A scuola senza bussola

A scuola senza bussola

di Giovanni Fioravanti

Per il Censis siamo affetti da sonnambulismo, precipitati nel profondo sonno della ragione che continuerà a  generare mostri, se non ci riscuotiamo. 

Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo” è la celebre frase di José Ortega y Gasset, che Edgar Morin ha posto, due anni or sono, ad epigrafe del suo Svegliamoci! 

Per il filosofo francese è necessario trovare una bussola per orientarci nell’oceano dell’incertezza in cui vaghiamo come sonnambuli. Una bussola che ci aiuti a comprendere la storia che stiamo vivendo.

E qui sta la difficoltà. Ad uscirne dovrebbero aiutarci i nostri sistemi di istruzione i quali, benché rincorrano i cambiamenti del tempo, restano però nella sostanza identici a se stessi, ancora espressione di culture da noi ormai lontane, tanto da essere impotenti a generare nuovi modelli di pensiero, indispensabili al benessere e alla sopravvivenza dell’umanità.

Con l’ingresso nel nuovo secolo credevamo che si sarebbero aperti nuovi orizzonti, nuove prospettive fondate sulla potenza dei saperi e della scienza. Pensavamo che l’Antropocene potesse conoscere un’epoca di rigenerazione ambientale e sociale, di nuova umanizzazione, di solidarietà e coesione, un nuovo spirito comunitario come alternativa alla esclusione e alla devitalizzazione suicida del tessuto sociale.

Il corso della storia ha già deturpato il volto di questo secolo ancora adolescente con le cicatrici delle guerre e di un’economia finanziaria implacabile, minacciando le fondamenta sociali e peggiorando le condizioni di disuguaglianza nel mondo.

A questa crisi di umanizzazione corrisponde la crisi dei sistemi educativi incapaci di porsi come argini e come luoghi di recupero dell’umanizzazione, di apprendimento ad essere umani.

Su questo dovrebbero riflettere i sistemi scolastici nel mondo, oggi scossi da numerose contraddizioni e da difficoltà nuove, di fronte a generazioni di alunni e di adulti che sempre più appaiono disorientati, quando non sbandati. Ma disorientamento, e sbandamento, impreparazione e ritardi non possono essere ammessi per le istituzioni scolastiche che sono la fonte del capitale umano, di quello culturale e sociale.

Insegnare a vivere è il manifesto che Edgar Morin ha scritto per  rifondare l’educazione, bastava leggerlo e assumerlo come guida, come suggerimento di un percorso di rinnovamento dei nostri sistemi formativi.

Riforma del pensiero e riforma dell’insegnamento ne rappresentano gli elementi essenziali. 

Come negare che qui si gioca il destino delle nuove generazioni e come non guardare con apprensione allameschinità con cui si discute di scuola nel nostro paese, dal merito, al voto in condotta, al made in Italy, con la preoccupazione per un sonnambulismo profondo da cui pare assai difficile il risveglio. “Svegli, dormono”, diceva Eraclito.

Il sapere è in espansione, ma la saggezza purtroppo languisce. L’abisso che si spalanca sotto i nostri piedi richiede di essere colmato per rovesciare l’attuale tendenza che conduce al disastro, e proprio in questo l’educazione, nel senso più ampio del termine, riveste un’importanza vitale. 

Il compito non può essere ignorato perché da esso dipende il destino sociale di questo secolo.

Nel momento in cui abbiamo colto che la vita delle nostre comunità poteva essere minacciata da generazioni prive di senso civico, ci siamo precipitati a riempire il vuoto con l’insegnamento dell’educazione civica.

Ora che è gravemente minacciata la convivenza mondiale sarebbe urgente provvedere con l’insegnamento dell’ educazione alla mondialità che investa tutti i sistemi formativi del pianeta.

Comprendere la realtà, quella dell’umanità e quella del mondo, riconoscere le interdipendenze che creano il bisogno di varie forme di solidarietà. 

La coesione sociale e la solidarietà appaiono come aspirazioni e finalità indissolubilmente legate, in armonia con la dignità dell’individuo. Il rispetto dei diritti umani va di pari passo con un senso di responsabilità che incita uomini e donne ad imparare a vivere insieme.

Ciò richiede innanzitutto di rimuovere la patina etnocentrica che ancora riveste i contenuti dei nostri sistemi formativi, che impedisce di dialogare tra loro, che ostacola il riconoscimento dell’interdipendenza planetaria.

Etica, felicità, tradizioni religiose, problema della conoscenza, problemi logici, il rapporto tra le forme del sapere, in particolare con la scienza, il senso della bellezza, la libertà sono destinati a isterilirsi, a divenire paratie costruite a difesa della propria identità contro l’identità dell’altro, se non ritrovano comuni significati entro un quadro di cultura mondiale condivisa.

La cultura che trasmettono le nostre scuole è ancora essenzialmente monoetnica rispetto alla mondialità che sempre più incombe. 

Lo scriveva il sociologo messicano Rodolfo Stavenhagen, occupandosi delle minoranze, come la maggior parte dei moderni stati-nazioni sia organizzata sul presupposto della omogeneità culturale. Questa omogeneità costituisce l’essenza della “nazionalità” moderna, su cui si basano oggi le nozioni di stato e di cittadinanza. L’idea di una nazione monoetnica, culturalmente omogenea, viene usata prevalentemente per nascondere il fatto che questi stati meriterebbero di essere definiti più propriamente etnocrati, nella misura in cui solo un gruppo etnico maggioritario o dominante arriva a imporvi il proprio concetto di “nazionalità” alle altre componenti della società.

Il risultato è sotto i nostri occhi dall’emigrazione all’escalation dei conflitti sociali e bellici a cui impotenti oggi assistiamo, da quello russo-ucraino a quello israelo-palestinese.

Attenzione, dunque, anche a sottovalutare o a interpretare in modo folcloristico le pretese di una cultura che intende rilanciarsi con il culto della nazione e lo slogan Dio, Patria e Famiglia, specie se di mezzo ci sono le nostre scuole e la formazione della nostra gioventù la cui patria sempre più sarà il mondo intero.

Obiettivi di apprendimento e competenze forse sono utili per un sistema sociale chiuso, non per società aperte al mondo che necessitano, per dirla con Morin, di due parole chiave: conoscenza della conoscenza e comprensione

La conoscenza della conoscenza per cogliere i nostri errori e quelli degli altri, la comprensione come virtù principale di ogni vita sociale che consiste nel riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri. Comprensione, benevolenza, riconoscimento permetteranno, scrive Morin, non solo un “miglior vivere” in ogni relazione umana, ma anche di combattere il male morale più crudele, il più atroce che un essere umano possa fare a un altro essere umano: l’umiliazione.

Dobbiamo preoccuparci seriamente perché i nostri sistemi formativi non sono più in grado di garantire un “miglior vivere” alle nuove generazioni,  segnale allarmante sono le parole sporche tornate a circolare come: merito, punizione, umiliazione, anche queste espressione evidente della crisi di pensiero che stiamo vivendo, immersi in una sorta di sonnambulismo generalizzato.