Sulla regolazione della “carriera alias” degli studenti

Sulla regolazione della “carriera alias” degli studenti

di Gianluca Dradi

Le scuole, specie le secondarie superiori, stanno con sempre maggior frequenza ricevendo richieste di attivazione della c.d. “carriera alias” da parte di studenti che vivono una problematica di varianza o disforia di genere[1].

Infatti chi sperimenta una problematica legata alla propria identità di genere vive con sofferenza le pratiche e gli spazi cisnormativi. Con questo termine si fa riferimento al fatto che moduli, registri ed atti contemplino solo il genere maschile o femminile e che, normalmente, negli ambienti scolastici manchino toilette o spogliatoi “gender free”.

Attraverso la “carriera alias” le istituzioni scolastiche possono adottare quell’accomodamento ragionevole[2] che consente a coloro che sperimentano un’identità o un’espressione di genere non corrispondente al sesso biologico, di vivere la loro esperienza scolastica con meno disagio e quindi contrastare il maggior rischio di abbandono cui sono esposti.

Si tratta, essenzialmente, di adottare un percorso burocratico temporaneo ed interno alla scuola in virtù del quale nel registro di classe, nella posta elettronica e nei rapporti sociali quotidiani, si utilizza un nome di elezione. Inoltre possono allestirsi bagni e spogliatoi, che garantiscano una maggior privacy.

Il percorso di inclusività che la scuola può intraprendere in questo ambito non è espressamente disciplinato da alcuna norma giuridica né da alcuna circolare ministeriale. E non può ignorarsi che gli interventi volti a riconoscere questa tipologia di diritti vengono tacciati, da alcuni ambienti politico-culturali, come espressione di un’“ideologia gender” da ripudiare[3].

Nell’assenza di specifiche indicazioni ministeriali, si può però prendere spunto dai principi sanciti nelle Linee Guida Nazionali, emanate dal Ministero dell’Istruzione il 27 ottobre 2017 (Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione).

Inoltre si può riflettere sul fatto che il nostro sistema ha, come sui tratti costitutivi, la promozione dell’inclusione, del rispetto delle differenze, dell’intercultura, nonché della cittadinanza consapevole attraverso il dialogo e il confronto con le differenze.

Tenendo infine presente che il regolamento sull’autonomia scolastica (DRP 275/1999), conferisce alle scuole il compito di realizzare «interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti e alla domanda delle famiglie», appare possibile, e quindi opportuno (laddove si presenti il problema), disciplinare il fenomeno. 

Il riconoscimento dell’autonomia, del resto, serve proprio ad attribuire alle singole istituzioni scolastiche, attraverso le decisioni degli organi collegiali, quei margini di flessibilità e adattabilità ai diversi contesti che l’uniformità normativa non potrebbe garantire.

Il Consiglio di Istituto è l’organo che, nell’ambito della propria potestà regolamentare, può prevedere le modalità attraverso le quali riconoscere il diritto delle persone ad essere denominate con un nome di elezione (coerente con quella che viene percepita come la propria identità di genere) negli atti interni alla scuola, nonché decidere di organizzare degli spazi (bagni e spogliatoi) che consentano a tali studenti di sentirsi tutelati nel momento in cui la propria intimità è maggiormente esposta.

Ovviamente nessun regolamento scolastico comporterà la modifica dei dati anagrafici degli studenti, avendo l’adozione del nome elettivo, efficacia meramente interna[4] alle mura scolastiche.

L’attivazione del percorso, per gli studenti minorenni, dovrà avvenire sulla base della richiesta di entrambi i genitori[5], posto che, come prevede l’art. 316 del Codice Civile, la responsabilità genitoriale  è esercitata da entrambi i genitori di comune accordo tra loro, peraltro «tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio». Qualora accordo non vi sia, «su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice» per l’adozione dei provvedimenti più idonei.

Come si diceva, si tratta di un’applicazione estensiva dell’istituto giuridico dell’accomodamento ragionevole, previsto anche dal D.Lgs. 216/2003 per evitare, negli ambienti di lavoro, forme di discriminazione, anche solo indiretta[6], delle persone in conseguenza dell’orientamento sessuale.

Come statuito dalla Corte di Cassazione, a sezioni riunite, con la sentenza n. 24414 del 2021, «l’accomodamento ragionevole è il luogo del confronto: non c’è spazio per fondamentalismi, per dogmatismi o per posizioni pretensive intransigenti. L’accomodamento ragionevole è basato sulla capacità di ascolto e sul linguaggio del bilanciamento e della flessibilità. Valorizza le differenze attraverso l’avvicinamento reciproco orientato all’integrazione. La dimensione che lo caratterizza è quella dello stare insieme improntata ad una logica dell’et et, non dell’aut aut».

Dentro questo contesto di flessibilità nella ricerca di soluzioni utili, il Consiglio di Istituto, che ha il compito di organizzare la vita e l’attività della scuola (art. 10 D.Lgs. 297/1994), può quindi regolare le modalità di accoglimento di una scelta educativa che compete ai genitori (art.  30 della Costituzione) e che, ai sensi della legge Moratti (art. 1 L. 53/2003), la scuola è chiamata a rispettare.

Tanto più che attraverso il concreto riconoscimento delle persone per come sono e nel rispetto delle loro legittime istanze, si riesce, ad un tempo, a promuovere la loro inclusione ed a fornire un’occasione di educazione per tutta la comunità scolastica su un tema, qual è il rispetto delle differenze, sempre più strategico in una società multiculturale, multireligiosa e -come già spiegava il 41° rapporto del Censis- sempre più frammentata e come tale maggiormente esposta al rischio di una “conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata”[7].


[1] Per un breve ma preciso inquadramento, anche terminologico, vedasi: https://www.ausl.re.it/allegati/Pratica%20Sanitaria%20e%20identita%20Transgender.pdf

[2] Di “soluzioni ragionevoli” parla, per la prima volta, la Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. Di “accomodamento ragionevole” parla poi la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, del 2006. Con tale espressione di fa riferimento alle modifiche ed adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un onere sproporzionato, adottati per garantire alle persone (con disabilità) il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.

[3] Come esempio si può leggere questo appello: https://www.provitaefamiglia.it/petizione/stop-gender-nelle-scuole

[4] La circostanza che il Registro di classe costituisca un atto pubblico non determina la commissione del reato di falso solo perché un soggetto viene lì denominato con un nome diverso da quello anagrafico. Infatti il bene giuridico tutelato dai reati di falso ideologico e/o materiale è, come recita il titolo VII del Codice Penale, la “fede pubblica”; quindi per integrare l’illecito occorre che l’alterazione sia idonea a trarre in inganno qualcuno in ordine ai fatti che vengono attestati nel registro (essenzialmente la presenza dello studente e i voti attribuitigli). E’ del tutto evidente però che, laddove l’uso di un nome diverso da quello anagrafico corrisponda ad una richiesta della famiglia e risulti regolamentato dall’istituto scolastico, non corrisponde all’intenzione di alterare la verità nè appare idoneo  a trarre in inganno i soggetti direttamente coinvolti nella redazione o consultazione del Registro. Manca dunque sia l’elemento psicologico che quello materiale del reato.

[5] Per un esempio di richiesta e regolamento, vedasi: https://liceoartisticoravenna.it/index.php/documenti/studenti-e-genitori/259-regolamento-per-l-attivazione-e-la-gestione-della-carriera-alias

[6] Si ha discriminazione indiretta, recita l’art. 2, quando “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un  patto  o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata  religione  o  ideologia  di  altra  natura,  le  persone portatrici di handicap,  le  persone  di  una  particolare  età o nazionalità o di un orientamento sessuale  in  una  situazione  di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

[7] Cfr. sintesi del 52 rapporto Censis.