F. Bellino, All’ombra della pianura

IL “TAVOLIERE”, LUOGO ARCHETIPO NEL PERCORSO POETICO – FILOSOFICO DI FRANCESCO BELLINO

di Carlo De Nitti

Davvero suggestivo l’espediente letterario che Francesco Bellino mette in atto in questa sua ultima raccolta di poesie – la quarta, dopo Lembi di sodaglia (1975), Sreale (1977), Tempo smemorato (1984), Display d’amore (2001) – recentemente pubblicata da una benemerita casa editrice irpina, la Delta 3 edizioni di Grottaminarda con la preziosa Introduzione di un grande Autore della letteratura contemporanea: Raffaele Nigro.

All’improvviso, decede un ottantenne storico del Tavoliere, “che non aveva mai pubblicato un rigo dei suoi scritti, che custodiva gelosamente in un’enorme cassaforte con una combinazione il cui codice segreto aveva comunicato soltanto a me, quando si era accorto che era rimasto solo, senza nessuno” (p. 9). Lasciare tutto in “un brogliaccio di carte con la scritta <All’ombra della pianura. Epitaffi ed elegie daunie>“ (p.10) inedito era stato il suo modo per non essere uno dei tantissimi eruditi di provincia. 

La pianura del titolo, ovviamente, è il Tavoliere, la Capitanata (ovvero la terra amministrata dal Catapano, governatore bizantino), la “Magna Capitana” (come la chiamava re Enzo di Hohenstaufen, 12201272, figlio di Federico II Puer Apuliae), che è radicata nel cuore, nell’animo, nel sangue e nella carne di Francesco Bellino, originario di Orta Nova: “la pianura è figlia / del Mediterraneo e del sole / è un mare di terra” (epitaffio 27, p. 36).

Lì, in quella pianura – madre terra ancestrale, archetipa ed iconica – egli ha le sue radici, vi è nato e vi ha vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza, prima di trasferirsi nel capoluogo di regione, in cui insegna, scrive e ha fondato il primo Corso di perfezionamento in Bioetica in una università degli studi pubblica italiana, nel lontano 1987, di cui chi scrive spera di essere (stato) buon testimone.

La passione di Francesco Bellino per l’utilizzo del linguaggio poetico è antica: non a caso, come egli stesso rammemora (p. 91), la sua prima raccolta di versi gli fu pubblicata, quasi ventenne, sotto gli auspici del grande intellettuale e meridionalista Tommaso Fiore, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario del decesso.

Questa passione egli ha coltivato sempre, pubblicando, accanto ai saggi scientifici ed alle monografie, ben cinque raccolte di poesie. “La poesia – diceva anche lo storico ottantenne – era la madre lingua del genere umano. Ciò che si poteva dire bisognava dirlo in tre parole. La scrittura poetica era quella preferita perché era sintesi. Sintesi illuminata da un’intuizione unitaria […] La poesia doveva cogliere ed esprimere l’haecceitas, l’unicità di ogni cosa, di ogni luogo, di ogni essere. Gli epitaffi erano la sintesi della sintesi delle meditazioni per scoprire la verità essenziale: simplex sigillum veri” (pp. 13 – 14). In questo senso, la poesia non può che essere il complemento/coronamento del pensiero filosofico. Appare retorica la domanda ma filosoficamente molto fondata. “Chi può governare una città, / se prima non impara a governare la propria casa, / e ancora prima se non perfeziona la sua persona, / correggendo il suo cuore e ampliando i suoi pensieri / fono al fondo delle cose?” (epitaffio 29, p. 34). Prezioso il seguito poetico: “Al sommo grado della conoscenza / i pensieri sono sinceri, / il cuore corretto, / la persona perfezionata, / la famiglia è ben regolata, la città in pace.” (epitaffio 29, p. 35). Riecheggiano in chi scrive le lontane (ma solo nel tempo) parole di Baruch Spinoza. 

La lingua poetica di All’ombra della pianura. Epitaffi ed elegie daunie coglie questa essenza asciutta e ne fornisce ampia esemplificazione. Lo storico di cui si discorre, attraverso Francesco Bellino, ripercorre e fa vivere il Tavoliere come il “prototipo delle pianure. La pianura piatta, uniformemente orizzontale, uguale, aperta, infinita, era l’icona dell’uguaglianza, dell’infinito, del vuoto, dell’eternità della vita” (p. 11). Altresì egli fa rivivere persone, personaggi e figure reali, storiche e mitologiche, che hanno attraversato la sua età più tenera: “Si era deciso a scrivere e/o trascrivere gli epitaffi e le elegie daunie perché temeva che con la cremazione e con l’immortalità digitale sarebbero scomparse le lapidi e forse anche i cimiteri” (p. 10). E, quindi, ogni possibile memoria delle persone, delle cose, dei luoghi e delle tradizioni, anche perché “sotto i cipressi della pianura / la morte / non muore mai” (epitaffio 12, p. 28). Noi sopravvissuti “vogliamo trattenere i corpi / che diventeranno polvere / vogliamo trattenere la memoria/ che si affievolirà / e svanirà, / vogliamo trattenere le anime / che sono già volate via, / noi, tombe / vogliamo trattenere il nulla / che è l’unica traccia / del mistero della vita” (epitaffio 22 pp. 33 – 34).

Il mistero della vita e quello, ad esso connesso, della morte – eros e thanatos compresenti – sono il tema fondamentale di questa silloge poetica: “Non viene dal destino, / dalla sorte o dal caso, / tutto viene dal mistero / e va verso il mistero: / creatio ex amore Dei” (epitaffio 39, p. 41). Ciò che salva l’Autore è soltanto una profondamente radicata fede cristiana: “viviamo tra l’assurdo e il mistero / l’amore di Dio è più forte della morte” (elegia 62, p. 88).

Risuonano nel lettore non neofita degli scritti dell’Autore le pagine del Francesco Bellino filosofo morale e bioeticista, quelle dedicate al personalismo, alla complessità, all’etica della solidarietà, all’eubiosia, all’etica della comunicazione, al principio semplicità, alla pedabioetica, agli uomini giusti e solidali, ovvero, per citare Autori a lui cari, da Emmanuel Mounier a Paul Ricoeur, da Viktor Frankl ad Hans Georg Gadamer, da Jacques Maritain, da Aldo Moro, da Karol Wojtyla a Jorge Mario Bergoglio solo per fare alcuni esempi.

Il poeta stringe la mano al filosofo in un reciproco abbraccio che porta il lettore a pensare che Francesco Bellino dalla “Pianura” non si sia mai allontanato e la porti dentro di sé come il luogo archetipo dell’anima: “La pianura / è dentro di me, / la sua indolenza / si perde / tra cielo e grano / senza mai mostrarsi / né apparire / nel trambusto, / sempre riservata / a custodire / il silenzio / la solitudine / il mistero. / Anonimo” (epitaffio 49, p. 46).

E’ l’uomo indissolubilmente legato alla ‘sua’ terra: “Homo, / humus / terra / humatio, / sepoltura. / Anche il Mediterraneo / si prosciugò / e divenne terra. / Tutto diventa polvere. / Il corpo inumato / ritorna alla terra“ (epitaffio 23, p. 74)

Ed il mistero della vita e dell’oltre può essere superato solo attraverso la fede nell’Altro: “Qui riposano gli dei della pianura: / Cerere, dea delle messi, / Dioniso, dio delle vigne, / Gaia, dea della terra. / Riposano anche Giove, Giunone, Minerva. / I Lari e i Penati continuano a vivere. / Non c’è Maria Santissima, / assunta in cielo, / né il Figliuolo, / morto, risorto / è tornato al Padre Celeste. / sulla terra / sino alla fine dei tempi / sono rimasti/ gli angeli custodi, che non ci lasciano mai / e ci portano / fra le braccia di Dio, / e lo Spirito Santo, / il Consolatore, che soffia dove / e quando vuole, / è in ogni cosa, / nella pietra, nell’acqua, / nel sangue, / ma è sopra ogni cosa, / è totalmente in me, / ma è il totalmente Altro” (epitaffio 73, pp. 57- 58).

Un Altro da incontrare in un futuro lontano ed indefinito: “Qui termina / il mio cammino. / Non c’è traccia / né impronta, / tutto è polvere. / Tutto è vano / se cerchi Dio / come ombra del mondo, / tutto è eterno / se vedi il mondo / come ombra di Dio.” (epitaffio 82, p. 63).

Ad multos annos!