Una strategia per l’istruzione

da Corriere della sera

Giuseppe Lauria

Il desiderio di condivisione che la scienza nutre nei confronti del mondo politico è un fatto senza tempo. Un esempio è la lettera che Galileo indirizzò circa 400 anni fa a Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana. Essa è divenuta famosa per alcune parole che da allora disegnano i confini di ciò che è scienza: «sensate esperienze, accuratissime osservazioni, dimostrazioni certe». La cosa interessante è che la Granduchessa sia passata invece alla storia per incapacità, cupidigia e bigottismo. Un impossibile incontro, possiamo dire, tra genio ed inettitudine.

Lungi dal voler riportare questo confronto all’attualità, è indubbio che il nostro Paese, forse più di altri nel mondo occidentale, sia segnato da un profondo solco di incomprensione sul significato del termine «scienza» e su ciò che da esso ne deriva. Un «digiuno di scienza», come è stato scritto pochi giorni fa sul Corriere, che si traduce in quotidiani scalpori e stupori da ambo le parti. Nella sconsolante attesa di un rimedio che un giorno le istituzioni educative dovrebbero portare. Un giorno che probabilmente non vedremo mai, restando immutate le ragioni del suo ritardo.

A questa funerea visione del futuro sembra fare da contraltare la buona produzione scientifica italiana. Utilizzando SCImago (www.scimagojr.com), un portale pubblico di raccolta delle pubblicazioni, l’Italia è all’8° posto nella graduatoria per tutti i settori della ricerca, dall’agricoltura alle arti, ed al 7° nella medicina. La classifica generale è guidata da USA, Cina e Regno Unito, seguiti da Germania, Giappone, Francia e Canada. Se invece guardiamo la classifica di Nature Index 2020, che evidenzia i Paesi che hanno dominato la ricerca di alta qualità nell’anno precedente, l’Italia è al 13° posto nel mondo superata anche da Svizzera, Olanda, Spagna e Svezia.

Tralasciamo se siamo messi bene o male, ma poniamoci la domanda se siamo interessati a queste graduatorie. Con tutti i limiti, esse sono considerate importanti dalle istituzioni internazionali più prestigiose perché esprimono quanto cemento contiene uno dei pilastri che da sempre ogni civiltà ha considerato cruciale per il proprio sviluppo: l’istruzione. Non è una novità il fatto che la percentuale di investimento sul prodotto interno lordo destinato all’istruzione ponga l’Italia al quart’ultimo posto in Europa. Ma le cose più interessanti da ricordare sono forse altre due. La prima è che dal 1970 ad oggi la maggior parte dei Paesi europei ha, con alcune fluttuazioni, aumentato la spesa per l’istruzione portandola oltre il 5%. La Spagna è passata dall’1,8% al 4,2%. L’Italia, dopo essere salita al 4,7% tra gli anni ‘90 e primi del 2000, è ridiscesa al 4%. La seconda è che mentre la distribuzione della spesa per l’istruzione primaria e secondaria in Italia è in linea con quella europea, quella per l’istruzione terziaria è meno della metà ed è stata ridotta di oltre 2 miliardi nell’ultimo decennio.

Torniamo quindi alla questione di fondo ed alle contraddizioni che sembrano emergere: perché è fondamentale la condivisione tra mondo scientifico e politico? Perché da essa entrambi ne uscirebbero più forti.

In Italia, la spesa per l’istruzione non solo è tra le più basse nel mondo occidentale, ma la sua destinazione è sostanzialmente indirizzata alla scuola dell’obbligo. Questo ha un solo significato: che l’Italia non ritiene l’istruzione terziaria — università e dottorati — un pilastro per il proprio sviluppo. Una scelta legittima, per carità, ma che sarebbe bene dichiarare piuttosto che spendere parole fatte di nulla su competitività, flessibilità del mercato del lavoro, fuga dei cervelli e loro ritorno. Chiacchiere inutili. All’Italia non interessa; si dichiari che la strategia è diversa, come nel dopoguerra: in 15 anni un benessere impensabile. Ma 70 anni dopo, al 24° posto su 26 per capacità di reggere alla globalizzazione nella classifica dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Nonostante questo non siamo male nella ricerca. E quindi cosa sarebbe, una consolazione? Per farcene cosa? I numeri raccontano una semplice verità: che la politica italiana, in qualunque combinazione si trovi al governo, non condivide il principio che l’istruzione avanzata sia fondamentale per rendere il Paese competitivo. Ciò comporta un’involuzione generale, anche della stessa politica. Si dichiari allora una strategia alternativa. Proprio adesso perché l’unica grande occasione che abbiamo per ripartire con un orizzonte diverso, dopo la pandemia, è un investimento sull’istruzione del nostro capitale umano. Salvo idee migliori.