancora una volta globalizzazione viene confusa con occidentalizzazione. Greta si è posta il problema dal loro punto di vista? E chi la guida e chi la segue?Bisognerebbe riflettere e far riflettere su questi aspetti perché questi fenomeni non coinvolgono solo ciò che sta “fuori”, ma influiscono sui risvolti più intimi e personali delle nostre vite. E questa è educazione civica, è cittadinanza planetaria, intesa nel senso più profondo di atteggiamento etico e politico. Sarebbe opportuno anche un affondo sul perché, dopo decenni in cuieminenti personalità del mondo filosofico e scientifico hanno posto il problema, inascoltati, all’improvviso una ragazzina mobiliti masse di ragazzi e non solo. E questo può farlo solo la Scuola. Apprezzo la partecipazione degli studenti, davvero. Il rispetto dell’ambiente in cui viviamo è un valore, ma proteggerlo è una missione e le missioni non si reggono sulle dichiarazioni e sui proclami. Servono azioni, impegno, volontà e coerenza. Coerenza che, francamente non ho visto neanche negli adulti che accompagnavano alcune scolaresche nelle manifestazioni di piazza il 27 settembre a Roma. “Ragazzi, andiamo di là, altrimenti la fila diventa troppo lunga”. E la fila era davanti a un fast-food.Non mi scandalizza la cosa, ma non posso non rilevarla. Eovviamente assenze potenzialmente giustificate; anche questo la dice lunga: siete autorizzati a scioperare; un’altra distorsione dell’intendere il diritto all’autodeterminazione di cittadini liberi e responsabili. È giusto scegliere di dire, di urlare “Questo no, cosìno”, ma contemporaneamente bisognerebbe proporre “Questo sì, così sì”. Altrimenti è troppo facile e deresponsabilizzante. Si ponecosì, ancora una volta, il problema della gestione del potere, della leadership, del carisma che non è una caratteristica della persona, ma dipende in parte dalle situazioni, come sostiene J. Hillman. E dalle sponsorizzazioni finalizzate di gruppi di potere, aggiungo.Cui prodest?
La Scuola.
La contemporaneità fa registrare un livello di complessità altissimo, determinato dalla rapidità con cui variano gli scenari sociali, economici, culturali e richiede da parte di ciascuno adeguate strumentalità di accesso alla “conoscenza possibile” – veicolata e filtrata in larga misura dai social- sostenute da robuste competenze di interpretazione, di scelta, di integrazione e di elaborazione: cioè di pensiero critico. Ma come si costruisce il pensiero critico e quali sono le responsabilità della Scuola in questo ambito? È possibile insegnare che il livello di civiltà si misura anche dal rispetto per il pianeta che ci ospita, che furbizia non è intelligenza e che al dichiarato dovrebbe far seguito un agito coerente? Per fare questo alla Scuola servono impegno lucido e appassionato, principi etici, conoscenze significative, identità forte. La consapevolezza, i modi di pensare sono generati dalla formazione e dall’esperienza interrelati: la prima dà forma, direzione, respiro alla seconda.
Questa considerazione ci costringe a riflettere sull’efficacia reale del sistema di istruzione/ formazione di fronte alla crescente complessità e al raggiungimento degli obiettivi educativi che istituzionalmente gli competono: educare alla complessità, al pensiero critico, alla responsabilità delle scelte… in altre parole educare alla cittadinanza attiva, nel senso di pensarsi come uomini liberi, capaci di vivere nel mondo di oggi e in quello di domani. Questa è una priorità: insegnare ai bambini e ai ragazzi che ciò che accade nel mondo influenza la vita di ciascuno e, nel contempo, che ciascuno di noi è responsabile del futuro dell’umanità e del pianeta; che i problemi che oggi toccano l’ambiente e l’umanità intera non possono essere affrontati se non con la comprensione, scientificamente fondata e sorretta da dati verificati e argomentati, di essere parte di un unico destino planetario. Ma è necessario che la Scuola lavori perché si impari a documentarsi autonomamente, a distinguere l’informazione corretta dal sentito dire, il dire corretto dall’invettiva che spesso maschera l’indifferenza, il sapere scientifico dalla falsa conoscenza che è vera ignoranza.
Il mondo della formazione tutto, scuola e mondo accademico, è chiamato a riflettere e a far riflettere sulla caduta di senso generatadal paradigma economico della crescita smisurata, perché la smisuratezza porta con sé la svalutazione dei fini e la sopravvalutazione dei mezzi che, a sua volta, offusca il senso del tempo (le radici), le speranze (il futuro) ed espande il senso dello spazio, del qui e ora, alimentando la minaccia dello sterminio ecologico e sociale. Ma è anche chiamato a far riflettere sulla necessità che il dibattito e le inevitabili, necessarie scelte siano fondati su solide conoscenze scientifiche. Solo cittadini, e non sudditi, consapevoli e responsabili potranno continuare a creare le condizioni per la miglior vita possibile dell’umanità. E forse per tutto questo un banner e qualche proclama non bastano e non bastano neppure le riforme scolastiche: serve una radicale riforma del pensiero e dei modi con cui si utilizzano i saperi disciplinari per dare forma alla conoscenza. Questo, solo una Scuola che ci crede veramente può farlo.
Per concludere
Tre sono i passaggi che ritengo necessari:
-prendere coscienza del problema, perché emerga un nuovo paradigma etico;
-costruire il consenso intorno alle possibili soluzioni o, almeno, intorno alla condanna della “crescita necessaria”; questo è costruzione di cittadinanza politica;
– puntare sull’educazione per sviluppare apprendimenti, intelligenza ambientale, approfondimenti culturali che arricchiscano di eticità lo sviluppo valorizzandone i limiti.
Ciò potrà condurre a quel concetto di “bene sufficiente” su cui fondare uno sviluppo quanto più sostenibile, tenendo ben presente che “sviluppo sostenibile” è un concetto politico.
BIBLIOGRAFIA
J. Hillman, Il Potere, RCS Libri S.p.A., Milano 2002;
D. De Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale, Rizzoli, Milano 2003;
E.Morin, Insegnare a vivere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014;
Agenda 2030;
Amartya Sen, Il Sole 24Ore;
A.Golini, La popolazione del pianeta, Il Mulino, Bologna 2003.
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