Quando la scuola viene meno ai patti

Quando la scuola viene meno ai patti

di Giovanni Fioravanti

Pare che il ministro dell’Istruzione e del Merito sia determinato a voler raddrizzare la schiena agli studenti che vengono meno ai loro doveri scolastici, in particolare, per quanto attiene al comportamento. Coerente con la sua teorizzazione della funzione catartica della pedagogia dell’umiliazione, starebbe predisponendo un disegno di legge con il quale sancire che il voto in condotta farà media con le altre materie e con il sei in condotta si sarà rimandati a settembre in educazione civica. Perché poi con il sei che tradizionalmente nella scala scolastica corrisponde alla sufficienza? Per il semplice fatto che con il cinque, introdotto a suo tempo dalla ministra Gelmini, si è automaticamente bocciati in tutte le materie. Inoltre, poiché il salutare beneficio dell’umiliazione non deve mancare, quanti incapperanno in provvedimenti di sospensione superiori ai due giorni dovranno essere impiegati in attività di “cittadinanza solidale”, cosa significa esattamente staremo a vedere.

Da alcuni anni a questa parte, nell’indifferenza generale, come se le parole poco contassero e fossero tra loro intercambiabili, negli atti ufficiali “la comunità scolastica” è andata via via denominandosi “comunità educante”. 

Espressioni che solo ad un’attenzione superficiale possono apparire equivalenti, ma che se dovutamente soppesate fanno emergere differenti sfumature semantiche.

La comunità scolastica è facilmente individuabile nella scuola e nelle sue finalità, la comunità educante è di più difficile identificazione, coinvolgendo tutti coloro che hanno in mente un progetto formativo e sono impegnati a perseguirlo a prescindere dalla scuola, o facendo anche uso della scuola.

Si potrebbe essere portati a pensare che la sostituzione della comunità scolastica con la comunità educante sia l’espressione inconscia di adulti frustrati dal loro fallimento nella relazione con i giovani che non sono come li vorrebbero, per cui non trovano altra soluzione se non quella di rafforzare la funzione correttiva dei comportamenti da parte della scuola puntando sulla condotta dei singoli.

Se è questa la “comunità educante” del ministro, a me pare assai prepotente e al limite del bullismo, dove il più forte impone la sua legge. Sì, perché la legge che il ministro vorrebbe vedere approvata dal parlamento confligge con quelle attualmente in vigore. Precisamente con lo statuto delle studentesse e degli studenti e con l’autonomia scolastica,

In particolare, il DPR del 1998, n.249, lo Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria, che ne stabilisce diritti e doveri, dove sta scritto al terzo comma dell’articolo 4 che: “Nessuna infrazione disciplinare connessa al comportamento può influire sulla valutazione del profitto.”

 

Sostanzialmente che il voto in condotta non può fare media con i voti nelle discipline, che se per il mio profitto nelle materie merito di essere promosso non mi puoi bocciare per via del voto in condotta. Se poi le famiglie ricorrono al TAR e questi dà ragione a loro, non c’è da stupirsi, perché sta scritto nella legge. 

Cosa significa questo? Significa che il Ministero dell’Istruzione e del Merito, attraverso il suo ministro pro tempore, decide di venir meno al patto sottoscritto con studentesse e studenti nel 1998 e che è legge della repubblica. E già questo, di per se stesso, è sufficientemente diseducativo!

Viene meno senza aver interpellato né gli studenti né le loro famiglie. Decide di propria iniziativa che quello che in quel patto sta scritto è superato.

Forse qualcuno al ministero dovrebbe rileggersi un po’ di normativa e semmai fare pure avvertito il ministro.

È un principio di elementare docimologia non mischiare le mele con le pere ed è pure sancito da una legge dello stato italiano. È un principio fondamentale che non può essere violato. Punire le competenze per sancire una condotta è un moralismo vigliacco, è un modo per impoverire e svuotare la tua identità. Per svilirti, per umiliarti, per annullarti. È un’arroganza moralistica che si traduce in bullismo da parte dell’istituzione e di chi pretenderebbe di essere “comunità educante”. Sarebbe come negare a chi è rinchiuso in carcere per qualunque reato il diritto di studiare, il diritto a veder riconosciute le proprie competenze. 

Un assurdo per un luogo che si definisce mediante lo studio e l’acquisizione delle conoscenze, il prodotto di un accecamento del cervello che non è ammissibile da parte di chi ha in mano le sorti formative dei nostri giovani, e che si spiega solo come l’esito di impotenza e impreparazione nell’affrontare i problemi complessi che pone la crescita di ogni giovane. Si spiega con l’accanimento terapeutico di chi sente di aver fallito come adulto e come scuola e si ostina a non prendere atto della propria inadeguatezza, scaricando come sempre la colpa sui più deboli quelli che ancora sono adolescenti. E questo non può che definirsi bullismo degli adulti.

Pare che ormai sia divenuta la prassi il divorzio tra normativa e quotidianità della scuola;. l’impressione è che gli insegnanti si mettano in cattedra senza mai aver letto neppure le Indicazioni curricolari nazionali relative al ciclo di studi in cui sono chiamati a insegnare. Che ci sia una sorta di routine consolidata a prescindere da quanto sancito dalle normative, tutto è sostituito dai libri di testo, dalle guide, dalle abitudini mai messe in discussione e le norme restano sconosciute nel cassetto. 

Ora questo non vale solo per gli insegnanti, pare che valga anche per il ministero di viale Trastevere. Questa dell’idea del ministro e del suo disegno di legge sulla condotta ne è un esempio.

Non solo lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti in tutti i suoi articoli, che richiamano la responsabilità degli studenti ma anche quelle della scuola viene ignorato, ma anche il DPR n. 275 del 1999 sull’autonomia scolastica.

Nel momento in cui il ministro vuole sancire per legge il tipo di punizione che deve seguire ai provvedimenti di sospensione si appropria di una competenza che non è sua ma che, per legge, compete ai singoli istituti scolastici ed ai loro organi di governo.

Quello del ministro è puro bullismo propagandistico che viola l’autonomia delle scuole e la finalità educativa a cui devono tendere i provvedimenti disciplinari, che solo a livello locale, caso per caso, realtà per realtà devono essere decisi e valutati, senza che ci sia un ministro a scrivere un codice penale erga omnes.