Le Regioni ed il Coronavirus

Le Regioni ed il Coronavirus

di Gian Carlo Sacchi

Il 2020 avrebbe potuto costituire la svolta per il rafforzamento dell’autonomia regionale. Alla fine dello scorso anno il Presidente della Repubblica ne ha parlato come di “valore costituzionale e di contributo di grande rilievo che qualifica l’unità nazionale”. Il Ministro per le regioni Boccia, facendo la spola tra la conferenza di tali enti e l’apposita commissione parlamentare, ha riassunto i principi fondamentali dell’operazione, raggiungendo un consenso ampio tra le forze politiche e mettendo a punto una proposta di legge che avrebbe dovuto a  breve essere varate dal Governo centrale.

Si tratta di realizzare un’autonomia secondo il principio di sussidiarietà, che riduce le disuguaglianze, all’interno della Costituzione; è l’occasione, prosegue il ministro, per avviare un confronto serio sulla riforma dei servizi pubblici locali ed anche, possiamo aggiungere, riprendere la questione dell’istituzione di una camera nazionale degli enti territoriali, abbandonata dopo il fallimento del referendum sulla riforma costituzionale, da collegare con la recente riforma dei parlamentari.

Tutte le regioni, ha aggiunto l’esponente del governo, devono avere la possibilità di sottoscrivere intese, ai sensi dell’art. 116, comma 3 della Costituzione, facendo valere le proprie specificità all’interno di regole comuni. L’obiettivo è far salire tutte le aree in ritardo di sviluppo, non solo di mezzogiorno, ma anche  quelle interne e di montagna.

Le materie non soggette ai livelli essenziali delle prestazioni(LEP) possono essere delegate alle regioni, mentre i LEP devono essere definiti con legge del Parlamento, che da diciannove anni è inadempiente. La colpa di questo ritardo, continua Boccia, è dello Stato, di alcuni ministeri, tra i quali quello dell’istruzione, che non hanno fornito i dati nemmeno per l’applicazione del titolo quinto della Costituzione.

I LEP corrispondono al soddisfacimento dei diritti sociali e civili in termini di servizi che non sono ancora garantiti a tutta la popolazione, anche se nel settore educativo, scolastico e formativo ormai la legislazione nel nostro Paese può considerarsi completa, così come una maggiore autonomia regionale è stata richiesta da consultazioni popolari o da convergenti motivazioni di diverse forze politiche e istituzionali di determinati territori.

Il finanziamento dei LEP deve essere garantito in tutte le regioni, anche in quelle con minore capacità fiscale, per le quali viene istituito, in applicazione dell’art. 119 della Costituzione, un fondo perequativo in modo da ridurre le differenze tra i territori, in relazione alla consistenza della popolazione. Con l’avvio della riforma sul federalismo fiscale si vorrebbe garantire agli enti locali le risorse finanziarie adeguate alle funzioni da svolgere (D. Leg.vo 216/2010), nonché sufficienti spazi di variazione dei tributi in grado di assicurare l’equilibrio dei bilanci.

Un più consistente livello di tributi propri conferirebbe agli enti decentrati una maggiore autonomia e responsabilità nelle scelte,  funzionale ad una migliore programmazione delle attività in quanto fondata su più attendibili metodi di previsione del gettito. La determinazione dei LEP dovrebbe passare per l’individuazione del costo unitario per garantire una determinata prestazione in riferimento alle funzioni fondamentali dell’ente. 

Occorre recuperare i ritardi accumulati nell’applicazione della predetta legge sul federalismo fiscale; ai continui ripensamenti politico-amministrativi ha corrisposto un assetto istituzionale poco funzionale con sovrapposizione tra le rispettive spese e la perdita di efficienza nell’azione di governo. La mancata integrazione del potere di spesa con la responsabilità impositiva, afferma la Corte dei Conti (2019), fa aumentare la spesa pubblica.

Le due questioni che animano il dibattito, politico e territoriale, riguardano la distribuzione del bilancio dello Stato e la realizzazione piena dell’autonomia. Le tabelle presentate dalla magistratura contabile (2016) dimostrano come l’attuale criterio della “spesa storica” sia abbondantemente sperequato, sia in base al PIL delle singole regioni, sia in relazione al numero degli abitanti, così come l’autonomia delle scuole e degli enti locali pur essendo stata rilanciata dalla riforma del titolo quinto della Costituzione (2003) sia di fatto bloccata per iniziativa della burocrazia statale  centrale e periferica che difende i suoi poteri e che insieme ai sindacati non mettono in atto le riforme (si veda il predetto titolo quinto e le numerose sentenza della Corte Costituzionale),cercando di ricondurre la governance della scuola alla “contrattazione” anche mettendo in atto processi di delegificazioni a beneficio di un’azione politico-concertativa.

Si tratta da un lato di trasferire i poteri dallo stato centrale alle autonomie territoriali, che farebbero assumere alla scuola una fisionomia da ente locale, ma dall’altro di promuovere sul territorio un “sistema pedagogico” organizzato come comunità partecipata, che però gli stessi soggetti interessati potrebbero avere paura ad assumere le proprie responsabilità, mantenendo una certa cultura del pubblico dipendente. I due versanti fanno temere da un lato il pericolo di una interferenza del potere politico regionale e locale, per cui forse è meglio lo stato lontano che la regione vicina, e dall’altro auspicare un aumento del livello di partecipazione senza però arrivare ad attribuire alle autonomie scolastiche reali poteri e competenze. In altri Paesi si è andati fino in fondo, affidando ai comuni la gestione del sistema formativo locale o inserendo con maggiore protagonismo la presenza dei genitori. Da noi siamo rimasti a mezz’aria e non abbiamo il coraggio di inserire la scuola nell’art. 116 della Costituzione e nemmeno di fare la riforma degli organi collegiali.

Guardando ai risultati OCSE-PISA constatiamo che nella maggior parte dei Paesi che hanno evidenziato risultati positivi gli enti locali e le scuole hanno una notevole libertà e autonomia sia nell’adattare e attualizzare i contenuti educativi sia nell’attribuire e gestire le risorse. Da noi, come si è detto, benché l’autonomia delle singole scuole abbia acquisito dignità costituzionale, il loro autogoverno non ha legittimità e quindi se un’amministrazione regionale deve consultarle si limiterà ad interloquire con la direzione regionale del MIUR. Le società complesse non tolleranoun’eccessiva concentrazione di funzioni e compiti in capo ad un unico livello decisionale e gestionale.

L’applicazione della legge sul federalismo fiscale riporta risorse nelle casse delle regioni del nord, in base alla partecipazione al gettito del proprio territorio, mentre diminuiscono i trasferimenti statali in quelle del sud, ma introduce un altro criterio, quello del “costo standard”, che mette a confronto le realtà regionali concosti pro capite più bassi, come indicatori di politiche virtuose.Nel momento in cui le regioni faranno crescere il proprio PIL il gettito fiscale rimarrebbe sul territorio, fermo restando, come si è detto, il fondo perequativo.

E’ del tutto evidente che il regionalismo differenziato per poter aderire alle caratteristiche delle diverse realtà deve essere subordinato alla determinazione in via prioritaria delle condizioni di parità tra i territori che si struttura attraverso la definizione e la reale applicazione dei LEP e la equa distribuzione dei servizi. Il che vuol dire un piano straordinario di investimenti per consentire lo sviluppo delle necessarie infrastrutture, ma anche scelte politiche che ad esempio nei servizi per l’infanzia si preoccupino soprattutto della crescita dei bambini e non solo delle esigenze  delle famiglie centrate perlopiù sul lavoro delle madri. In quest’ottica ha preso forma la proposta di legge quadro del ministro Boccia che si è preoccupata di definire l’iter procedurale, per evitare che si resti in balia di ritardi o addirittura di boicottaggi come è accaduto con l’applicazione della predetta riforma del titolo quinto della costituzione.

I LEP assumono rilievo quando un servizio pubblico è attribuito ai livelli decentrati di governo, con adeguati margini di autonomia nelle modalità di erogazione e nel loro finanziamento. Essi sono il nuovo crocevia tra i decentramento amministrativo, la revisione delle competenze e delle funzioni ai diversi livelli di gestione, la piena realizzazione dell’autonomia scolastica e la riorganizzazione del sistema fiscale. La base di partenza dei LEP non può essere la spesa oggi sostenuta dal MIUR; essa va ricostruita attraverso i livelli territoriali di imposizione fiscale, fino a quello delle stesse scuole per le quali sarebbe prevista, anche se non praticata,l’autonomia finanziaria. In gioco infatti non ci sono solo i livelli di efficienza dei servizi, ma la crescita delle persone e lo sviluppo del Paese. Se da un lato i LEP devono sostenere il decentramento del sistema istruzione, dall’altro devono garantire i diritti dell’infanzia entro un’offerta educativa gestita dai comuni ed intervenire sulla qualità della formazione professionale utile al miglioramento delle competenze lavorative. 

La garanzia dei LEP non può prescindere dalla compatibilità finanziaria nazionale. E’ dunque necessario trovare un equilibrio tra conti pubblici ed il riconoscimento ai cittadini di standard quanto-qualitativi nell’offerta dei servizi, attraverso un monitoraggio statale per verificare l’effettiva capacità delle regioni di erogare il LEP in condizioni di efficienza ed appropriatezza nell’utilizzo delle risorse. La valutazione dell’efficacia e dell’equità nello sviluppo delle competenze andrà riferita a criteri europei (EQF) e a rilevazioni nazionali (INVALSI) e internazionali (OCSE-PISA). Anche i LEP a loro volta andranno sottoposti a revisione, compresa la determinazione della “quota capitaria”, sulla base dei risultati conseguiti e in rapporto all’evoluzione culturale, sociale ed economica del Paese.

Quello tracciato è il percorso al quale stato e regioni si sarebbero sottoposti di comune accordo per l’applicazione dell’art. 116 comma 3 della Costituzione; l’arrivo del coronavirus  non solo ha fatto saltare tutti i piani, che ben difficilmente potranno essere ripristinati per far ripartire l’iter parlamentare dal quale sarebbero poi scaturite le intese con le singole regioni, ma ha messo a nudo la realtà che anche gli accordi adottati avevano in parte nascosta, facendo prevalere interessi politici sia al centro che in periferia dettati o dall’inadeguatezza dell’azione di governo rispetto ai veri e comprovati (ad esempio dal mondo scientifico) interessi dei cittadini, o dal conflitto tra stato e regioni che si genera in base alle maggioranze che sostengono il potere centrale o regionale, senza anche qui che vi sia stata una verifica dei risultati, messo in campo allo scopo di guadagnare consenso per le campagne elettorali e non dal senso di responsabilità che si deve al ruolo delle istituzioni.

La verità che emerge dall’epidemia proprio nel settore della sanità che è quello più strutturalmente decentrato è che l’efficienza delle regioni si rivela altalenante e che lo stato non può gestire direttamente la situazione su tutto il territorio nazionale. C’è chi chiede una maggiore nazionalizzazione pensando ad un sistema capace di dare risposte omogenee ai territori e chi sostiene che una maggiore autonomia procura maggiore efficienza ma nello stesso tempo rischia di far prevalere un atteggiamento autarchico e sperequato tra le regioni.

A ben guardare la situazione era già prevista dalle norme emanate nell’ultimo ventennio che però non sono mai state applicate compiutamente da entrambe le parti. L’accentramento degli aspetti gestionali non conferisce efficienza al sistema, così come gli interventi delle regioni sul piano del governo del territorio manca del necessario coordinamento a livello nazionale. Si veda come anche la protezione civile, che dovrebbe avere una maggiore capacità di manovra, di fatto resti per tanti aspetti impantanata nella burocrazia e che molto meglio potrebbero fare le sue delegazioni regionali.

Occorrono “norme generali”, come prevede il titolo quinto della Costituzione, anche per quanto riguarda la comunità scientifica, ma che non si sostituiscano ai poteri sottostanti sul piano del governo del territorio; un coordinamento tra stato e regioni (perché in questo caso non si sono chiamate in causa in modo più decisivo le conferenze tra i due poteri) ed un monitoraggio congiunto dell’efficacia. L’insufficienza di materiali, personale e strutture ricade su un’errata valutazione dei LEP da parte dello Stato, che non ha adeguatamente finanziato il servizio su tutto il territorio nazionale, nonostante gli accordi assunti sul riparto dei fondi statali per la sanità, prima ancora di arrivare ai costi standard sui quali far ripartire una riorganizzazione virtuosa tra le regioni.

In un sistema di tradizione federalista i rapporti tra il potere centrale e quelli locali sono più rispettosi delle rispettive prerogative, forse perché è l’etica politica ad ispirare comportamenti atti a ricercare stabilità ed efficienza nei servizi ai cittadini, mentre da noi i poteri vengono contesi ed i livelli di governo anziché coordinarsi approfittano anche delle emergenze per alzare il conflitto, identificando le responsabilità con le maggioranze politiche, al fine non tanto di proporre soluzioni migliorative, ma di trascinare continuamente la popolazione in battaglie elettorali.

Si tratta da una parte di promuovere l’idea di uno stato-comunità, tipico delle democrazie liberali e scritto anche nella nostra Costituzione, caratterizzato da una leadership diffusa, diverso da quanto si va diffondendo, anche con il consenso dei cittadini, che ha caratterizzato nella storia la nascita delle dittature, in alcune realtà anche europee la richiesta dell’uomo forte al comando, il quale magari ha distrutto la sanità ed ora si fa paladino nelle emergenze. Intanto che combattiamo il coronavirus, anche con la decretazione di urgenza, che spesso sovrappone i provvedimenti statali con quelli regionali, dobbiamo pensare a quale sistema di governo vogliamo dopo.

Le statistiche ci dicono che i cittadini in nome della sicurezza giustificano la limitazione della libertà dei singoli, salvo poi trasgredire nei comportamenti le norme stabilite. Ma negli stati autoritari, lo stiamo vedendo molto chiaramente con l’attuale epidemia, l’efficienza del sistema centralizzato, statale ma anche regionale se diventasse a sua volta autocratico, deve fare i conti con la trasparenza, ad esempio nell’informazione ed  il rispetto della libertà di stampa o la messa in campo dei servizi segreti anche solo per spiare le mosse dei contagiati.

Al termine dell’epidemia bisognerà che insieme alla ripresa economica ci si preoccupi della convivenza sociale e della governance di un sistema da ricostruire come nel dopoguerra; bisogna evitare che il virus contamini anche la nostra democrazia,che ha bisogno di continua manutenzione e motivazione, irrobustita magari da una più efficace struttura federale.