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Next Gen AI

Da mercoledì 8 a lunedì 13 ottobre 2025 si terrà a Napoli “Next Gen AI”, il primo summit internazionale sull’Intelligenza Artificiale nella scuola, promosso dal Ministero dell’Istruzione e del Merito nell’ambito del Campus itinerante “Scuola Futura”.

L’iniziativa si colloca nel quadro delle azioni del PNRR Istruzione per l’innovazione didattica e la promozione delle discipline STEM, proseguendo il percorso avviato con la prima edizione di Next Gen AI, svoltasi a Milano nel gennaio 2025.

Delegazioni di istituzioni scolastiche da 40 Paesi si confronteranno con esperti, istituzioni e imprese sui temi chiave e sulle applicazioni dell’AI nei sistemi educativi in un grande laboratorio di orientamento.

Il summit sarà articolato in quattro indirizzi tematici – persone, luoghi, tecnologie, metodologie – che guideranno la riflessione sulle opportunità e le sfide dell’AI nel contesto educativo.

Sono attesi oltre 6.000 studenti e docenti e saranno coinvolti più di 280 mentor e formatori, insieme a oltre 50 imprese e start-up tecnologiche selezionate tramite avviso pubblico. Il programma prevede oltre 300 ore di formazione e 35 installazioni interattive di intelligenza artificiale.

La cerimonia di presentazione dell’iniziativa si terrà mercoledì 8 ottobre 2025, alle ore 16.30, presso il Teatro di Corte di Palazzo Reale, alla presenza del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara.

#ioleggoperché

#ioleggoperché

Leggere per crescere, leggere per capire

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Leggere non è un gesto semplice né un’abitudine scontata: è un atto di libertà che apre la mente, affina la sensibilità e nutre la coscienza. Ogni libro che prendiamo in mano ci invita a varcare i confini dell’esperienza, a entrare in dialogo con il pensiero di un altro e, allo stesso tempo, con le zone più profonde di noi stessi. In un’epoca dominata dalla rapidità, dalla distrazione e dalla frammentazione delle informazioni, la lettura rappresenta un atto rivoluzionario, il tempo dedicato a un libro è tempo dedicato alla riflessione, alla lentezza, alla profondità.

L’iniziativa #ioleggoperché, promossa dall’Associazione Italiana Editori con il sostegno del Ministero dell’Istruzione e del Merito e del Ministero della Cultura, incarna pienamente questa missione: diffondere la lettura come strumento di crescita individuale e collettiva. Ogni anno, grazie alla collaborazione tra scuole, famiglie e librerie, migliaia di libri arricchiscono le biblioteche scolastiche, rendendole spazi di dialogo e conoscenza condivisa.

Il valore educativo della lettura

La lettura è un processo complesso che unisce mente, cuore e corpo, coinvolgendo il cervello in una danza di connessioni tra ragione ed emozione. Le neuroscienze hanno dimostrato che leggere attiva aree cerebrali legate non solo alla memoria e al linguaggio, ma anche all’immaginazione, alla creatività e all’empatia. Ogni storia letta ci consente di vivere esperienze altrui come se fossero nostre, stimolando gli stessi circuiti neuronali di chi agisce o prova davvero quelle emozioni. Leggere non è, quindi, un atto passivo, ma un esercizio dinamico di immedesimazione, di apertura e di costruzione di sé, un’azione che fortifica la mente e affina la sensibilità.

Dal punto di vista pedagogico, la lettura rappresenta una palestra cognitiva e affettiva. Essa sviluppa la concentrazione, amplia il lessico, migliora la capacità di argomentare e potenzia il pensiero critico, ma va oltre, in quanto forma la consapevolezza, stimola la creatività e rafforza l’autostima. Attraverso la lettura, gli studenti imparano a collegare, ad analizzare, a interpretare, a formulare ipotesi e a confrontare prospettive differenti, allenando così le competenze trasversali fondamentali per la vita, quali empatia, comunicazione efficace, problem solving, cooperazione e autonomia.

Leggere insegna la complessità, il dubbio e la sfumatura; educa alla pazienza e alla riflessione, contrastando la superficialità del mondo digitale. Chi legge impara a pensare con la propria testa, a esercitare il giudizio e a guardare il mondo con occhi più attenti, empatici e compassionevoli, scoprendo nella parola scritta uno strumento di libertà interiore e di crescita personale.

Leggere per crescere

Ogni libro è un cammino di formazione, un viaggio che unisce conoscenza ed emozione, stimolando la crescita morale, cognitiva ed emotiva del lettore. Attraverso i personaggi e le vicende, il lettore entra in un universo simbolico in cui può riconoscere i propri conflitti interiori e scoprirne il significato. Ogni lettura è, dunque, un dialogo tra mente e cuore, tra esperienza e immaginazione, che aiuta a comprendere la realtà e a costruire la propria identità. In questa prospettiva, leggere diventa un laboratorio interiore di scoperta e di trasformazione, dove la riflessione si unisce alla sensibilità, la curiosità alla consapevolezza.

La scuola rappresenta il luogo privilegiato in cui questa crescita si compie in modo collettivo e guidato. Qui la lettura si fa esperienza condivisa, leggere insieme significa dialogare, confrontarsi, costruire senso comune e sviluppare il pensiero critico. Nei circoli di lettura, nei laboratori e nelle attività interdisciplinari, le parole diventano ponti che collegano generazioni e culture diverse. Ogni lettore, inserito in questa comunità, impara ad ascoltare e a rispettare l’altro, scoprendo che ogni interpretazione è un contributo prezioso alla comprensione del mondo.

All’interno di questo percorso, il Service Learning assume un ruolo fondamentale, unendo l’apprendimento allo spirito di servizio, trasformando il sapere in azione e in responsabilità. Leggere per crescere significa anche leggere per donare, per restituire ciò che si apprende alla comunità e promuovere la solidarietà, la cooperazione e la cittadinanza attiva. In questo modo, la lettura non è soltanto un atto individuale, ma un gesto civico che costruisce legami, rafforza la coscienza sociale e genera cultura condivisa.

Leggere per capire

Capire significa saper decifrare il mondo, e la lettura è lo strumento più potente per farlo. Ogni testo chiede di essere interpretato, collegato, discusso, ricondotto a un orizzonte di senso più ampio. Leggere è, dunque, un esercizio di pensiero critico e creativo, una forma di resistenza all’omologazione e alla superficialità, ma anche un atto di costruzione attiva della conoscenza.

Come affermava Paulo Freire, “Non si può leggere la parola senza leggere il mondo”, in quanto il testo scritto è sempre intrecciato alla vita, alle strutture sociali, alle esperienze umane che gli danno origine. Ogni libro è una finestra sulla realtà e, al tempo stesso, uno specchio in cui si riflettono le nostre inquietudini, i nostri sogni e le nostre contraddizioni. Leggere significa imparare a riflettere, a dialogare con la complessità, a comprendere le differenze e ad accogliere l’altro come parte di sé.

Le neuroscienze confermano che, quando leggiamo, il cervello “vive” le azioni e le emozioni dei protagonisti attivando aree sensoriali, motorie e affettive e generando un’esperienza quasi tangibile. È ciò che gli studiosi chiamano empatia cognitiva, la capacità di immedesimarsi nell’altro mantenendo però la consapevolezza della propria identità. Questo processo neurocognitivo spiega perché la lettura non solo arricchisce la mente, ma trasforma il modo in cui percepiamo e abitiamo il mondo. Leggere, dunque, è un atto di umanità profonda, che educa al rispetto, alla sensibilità e al pensiero consapevole.

#ioleggoperché 2025 – Una rete che unisce scuole e territorio

Nel decimo anniversario dell’iniziativa, #ioleggoperché continua a rappresentare la più grande campagna italiana di promozione della lettura. Con oltre 21.000 scuole e 3.400 librerie gemellate, il progetto crea una rete diffusa di partecipazione e solidarietà.

Dal 18 giugno 2025 scuole e librerie possono registrarsi sulla piattaforma ufficiale. Il periodo di gemellaggio, tra l’8 settembre e il 13 ottobre, consente di creare collaborazioni concrete tra istituzioni educative e librerie locali. La Settimana delle donazioni, dal 7 al 16 novembre 2025, rappresenta il cuore del progetto: chiunque può donare un libro alla biblioteca scolastica, contribuendo ad arricchire il patrimonio culturale dei ragazzi. A fine campagna, gli editori aderiscono con un’ulteriore donazione nazionale di oltre 100.000 volumi.

Ogni libro donato è un gesto di fiducia nella cultura come bene comune, ma anche un atto di responsabilità sociale che trasmette alle nuove generazioni il valore della conoscenza condivisa. Donare un libro significa credere nel potere della parola come strumento di emancipazione, di libertà e di incontro. Ogni volume che entra in una biblioteca scolastica diventa un seme che potrà germogliare nella mente di uno studente, dando vita a nuove idee, a nuovi sogni e a nuovi legami.

Le attività collegate all’iniziativa, che le scuole realizzano, ampliano il significato del progetto, trasformandolo in un autentico laboratorio di cittadinanza e creatività. In questi contesti, i ragazzi imparano che la lettura non è solo un atto individuale ma un’esperienza collettiva, che costruisce senso di appartenenza, spirito critico e consapevolezza culturale. Attraverso il dialogo con autori, l’analisi dei testi, la scrittura collaborativa e lo scambio di volumi come nel book swap, si sviluppano competenze comunicative, relazionali e civiche, in linea con i traguardi dell’educazione alla cittadinanza.

In questo modo, la scuola non solo si apre al territorio ma diventa una comunità viva, un centro pulsante di cultura che interagisce con le librerie, con le famiglie e con le istituzioni. Essa si trasforma in un presidio educativo in cui la lettura assume un valore formativo, affettivo e sociale, capace di unire le generazioni e di rendere la cultura un bene realmente condiviso.

La scuola come comunità che legge

Una scuola che legge è una scuola che cresce, che respira cultura e la trasmette come linfa vitale. Le biblioteche scolastiche, lontane dall’essere semplici depositi di libri, diventano veri e propri centri di aggregazione, spazi inclusivi dove ogni studente può sentirsi accolto, libero di cercare, esplorare e sognare. Qui la curiosità trova casa, la parola diventa dialogo, e la lettura si trasforma in un’esperienza comunitaria.

Attraverso iniziative come #ioleggoperché, la scuola assume un ruolo di promotrice culturale, tessendo relazioni con il territorio e creando una rete di significati condivisi tra docenti, studenti, famiglie e librerie gemellate. Ogni attività di lettura collettiva, ogni laboratorio, ogni scambio di libri diventa un’occasione per imparare l’ascolto, l’empatia e il valore della pluralità delle voci.

Leggere a scuola significa imparare a pensare criticamente, a confrontarsi con idee diverse, a rispettare le opinioni altrui. Significa anche educare alla cittadinanza attiva, alla curiosità intellettuale e al desiderio di comprendere il mondo. In questo modo la scuola che legge diventa una palestra di democrazia, dove si formano cittadini consapevoli, capaci di leggere non solo i testi ma anche la vita e le sue sfumature.

Conclusione

Ogni libro è una vita in più vissuta, ogni lettura è un passo verso la libertà. Leggere per crescere e leggere per capire significa formare menti aperte, curiose e solidali. L’iniziativa #ioleggoperché mostra come la lettura possa diventare una forza collettiva, un movimento capace di unire persone, generazioni e territori.

In un’epoca segnata da crisi e disorientamento, il libro resta un porto sicuro, una bussola, una speranza. Come scriveva Umberto Eco: “Chi non legge, a settant’anni avrà vissuto una sola vita. Chi legge, avrà vissuto cinquemila anni.”

Ogni pagina letta è un frammento di umanità custodito nel tempo, un seme che continua a germogliare nel futuro.

F. Scarpelli, Cuore di mafioso

Scarpelli ancora scoperto e pubblicato

di Antonio Stanca

     È successo altre volte e altre succederà che si scopra un inedito di Furio Scarpelli e si provveda immediatamente alla sua pubblicazione. La storia degli inediti dello Scarpelli risale a quella che era stata la sua attività principale, la sceneggiatura. Non tanto scrittore quanto sceneggiatore è stato in quell’Italia venuta fuori così malridotta dalla seconda guerra mondiale, in quel cinema che le era stato proprio e che dal Neorealismo era giunto alla rinnovata Commedia dell’Arte. E in Italia lo sceneggiatore è anche colui che crea la vicenda del film, che inventa la trama, la scrive, è il suo autore, il suo scrittore senza che i testi narrativi, una volta diventati film, abbiano altro seguito. Molte volte rimangono inediti siano racconti o romanzi, altre vengono scoperti e pubblicati dopo molto tempo. Dello Scarpelli famose sono state le sceneggiature di I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, C’eravamo tanto amati e di tanti altri film. Riguardo ai manoscritti rimasti inediti recente è la scoperta di uno degli anni 1993-94, s’intitola Cuore di mafioso e immediata, dello scorso Luglio, è stata la pubblicazione presso Sellerio. Anche questo era stato il soggetto per un film ma non si era più parlato. È il figlio Giacomo che ultimamente sta provvedendo ad un’operazione di riscoperta, di recupero, e che in Cuore di mafioso ha inserito una postfazione abbastanza illuminante circa la figura, il lavoro, i tempi, gli ambienti del padre. Anche schizzi e disegni comprende questa pubblicazione ché pure disegnatore, pittore, vignettista, caricaturista era stato Furio. Quello della satira ottenuta mediante disegni su giornali e riviste era stato uno dei suoi primi modi per farsi conoscere e non vi aveva mai rinunciato.

    Nato a Roma nel 1919 qui era morto nel 2010, aveva novantuno anni, un’epoca intera aveva percorso la sua vita, l’epoca di una nazione che ambiva a sollevarsi, sistemarsi dopo i gravi scompensi, i grossi problemi comportati dalla guerra. Tutto quanto, eventi, personaggi, cultura, letteratura, spettacolo, arte, costume, società, era stato di quell’epoca sarebbe stato anche di Furio Scarpelli, delle sue narrazioni, delle sue sceneggiature realizzate da solo o con collaboratori tra i quali il figlio Giacomo. Era un mondo, una vita che ambiva a migliorare, a colmare i propri bisogni e la letteratura, il cinema, l’arte erano la voce di questo mondo, di questa vita. Da qui la corrente del Neorealismo che allora si affermò in ambito culturale, artistico a riprova di quanto fosse importante che quei tempi, quella storia si riflettesse in esso. Cuore di mafioso, opera degli anni ’90, dice di quella realtà, di un fenomeno che allora la mafia stava vivendo, la conversione che voleva operare al suo interno per liberarsi dei sistemi violenti sempre usati e diventare un’istituzione come le altre pur se di carattere criminale. La vicenda del vicecommissario Alberto Bandini scambiato per il nipote di un capo mafioso farà da sfondo ad una narrazione ambientata in Sicilia e carica, come al solito in Scarpelli, di effetti satirici, drammatici, di movimenti incalzanti, di risvolti improvvisi. Tutto quanto c’era nel film c’era stato pure nel testo che lo aveva preceduto compresa la confessione finale del capo mafioso che si dichiara pentito di quanto fatto finora e intenzionato a cambiare il modo e lo scopo delle sue azioni. Era un’epoca che si stava concludendo e con queste vicende Scarpelli mostrava di aver assistito anche a quella conclusione oltre che all’intera epoca. Lo aveva fatto più come sceneggiatore che come scrittore si è detto ma senza alcuna intenzione di ridurre il valore, la funzione, il significato delle narrazioni rispetto ai film dal momento che i testi scritti non erano stati soltanto delle anticipazioni ma avevano avuto una propria autonomia, una propria indipendenza, un valore proprio.

Internazionalizzazione nella scuola: mobilità e formazione al centro

La Direzione Generale per gli Affari Internazionali e l’Internazionalizzazione e Fondazione Intercultura ets presenteranno il nuovo rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca “INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA SCUOLA: MOBILITÀ E FORMAZIONE AL CENTRO”.

Il convegno avrà inizio alle 15:00 e si terrà nella sala “Aldo Moro” del Ministero dell’Istruzione e del Merito. Durante l’evento saranno premiate le cinque scuole modello per l’internazionalizzazione 2025.

Programma

Introduzione e saluti di apertura

  • Carmela Palumbo, Capo Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione, Ministero dell’Istruzione e del Merito
  • Mattia Baiutti, Segretario Generale Fondazione Intercultura ets

Presentazione del Rapporto 2025 

  • Nando Pagnoncelli, Presidente IPSOS

Interventi di
Sabrina Capasso, Direttore Generale Affari internazionali e internazionalizzazione del sistema nazionale di istruzione Ministero dell’Istruzione e del Merito Marcello Bettoni, ANP – Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola Massimiliano Fiorucci, Rettore, Università degli Studi di Roma Tre

Premiazione delle scuole modello per l’internazionalizzazione 2025
Susanna Mantovani, Presidente Fondazione Intercultura ets

Crescere si può

Crescere si può

Imparare dagli errori, allenare la mente, credere nel cambiamento

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Diventare più intelligenti significa imparare a vivere meglio. Non per accumulare successi o superare gli altri, ma per comprendere con più profondità ciò che ci circonda, riconoscere l’essenza effimera della vita, cogliere il senso nascosto delle esperienze. L’intelligenza, in questa luce, non è solo calcolo o logica, ma anche consapevolezza, sensibilità, capacità di abitare la complessità con equilibrio e autenticità.

Eppure, ancora oggi, nell’immaginario comune e spesso anche tra i banchi di scuola, sopravvive l’idea che l’intelligenza sia un dono fisso, distribuito in modo iniquo alla nascita. Sei “portato” o “non portato”, “bravo” o “negato”. Etichette che si appiccicano presto alla pelle dei bambini e che finiscono, lentamente, per diventare profezie che si autoavverano.

Questa visione statica dell’intelligenza pervade ancora molti contesti educativi, insinuandosi nei voti affrettati, nelle aspettative sbilanciate, negli sguardi delusi rivolti a chi fatica. La scuola, spesso inconsapevolmente, diventa teatro di una narrazione limitante, che separa chi “ce la farà” da chi è destinato ad arrancare. E così, invece di liberare potenzialità, le ingabbia.

Ma le neuroscienze, la psicologia cognitiva, la pedagogia contemporanea ci dicono altro.

 Ci dicono che l’intelligenza non è una torre costruita una volta per tutte, ma una casa in divenire, fatta di stanze che si possono sempre ampliare, modificare, rendere più accoglienti. Ogni esperienza significativa, ogni sfida affrontata, ogni errore elaborato diventa un mattone in più.

 In questo orizzonte, il lavoro della psicologa Carol Dweck rappresenta una svolta epocale. La sua teoria della “mentalità di crescita” ha restituito agli studenti — e a chi li accompagna — la possibilità di pensarsi in movimento, in trasformazione. Non più “sei intelligente” o “non lo sei”, ma “puoi diventarlo”, se abbracci la fatica come opportunità, se consideri l’errore non una condanna ma un passaggio, se impari a credere nella possibilità di cambiare.

La scuola, allora, deve smettere di fotografare gli studenti ma deve imparare a filmarli. Deve diventare uno spazio in cui le traiettorie si intrecciano, si correggono, si rinnovano. Coltivare l’intelligenza non è un’illusione ma un dovere educativo, un investimento culturale, una sfida che coinvolge ogni insegnante, ogni genitore, ogni istituzione. Perché se l’intelligenza può crescere, l’educazione deve diventare il terreno più fertile per farla fiorire. E forse, solo allora, potremo davvero educare alla felicità.

La mentalità di crescita secondo Carol Dweck

La teoria di Carol Dweck rappresenta una svolta profonda nel campo dell’apprendimento, poiché affronta non solo il modo in cui apprendiamo, ma il modo in cui pensiamo a noi stessi come esseri capaci di apprendere. Alla base della sua ricerca vi è la distinzione tra due modalità di pensiero che modellano l’atteggiamento degli studenti: la mentalità fissa e la mentalità di crescita. La mentalità fissa è radicata nella convinzione che le proprie capacità siano innate, immutabili, e che ogni successo o fallimento confermi tale destino. Gli studenti che la adottano tendono a evitare le sfide, a nascondere gli errori, a vivere il giudizio come minaccia. Al contrario, la mentalità di crescita riconosce che le abilità possono essere sviluppate attraverso l’impegno, l’utilizzo di strategie efficaci e la disponibilità a imparare dagli errori.

Questa prospettiva libera lo studente dalla trappola della prestazione e lo introduce in una logica di apprendimento autentico, nella quale lo sforzo non è sinonimo di debolezza, ma dimostrazione di coraggio e desiderio di miglioramento. Dweck dimostra, attraverso numerosi studi sperimentali condotti su campioni scolastici e universitari, che l’approccio mentale condiziona in modo significativo non solo i risultati accademici, ma anche il benessere psicologico, la resilienza emotiva, la capacità di stabilire obiettivi e di perseverare di fronte agli ostacoli.

La mentalità di crescita diventa, così, una chiave di lettura e di trasformazione della relazione educativa, poiché aiuta a riconoscere le potenzialità anche dove il giudizio scolastico tende a vedere un limite. Cambiare mentalità, sostiene Dweck, significa anche cambiare linguaggio: dire “non ci riesco ancora” al posto di “non ci riesco” trasmette agli studenti l’idea che ogni fallimento sia un momento intermedio, non un punto d’arrivo. È un cambio di paradigma, un invito a credere in ciò che ancora non è, ma può essere.

Le neuroscienze e la plasticità cerebrale

I progressi nel campo delle neuroscienze hanno confermato che il cervello è dotato di una straordinaria plasticità, ovvero della capacità di modificare la propria struttura e le proprie funzioni in risposta all’esperienza. Le connessioni neuronali non sono elementi rigidi e predeterminati, ma circuiti flessibili che possono rafforzarsi, moltiplicarsi e riorganizzarsi grazie all’esposizione a stimoli cognitivi, all’allenamento intenzionale e alla varietà dell’ambiente. Ogni nuova competenza, ogni sforzo mentale, ogni esperienza significativa lascia una traccia tangibile nel cervello, modificandolo fisicamente e ampliando il potenziale dell’individuo.

Questo significa che l’apprendimento non è solo un processo mentale astratto, ma una vera e propria trasformazione biologica. Apprendere modifica letteralmente la struttura cerebrale, aprendo la strada a un’idea di intelligenza non statica ma dinamica, in costante divenire. Tale visione comporta un ripensamento radicale del modello scolastico: se il cervello è modificabile, allora anche la scuola deve diventare un contesto che favorisce il cambiamento, offrendo a ogni studente opportunità reali di crescita, indipendentemente dal punto di partenza.

Diventa, pertanto, indispensabile superare l’approccio classificatorio della valutazione sommativa, che cristallizza le performance in voti, per orientarsi verso percorsi formativi che valorizzino i processi. Integrare nel curricolo scolastico attività che stimolino la creatività, il pensiero critico, la risoluzione di problemi autentici e la capacità di autoriflessione significa sfruttare la plasticità cerebrale come leva per generare apprendimenti profondi e duraturi. È attraverso esperienze significative, riflessione consapevole e ambienti relazionali positivi che il cervello scolastico si trasforma in un cervello che apprende davvero.

L’errore come alleato dell’apprendimento

Uno degli ostacoli principali all’adozione della mentalità di crescita risiede nel modo in cui la scuola tradizionale tratta l’errore, spesso considerato una colpa, una macchia da evitare o nascondere. In molte aule, sbagliare equivale a fallire, ed è proprio questa equazione a minare la possibilità di crescita. Il giudizio, legato quasi esclusivamente al risultato, genera paura e inibisce il pensiero creativo. Al contrario, nella prospettiva della mentalità di crescita, l’errore rappresenta una preziosa opportunità di apprendimento. Ogni sbaglio, se accolto e analizzato, diventa una lente che permette di osservare in profondità il proprio processo cognitivo, individuare le aree da migliorare e consolidare nuove strategie.

Insegnare agli studenti ad accogliere l’errore, a rifletterci sopra con consapevolezza, a coglierne il valore informativo e a riprovare senza sentirsi sminuiti, significa educarli alla resilienza e alla fiducia in sé stessi. È un passaggio culturale che trasforma la percezione del fallimento da barriera a ponte verso l’evoluzione personale. Gli insegnanti, in questo delicato processo, hanno il compito cruciale di creare un ambiente emotivamente sicuro, dove l’errore non venga stigmatizzato ma considerato tappa fisiologica del cammino verso la comprensione.

Attività come l’autocorrezione guidata, il confronto aperto in gruppo, i momenti di rilettura collettiva degli errori più frequenti e le simulazioni con feedback immediato possono trasformare l’aula in un autentico laboratorio cognitivo. In questo contesto, sbagliare non è più temuto, ma vissuto come parte integrante del gioco dell’apprendere. Ed è proprio in questo spazio liberato dalla paura che lo studente impara davvero, perché trova il coraggio di mettersi in gioco, esplorare, rischiare e crescere.

Strategie didattiche quotidiane per una scuola che fa crescere

Applicare la teoria della mentalità di crescita in classe non richiede rivoluzioni eclatanti, ma gesti quotidiani e coerenti che trasformino la cultura scolastica dal basso. Ogni interazione tra docente e studente può diventare un’occasione per coltivare fiducia, per incoraggiare lo sforzo e per orientare lo studente verso una visione di sé come soggetto attivo del proprio percorso di apprendimento. Il feedback rappresenta, in tal senso, uno strumento chiave: quando è specifico, costruttivo e orientato al processo, aiuta gli studenti a cogliere non solo ciò che è stato raggiunto, ma soprattutto come migliorare, quali strategie rafforzare e su quali aspetti riflettere.

Le attività proposte in aula dovrebbero mirare alla stimolazione della riflessione metacognitiva, della capacità di problem solving e della collaborazione tra pari. Compiti autentici, basati su situazioni reali e su domande aperte, sono più efficaci rispetto agli esercizi meccanici e ripetitivi, poiché richiedono di pensare in modo flessibile, di adattarsi, di sperimentare e di correggersi. In un contesto di questo tipo, è importante che gli studenti siano messi nella condizione di riconoscere le strategie che funzionano per loro, di valutare con lucidità i propri errori e di riformulare con coraggio il proprio approccio quando incontrano ostacoli.

Anche la valutazione può e deve essere ripensata in questa direzione. Se condotta con criteri trasparenti, rubriche condivise e modalità formative, la valutazione smette di essere un giudizio statico e diventa un’opportunità per documentare la crescita, per valorizzare i progressi e per orientare l’apprendimento futuro. Una scuola orientata alla crescita è, in definitiva, una scuola che costruisce consapevolezza, alimenta l’autonomia e insegna a imparare ad imparare. È un luogo dove il potenziale di ciascuno viene riconosciuto e accompagnato con cura, con la certezza che la mente, come un muscolo, si rafforza attraverso l’uso, la fiducia e il tempo.

Il valore dello sforzo e della perseveranza

In una scuola che promuove la mentalità di crescita, il talento cede il passo alla determinazione, perché il vero apprendimento non nasce da ciò che si sa, ma da ciò che si sceglie di costruire con costanza. Lo sforzo e la perseveranza non sono virtù da premiare solo quando portano a un risultato brillante, ma atteggiamenti fondamentali da riconoscere e coltivare in ogni fase del percorso scolastico. Insegnare agli studenti a perseverare non significa solo spingerli a non arrendersi, ma accompagnarli nella scoperta che la fatica è parte integrante di ogni evoluzione, e che i momenti di stallo o frustrazione non sono fallimenti, ma tappe inevitabili del processo.

I docenti hanno un ruolo decisivo nell’alimentare questa visione: devono sostenere i loro studenti nei momenti di difficoltà, accogliere la loro insicurezza e restituire fiducia attraverso parole, gesti, aspettative realistiche ma alte. Una cultura educativa che premia l’impegno sincero, che lascia spazio alla fatica e alla lentezza, è una cultura che rifiuta l’urgenza della prestazione immediata e valorizza la crescita continua. La perseveranza, infatti, non è solo una qualità personale, ma una competenza che si costruisce attraverso esperienze significative, obiettivi progressivi e adulti che fungano da modelli di resilienza.

Ogni piccolo traguardo raggiunto grazie allo sforzo, ogni sfida affrontata con tenacia, contribuisce alla costruzione di una visione positiva di sé come individuo capace di superare i propri limiti. Quando la perseveranza viene insegnata come parte del curricolo invisibile, diventa una risorsa per la vita, una forza silenziosa che accompagnerà gli studenti ben oltre i confini dell’aula. Solo in questo modo la scuola potrà formare persone davvero pronte ad affrontare la complessità del mondo, senza temere la propria imperfezione ma riconoscendola come punto di partenza per crescere.

Conclusione

Rendere la mentalità di crescita un orizzonte pedagogico condiviso non significa aderire a una moda educativa, ma abbracciare una visione radicale e profonda del compito formativo della scuola. Significa rispondere con responsabilità e consapevolezza a ciò che le scienze cognitive, la pedagogia critica e l’esperienza scolastica quotidiana ci mostrano con chiarezza: tutti possono imparare, a patto che siano accolti, sostenuti e messi nelle condizioni di farlo. Ogni studente è un potenziale in divenire, un’opera aperta che va accompagnata con fiducia, rigore e umanità.

La scuola, dunque, non può limitarsi a trasmettere saperi cristallizzati, ma deve farsi promotrice di un apprendimento che trasformi, che renda i ragazzi protagonisti consapevoli del proprio cammino. Insegnare a credere in sé stessi, ad accettare l’errore, ad amare la fatica del pensiero, vuol dire offrire strumenti di vita prima ancora che di studio. Coltivare l’intelligenza significa, in fondo, coltivare l’umanità nelle sue forme più alte: la capacità di riflettere, di scegliere, di migliorarsi.

Quando un ragazzo scopre che il suo cervello può cambiare, che lui stesso può cambiare, allora si libera dalla paura del giudizio, dall’ombra del fallimento, dalle etichette limitanti. E a quel punto, davvero, nulla può più fermarlo. La scuola che insegna a cambiare non costruisce solo competenze, ma costruisce libertà.

J. Fosse, Un bagliore

Jon Fosse e la vita dell’anima

di Antonio Stanca

   Un altro esempio della scrittura di Jon Fosse, autore norvegese Nobel per la Letteratura nel 2023, è comparso di recente con il breve romanzo Un bagliore, edito da La nave di Teseo e tradotto da Margherita Podestà Heir. L’edizione originale è del 2023 e rientra tra le tante opere di narrativa scritte dal Fosse insieme ad altre di teatro, di poesia, di saggistica, di traduzione, di letteratura per ragazzi. Ha sessantasei anni e molto e di diverso genere ha scritto.

   Nato a Strandebarm nel 1959, ha esordito nella narrativa nel 1983 e in questa ha continuato aggiungendovi altri generi. Prima del Nobel ha ottenuto notevoli riconoscimenti tra i quali quello di risiedere con la famiglia, moglie e figli, nella sede reale di Grotten a Oslo. Una figura importante è diventata la sua nel contesto culturale e artistico internazionale. Uno spazio proprio si è creato tra le personalità d’eccezione di tale contesto. A procurargli tanto successo è stata l’attualità degli argomenti trattati, la capacità di aderire ai problemi della vita, della società, della storia contemporanea, problemi legati soprattutto al passaggio dalla vecchia alla nuova generazione, alle difficoltà a volte insormontabili che ha comportato, all’incomprensione, all’incomunicabilità che ne sono conseguite, alla crisi dei rapporti famigliari, sociali, alla difficoltà di recuperare il passato, all’accettazione in molti casi di una condizione sospesa tra prima e dopo, incapace di stabilirsi perché continuamente esposta a quel flusso di coscienza che non le permette di farlo. Un flusso, cioè un movimento che tiene il pensiero sempre diviso tra passato e presente, tra quanto ricordato e quanto vissuto, quanto avvenuto e quanto avviene senza mai definirlo. A rendere questa instabilità, questa vastità interviene in Fosse un linguaggio non di espressioni compiute, ben costruite, ben collegate ma di parole isolate, scarne, essenziali, di parole che non vogliono spiegare, chiarire ma cogliere l’attimo, penetrare nell’intimo, rendere l’invisibile, l’indicibile, l’impossibile. Altra è la vita che Fosse si propone di rappresentare, è una vita più vasta, più ampia, una vita completa, totale perché dell’anima, dello spirito, è la vita del pensiero, quella che comprende anche il sogno, l’immaginazione, la visione, l’apparizione quando non il delirio. E quello delle parole essenziali è sembrato allo scrittore il modo più idoneo per dire di essa. Anche in Un bagliore si assiste a situazioni simili, a linguaggi simili. Qui si tratta, fin dagli inizi, di una vicenda strana, irreale, incomprensibile della quale si rende conto pure il protagonista senza, però, riuscire a porvi rimedio e rimanendone vittima. È un uomo che vive da solo, un uomo che è uscito con la macchina e si è inoltrato per strade poco frequentate alla periferia della città. È finito in un bosco, ha proceduto finché la macchina non si è impantanata tra solchi profondi. Impossibile liberarla, serve trainarla con una macchina più potente o un trattore. Alla ricerca di questi mezzi si mette quell’uomo, di una casa con una macchina o di una fattoria con un trattore. Si è incamminato sulle strade che crede di aver percorso poco prima senza rendersi conto che l’ora è tarda, che tra poco sarà buio completo, che nessuna casa, nessuna fattoria aveva notato prima e che intanto ha cominciato a nevicare. Si perderà in un bosco fitto di alberi e di sterpaglie, non saprà orientarsi tra il buio e la neve che cancelleranno ogni indizio. Avrà freddo, molto freddo, si scoprirà solo, senza nessun aiuto, nessun riferimento, solo e lontano dalla macchina in una oscurità senza limiti. Sarà allora che cominceranno a comparirgli delle immagini, delle figure: la prima sarà quella di un “bagliore” intenso, di forma umana o quasi, poi quella di un uomo con un vestito nero, senza volto e scalzo ed infine quelle dei genitori. Soprattutto la madre parlerà con lui, lo inviterà a muoversi, a seguirla, a tornare a casa. Glielo farà dire anche dal padre, cercherà di coinvolgere anche l’uomo in nero, di farli rientrare tutti in quel bagliore che era stata la prima apparizione e che sarebbe stata anche l’ultima nel senso che li avrebbe compresi, assorbiti e annullati tutti facendo di ognuno una parte, un aspetto di quell’anima infinita.    Sarà tra questi elementi e tra altri, ai quali alluderà senza farli vedere, che lo scrittore si muoverà nell’opera con parole accennate, abbozzate, appena capaci di farsi capire, di far capire se quelle presenze sono vere o inventate, immaginate, sognate, se le distanze tra loro o col protagonista sono lunghe o brevi, se di quanto dicono sono convinte. Si finirà di leggere senza distinguere tra vero e falso, senza sapere se credere o negare. Non ci sarà niente del quale non varrà pure il contrario. Tutto, anche il falso, l’ingiusto avrà motivo, ragione di esserci e in questo modo, con queste figure, concrete e astratte, con queste parole, dette e non dette, ha pensato Fosse di poter rappresentare quella totalità che per lui è propria dell’anima, della sua vita.

Nel cuore della scuola dell’infanzia

Nel cuore della scuola dell’infanzia

di Margherita Marzario

La scuola dell’infanzia, nonostante la sua rilevanza sotto molteplici aspetti, continua a essere bistrattata o marginalizzata, soprattutto nell’immaginario collettivo o dalle stesse famiglie. Il pedagogista Daniele Novara richiama: “Una volta si chiamava scuola materna, oggi ha preso il nome di scuola dell’infanzia, per levarle quel retrogusto di maternage che non deve avere in quanto nasce proprio per togliere i bambini e bambine dal puro e semplice accudimento dei genitori. Lì si vivono esperienze, avventure, scoperte, laboratori…”. La scuola dell’infanzia è la prima istituzione pubblica ove si applicano gli articoli 2 e 3 della Costituzione a favore dei bambini ma, purtroppo, la funzione della scuola dell’infanzia non è riconosciuta, soprattutto da parte dei genitori che, tra le tante, ancora la chiamano “asilo”.

Il pedagogista Novara aggiunge: “Ritengo che siano proprio i cicli iniziali della frequenza scolastica quelli più interessanti. In particolar modo la scuola dell’infanzia che raggiunge i bambini e le bambine dai 3 ai 6 anni, periodo in cui si crea il cosiddetto «attaccamento sociale», ossia le regole a cui bisogna adeguarsi per stare assieme agli altri nel rispetto reciproco. A questa età si impara a litigare superando la frustrazione del proprio egocentrismo e cominciando a riconoscere la presenza altrui. In queste poche parole si trova il nucleo stesso dell’essere cittadini: rispetto me stesso rispettando gli altri e assumendo i miei diritti e i miei doveri in una logica di reciprocità e condivisione”. La scuola dell’infanzia è la prima scuola di cittadinanza e i primi che devono cogliere questo aspetto e contribuirvi sono i genitori, ancor di più i genitori di figli unici.

Infatti, l’educazione civica a scuola non deve essere intesa solo come un adempimento normativo ma coronamento del percorso scolastico quale educazione alla cittadinanza, di cittadini non del domani ma già del presente. In tal modo la scuola si concretizza quale formazione sociale ai sensi dell’art. 2 della Costituzione e si mostra istituzione, comunità, servizio e non una qualsiasi agenzia educativa. È un percorso che comincia già con la scuola dell’infanzia non con ore dedicate ma con lo stesso modus operandi della scuola dell’infanzia, con l’accoglienza e con i campi di esperienza, in modo particolare con il campo di esperienza “Il sé e l’altro” e con l’accoglienza anche delle famiglie con la sottoscrizione del Patto educativo di corresponsabilità.

Nella scuola dell’infanzia è prassi diffusa svolgere attività sulle cosiddette “parole gentili”, in primis il “grazie”, perché educazione civica è anche quella “educazione alla gentilezza”. Nelle famiglie odierne non tutti i genitori educano i figli a dire o esprimere in altro modo il “grazie”, perché essi stessi non sono educati in tal senso rivelando spesso ingratitudine verso i loro genitori o gli altri, o perché non fanno sperimentare la gratuità ai figli nelle relazioni sempre più spesso ridotte a un “do ut des”, o perché danno tutto e subito ai figli che, poi, pretendono altrettanto a scuola e in ogni altro ambiente (a differenza di quanto avviene in altre culture o civiltà, tra cui quella giapponese). Educare è anche allevare (cioè elevare), inculcare il rispetto di valori (art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Novara afferma: “Avere un insegnante che spieghi la filosofia in un liceo è importante, ma avere una maestra o un maestro che dai 3 ai 6 anni aiuti i bambini a stare con gli altri, non ha paragone”. La scuola dell’infanzia è la prima scuola in cui si applicano i principi costituzionali, come lo svolgimento della personalità (art. 2 Cost.), rimozione degli ostacoli (art. 3 comma 2) e altri, ma questa funzione sociale non è adeguatamente riconosciuta in Italia e, soprattutto, nel Sud.

Daniele Novara continua: “Faccio mia l’esperienza francese e lancio un appello alla politica italiana: rendiamo le scuole dell’infanzia un luogo dove tutti i bambini e le bambine, necessariamente e obbligatoriamente, possano e debbano passare un pezzo importante della loro vita”. La scuola dell’infanzia è uno dei pochi luoghi (e non posti) dove i bambini possono essere, fare, diventare bambini.

È anche il luogo per eccellenza delle fiabe; le fiabe, soprattutto quelle classiche (tenendo conto che hanno avuto già varie riscritture), si possono usare anche per far inventare a bambini e ragazzi altri finali, la continuazione o farle riscrivere al contrario: per esempio si può proporre loro il lupo minacciato da Cappuccetto Rosso, che nella realtà succede quando si trasmette ai bambini l’ingiustificata paura degli animali o la mancanza di rispetto nei loro confronti, anche delle formiche. Così si può fare letto-scrittura creativa sin dalla scuola dell’infanzia.

Attraverso le fiabe, e non solo, si possono mettere in campo altre esperienze e attività, come l’educazione emotiva, quella motoria e lo yoga.

È necessario costruire e coltivare la memoria personale e familiare nei e dei bambini condividendo con loro esperienze, raccontando e raccontandosi, organizzando riti e routine (come si fa nella scuola dell’infanzia), raccogliendo e conservando almeno alcuni “cimeli” (fotografie, libri, giocattoli, vestitini) della loro infanzia, come si faceva in passato. È un processo importante per la formazione dell’identità personale e familiare (art. 8 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia “identità e relazioni familiari”) e della interiorità del bambino (art. 27 Convenzione “sviluppo spirituale”).

Sono in aumento i disturbi motori nei bambini, dall’iperattività alla disprassia. A parte le cause genetiche, ricerche recenti hanno rivelato che può dipendere da stimoli più o meno ricevuti nei primi sei mesi di vita. A questo si aggiungono altre cause esogene, come l’abuso della tecnologia già in tenera età, cattive abitudini dei genitori che portano in braccio i bambini per accompagnarli alla scuola dell’infanzia, non li fanno salire e scendere le scale autonomamente per paura che cadano, li portano nel passeggino anche quando hanno più anni di età e altro ancora. I genitori hanno abolito le fasce ai neonati, il girello e il box ma hanno adottato altri atteggiamenti più nocivi di quelli abbandonati. I genitori si occupano e preoccupano di tutto ciò che concerne la crescita dei figli ma non altrettanto del loro sviluppo. Lo sviluppo motorio è fondamentale per quello sviluppo integrale di cui all’art. 27 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Lo yoga è un’occasione speciale per riconnettersi con se stessi attraverso il respiro, il movimento e la consapevolezza. Lo yoga, però, non si pratica solo sul tappetino: può essere anche un viaggio interiore che comincia dalla lettura. Etimologicamente “yoga” significa “unione”, unione tra anima e corpo, tra uomo e realtà, armonia: quello cui educare i bambini e che si pratica soprattutto nella scuola dell’infanzia, per esempio nella routine del sedersi in cerchio o nella metodologia del circle time e che si potrebbe praticare anche nei gradi successivi.

Gli insegnanti dovrebbero fare gli artigiani delle emozioni e gli architetti delle menti degli alunni, a cominciare dalla scuola dell’infanzia o, soprattutto, nella scuola dell’infanzia, da cui gli altri gradi scolastici dovrebbero prendere esempio. Spesso, però, non ci sono le condizioni soggettive e oggettive per operare in tal modo, a cominciare dalla mancata collaborazione di molti genitori.

“L’affido familiare offre al bambino un contesto in grado di accompagnarlo nella crescita, ma ha anche l’obiettivo di ricostituire una base sicura nella relazione tra il bambino e chi si prende cura di lui. Una buona relazione di attaccamento è fondamentale per crescere sereni, mettere ordine nel passato, dare un senso agli eventi sfavorevoli e favorire i rapporti con la famiglia d’origine” (cit.). Tutti i genitori dovrebbero assumere l’atteggiamento dei genitori affidatari, cioè sviluppare una “misurata” relazione di attaccamento con i figli con la consapevolezza che i figli non appartengono ai genitori e che prima o poi devono uscire da quell’ambiente e andare altrove. Oggi, purtroppo, in molte famiglie non si sviluppa un “buon attaccamento” e gli effetti si vedono negli ambienti extrafamiliari, a cominciare dalla scuola dell’infanzia. Dove, alcuni genitori non solo non facilitano l’inserimento dei figli ma, in seguito, controbattono con le/gli insegnanti e giustificano o difendono ad ogni costo i figli arrampicandosi sugli specchi come i figli stessi: “Eppure a casa sta calmo, fa di tutto, disegna, colora… e da solo!”.

La collaborazione e il confronto dei genitori con la scuola dell’infanzia, invece, è costruttivo non solo per il percorso del bambino ma anche come supporto alla genitorialità stessa, perché il modello della coppia educativa delle/gli insegnanti (che si fonda e completa sulle e nelle differenze personali e intrapersonali) e l’identità stessa della scuola dell’infanzia (che, si ricordi, non è più scuola materna) offrono spunti e stimoli alla modulazione della propria genitorialità e della coppia genitoriale per allontanarla pure dalla “maternalizzazione” educativa solitamente dominante.

I bambini arrivano dalle famiglie e ritornano nelle famiglie, per cui urge che prendano consapevolezza di “famiglie come partner di un’alleanza educativa”, così definite nelle “Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei” (adottate con il decreto ministeriale 22 novembre 2021 n. 334). 

Un altro…

Un altro a un palmo dal nostro naso

di Vincenzo Andraous

Un altro ragazzo impiccato alle sbarre dell’indifferenza, un altro, un altro ancora.

L’impressione che se ne ricava da questa inesauribile macelleria silente, è che qualcuno voglia combattere il mostro del sovraffollamento con un suicidio oggi e domani pure. Incredibile?

Quando parliamo del pianeta sconosciuto, della sua esplosiva condizione di violenza e illegalità imposta, a molti viene in mente di indicare la cima di un iceberg, invece a ben pensarci è l’opposto e il suo contrario.

Alla luce c’è proprio la teatralità di un avamposto della legalità costretto a una torsione così innaturale e quindi a una drammaticità che aggrava la ricerca di sicurezza e umanità nel recupero della persona detenuta, perché comunque di persone stiamo parlando.

Proprio oggi il pallottoliere mortifero che traccia le somme a discapito delle detrazioni e naturalmente delle responsabilità,  ci ha sbattuto in faccia per l’ennesima volta  l’indifferenza alla pietà, siamo arrivati a metà del guado, ma giunti a 63 morti ammazzati dentro una cella, dentro una galera, dentro una solitudine imposta, travestita di compassione che non c’è, come non c’è alcuna verità, soltanto giustificazioni, attenuanti generiche per chiunque ci faccia i conti, o peggio non li faccia per niente con questa mattanza de noantri.           

Sui detriti ove poggia il carcere, c’è una sorta di mercanzia che va alla grande, ognuno degli attori coinvolti in questa rieducazione ortopedica dei corpi penzolanti dai letti a castello, dai finestroni delle celle, dagli angoli bui dove scomposti se ne stanno coloro che non hanno retto all’ingiustizia di una pena aggiuntiva non contemplata da alcun Codice, Ordinamento, Costituzione.

Ebbene, lì, in quella angusta sottomissione al nulla, proprio lì, nessuno osa guardare alla corretta applicazione degli ordinamenti. Ogni volta, e sono proprio tante queste volte in cui donne e uomini si strozzano fino a morire dentro la prigione, qualcuno parla avvedutamente di “evento sentinella” in quanto sono dipartite che con più attenzione e accompagnamento potrebbero significativamente essere ridimensionate, sottraendo ai residui spazi colmi di cose, oggetti e numeri, le persone, le persone, le persone.

Riconsegnando umanità alla funzione della pena e alla sua rieducazione, dunque non soltanto del detenuto che giustamente sconta la propria pena. Un altro l’hanno trovato appeso con il capo reclinato, con gli occhi all’indietro,  come a volere rimarcare la perdita di speranza per il futuro, la disperazione che non tollera più il dolore mentale insopportabile, quel disagio che nessuno vede, che nessuno s’accorge sta per esplodere in comportamenti estremi, così profondamente insopportabili perché ingiusti, dove non c’è più possibilità di un ascolto, neppure il tentativo di accorciare le distanze con quella pietà derelitta e sconfitta.

Un altro ammazzato, a un palmo dal nostro naso, nell’unica via di uscita rimasta e concessa. La morte.

Educare narrando

Educare narrando

La didattica narrativa per tutte le età

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Raccontare per raccontarsi. Un gesto antico, quasi primordiale, che accompagna l’umanità fin dalla sua origine. C’era un tempo in cui i cantastorie, i poeti, i narratori riempivano le piazze e le case con parole che scaldavano l’anima. Le loro voci risuonavano nelle notti d’inverno attorno al fuoco e nelle sere d’estate, sotto cieli aperti, portando con sé memorie, emozioni, insegnamenti. Raccontare era un modo per tramandare, per curare, per connettere. Era, ed è ancora, un modo per esistere.

Raccontarsi non è solo terapeutico. È un modo autentico per dire al mondo chi siamo. Ed è proprio questo che rende ogni storia potente, ovvero il fatto che, pur partendo da un vissuto individuale, riesca a toccare corde universali. In un’epoca come la nostra, satura di informazioni, di dati, di contenuti istantanei e spesso impersonali, ciò che davvero fa la differenza è la capacità di attribuire significato a ciò che si conosce, di trasformare un sapere in esperienza, di radicarlo nell’identità.

Ritrovare la forza della narrazione, oggi, non è solo un ritorno alle origini. È un atto educativo necessario. Raccontare non significa semplicemente descrivere ciò che accade, ma costruire senso, generare visioni, dare forma al reale attraverso la lente dell’immaginazione e del sentire. È attraverso le storie che l’uomo interpreta il mondo, comprende sé stesso, trasmette valori, esplora emozioni. La narrazione è il filo che cuce insieme memoria e futuro, individuo e collettività, sapere e vita.

Portare il racconto dentro la scuola significa restituire all’apprendimento una dimensione profonda, coinvolgente, umana. Significa creare spazi in cui ogni voce possa trovare ascolto, in cui la conoscenza non sia più trasmessa dall’alto, ma costruita insieme, passo dopo passo, parola dopo parola.
Perché educare, in fondo, è anche questo: custodire le storie, accoglierle, farle crescere.

Una scuola che racconta invece di istruire

La scuola tradizionale è stata per lungo tempo il luogo deputato alla trasmissione del sapere, dove il docente assumeva il ruolo di depositario della conoscenza e l’alunno quello di recipiente da riempire. In questo modello, le informazioni venivano trasferite da una mente all’altra in modo spesso impersonale e scollegato dall’esperienza concreta degli studenti, i quali rimanevano spettatori passivi di un processo che non li interrogava, né li coinvolgeva. Il sapere era visto come qualcosa di oggettivo, cristallizzato nei libri di testo, più da memorizzare che da comprendere, e il processo di apprendimento si riduceva spesso all’assimilazione meccanica e alla verifica mnemonica. Questo approccio, seppur funzionale in un sistema educativo industriale e disciplinato, si rivela oggi anacronistico di fronte alla trasformazione culturale, sociale e tecnologica in atto. Nell’epoca della complessità e del cambiamento continuo, l’apprendimento non può più ridursi a un processo passivo. Le nuove generazioni, cresciute in un ambiente ricco di stimoli sensoriali e narrativi, immersi in narrazioni digitali, interattive e personalizzate, hanno bisogno di un’educazione che parli alla mente e al cuore, che stimoli il pensiero critico, la creatività e la capacità di costruire significati. Serve una didattica che coinvolga, che tocchi corde interiori, che trasformi l’informazione in esperienza e che riconosca l’identità dell’alunno come risorsa e non come tabula rasa. In questo orizzonte, la didattica narrativa si impone come approccio pedagogico capace di generare significato, emozione e partecipazione, favorendo un apprendimento profondo e personale, fondato sull’incontro tra il sapere e la vita, tra la cultura e il vissuto, tra la parola e l’esistenza.

La narrazione come ponte tra sapere e vissuto

Il valore della narrazione in ambito educativo risiede nella sua capacità di collegare il contenuto da apprendere all’universo personale dell’alunno, facendo leva su emozioni, memorie, esperienze sensoriali e vissuti individuali. Attraverso il racconto, la conoscenza diventa storia, assume un volto, un contesto, un’emozione, e si trasforma in un’esperienza concreta e condivisa, in cui il soggetto si sente coinvolto, riconosciuto e valorizzato. Le neuroscienze ci confermano che le informazioni, veicolate sotto forma di racconto, attivano simultaneamente più aree del cervello, tra cui quelle legate al linguaggio, all’immaginazione, all’empatia, alla memoria autobiografica e persino alla motricità se il racconto include azioni o simulazioni. Questo tipo di attivazione globale favorisce una comprensione più profonda, duratura e multisensoriale, che va oltre la semplice memorizzazione. Non si tratta soltanto di leggere o ascoltare storie, ma di costruirle insieme, di riscrivere i contenuti disciplinari trasformandoli in percorsi esplorativi, drammatizzazioni, giochi di ruolo, autobiografie intellettuali, dialoghi socratici o narrazioni collettive. Vivere le discipline come se fossero narrazioni da abitare, attraverso la parola e l’immaginazione, permette agli studenti di sentirsi protagonisti attivi e non solo spettatori, agenti consapevoli di un processo di apprendimento che li coinvolge a livello cognitivo ed emotivo. La narrazione consente di riorganizzare le conoscenze in forma coerente, di attribuire significati personali a ciò che si apprende, di intrecciare sapere e identità, promuovendo un pensiero riflessivo e un apprendimento trasformativo. Per questo motivo la didattica narrativa non è un abbellimento opzionale, ma una vera e propria grammatica dell’apprendimento, una struttura profonda del pensare e del sapere che si nutre di parole, immagini, relazioni e vissuti.

Esperienze narrative nella scuola primaria

Nelle prime fasi dell’educazione, la didattica narrativa trova terreno fertile, perché il linguaggio simbolico e immaginativo è ancora la via privilegiata attraverso cui i bambini comprendono il mondo. Le storie permettono di costruire ponti tra l’astrazione del contenuto e la concretezza dell’esperienza, traducendo concetti complessi in immagini familiari e comprensibili. Un progetto come quello delle “Storie in scatola”, per esempio, prevede la costruzione di piccole narrazioni visive da parte dei bambini, che, partendo da oggetti quotidiani inseriti in una scatola, inventano storie legate ai temi trattati in classe. Questo tipo di attività stimola la creatività, la cooperazione, l’espressione verbale e il pensiero divergente. Una lezione di scienze può così diventare un racconto fantastico, in cui un sasso prende vita e racconta la sua trasformazione in sabbia attraverso il ciclo dell’erosione, rendendo visibile e memorabile un processo naturale altrimenti astratto. Anche in matematica è possibile raccontare storie. I numeri possono essere personaggi con caratteristiche proprie, che vivono avventure e si incontrano per svolgere operazioni, creando una dimensione narrativa in grado di sostenere l’apprendimento logico attraverso un piano simbolico e affettivo. In questo modo il bambino non memorizza meccanismi in modo sterile, ma li interiorizza all’interno di un contesto narrativo che li rende significativi, motivanti e duraturi. La narrazione, inoltre, favorisce l’inclusione scolastica, poiché offre molteplici linguaggi espressivi e valorizza le intelligenze multiple, permettendo a ciascun alunno di sentirsi parte del processo di apprendimento.

Narrativa e apprendimento nella scuola secondaria

Anche con gli adolescenti, la narrazione mantiene una straordinaria efficacia, perché risponde al loro bisogno di identificazione, di ricerca di senso e di espressione personale. In una scuola secondaria di primo grado, ad esempio, è stato avviato un laboratorio di “Storia narrata” in cui gli studenti raccontano gli eventi studiati in prima persona, assumendo il punto di vista di un personaggio dell’epoca. La Seconda guerra mondiale, così, non è solo un capitolo da studiare, ma una pagina scritta attraverso la voce di un bambino ebreo, di un partigiano, di una madre in attesa del ritorno del figlio. Questo esercizio sviluppa empatia storica, pensiero critico e consapevolezza etica, rendendo gli eventi del passato vivi e attuali. In una classe di liceo, un docente di filosofia ha proposto agli studenti di riscrivere in chiave narrativa alcuni concetti filosofici, immaginando dialoghi tra Platone e un adolescente contemporaneo, oppure di narrare il pensiero di Nietzsche come se fosse un monologo interiore. Gli studenti, invece di limitarsi a studiare concetti astratti, si sono immersi in riflessioni personali, confrontando le idee dei filosofi con i propri vissuti. Alcuni hanno prodotto veri e propri racconti filosofici, mescolando elementi narrativi e argomentativi, sviluppando una comprensione più autentica dei concetti affrontati. Il risultato è un coinvolgimento profondo, che avvicina i ragazzi a contenuti difficili attraverso il linguaggio della vita, stimolando al tempo stesso la loro capacità di riflettere, comunicare e costruire significati.

Quando la narrazione diventa strumento di cittadinanza attiva

La narrazione non è solo uno strumento per l’apprendimento cognitivo, ma anche per lo sviluppo del sé, della consapevolezza sociale e del senso di responsabilità verso il mondo. Le storie, infatti, ci permettono di metterci nei panni dell’altro, di vedere il mondo da prospettive diverse, di comprendere le sfumature della condizione umana e di coltivare un pensiero etico che non separa mai sapere e agire. Le storie educano al rispetto, alla solidarietà, al dialogo interculturale, costruendo nei ragazzi una coscienza civile che non si esaurisce nella conoscenza teorica dei diritti e dei doveri, ma si radica in esperienze concrete e condivise. In un progetto di educazione civica intitolato “Voci di quartiere”, gli studenti sono stati invitati a raccogliere storie di vita degli abitanti del loro territorio, trasformandole in un podcast. Il percorso ha coinvolto interviste, trascrizioni, riflessioni collettive e momenti di restituzione pubblica, che hanno attivato dinamiche di cooperazione, ascolto e consapevolezza sociale. Questo ha permesso loro di comprendere meglio la realtà in cui vivono, di esercitare l’ascolto attivo, di superare stereotipi, di interrogarsi su questioni di giustizia e disuguaglianza e di sviluppare empatia autentica. L’apprendimento si è fuso con l’esperienza, la scuola con la comunità, la teoria con la prassi, restituendo al sapere una dimensione etica e civile. Attraverso il racconto, i ragazzi hanno sentito di appartenere a un mondo più ampio, di poter essere portatori di cambiamento, di poter dare voce a chi spesso non ne ha. Hanno compreso che narrare significa anche assumersi la responsabilità di custodire e tramandare, di restituire dignità alle storie sommerse, di rendere la conoscenza uno strumento di giustizia, inclusione e partecipazione democratica.

Conclusioni. Educare narrando per generare senso

La didattica narrativa si presenta come una pratica educativa capace di restituire profondità e umanità al processo di apprendimento. In un tempo in cui la scuola rischia di diventare sterile e disincarnata, riportare al centro le storie significa riaccendere la motivazione, il desiderio di sapere e la capacità di pensare. Educare attraverso la narrazione non è una scelta romantica o ingenua, ma una strategia didattica concreta e fondata, capace di adattarsi a ogni ordine e grado scolastico. È una forma di cura, di ascolto, di relazione. È una modalità che non solo istruisce, ma forma. Perché l’apprendimento autentico è sempre una storia che ci riguarda. E quando ci sentiamo parte di quella storia, impariamo davvero.

E. Franco, Usodimare

Ernesto Franco, per una vita intera

di Antonio Stanca

   Di Ernesto Franco, nato a Genova nel 1956 e qui morto nel 2024 a sessantotto anni dopo una lunga e grave malattia, è uscita un’altra edizione di Usodimare (Un racconto per voce sola). È della Einaudi, serie “ET Scrittori”. La prima edizione Einaudi è stata dell’anno scorso mentre al 2007 risale l’edizione originale avvenuta presso Il Nuovo Melangolo, collana “Nugae”. In precedenza Franco aveva scritto Isolario, Vite senza fine, col quale nel 1999 aveva vinto il Premio Viareggio. In seguito verranno Donna cometa, Storie fantastiche di isole vere, Sono stato. Sarà pure poeta con la raccolta Lontano io e curerà e tradurrà alcuni noti autori della letteratura ispano-americana. Particolare sarà l’attenzione per quelli che hanno trattato di fenomeni immaginari, surreali, fantastici. Anche lui, nella sua narrativa, si era interessato a questi. Il racconto Usodimare vi rientra a pieno titolo ma non rimane completamente nella dimensione surreale poiché tanto posto concede pure alla realtà, alla storia.

   Di Franco va detto anche che una volta laureatosi in Lettere presso l’Università di Genova aveva lavorato per le case editrici Marietti e Garzanti e che dal 1998 alla morte era stato prima direttore editoriale e poi direttore generale della Einaudi. Docente lo avevano visto le Università di Genova e di Siena. Tanto aveva fatto pur in un tempo piuttosto ridotto. Spirito acceso, inquieto si era rivelato, sempre alla ricerca d’altro, a volte anche di quello che, come in Usodimare, non si sa o non si vuole sapere né dire. Tutto il racconto è percorso da questo mistero, da questo segreto che la bella Nenè ha confidato al suo amico e innamorato Pepe Usodimare, Capitano per l’ultima volta del vecchio mercantile Bahía Inútil. Glielo ha detto sulla nave in un momento di pericolo per loro e per l’equipaggio, lo ha fatto prima di morire e dopo essere riuscita a mettere in salvo MG, il suo vero uomo. Da allora Usodimare sa che sulla nave c’è qualcosa di nascosto ma non sa se si tratta di un tesoro o di una rivelazione, di un messaggio. Da allora ha messo in allerta tutti i suoi uomini perché cercassero quanto si nascondeva. Non hanno molto tempo a disposizione perché il Bahía Inútil è in navigazione, sta compiendo, al comando di Usodimare, il suo ultimo viaggio. È diretto verso il Bangladesh, verso l’infinita spiaggia fangosa di Chittagong dove ci sono i cantieri di demolizione. La nave è vecchia, ha molti problemi, è stata venduta all’asta e i nuovi padroni hanno pensato di abbatterla. Il tempo per raggiungere Chittagong è quello che rimane per la ricerca, per la scoperta che il Capitano si è proposto di compiere. Non è molto ma molti sono i pericoli, gli imprevisti, i rischi, i disagi compresi quelli dei pirati, ai quali il vecchio bastimento va incontro. Non si finirà mai di sospettare, di dubitare, di aver paura giacché sempre esposti, sempre vicini a disgrazie ci si troverà, sempre minacciati da queste.

   Si giungerà, infine, a Chittagong, alla fine del viaggio, alla fine della nave, alle ultime annotazioni riportate da Usodimare sul suo computer, alla conclusione del racconto per la quale serviranno anche le testimonianze del nostromo e di un povero diavolo di Chittagong che ha assistito da lontano agli ultimi risvolti della vicenda compresi quelli della scomparsa improvvisa del Capitano e del mancato ritrovamento di quanto cercato.   C’è stata, nell’opera, una vasta e varia combinazione di persone e cose, pensieri e azioni, intenzioni e previsioni, c’è stato un interminabile alternarsi di tempi e luoghi, ambienti privati e pubblici, sacri e profani. Un intero continente, un’intera umanità sono diventati i luoghi e i personaggi del racconto. Ancora capace si è mostrato Franco di saper procedere con facilità, con chiarezza pur tra i torbidi del pensiero, le complicazioni della realtà, l’inspiegabile, l’invisibile. È una maniera che lo ha distinto poiché dà voce a chi non ne ha, fa luce dove non c’è. Da qui il rapporto che lo scrittore ha sempre sentito vicino con i grandi della letteratura fantastica quali Jorge Luis Borges, Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares, Octavio Paz ed altri. Di essi nel 2007 aveva curato per Einaudi un’antologia, com’essi Franco non dubita della realtà ma non la ritiene sufficiente a dire tutto della vita, a completare quello che fa parte della storia, a comprendere quanto vi rientra senza che lo si veda.

La Scuola come palestra di linguaggio

La Scuola come palestra di linguaggio per allenare il pensiero

di Annalisa Filipponi

Viviamo in un momento storico particolarmente critico.

Molti sono gli ambiti in cui questa criticità ha raggiunto limiti che sembrano far vacillare ogni nostro punto di riferimento, ogni nostra certezza e, di conseguenza, il nostro stesso sentirci all’interno di un contesto stabile, rassicurante.

I nostri valori, la distinzione tra vero e falso, tra giusto e sbagliato, le nostre conoscenze, tutto ci appare instabile e ci sentiamo continuamente smentiti anche in quei punti di riferimento che, fino a pochi decenni fa, ci apparivano chiari, definitivi.

In questo contesto opaco e talvolta inquietante la Scuola assume un ruolo che mai è stato così importante e di questo deve sentirsi consapevole e responsabile. Il compito dei docenti di ogni ordine di scuola è diventato quello di costruire nei propri alunni (e in sé stessi) disposizioni cognitive aperte, capaci di porsi domande, di cercare risposte, di formulare ipotesi, di sviluppare curiosità intellettiva e spirito critico.

La Scuola ha la responsabilità di aiutare i discenti ad orientarsi in questo contesto mobile e vacillante, a saper distinguere, a saper formulare definizioni precise nel circoscrivere le categorie del proprio pensiero.

In questa realtà che corre velocissima – l’Intelligenza Artificiale ne è una dimostrazione evidente – solo il recupero di punti di riferimento chiari derivanti da capacità di esercizio del proprio pensiero ci può aiutare a mantenere un equilibrio e ad assumere un ruolo.

Sempre più nella nostra società della conoscenza instabile dobbiamo sottolineare l’importanza del recupero del linguaggio, orale e scritto, e della comunicazione dialettica tra pari dove, attraverso l’ascolto attivo, si possono sostenere le proprie opinioni dopo aver ascoltato quelle dell’altro. Proprio perché la comunicazione è sempre più vittima di intolleranza, dentro un mondo che ci appare totalmente fuori controllo, anche per il ruolo invasivo assunto nella comunicazione dai social media, è fondamentale nella Scuola recuperare quel ragionamento collettivo che passa attraverso la mediazione linguistica del pensiero che si costruisce tramite il confronto. 

Il recupero del linguaggio è importante nel contesto comunicativo in cui ci troviamo immersi e sommersi perché Il linguaggio orale è una palestra che ci permette di allenare il nostro pensiero. Infatti, il linguaggio è la prima forma del pensiero astrattivo con ricadute nel pensiero analitico, sintetico, linguistico, matematico, scientifico, tecnico, critico, ecc., cioè con tutte quelle forme di pensiero che hanno forgiato la nostra democrazia, la nostra cultura, la nostra civiltà.

Un semplice esempio

            Partiamo da un semplice esempio:

Sto guidando e devo andare in un luogo dove ho già avuto modo di recarmi più di una volta. Ad esempio, devo andare da dove abito ad un negozio che si trova a qualche chilometro da casa mia. Quando salgo in auto ho due semplici opzioni:

  1. Metto il navigatore
  2. Costruisco una mappa astrattiva del percorso che devo fare e che ripercorro a mente

Accade che guidando mi distragga e non capisca bene dove mi trovo rispetto alla meta da raggiungere. Anche in questo caso ho due opzioni:

  1. Rimetto in funzione il navigatore
  2. Rimetto in ordine la mappa astrattiva del percorso, la riorganizzo dal punto in cui mi trovo fino all’arrivo

Molte persone non sono più in grado di orientarsi attraverso capacità astrattive in contesti semplici, come quello sopra esposto, e in un qualsiasi tipo di ragionamento logico non supportato da agenti mediali.

La Comunità di ricerca

Il linguaggio è la prima forma di capacità astrattiva del cervello. È la base del suo allenamento e del suo mantenimento attivo e partecipe al mondo circostante. Ecco che, se la forma basilare del linguaggio non è padroneggiata, quando si tenta di raggiungere forme più complesse ci si trova incapaci di seguire qualunque semplice logica. Da qui derivano anche le difficoltà evidenziate dalle rilevazioni OCSE-Pisa e Invalsi nella comprensione testuale anche di un semplice testo.  

L’apprendimento attraverso un ragionamento collettivo passa dalla costruzione del pensiero attraverso il linguaggio, in particolare laddove tutto questo avviene in una comunità di pari (dialogo euristico peer to peer).

Una forma di comunicazione essenziale è il linguaggio dialettico dove si sviluppa un percorso che evolve tramite l’arricchimento della Tesi che, attraverso l’Antitesi, porta verso la Sintesi. In questo modo la Sintesi riesce ad inglobare gli argomenti della Tesi e quelli della sua Antitesi in modo da fornire uno sviluppo al pensiero che ne esce arricchito. Questo processo si base sull’ascolto attivo di quanto viene detto da un altro o da più altri. Il gruppo che discute in una forma comunicativa ed euristica tra pari prende il nome di Comunità di ricerca il cui fine non è la soluzione di un problema (problem solving), ma la ricerca della profondità di un ragionamento in un gruppo che mi permette di allenare il mio pensiero, confermando alcune mie prospettive, mettendole in discussione o costruendone altre.

Quello che viene proposto in una Comunità di ricerca – ad esempio attraverso la lettura di un articolo di attualità – è il tentativo di mettere in atto delle regole precise per sperimentare tra noi una discussione dialettica. Base della Comunità di ricerca è la problematizzazione, che non è la soluzione di problemi, ma la loro organizzazione linguistica in funzione di ricerca. Definire con precisione e con argomentazioni corrette un problema permette di sostenerlo o di confutarlo.

La Comunità di ricerca fa un uso produttivo del dubbio, convertendolo in un’operazione di ricerca che porti ad osservazioni ed asserzioni fondate su ragionamenti corretti. Per comunicazione qui intendiamo non gli ambiti descrittivi e trasmissivi, ma un’attività intellettuale razionale, critica, creativa, problematizzante. Scopo di una discussione in Comunità di ricerca è attivare e rinforzare processi cognitivi.

La Comunità di ricerca si realizza in un piano di discussione che vede impegnato un gruppo (si interviene per alzata di mano, rispettando turni, tempi, regole della discussione) e un docente coordinatore.

L’attività è così organizzata: Organizzazione dell’attività:

  • Scelta di un testo che contenga tematiche di tipo concettuale o universale
  • Predisposizione del gruppo all’attività
  • Lettura del testo
  • Sottolineatura individuale delle frasi che si ritengono significative (una – due )
  • Stesura dell’Agenda che raccoglie le frasi significative per ciascuno studente
  • Formulazione, da parte degli studenti divisi in piccoli gruppi, di domande sui contenuti emersi
  • Avvio della discussione finalizzata alla ricerca di nodi problematici

Le usuali domande dell’insegnante sono in parte sostituite da:

  • riprese o rispecchiamenti degli interventi degli alunni
  • interventi che sottolineano un’eventuale discordanza di posizioni
  • eventuali richieste di spiegazioni/chiarimenti

Esercitando il pensiero dialettico e democratico in Comunità di ricerca è possibile allenare l’apprendimento dentro un ragionamento collettivo, per permettere al singolo di costruire un pensiero attraverso il linguaggio, trasferibile poi in ogni contesto (apprendimento significativo). Credo che nella Scuola sia divenuto imprescindibile prendere in considerazione questa importante pratica, che nasce nella filosofia, ma è la base per un recupero di quelle categorie del pensiero logico-astrattivo che, se sono perse, sono perse per sempre, rendendoci fragili cittadini facilmente manipolabili da un qualsiasi “flauto magico”. [1]


[1] Si vedano i due articoli in cui ho affrontato compiutamente il ruolo della Comunità di ricerca: Una base solida per il Debate: apprendere in Comunità di ricerca, su www.gessetticolorati.it e www.edscuola.it del 10 dicembre 2019 e Linguaggio, dialogo e Debate per far crescere una Comunità di ricerca, su www.gessetticolorati.it e www.edscuola.it del 23 gennaio 2022.

 

Il diario metacognitivo

Il diario metacognitivo

Come redigerlo e utilizzarlo passo dopo passo e trasformare la riflessione in apprendimento

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Nel contesto dell’educazione contemporanea, il diario metacognitivo si configura come uno strumento essenziale per promuovere l’apprendimento consapevole e riflessivo, sostenendo lo sviluppo di competenze trasversali fondamentali.

Lontano dall’essere una semplice raccolta di annotazioni personali, questo dispositivo consente a studenti e insegnanti di monitorare e comprendere in profondità il proprio percorso didattico e formativo. Esso favorisce una maggiore consapevolezza, non solo dei contenuti appresi, ma anche delle strategie cognitive ed emotive attivate per apprendere o insegnare.

La metacognizione, cioè la capacità di riflettere sui propri processi mentali, decisionali e motivazionali, diventa così una pratica concreta e quotidiana. Nel diario, essa prende forma attraverso l’esercizio della scrittura riflessiva, che permette di dare voce all’esperienza, attribuire significato all’errore, valorizzare i successi e pianificare nuove azioni. In questo senso, il diario metacognitivo rappresenta non solo uno strumento educativo, ma anche un vero e proprio alleato formativo per lo sviluppo personale e professionale.

Nel mondo della scuola di oggi, dove si dà sempre più importanza non solo ai risultati ma anche al modo in cui si impara, il diario metacognitivo si rivela uno strumento utile e significativo. Serve a insegnanti e studenti per fermarsi, osservare, capire meglio il proprio percorso e imparare a conoscere i propri pensieri. Scrivere un diario di questo tipo significa dare valore alla riflessione e trasformare l’esperienza scolastica in un’occasione per crescere, imparare davvero e migliorare giorno dopo giorno. Non si tratta di un compito in più, ma di un modo diverso e più profondo di vivere la scuola.

Un percorso verso la consapevolezza dell’apprendere

Per lo studente, compilare un diario metacognitivo significa imparare a osservare il proprio pensiero con uno sguardo critico e costruttivo, sviluppando la capacità di autovalutarsi e di leggere le proprie azioni alla luce degli esiti ottenuti. Non si tratta solo di interrogarsi su cosa si è appreso, ma anche di comprendere come lo si è appreso, attraverso quali passaggi mentali, emozioni, intuizioni o difficoltà. Analizzare i propri punti di forza e di debolezza, riconoscere gli errori e valorizzare i successi, permette di costruire una consapevolezza che va oltre la semplice performance scolastica e si traduce in maturazione personale.

Il diario diventa così uno spazio in cui lo studente impara a conoscersi davvero, acquisisce fiducia nelle proprie capacità e sviluppa un senso di agency, ovvero la percezione di poter influire attivamente sul proprio percorso. Questa pratica stimola l’autoregolazione, la responsabilità e la motivazione intrinseca, perché lo studente non dipende più esclusivamente dai giudizi esterni ma impara a orientarsi da sé con maggiore autonomia e lucidità.

Riflettere sulle strategie utilizzate, sulla gestione del tempo, sul proprio livello di concentrazione o sul grado di comprensione di un argomento, consente di intervenire in modo mirato e di migliorare progressivamente la propria efficacia scolastica. L’alunno diventa così protagonista attivo e consapevole del proprio percorso, capace di riformulare i propri obiettivi, scegliere consapevolmente i propri strumenti e costruire metodi di studio personalizzati e più adatti a sé, in una logica di apprendimento permanente. In questo senso, il diario non è soltanto uno strumento utile per migliorare il rendimento, ma anche un esercizio di crescita interiore e di costruzione della propria identità di studente e di persona.

Come si redige un diario metacognitivo

Scrivere un diario metacognitivo non richiede particolari abilità, ma soltanto sincerità, continuità e attenzione alla propria esperienza interiore. In genere, si redige al termine di una lezione, un’attività significativa o un momento di studio individuale, con l’obiettivo di soffermarsi non solo su ciò che si è appreso, ma anche su come è avvenuto l’apprendimento.

Le domande guida possono essere semplici e dirette, ma aprono a riflessioni profonde: Cosa ho capito oggi? Dove ho incontrato difficoltà? Quali emozioni ho provato durante l’attività? Che strategie ho adottato? Cosa potrei fare diversamente in futuro? A queste si possono aggiungere interrogativi più ampi e personali come: In che modo questa esperienza ha cambiato il mio modo di pensare? Cosa mi ha sorpreso o colpito maggiormente? Come mi sono sentito rispetto al gruppo o al compito? È importante usare un linguaggio personale, chiaro e diretto, che favorisca l’espressione autentica del proprio vissuto senza preoccuparsi della forma o della correttezza grammaticale.

Ogni studente può personalizzare il proprio diario scegliendo il formato che preferisce, dal quaderno cartaceo alle piattaforme digitali, integrando testi, schemi, disegni, emoticon, fotografie o mappe concettuali. Alcuni preferiscono strutturare le loro riflessioni in forma narrativa, altri adottano una scansione per punti o rubriche fisse come: emozioni, difficoltà, soluzioni, propositi. L’essenziale è che il diario diventi un alleato quotidiano, uno spazio protetto in cui allenare l’introspezione, monitorare il proprio percorso e acquisire maggiore padronanza del proprio modo di imparare.

Anche per gli insegnanti vale la stessa regola. Più che la perfezione formale, conta la verità dell’esperienza, che può diventare fonte di ispirazione, ripensamento e rinnovamento della propria pratica educativa. Annotare ciò che ha funzionato o meno durante una lezione, come sono state recepite certe attività o come sono cambiate le dinamiche relazionali nel tempo, aiuta a costruire una consapevolezza professionale più profonda e ad assumere un atteggiamento di ascolto continuo nei confronti della classe e di sé stessi.

Una guida per la progettazione didattica

Anche per l’insegnante, il diario metacognitivo può rivelarsi uno strumento prezioso e trasformativo, capace di incidere profondamente sulla qualità dell’insegnamento e sul benessere professionale. Attraverso l’osservazione dei processi di apprendimento degli studenti e la riflessione sistematica sulle proprie pratiche didattiche, il docente ha la possibilità di sviluppare una forma di consapevolezza professionale che va ben oltre la routine quotidiana e le logiche prestazionali.

Annotare le scelte metodologiche adottate, le difficoltà incontrate in classe, le strategie che si sono rivelate efficaci o inefficaci, le dinamiche relazionali e le intuizioni pedagogiche che emergono nel corso delle attività consente di alimentare una didattica fondata sull’analisi, sull’adattamento continuo e sull’innovazione consapevole. Il diario diventa così uno strumento di autoformazione e di cura professionale, un laboratorio riflessivo in cui teoria e prassi si incontrano e si arricchiscono reciprocamente.

Inoltre, può rappresentare un supporto concreto nei momenti di progettazione didattica, nella valutazione delle attività svolte, nella revisione del curricolo e nella documentazione dei percorsi educativi. Questa pratica alimenta una postura professionale orientata alla ricerca, alla crescita continua e alla costruzione di senso, trasformando l’insegnante in un mediatore consapevole tra contenuti, studenti e contesto. In un tempo scolastico sempre più frammentato e accelerato, il diario restituisce profondità al mestiere del docente e spazio alla riflessione educativa come atto intenzionale e trasformativo.

Il valore della riflessione condivisa

L’efficacia del diario metacognitivo si amplifica quando viene inserito all’interno di un contesto relazionale e cooperativo, in cui il confronto tra pari e con il docente assume un ruolo centrale nel processo di apprendimento. La condivisione delle riflessioni personali in piccoli gruppi, in plenaria o attraverso strumenti digitali come blog di classe o piattaforme collaborative, può stimolare nuovi punti di vista, attivare il pensiero critico e rafforzare la motivazione.

Questo scambio non si limita a un’esposizione dei propri pensieri, ma genera dinamiche di reciprocità in cui l’altro diventa specchio e stimolo per rivedere sé stessi e le proprie convinzioni. Quando le riflessioni vengono lette, accolte e discusse, si crea uno spazio dialogico che nutre l’autenticità, riduce il senso di isolamento e potenzia la fiducia reciproca.

L’aula si trasforma così in una comunità di apprendimento viva e partecipata, in cui si apprende anche dagli errori, si valorizzano i processi e non solo i risultati, e si costruisce insieme una cultura della riflessione, della solidarietà e del miglioramento continuo. In questo modo, il diario diventa anche uno strumento di cittadinanza attiva, promuovendo competenze trasversali fondamentali come l’ascolto, l’empatia, la comunicazione efficace, la collaborazione e la responsabilità collettiva. Tali competenze, essenziali per affrontare le sfide della società contemporanea, fanno del diario metacognitivo un ponte tra apprendimento scolastico e formazione integrale della persona, alla base di una scuola più inclusiva, democratica e orientata al bene comune.

Conclusione imparare a imparare

L’utilizzo del diario metacognitivo all’interno della scuola non rappresenta un’ulteriore attività da svolgere, ma un’opportunità per trasformare il tempo scolastico in uno spazio di consapevolezza e crescita personale.

Insegnare e apprendere non sono processi meccanici, ma dinamiche complesse che richiedono tempo, cura e riflessione. Il diario permette di dare un ritmo a questa complessità, di mettere in parola ciò che spesso rimane implicito e di tracciare una traiettoria di senso all’interno dell’esperienza scolastica. In un’epoca in cui si richiede a studenti e docenti di adattarsi rapidamente a contesti in continua evoluzione, imparare a riflettere sul proprio modo di imparare o insegnare diventa non solo utile, ma indispensabile.

G. Strada, Una persona alla volta

Strada non fa autobiografia

di Antonio Stanca

   È uscita, a Maggio, la terza edizione di Una persona alla volta di Gino Strada, personaggio diventato molto noto in questi ultimi anni per essersi dedicato alla salvezza, alla cura, all’assistenza dei feriti, dei reduci di guerra in un mondo che di guerre ne ha tante. L’opera risale al 2022 e consiste in una raccolta di memorie, notizie, osservazioni, commenti circa le esperienze vissute dall’autore nelle diverse zone di guerra dove si è trovato. Strada si era specializzato prima in Chirurgia d’urgenza, poi in Chirurgia Cardiopolmonare, Chirurgia Traumatologica e Cura delle vittime di guerra. Durante gli anni Novanta era stato all’estero e nel 1994, insieme ad altri colleghi specialisti, aveva creato Emergency, un’Associazione Umanitaria Internazionale impegnata a fornire cure e assistenza alle vittime della guerra e della povertà che si verificavano nel mondo. Con Emergency Strada è stato in molti paesi, in tutti quelli che erano in guerra, e notate sono state la sua dedizione, la sua volontà di partecipazione ai problemi degli altri, la sua solidarietà ai casi, alle situazioni più gravi, più estreme. In un mondo di orrori è vissuto senza mai esitare di fronte al bisogno. Ha sempre agito, sempre ha operato convinto che solo così si potessero ottenere risultati positivi. Era la sua educazione religiosa che lo spingeva e che continuerà a farlo anche quando sarà diventato ateo.

   Nato a Sesto San Giovanni nel 1948, Strada è morto a Rouen, Francia, nel 2021. Aveva settantatré anni. Si era laureato all’Università di Milano e al Policlinico si era specializzato. Durante gli anni Sessanta aveva fatto parte della contestazione giovanile, della quale aveva condiviso gli ideali di giustizia e libertà. Diventato medico aveva aderito alla Croce Rossa Internazionale ed era stato in tante parti del mondo, in tutte quelle che si trovavano in stato di pericolo, di allarme, di tensione, di guerra. Aveva mostrato di sapersi prodigare per aiutare quanti avevano bisogno, fossero feriti o poveri, uomini o donne, vecchi o bambini. Era sempre stato d’aiuto e riconosciuta sarebbe stata questa sua volontà di bene, di conforto, di cura. Strada non era solo il chirurgo che interveniva sulle lacerazioni del corpo ma anche l’amico che incoraggiava, consolava, consigliava. Era stata anche questa sua tendenza a convincerlo a scrivere delle sue esperienze. Una volta arrivato in certe zone si era accorto che la maggior parte dei feriti se non dei morti non erano militari ma civili e soprattutto donne e bambini, persone, cioè, rimaste nelle case, nei paesi, nelle città, sole, indifese ed esposte alle esplosioni di ordigni che gli avversari avevano disseminato e che spesso venivano scambiati per giocattoli. In tal modo i civili, le loro case, le loro strade, le loro vite erano diventate le maggiori vittime delle guerre moderne e il bisogno di denunciare questo e altri gravi comportamenti tra stati belligeranti ha mosso Strada a farne motivo di scrittura. Ha voluto protestare, dichiarare apertamente ha voluto che i civili, quelli che conducono una vita pacifica nelle loro case, nei loro posti, siano urbani o campestri o boschivi o alpini, non possono essere considerati avversari, nemici di guerra e, perciò, attaccati, assaliti, bombardati. Molto gravi ha definito queste azioni perché disumane, violente e condotte contro persone indifese. Ha invitato, pertanto, gli Organismi nazionali e internazionali, soprattutto quelli delle nazioni in guerra, a prendere i provvedimenti necessari a tutelare la salute pubblica, ad evitare che certe situazioni si verifichino, che si spari, si bombardi contro persone che in posti diversi dalle loro case, dalle loro strade non possono stare pur in tempi di guerra.

    È stata l’inalterabile volontà di bene ad orientare Strada verso l’attività letteraria, verso il recupero delle sue memorie. Non ha voluto fare autobiografia, lo ha detto all’inizio di quest’opera, ha voluto richiamare l’attenzione su quanto di ingiusto, di grave succede durante una guerra, sollecitare ha voluto perché si provveda a riparare quelli che sono grossi danni e rischiano di passare inosservati. Era un uomo di azione ma anche di pensiero. Non gli sfuggiva niente di quanto gli succedeva intorno, non gli era difficile cogliere situazioni contraddittorie, contrastanti, né gli era faticoso pensare di porvi rimedio. Non sempre, però, i risultati corrispondevano alle intenzioni e a volte queste rimanevano incompiute.

Bulli e vittime

BULLI E VITTIME

 di Vincenzo Andraous

Quando ti arriva frontale la notizia di un giovanissimo che si toglie la vita per la disperazione cucitagli addosso dai coetanei novelli carnefici della fragilità umana, comprendi davvero che la sofferenza non è solo un’emozione che ti assale, che irrompe, che esplode ed a volte implode, è un vero e proprio ricalcolo del presente devastato dai detriti che pesano come macigni, un territorio dove un tempo c’era gran parte di te stesso, ora non c’è più. Improvvisamente le gambe, i piedi, le mani sono elementi estranei, non rispondono al contatto con l’intorno, come se il cratere vuoto di ogni tutto avvolgesse ogni emozione ripiegata malamente su se stessa.

Come pure l’ultima parvenza di incomprensibile  ragionevolezza. Bulli imperversano nei corridoi delle scuole, nelle classi, nei cortili adiacenti all’entrata degli istituti, a ben guardarli sono così piccoli e minuti che suscitano pena, eppure fanno male davvero, puntano il più debole, il più fragile, lo imprigionano tra paura e umiliazione, non mollano la presa, sono refrattari alla pietà, al fare i conti con il dolore e le sofferenze altrui, piccole carognette che non consentono dialogo né ripensamento, se non dopo la tragedia che incombe.

Spesso neppure dopo. Rimangono i bordi lacerati sulla storia di quel ragazzino che non c’è più, anche il ricordo diventa evanescente di fronte alle omertà costruite a misura, ai dinieghi ripetuti, alle ostinazioni che non danno passo alle ammissioni, soprattutto alle coscienze tumefatte dal proprio delirio di commiserazione, per cui la colpa è sempre degli altri, la responsabilità è sempre dell’altro, tutto quanto accaduto è risultanza a carico degli altri.Reiterate le sofferenze imposte, le indifferenze ricevute, le offese fanno male fino al punto da obbligare a mollare gli ormeggi senza preavviso.

Accade che un giovanissimo senza più il tremore della paura dell’offesa, nella propria libertà rapinata con la violenza ripetuta, lentamente costruisce il cappio, c’è l’insopportabile con cui fare i conti, un taglio che non si rimargina, il dolore non si attenua mentre prendono sopravvento i silenzi e le alzate di spalle dei tanti e troppi colpevoli disattenti.

Resta questa nuova assenza che non può diventare soltanto un silenzioso ricordo di ciò che è stato, perché qualcuno dovrà spiegarlo cosa è stato.

Qualcuno dovrà spiegare a chiare lettere, senza se e senza ma, che bulli non si nasce, si diventa attraverso il non rispetto delle regole, dell’educare con parole di carta che bruciano subito, con la disattenzione colpevole che non consente alcuna prevenzione preziosa.

C’è da augurarsi che il tempo grande educatore, grande dottore ci insegni a tutti che l’amore non è un  carico a perdere, ma una responsabilità nel rispetto della libertà di ognuno e di ciascuno.

Concorso per il reclutamento a tempo indeterminato di personale non dirigenziale

Concorso pubblico su base territoriale, per titoli ed esami, per il reclutamento a tempo indeterminato di n. 161 unità di personale non dirigenziale, per il Ministero dell’istruzione e del merito. Pubblicazione graduatorie relative agli uffici scolastici regionali per l’Abruzzo, le Marche, il Molise, il Friuli Venezia Giulia e il Piemonte

Si avvisano i candidati che sono stato pubblicate le graduatorie finali di merito dei candidati risultati idonei al concorso pubblico su base territoriale, per titoli ed esami, per il reclutamento di un contingente complessivo di n. 161 unità di personale non dirigenziale, a tempo pieno e indeterminato, da inquadrare nell’Area dei funzionari (famiglia professionale funzionario giuridico-amministrativo-contabile) dei ruoli del Ministero dell’istruzione e del merito, relative agli uffici scolastici regionali per l’Abruzzo, le Marche, il Molise, il Friuli Venezia Giulia e il Piemonte.

Le graduatorie sono pubblicate sul portale “InPA”, al seguente indirizzo: 

https://www.inpa.gov.it/bandi-e-avvisi/dettaglio-bando-avviso/?concorso_id=a5dbc39edcf3448aaef5627013d6194e.

Inoltre, ciascun candidato potrà visualizzare, accedendo all’Area riservata del Portale inPA, il punteggio totale e la relativa posizione in graduatoria.
Si ricorda che ogni comunicazione concernente il concorso è effettuata attraverso il suddetto portale “inPA”.