Competenze, legge Fornero, esami di Stato

Competenze, legge Fornero, esami di Stato

 di Maurizio Tiriticco

Antonio Valentino riprende su Scuolaoggi le mie riflessioni sugli esami di Stato conclusivi dell’istruzione secondaria superiore – non più esami di maturità – e aggiunge considerazioni che condivido in toto. Afferma che occorre andare, e rapidamente, verso una definizione certa e inequivocabile delle competenze da accertare e certificare in sede d’esame; che tra queste non vanno dimenticate le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente e per l’esercizio della cittadinanza attiva indicate dall’Unione europea [1]; che occorre predisporre un modello di certificazione che sia “leggibile” anche al di là dei nostri confini e ripensare anche la struttura stessa dell’esame. Valentino si chiede anche se abbia ancora senso il tema della prima prova, quando già con la stessa legge di riforma 425/97 si avanzarono proposte diverse, ma non si osò cancellare il tema di sempre, nonostante le posizioni critiche dei nostri migliori linguisti; e si chiede se non occorra ripensare la terza prova, la cui forza innovativa è stata sempre “umiliata e offesa” da una pratica effettuata al ribasso! [2] E riflette anche sulla necessità di un intervento di formazione degli insegnanti che fin dal prossimo settembre (inizio della classi terze del secondo ciclo) dovrebbero progettare i curricoli curvati a un esame centrato su competenze, purché l’amministrazione riesca a codificarle in tempi utili [3]!

A questo proposito, vorrei solo segnalare che siamo molto indietro, se pensiamo a quanto è successo in questi ultimi anni con le prove Invalsi le quali, invece di indicare orizzonti diversi e avanzati di misurazione e di valutazione di competenze linguistiche e matematiche, hanno sempre provocato risentimenti e fiere opposizioni! Mi sono già più volte espresso in merito e non ci ritorno: in sintesi, da un lato le prove lasciano a desiderare, ma da parte sua chi vi si oppone fa di ogni erba un fascio e trae pretesto dall’insufficienza docimologica delle prove per sparare a zero su ogni possibile innovazione proprio in materia di valutazione, che dovrà costituire, invece, il clou determinante in sede di nuovi esami di Stato e/o di certificazione terminale. Su quell’e/o tornerò successivamente.

In uno scenario di questo tipo, così aperto e nel contempo complesso, proprio quando l’innovazione in materia di esami di Stato dovrebbe cominciare a preoccuparci tutti e seriamente, si inserisce la legge Fornero, per l’esattezza la Legge 28 giugno 2012, n. 92, “disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”. Non voglio entrare nel merito della legge; mi interessa solo sottolineare che all’articolo 4, “ulteriori disposizioni in materia del mercato del lavoro”, si afferma al comma 51: “In linea con le indicazioni dell’Unione europea, per apprendimento permanente si intende qualsiasi attività intrapresa dalle persone in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale. Le relative politiche sono determinate a livello nazionale con intesa in sede di Conferenza unificata, su proposta del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentito il Ministro dello sviluppo economico e sentite le parti sociali, a partire dalla individuazione e riconoscimento del patrimonio culturale e professionale comunque accumulato dai cittadini e dai lavoratori nella loro storia personale e professionale, da documentare attraverso la piena realizzazione di una dorsale informativa unica mediante l’interoperabilità delle banche dati centrali e territoriali esistenti”.

Vanno sottolineate almeno tre circostanze: a) che l’apprendimento per tutta la vita viene avvertito ormai come una necessità inderogabile da cui nessun cittadino/lavoratore può sottrarsi; b) che i tre percorsi, formale, non formale e informale – peraltro specificati nei commi successivi della legge – costituiscono altrettante modalità tra loro costantemente interagenti; c) che conoscenze, capacità e competenze rinviano alla dizione di cui all’articolo 6 della legge 425/97 con cui si è sostituito l’esame di maturità con l’esame centrato sulle competenze [4], le quali, com’è noto, fino ad ora non sono state mai certificate [5].

Il lettore si chiederà che cosa c’entra la legge Fornero con il nostro esame di Stato. La risposta la ritroviamo in un documento della Rete universitaria italiana per l’apprendimento permanente (Ruiap), presentato a un convegno sul tema al Cnr in Roma lo scorso 3 luglio: “In una prospettiva di apprendimento permanente quale strumento privilegiato per la creazione di una cittadinanza attiva e per la capitalizzazione delle proprie attitudini e delle risorse individuali in termini di saperi e competenze, appare sempre più necessario promuovere l’ampliamento e la diversificazione dell’offerta di istruzione e formazione all’interno di un sistema integrato, che possa fornire proposte educative e formative adeguate ai bisogni degli individui e al raggiungimento di competenze riconosciute a livello nazionale e, laddove possibile, anche a livello internazionale. Occorre altresì favorire l’orientamento delle persone nella scelta dei percorsi di istruzione o di formazione e rendere il sistema scolastico e formativo maggiormente attraente, agendo sulle infrastrutture, ma anche sulle tecnologie didattiche e sui servizi aggiuntivi”. In effetti, se una società è educante, non si può fare a meno di procedere all’integrazione, o al raccordo, dei diversi percorsi che dalla culla al pensionamento interessano e coinvolgono tutti i soggetti. Ne consegue che i percorsi di istruzione (infanzia, primo e secondo ciclo), quelli dell’istruzione tecnica superiore, quelli della formazione (istruzione e formazione professionale regionale, apprendistato), i percorsi universitari e quelli dell’istruzione degli adulti, in un’ottica di generalizzato e sempre più diffuso apprendimento permanente, pur mantenendo ciascuno la sua specificità, saranno pur sempre caratterizzati dal fatto che ciascuno di essi è finalizzato a far conseguire ai singoli soggetti in apprendimento determinate competenze.

Com’è noto, a conclusione di un percorso di studi e di formazione, un conto è valutare le conoscenze acquisite, altro conto è accertare e certificare competenze, anche se esiste uno stretto continuum tra conoscenze, abilità e competenze. Il che comporta che lo stesso regime tradizionale dell’esame di Stato dovrà coniugarsi con il regime assolutamente nuovo della certificazione delle competenze. Quell’ “e/o”, di cui a un mio passaggio precedente (esame o certificazione) dovrà essere risolto con una procedura di svolgimento delle prove che consenta, appunto, l’emergenza delle competenze acquisite dal soggetto: che saranno necessariamente competenze culturali pluridisciplinari e preprofessionalizzanti [6].

Da questa serie di considerazioni emerge che il cammino non sarà affatto facile. Da un lato la prospettiva dell’apprendimento permanente è esaltante, dall’altra ricondurre ad unitarietà percorsi di educazione, istruzione e formazione che hanno alle loro spalle storie diverse e a volte contrapposte (ad esempio la tradizionale separatezza tra istruzione generalista e formazione professionale) non sarà cosa facile!

E proprio per queste ragioni occorre pensarci in tempo. Non vorrei che ci si gingillasse troppo, ieri con i Vales e, oggi, con le Città intelligenti, quando le urgenze sono ben altre! E un ministro, anche se tecnico, potrebbe anche dare dei segnali in tal senso!

 


[1] Sono le competenze di cui alla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006. Tale competenze avrebbero dovuto essere certificate al termine dell’obbligo di istruzione (dm 139/07), ma nel modello di certificazione (dm 9/10) non sono state prese in considerazione. E’ necessario, quindi, che vengano certificate almeno al termine dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado.

[2] Delle sei tipologie proposte dal dm 249/2000 per la terza prova, le commissioni scelgono sempre le prime due, le più semplici. Occorre, tuttavia, considerare che le più complesse, il caso e il progetto, sono prove che difficilmente possono essere elaborate dalle commissioni, a causa dei tempi ristretti in cui sono tenute ad operare (si veda l’articolo 12, comma 7 dell’OM 41/12, reiterato in ogni tornata d’esame).

[3] Per quanto riguarda i sei percorsi liceali, le competenze terminali vanno costruite ex novo, considerando i Piani di studio allegati alle Indicazioni nazionali. Per quanto riguarda i percorsi tecnici e professionali, le competenze terminali da accertare e certificare vanno estrapolate da quelle descritte, disciplina per disciplina, nei Piani di studio allegati alle Linee guida di cui alle Direttive 4 e 5 del 16 gennaio 2012.

[4] All’articolo 6 di detta legge leggiamo: “Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni al fine di dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite, secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”

[5] Le ragioni sono note: il Miur in più di dieci anni dalla riforma non ha mai né ricercato né indicato quali fossero le competenze culturali da certificare al termine del rinnovato esame di Stato che, di fatto, non è più un esame di maturità, ma non è neanche un esame in grado di certificare competenze. Ma nella tornata del 2015 le competenze dovrebbero essere accertate certificate! C’è da sperare!?

[6] Vanno anche considerate le terminalità professionalizzanti di alcuni percorsi dell’istruzione professionale, soprattutto quelli avviati in regime di sussidiarietà, integrativa o complementare, con l’istruzione e formazione professionale regionale.

 

Così ho conosciuto Amalia Ciardi Duprè

Così ho conosciuto Amalia Ciardi Duprè

di Adriana Rumbolo

Ci siamo incontrate sul marciapiede, in via degli Artisti.

Lei ritornava a casa tenendo con le mani  una piccola opera, esposta per alcuni giorni a una mostra,  e un comune conoscente ci ha presentate.

Sono stata subito piacevolmente attratta dalla statuetta: non molto alta 30cm. circa rappresentava una giovane donna in attesa di un bimbo; l’espressione fiera , invincibile i capelli all’indietro come se camminando contro vento, lo sfidasse.

Fui investita da una grande emozione.

Quell’opera riusciva a comunicare  la forza della maternità e quindi della vita.

Per la prima volta, sentii forte il desiderio di toccare una scultura e di accarezzarla e glielo dissi: “Non conosco bene la scultura, ma la sua opera ha destato in me questo desiderio”.

Lei  mi rispose con quel suo sorriso fanciullesco e saggio.

Poi per motivi personali passò un po’ di tempo prima  che entrassi nel suo studio.

Lo studio di Amalia è un grande salone, potrei definirlo un grande spazio: all’ingresso ci sono dei pannelli scorrevoli che possono servire per esporre disegni.

Si prosegue sempre fra le sue opere alcune finite altre no per poi accedere in un altro ambiente dove si affacciano  due soppalchi e anche lassù tante basi di cartone su cui sono appoggiate altre statue di vari materiali: terracotta, marmo, bronzo, materiale refrattario.

Fin dall’inizio ebbi  la sensazione di entrare in un ambiente ricco di emozioni, di persone, di storie.

Quasi per gioco ho cominciato a dialogare con le statue e scherzando le salutavo: buongiorno, buona sera!

Quando una attirava maggiormente la mia attenzione  la commentavo con lei: “Amalia ,che emozione questa mamma con un grappolo di bambini intorno alla sua figura o che spuntavano da sotto la veste della mamma come fanno i bambini quando giocano a nascondino:f igure che mi stupivano e mi trasmettevano messaggi.”

Un’altra volta era un mito etrusco minaccioso, potente e allora lei mi raccontava le storie di queste opere me le spiegava con la sua semplicità ricca  di profonda cultura e sempre aperta a ogni argomento.

Un pomeriggio d’inverno all’imbrunire, mentre sorseggiavamo  un tè rigorosamente con un servizio di antica manifattura Richard-Ginori e deliziosi cucchiaini d’argento dell’ottocento, arrivarono degli addetti per riportare delle statue dopo una mostra.

Per agevolare il lavoro vennero  accese le luci anche dei soppalchi.

Allora si creò casualmente un gioco di  chiaro-scuri che evidenziarono molto  l’armonia espressiva delle statue e un soppalco diventò un palcoscenico.

Era molto suggestivo ed io mi rammaricai di non avere una cinepresa  per fissare quello spettacolo  magico.

Dopo le ho detto: “Sai Amalia penso”, e quando dico così,  lei mi guarda con il suo sorriso fanciullesco e mi incoraggia, dimmi, dimmi e io proseguo, “penso che tu lasci un po’ delle tue emozioni nelle opere che poi le trasmettono in chi le guarda.

Ultimamente  ha creato delle composizioni di  incontri di coppia: un uomo e una  donna  che esprimono il forte  desiderio di appartenersi. L’uomo tende a realizzarlo avvolgendo la sua donna nella dolcezza perché lei rassicurata  lo accolga in completo abbandono.

Ho studiato come la chimica dell’amore possa scatenare questi atteggiamenti ma esprimerli con marmo, o  materiale refrattario o, bronzo mi ha fatto pensare: il grande artista è un ladro che riesce a rubare le emozioni  più profonde, misteriose a fin di bene perché poi  ce le restituisce più vere e libere da pregiudizi.

Allora anche Amalia Ciardi  Duprè è una meravigliosa “ladra”!

 

Sulla giornata mondiale contro la droga 2012

Sulla giornata mondiale contro la droga 2012

di Vincenzo Andraous

Sulla giornata mondiale contro la droga, parole, riflessioni, approfondimenti, a tal punto che mettere giù queste  righe crea qualche resistenza, come se stessi vivendola come una sorta di compitino, a cui però mi sarebbe piaciuto sottrarmi.

La mia dubitosità nasce dal muro di indifferenza che circonda il disagio sociale e relazionale, adolescenziale e adulto, sull’uso e lo spaccio di droga, sull’abuso della violenza in ogni territorio della diseducazione.

E’ una indifferenza che non fa prigionieri, che non lascia impronte, non teme minimamente i titoli di coda, è un comportamento quotidiano, mascherato di grandi impegni, di rivendicazione dei valori più profondi, del rispetto degli altri, delle regole stesse della civiltà.

Mentre la crisi abbatte la speranza, la politica fa acqua da tutte le parti, la povertà del pane insegue quell’altra della dignità, c’è una sorta di fermo immagine, di tenue preoccupazione per i pericoli derivanti dall’uso e abuso delle sostanze, dallo stile di vita improntato allo scontro fisico e verbale, non solamente all’interno dei recinti giovanili, ma anche e soprattutto nelle aree ben delimitate del mondo adulto.

Le idi di marzo di questa umanità contemporanea non possono essere ascritte alla sola generazione stanca che conta gli anni di età attraverso lo sbadiglio, forse più prossimità hanno con la truppa adulta, che se non complice dello sfascio, è sicuramente corresponsabile degli errori dimenticati, fino al punto da scambiare il proprio posto a tavola con quello dei figli.

Le droghe, tutte, nessuna esclusa, le prepotenze e le violenze, incluse quelle che non sono mai di casa nostra, piuttosto in quella accanto. In questa pedagogia scombinata e truffaldina, è molto facile perdere di vista la patologia più bisognosa di interventi efficaci e urgenti, è molto semplice sfuggire le proprie responsabilità, diffondendo il verbo che i ragazzi di oggi, come quelli di ieri, nascono così, con una forte propensione a passare gli esami di maledetti per forza. Quando accade di ascoltare affermazioni come queste, c’è la riconferma di un tradimento culturale, una difesa incapace di nascondere tanta inadeguatezza: alcuni di questi ragazzi pervengono all’inciampo perché li abbiamo addestrati così malamente a fronteggiare l’impazienza,  preferendo la rinuncia alla lotta.

Si tratta di indifferenza quando l’attenzione è dirottata verso altre aree più opulente e vantaggiose alle nostre esigenze-aspettative, rafforzando una collettività così dissociata da accettare senza troppi mal di pancia le opinioni che “ fanno meno male“.

C’è un gran s-parlare sul nuovo sistema di welfare, con il risultato di non consentire domande e risposte comprensibili per opporci allo sbaraglio di tanti ragazzini, invece si predilige lo spostamento delle problematiche altrove, introducendo di volta in volta ciò che potrebbe essere innocuo, legalizzato, se non addirittura liberalizzato.

Ciò produce un messaggio ambivalente, una toponomastica del disagio manipolato, soprattutto una indifferenza feroce che toglie valore non soltanto ai ragazzi che svendono la propria vita, ma anche al ruolo e alle competenze di chi è preposto ad accogliere e accompagnare, a  verificare e curare, dentro un percorso di ri-conquista della propria dignità personale, quindi al rispetto della vita stessa.

Istituire la giornata mondiale contro la droga non è solamente un dovere istituzionale per sottolineare le illegalità dell’uso e dello spaccio delle sostanze stupefacenti, nella violenza delle mafie per mantenere inalterato il più grande business dell’era contemporanea, è anche altro, un’azione preventiva affinchè questa metastasi non abbia a espandersi ulteriormente, una scelta-azione di libertà individuale e collettiva, che mette il più possibile al sicuro il futuro inviolabile dei giovani: ciò sarà possibile con un confronto e un dialogo che si costruisce insieme, però in ogni giorno dell’anno, in ogni agenzia educativa, in ogni comunità di servizio e terapeutica della nostra penisola.

 

Il diritto ad un certo numero di ore di sostegno nasce solo dal PEI

Il diritto ad un certo numero di ore di sostegno nasce solo dal PEI

di Salvatore Nocera

            Il TAR Toscana con la sentenza 18 aprile 2012, n.763, ha enunciato alcuni principii che chiariscono sempre più la procedura  per ottenere ore di sostegno e la validità delle sue fasi.

Infatti la sentenza nell’assegnare ore di sostegno ha precisato che il diritto ad un certo numero di esse nasce solo quando questo è quantificato nel PEI, dopo una fase istruttoria che riguarda specialmente la formulazione della diagnosi funzionale e del profilo dinamico funzionale.

Tale fase preliminare   si apre con la richiesta di ore di sostegno da parte dell’interessato, il quale in questo momento ha solo un interesse legittimo che le ore vengano assegnate secondo le “ sue effettive esigenze”.( preciso che questa formula normativa si rinviene nell’art 1 comma 605 lettera B della l.n. 296/06 ) successivamente si apre la fase degli accertamenti tecnici da parte del GLHO che verifica se tali richieste sono conformi alle effettive esigenze ed , in tale fase, potrebbe emergere l’accertamento tecnico che le ore richieste sono troppe  e quindi il gruppo tecnico potrebbe anche ridurre il numero delle ore richieste, anche tenendo conto dei progressi realizzati precedentement e quindi potrebbe ritenere che per una maggiore crescita in autonomia dell’alunno le ore richieste siano troppe e possono essere ridotte rispetto a quelle dell’anno o degli anni precedenti.

Questa valutazione strettamente tecnica rientra nella “discrezionalità tecnica “ dell’Amministrazione e, pur vertendosi ancora in tema di interessi legittimi e non di diritti soggettivi, non potrebbe essere portata al TAR( la discrezionalità tecnica è di per sé incensurabile avanti ai TAR) a meno che non si dimostri che vi siano vizi di legittimità come erronea valutazione del presupposto ( ad es. erronea valutazione della diagnosi funzionale) o carenza di istruttoria( ad es. non convocazione del GLHO per la formulazione del profilo dinamico funzionale o del PEI).

Appena la richiesta di ore è quantificata nel PEI nasce il diritto soggettivo a quel determinato numero di ore( l. 122 / 2010 art 10 comma 15 ), che, ripeto, potrebbero anche essere di meno di quelle dell’anno precedente; e questa è una novità rispetto alla gran parte delle sentenze che concedonoaumento di ore.Però  il principio cui la decisione si ispira implicitamente è già stato esplicitato nella Sentenza n. 80/2010 della Corte costituzionale, secondo la quale non necessariamente alla certificazione di disabilità grave deve corrispondere il massimo delle ore di sostegno, dovendosi guardare alla specificità del deficit.

Si riporta un brano della motivazione dell’interessante sentenza del TAR Toscana:

“E’ importante però sottolineare, ai fini della soluzione della presente controversia, che non esiste un diritto soggettivo generale alla fruizione di specifiche misure di integrazione ed in particolare di un numero predeterminato di ore di sostegno scolastico. Spetta infatti alle Amministrazioni indicate dalla normativa, nel rispetto dei criteri di logica e ragionevolezza e con corretta applicazione di eventuali scienze tecniche rilevanti, individuare caso per caso le misure idonee a garantire l’integrazione scolastica avendo quale obiettivo anche la progressiva autonomizzazione della persona diversamente abile, nei limiti consentiti dalla sua situazione. Può quindi anche essere giustificata una riduzione delle ore di sostegno se ragionevolmente motivata dal, e finalizzata al, raggiungimento di tale obiettivo.

Una volta formato il piano educativo individualizzato, allora la pretesa all’integrazione in capo all’alunno diversamente abile assume concretezza di diritto soggettivo e si specifica nella fruizione degli interventi ivi rappresentati, e correlativamente nasce un’obbligazione in capo alle Amministrazioni competenti a renderli.”

 

OSSERVAZIONI

Da questo brano sembra potersi legittimamente dedurre che le riduzioni di ore, rispetto a quelle indicate nel PEI,    effettuata dagli Uffici scolastici provinciali o regionali sono illegittime , non solo se determinate da problemi di bilancio ( come è stato affermato costantemente dalla Corte costituzionale e da ultimo nella Sentenza citata n. 80/10 ), ma anche se motivate dalla mancanza delle effettive esigenze,  quando queste affermazioni non poggino sul parere tecnico del Gruppo di lavoro dell’Ufficio scolastico provinciale o un eventuale gruppo di lavoro dell’Ufficio scolastico regionale, che però normalmente non esiste.

 

Una strana sentenza sulla non discriminazione

Una strana sentenza sulla non discriminazione ai sensi della L.n. 67/06

di Salvatore Nocera

            La L.n. 67/06 stabilisce che la discriminazione effettuata con comportamenti o provvedimenti volontari o  involontari ma oggettivamente  discriminatori è un fatto che comporta la condanna di chi discrimina persone con disabilità al risarcimento dei danni anche non patrimoniali, oltre che alla cessazione del fatto discriminatorio.

Di questo avviso non è stato il tribunale civile di Ferrara nel decidere su un ricorso di una famiglia che lamentava la discriminazione operata per l’interscuola ( orario di mensa) negato ad un alunno con disabilità per il solo fatto che uno dei genitori non lavorava e poteva quindi accudire , in quell’intervallo di tempo, al figliolo.

Fin qui, sulla decisione nulla da eccepire, poiché l’ASP, azienda per i servizi alla persona, ex IPAB ( trasformata in azienda comunale ai sensi dell’art 10 l.n. 328/2000) ha fissato questa prescrizione nel proprio regolamento, come giustamente ha affermato il Tribunale civile di Ferrara.

Dove invece , a mio sommesso avviso, c’è discriminazione è nel raffronto tra il regolamento dell’ASP del 2008 ed il precedente regolamento dell’Assessorato comunale  per i servizi sociali del 2005 che prevede per tutti i bambini il diritto prioritario all’interscuola se i due genitori lavorano entrambi, ammettendo quindi che se uno non lavora può ottenere l’interscuola per il proprio figlio, dopo essere stati soddisfatti i diritti prioritari degli altri.

Anzi tale regolamento prevede una norma apposita per i casi più gravi che vengono risolti caso per caso. Con il regolamento dell’ASP del 2008, riguardante esclusivamente i bambini con disabilità, questa distinzione fra genitori entrambi lavoratori e dei quali uno solo lavora, concedendo in quest’ultimo caso l’interscuola se  sono rimasti posti disponibili dopo le priorità, non è traccia alcuna.Se si chiedono chiarimenti verbali agli uffici dell’ASP, ci si sente rispondere, come ha stabilito il Tribunale, che il servizio dell’ASP è particolare perché non si limita solo all’interscuola.

In vero, a pensar male, si fa peccato, ma ci si azzecca, il fatto è che, mentre per l’interscuola del Comune c’è un assistente per molti bambini, per l’interscuola dei bambini con disabilità occorre un assistente talora anche col rapporto uno ad uno; e ciò costituisce un costo molto superiore.

Però se si ritiene l’interscuola rientrante nel diritto allo studio, la sentenza della Corte costituzionale n. 80/2010 è chiarissima, stabilendo , anche alla luce di una ininterrotta propria giurisprudenza, che il diritto allo studio degli alunni con disabilità , essendo un diritto costituzionalmente garantito, non può essere limitato per motivi di restrizioni di bilancio; ciò significa che , se la vera motivazione della disparità di trattamento fosse costituita dal costo maggiore per gli alunni con disabilità( e dal testo del regolamento non risultano motivazioni ), la norma del regolamento che la prevede sarebbe illegittima e potrebbe essere annullata da qualunque Tribunale ( in questo caso TAR) per violazione di norme costituzionali.La conseguenza sarebbe così che il regolamento del’ASP sarebbe un provvedimento discriminatorio e come tale censurabile da qualunque Tribunale civile.

Forse , se la famiglia, facesse appello contro la sentenza del Gribunale civile di Ferrara, potrebbe capovolgere il risultato, dal momento che la discriminazione tra le due previsioni normative è  sostanzialmente palese ; anzi, stando all’art 3 comma 3 l.n. 104/92, gli alunni con disabilità certificati in situazione di grave disabilità hanno diritto di “priorità” nell’accesso  a tutti i servizi previsti dalla stessa Legge-quadro e quindi   anche all’interscuola come connesso intrinsecamente al diritto allo studio, senza alcuna distinzione se i genitori lavorino entrambi o meno. Sarebbero quindi alla pari di priorità con l’ipotesi prevista  dal regolamento comunale ; né si dica che questa sarebbe una conclusione meramente formale, perché potrebbe replicarsi che molto più formale è la distinzione operata nel regolamento dell’ASP , che sottintende unbisogno di risparmio, che il regolamento comunale non prevedeva; chè anzi esso prevedeva una norma apposita proprio per i casi più gravi.

Si auspica che, senza la necessità dell’appello, il Comune di Ferrara, che ha una tradizione multidecennale di meritori interventi di qualità nell’integrazione scolastica, anche con ottimi accordi di programma , tra i primi in Italia, voglia far modificare il regolamento dell’ASP ( azienda propria=) adeguandolo al proprio regolamento  , alla l.n. 67/06 ed alla Costituzione.