Istruzione e Formazione Professionale: Emilia Romagna e Lombardia

Istruzione e Formazione Professionale
Emilia Romagna e Lombardia per Il riordino del sistema nazionale

di Gian Carlo Sacchi

Si è iniziato a porre il problema dell’ istruzione e formazione professionale in termini di riordino istituzionale agli inizi egli anni settanta del secolo scorso con l’entrata in vigore delle Regioni a statuto ordinario alle quali veniva attribuita la competenza prevista dall’art. 117 della Costituzione sulla “istruzione artigiana e professionale”. Fin da allora l’assessore regionale lombardo Filippo Hazon chiese il trasferimento  degli istituti professionali di stato. Fu in quel periodo infatti che per la prima volta si era cercato di portare a sistema mille percorsi formativi organizzati da singoli ministeri e da enti ed associazioni. La politica però non consentì la fusione disquisendo perfino sui termini: istruzione= stato, cittadinanza, ed alle regioni la  formazione, che prendeva cioè la forma dal mondo del lavoro.

Per cercare di dare organicità a quest’ultimo settore fu redatta una legge quadro e su quella base intervenne una miriade di leggi regionali che cercavano di dare risposte alle rispettive realtà territoriali, ma mancavano di un coordinamento e del riconoscimento reciproco  delle qualifiche professionali.

Tale dualismo è in atto tutt’ora sebbene molte cose siano cambiate, a cominciare da una nutrita legislazione europea che noi fatichiamo a fare nostra al di la dei riconoscimenti formali.

Alla base della contesa, aggravata dal lato statale da una difesa dei posti di lavoro dei docenti e da quello regionale dalle corporazioni degli enti di formazione, resta però una diversa interpretazione delle finalità di questo settore, che un po’ radicalizzando si potrebbero individuare nei due ”modelli” regionali, quello lombardo, più incline a corrispondere alle esigenze del mercato del lavoro, e quello emiliano più incentrato sulla formazione generale dei lavoratori. In entrambi i casi tuttavia le Regioni avrebbero preferito il passaggio completo delle competenze statali.

I due canali nel tempo si sono consolidati e ogni tentativo di riforma da una parte trovava sempre la resistenza dell’altra, all’insegna della “pari dignità”, fino ad arrivare al traguardo quinquennale per entrambe, per consentire l’accesso agli studi superiori, accademici e professionalizzanti, ad imitazione dl sistema tedesco.

Una svolta politica  a tutto il settore è stata impressa nel 2000 con il “patto per il lavoro”  che pose in evidenza l’esigenza di una “professionalità arricchita” dalle così dette “competenze trasversali” e di “un’istruzione integrata” con l’attività lavorativa e aziendale. Questa spinta in Lombardia ha visto l’integrazione tutta interna ai curricoli del sistema regionale, mentre in Emilia si è iniziata la collaborazione ra i percorsi formativi degli istituti scolastici e centri i formazione. Le due modalità si diffusero tra le altre regioni, fino ad arrivare in casi in cui erano compresenti.

I modelli rimanevano distinti ma i problemi tendevano ad essere comuni riguardo all’efficacia dei percorsi medesimi al punto che nella regione emiliana aumentarono le “passerelle” tra la scuola e la formazione professionale regionale, mentre in quella lombarda si voleva far adottare  agli istituti statali i curricoli regionali, oltre a ciò vennero rilanciati gli stage aziendali come veri e propri percorsi di “alternanza” tra studio e lavoro e conferita agli istituti tecnici e professionali la competenza di agenzia di collocamento per i propri studenti.

La situazione si è ulteriormente complicata per effetto dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione fino a tutto il primo biennio delle superiori, al quale ha corrisposto un nuovo obbligo formativo, chiamato in seguito “diritto-dovere”, fino al conseguimento di una qualifica professionale almeno triennale. A livello statale è seguito lo sviluppo quinquennale degli istituti professionali (2+2+1) e nei percorsi formativi regionali si vuole arrivare al diploma professionale quadriennale e si sta sperimentando un quinto anno per poter accedere agli istituti tecnici superiori.

L’avvio di questa complessa macchina non poteva che avvenire in maniera sperimentale recuperando i percorsi integrati, ma in modo diverso: nel caso emiliano in maniera più stretta interessando i curricoli formativi, mentre nel caso lombardo si parlava di collaborazione tra i due sottosistemi. Da qui sembrava sancito in via definitiva il “doppio canale” all’italiana, ma gli “organici raccordi” tra i due segmenti conferirono di nuovo agli istituti professionali la possibilità di far conseguire la qualifica triennale pur attribuita in via esclusiva delle regioni dalla riforma dell’art. 117 della Costituzione.

Due percorsi che con enormi complicazioni burocratiche e dispendio di risorse comunicano con grande fatica pur avendo, come si è detto,  gli stessi problemi in termini di tipologia di utenza e di esiti di apprendimento. Nel tempo è stato aperto un terzo canale: l’assolvimento dell’obblio di istruzione anche all’interno dell’apprendistato.

Un punto in comune finalmente è stato acquisito a livello nazionale: gli standard per le qualifiche, che ormai rieccheggiano le competenze europee, in modo da favorire la circolazione delle qualifiche medesime.

UN PROBLEMA PEDAGOGICO

Pur in presenza di un raddoppio delle risorse ed un dimezzamento dei risultati il problema politico delle “convergenze parallele” sembra insuperabile. In Italia tale doppio canale proprio non assomiglia a quello tedesco, sia in termini di investimenti pubblici e privati, sia quanto a considerazione sociale. Il nostro è un canalino marginale, poco utile anche alle imprese quanto ai risultati formativi, che non valorizza adeguatamente i crediti,  è certamente benemerito sul piano dell’inclusione, ma ghettizzato rispetto agli altri indirizzi scolastici.

A differenza della Germania manca una tradizione culturale e pedagogica rispetto al valore del lavoro come momento formativo prima ancora che utilizzo lavorativo. Dalla riforma della scuola media unica, che aveva unificato quella del latino con quella del lavoro, l’avviamento professionale, attraverso una nuova disciplina, le Applicazioni Tecniche, ci si sarebbe aspettato una generalizzazione di questo aspetto, in modo da incidere anche sull’orientamento. La nostra tradizione culturale tuttavia ha trasformato tale insegnamento, fino a chiamarlo tecnologia, in un’analisi teorica del mondo del costruito ed in una progressiva capacità di adattamento alla nuove tecnologie, mentre le scelte degli indirizzi di studio avvenivano sia da parte dei docenti che dei genitori sulla base delle condizioni sociali e di una gerarchia di valori formativi che consideravano la nostra tradizione culturale, fino ad indirizzare, cosa che avviene tuttora, gli italiani verso i licei e gli immigrati verso l’istruzione professionale.

Anche i tirocini in azienda sono diretti soprattutto a verificare quanto di teorico appreso a scuola, rispetto soprattutto all’attività produttiva, mancano altri importanti aspetti legati all’ambiente, ad una capacità riflessiva ed imprenditoriale. I rapporti tra curricolo scolastico e policentricità dei luoghi formativi sono ancora molto distanti dall’essere compresi e valutati in modo complessivo nel percorso formativo.

Le linee guida degli istituti professionali prevedono una certa flessibilità nella gestione del curricolo, ma poi non vengono forniti i docenti per metterla in atto; si dice di collaborazione tra i due segmenti ma poi le due burocrazie sono inconciliabili e tutto questo rende ancora più difficile le condizioni di agibilità per un utente già problematico e spesso a rischio di dispersione.

Anche le diverse modalità di valutazione in atto certo non aiutano un’analisi degli apprendimenti che hanno bisogno di essere traferiti in maniera a volte diretta nel mondo del lavoro, rappresentando cosa sa fare l’individuo più che accumulare punteggi in vista del titolo di fine percorso.

In questo settore dunque, tra istruzione-formazione e lavoro, c’è il massimo delle opportunità, la base per una vera formazione permanente, ma anche il massimo del rischio per l’intero sistema Paese.

PROPOSTE

Si ha l’impressione che il complicato meccanismo istituzionale debba garantire di più chi eroga il servizio in entrambi i canali che non l’utente; la già ricordata pari dignità fa si che venga ogni volta rafforzata l’autonomia di entrambi, piuttosto che favorire la collaborazione e perché no la riorganizzazione dell’intero comparto alla luce della riforma del titolo quinto della Costituzione che introduce un nuovo concetto: “istruzione e formazione professionale”, che si sa essere di competenza esclusiva delle regioni, ma non si sa cosa contenga, o meglio ognuno ci mette quello che vuole.

Vista sempre di più dal versante lavoro, che in un periodo di crisi quale quella in cui viviamo sembra l’ottica prevalente, le risorse vengono spostate dal sistema al soggetto; le istituzioni che dovrebbero garantire i diritti dei cittadini rischiano di passare per inutili sovrastrutture e ciò che è in atto con la spending review sembra dar ragione ad una visione piuttosto individualista di fruizione del servizio aderente  alla logica più flessibile dei voucer e dei crediti piuttosto che all’impianto rigido dei corsi e dei titoli.

Il momento di crisi può essere tuttavia propizio per superare, con risorse inalterate, la separatezza e la rigidità di questi due pezzi del sistema che per la loro posizione strategica sia del rischio che delle opportunità possono imprimere una vera svolta per la qualificazione del sistema stesso.

Una serie di azioni politiche e pedagogiche coordinate, con strumenti già presenti nel nostro ordinamento, aiuteranno un cambiamento che risiede i particolar modo nella governance.

Innanzitutto si tratta di dare consistenza a questo contenitore dell’istruzione e formazione professionale attraverso una nuova grande area che accomuni i due settori, di competenza esclusiva delle regioni, con un governo  che a livello nazionale vede un’intesa con lo Stato, il quale, secondo il predetto titolo quinto della Costituzione, che deve essere ancora applicato, dovrebbe definire i “livelli essenziali elle prestazioni” per garantire i diritti dei cittadini e valutare i risultati.

Una grande area parte da quello che c’è, istituti professionali statali e enti di formazione, con una programmazione regionale ed una gestione sotto forma di “fondazioni”, secondo un sano principio di sussidiarietà, come previsto per gli Istituti Tecnici Superiori ai quali ci si viene a collegare per la formazione terziaria. Ciò consentirà tra l’altro di mantenere l’obbligo di istruzione e il diritto-dovere, attraverso curricoli che abbiano  un’intesa a monte: Stato-Regioni-Unione Europea sugli standard per le qualifiche ed una alternanza tra suola e impresa con crediti utili anche per il raggiungimento dei traguardi finali.

Riprendere il discorso sulla pedagogia del lavoro a livello di formazione generale nel primo ciclo, non solo per i potenziali drop out, ma per tutti, utilizzando gli spazi previsti dalle apposite recenti indicazioni nazionali, in modo da sostenere l’orientamento verso questo tipo di indirizzi, ma soprattutto il mix di competenze generali e professionali sempre più necessarie per il lavoro stesso di cui i nostri alunni risultano sprovvisti.

Tutto questo ha bisogno di una profonda riflessione sulla didattica e la formazione dei docenti. Si tratta infatti di mettere al centro del processo di apprendimento l’operatività, in un’ottica di laboratorio interno alla scuola e di valorizzazione di diversi luoghi che concorrono alla formazione, secondo quanto la letteratura ci indica sulla “pluralità delle intelligenze”, l’analisi della complessità, gli elementi di relazione ed organizzazione. Una didattica “per competenze” per la costruzione di curricoli flessibili, modulari, adattabili e personalizzati ed una valutazione secondo la logica dei crediti, importante per impostare la long life learning.

Una governance del personale, concordata anch’essa tra stato e regioni e gestita a livello di queste ultime, con organici di istituto/fondazione/rete, per un curricolo così detto di base, con la possibilità di assumere direttamente per quelle attività che sono tipiche del piano dell’offerta formativa.

Sarà quindi giunto il momento di mettere fine alla guerra fredda dei due modelli che ormai sono più sulla carta che nella realtà, per un reale ammodernamento del sistema scolastico-formativo e del Paese.