Scuola, quante ipocrisie

da la Repubblica

di LUCA BORZANI

Lo si sappia: le merendine sono state salvate dal rischio tassazione. Delle questioni di merito sollevate dall’ormai ex-ministro Fioramonti interessa poco o nulla. Importante sono appunto le merendine. E’, diciamolo, piuttosto deprimente leggere i primi commenti relativi alle dimissioni del titolare del ministero della pubblica istruzione. Una piccola antologia del politicismo in cui c’è di tutto, dall’analisi del gorgo pentastellato alla descrizione minuta dei possibili fattori di crisi per il governo, alle metafore sulle foglie d’autunno. Non una parola però sul mancato finanziamento alla scuola e all’università. Anche solo per smentire Fioramonti o per dire che magari ha ragione ma non è possibile fare altrimenti. O, ancora, per garantire futuri investimenti. Niente. Ma proprio niente. Da destra e da sinistra. Insomma, se c’era bisogno dell’ennesima conferma che lo stato del nostro sistema di educazione e istruzione non riesce ad appassionare né la politica né un’Italia disconnessa, impoverita e consumista, ce l’abbiamo sotto gli occhi. Segno non solo di perdita di ogni responsabilità verso il futuro ma di una straordinaria inconsapevolezza del rischio collasso della scuola e dell’università nel presente.
Più volte se ne è scritto in questa rubrica ma è utile riprendere qualche dato. La spesa italiana per la pubblica istruzione è solo leggermente inferiore agli interessi sul debito pubblico. Siamo, in questo, l’unico paese europeo. Nel rapporto tra risorse dedicate alla scuola e all’università e spesa pubblica totale ci collochiamo negli ultimissimi posti delle classifiche UE. Sono le conseguenze di un costante taglio di risorse perseguito da tutti i governi negli ultimi venti anni. Per riposizionarci nella media europea pari al 4,7 del Pil (noi siamo al 3,9) occorrerebbe un incremento di investimenti pari a tredici miliardi di euro l’anno. Non tre ma tredici. Per altro, il rapporto Ocse-Pisa 2019 ci dice che quindici ragazzi di quindici anni su venti non riesce a distinguere in un testo i fatti dalle opinioni (EU uno su dieci), che uno su quattro ha difficoltà di comprensione nella lettura, che l’Italia si colloca al terzo posto per il numero di giovani tra i 18 e i 24 anni che non studiano e non lavorano (26 per cento con media Ocse 14 per cento). Per non parlare degli edifici scolastici che cadono a pezzi e non sono in sicurezza, dei bassi stipendi e modesto riconoscimento sociale degli insegnanti, del sistema scolastico ormai duale e diviso tra chi è sorretto dalle famiglie e chi no, della fine dell’istruzione come ascensore sociale, del numero ridotto dei laureati. E si potrebbe continuare. Ma soldi per la scuola non si trovano.
Altro che linea di galleggiamento auspicata dal povero Fioramonti. La scuola ormai fa fatica a tenere la testa fuori dall’acqua. Colpita e quasi affondata dal de-investimento e da una giostra di riforme per lo più incomplete e largamente contraddittorie che l’ha lasciata esausta e ripiegata su sé stessa. Incerta tra aziendalismo e ruolo costituzionale, stretta tra abbandono istituzionale ed emergenza quotidiana.
Fioramonti avrà fatto bene o male a dimettersi, avrà o meno complicati progetti politici personali ma almeno non è stato ipocrita. Sarà naif ma non si è nascosto dietro le retoriche. A partire da quella della “scuola al primo posto”. Che dovrebbe solo sollecitare il riso o il pianto. No, la scuola non è al primo posto. E quando funziona nonostante tutto è, come spesso accade in questo paese, per la responsabilità dei singoli, di dirigenti e docenti, per la collaborazione di genitori che si rimboccano le maniche o tirano fuori soldi di tasca propria. Si fanno consigli comunali perché in un asilo si disegnano le sardine ma non perché cadono i tetti, non ci sono le palestre, il sostegno si fonda sul precariato, le povertà educative aumentano. Quelle sono cose troppo complesse per un ceto politico che probabilmente l’istruzione l’ha avuta in sospetto sin da quando era nei banchi scolastici. Vale anche per una Liguria che va verso le elezioni segnata dal tasso di abbandono scolastico più alto del Nord Ovest, da un numero di “neet” che si è moltiplicato negli ultimi anni, da un’università che non diventa una reale componente dello sviluppo. Ma, appunto, non è importante. Eppure è dall’educazione e dalla formazione che può venire qualche speranza di uscita dal declino, di invertire la crescita delle diseguaglianze, delle povertà materiali e immateriali. Per ricostruire competizione e attrattività di risorse e competenze. Ma noi facciamo Woodstock e abbiamo salvato le merendine. Good bye Mr Fioramonti.