Insegnare italiano

Insegnare italiano:
la mia esperienza di insegnante… una delle tante…

di Maurizio Tiriticco

Ho lasciato la scuola militante da tanti anni! In forza dell’esperienza universitaria e di quella ispettiva, la cattedra scolastica l’ho lasciata agli inizi degli anni Ottanta: quindi il mio “lavoro” di insegnante di lettere è datato, comunque… Non ho mai creduto ai libri di grammatica e non ho mai sollecitato i miei alunni ad acquistarli, convinto che la grammatica è nelle nostre teste, nei nostri pensieri e nei nostri discorsi. Facevo scrivere e leggere molto, per l’intera ora di lezione, e ciò coinvolgeva tutti. Qualche esempio.

Il gioco delle cinque parole, commisurato all’età degli alunni. Indicavo cinque parole: principe, orco, principessa, castello, caverna; oppure: soldato, generale, battaglia, madre, medaglia; oppure: fabbrica, sciopero, polizia, salario, incidente, e così via… A volte invitavo gli alunni ad aggiungere una sesta parola, valida a volte per tutti, a volte per ciascuno. Con il tempo poi erano loro a “inventare”, ciascuno, le cinque parole, a volte per l’intera classe, a volte ciascuno per sé. Poi ogni alunno in 20 minuti, poco più poco meno, doveva “costruire una storia” – la chiamavamo così – scriverla, utilizzando le cinque parole date. Dopodiché, ciascuno leggeva la sua “storia”. Ovviamente tutti stavano “attenti” – come si suol dire – perché poi ogni storia – sempre tempo permettendo – veniva poi discussa, criticata, modificata… una vera e propria fucina… e vi assicuro che la loro inventiva e la loro immaginazione andava sempre oltre le mie! Ma, com’è noto, noi adulti siamo sempre meno flessibili (io poi, specialmente!) di chi si trova in età evolutiva.

Il gioco della grammatica. Avevo insegnato che nella lingua ci sono parole che “dicono” e parole che “servono”: cane, libro, Anna, Giuseppe, viaggio, bello, brutto, alto, lungo, mangiare, correre, “dicono” un “qualcosa”. Invece e, è, ma, quando, perché, come, per non dicono niente, però sono importanti perché “servono” a costruire un discorso. Un conto è mangiare pane e salame: altro conto è mangiare pane o salame! Assegnavo poi le cinque parole (con il tempo le cinque parole se le davano loro, o per tutti gli alunni o per ciascuno), ad esempio: cane, Maria, strada, giardino, automobile. Ciascuno, utilizzando ciascuna delle parole date, scriveva un “qualcosa”. Dalla lettura collettiva emergeva subito chi era padrone di un codice “elaborato” – per dirla con Bernstein – chi invece possedeva un codice ancora “ristretto” che la scuola, comunque, avrebbe dovuto arricchire. Ecco qualche esempio. Antonio ha scritto: “Maria portava a spasso il cane per la strada poi è passata un’automobile e l’ha messo sotto”. Si noti che manca la parola “giardino”. Francesca ha scritto: “Era una bella giornata di sole e Antonietta ha deciso di portare il suo cane al giardino pubblico per farlo correre e giocare con gli altri cani. Doveva attraversare una strada molto trafficata di auto e motociclette. Sapeva che poteva attraversare la strada solo se c’erano delle strisce bianche. Attese con pazienza e poi attraversò. Fido si divertì moltissimo con gli altri cani. Poi Antonietta dovette tornare a casa perché doveva fare molti compiti! La scuola, che strazio!”. Indubbiamente Antonio deve arricchire il suo vocabolario e la sua grammatica. Francesca è più avanti. Avevo detto agli alunni che il vocabolario e la grammatica non sono dei libri! Ciascuno di noi ha in testa un certo numero di parole, a seconda dell’età e degli studi che ha fatto, e le organizza per comunicare qualcosa. Da piccoli apprendiamo solo due parole, “mamma” e “pappa”… mettiamoci anche “cacca”. Poi, man mano che cresciamo apprendiamo e utilizziamo altre parole: nonno, casa, gioco… “Mamma! Il nonno mi ha regalato un nuovo gioco”. Quando in aula (non in classe, che è un’altra cosa, un concetto, non un oggetto) ciascun alunno legge il suo testo, spesso non è necessario alcun intervento dell’insegnante, perché sono gli stessi alunni a capire chi ha scritto di più e meglio.

Un intervento “istruttivo” e “formativo” interessante (non dico “educativo” perché implica altre operazioni) era quello delle tre congiunzioni; ad esempio: quando, perché, se. Ciascuno alunno era tenuto a scrivere una frase utilizzando le tre “paroline” date. Ecco alcuni esiti: “Quando torno a casa, se ho fame, mangio, perché devo crescere”; “Quando viene la domenica,sono contento perché c’è la partita quando ce sta il campionato”. E imparavano anche che, il discorso, la frase – o meglio, un periodo, che è un concetto più ricco e corretto – procede come un treno: la locomotiva è la “proposizione” che chiamiamo “principale” perché trascina i vagoni, che sono le “proposizioni dipendenti”. E le congiunzioni sono altrettanti ganci tra un vagone e l’altro! E si divertivano tanto quando la locomotiva si trovava, a volte, alla fine del “treno”. Come quando nelle stazioni si fanno date manovre! Esempio: “Siccome ho una fame da lupo e sono fuori casa, compro un cornetto al bar della scuola”. Con il tempo le congiunzioni aumentavano, fino a raggiungere quel “benché”, di cui i libri di grammatica sono pieni, ma che nell’uso, soprattutto degli adolescenti, è pressoché inesistente.

Insomma, avevano capito che il vocabolario “non è un libro”, ma è l’insieme delle parole che possediamo e che via via aumentano di numero, crescendo e imparando; e che la grammatica non è un libro, ma i modi con cui dobbiamo combinare le parole, se vogliamo farci capire e… capire. Poi con i “libri di testo” di storia e di geografia andavamo a “caccia” di parole nuove: l’egemonia spartanaaa… gli affluenti del Po, ovviamente senza accento… non è come “però” o come “giocò”, da non confondere con “gioco”… l’importanza di un accento!

I voti? Il registro? Mah! Solo il diario di quella data “classe di età” – ma c’era sempre qualche ripetente e qualche anticipatario – era molto importante. Infatti, dovevano anche imparare che la classe, la scuola, sono una piccola società di persone, di piccoli cittadini che apprendono non solo a leggere e scrivere ecc., ma anche a “vivere insieme” come cittadini liberi, ma… di qui la “lezione della democrazia” non insegnata, ma vissuta, partecipata giorno dopo giorno.

Così era la mia scuola! Comunque è certo che, a leggere certi documenti, la legge 107/2015, un solo articolo di 212 commi, ad esempio, o il dpr 122/2009, concernente il “Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto-legge 1 settembre 2008, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169” – quante parole – viene proprio da chiedersi: ma questa è la scuola che vogliono i nostri governanti? Mah!!! Se vero che la scuola, sia in greco che in latino è “gioco”, “passatempo”, e non soltanto adempimento puntuale di norme, cerchiamo di ridarle, anche e soprattutto nella testa dei nostri alunni, il significato originario! Ma è un’impresa difficile! E poi c’è pure l’Invalsi! E i Rav! E i Pdm! Parole, parole, parole, che pesano – e come – perché sono scritte!!! E diventano fatti! A volte capisco perché Platone ce l’aveva tanto con la scrittura che nel Fedro definisce un farmaco, un veleno! E infatti lo è, quando non riflette i nostri originari pensieri e sentiri… o sentimenti che siano!

Ovviamente, tutto ciò che ho ricordato penso che valga poco oggi in un’aula di diciottenni annoiati – eppure cittadini maturi! – che giocherellano con il cellulare e non vedono loro di cavarsela a quell’esame che ancora in tanti si ostinano a chiamare di maturità… che è tutt’un’altra cosa! Ma in pochi lo sanno!