Empatia, voce del verbo insegnare

Empatia, voce del verbo insegnare

di Laura Bertocchi

L’empatia è, dizionario alla mano, “la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. In altre parole possiamo definirla come la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di sperimentare i sentimenti degli altri e di parteciparvi da un punto di vista emotivo-affettivo.

Questa dote, che ai profani può apparire trascurabile in ambito educativo, è in realtà fondamentale per stabile e mantenere un rapporto con gli studenti, in quanto aiuta a comprenderne gli stati d’animo, a prevederne le reazioni e, infine, a gestire adeguatamente anche le situazioni più difficili. La rilevanza educativa dell’empatia consiste nel fatto che “fa superare all’educatore ogni forma di rapporto con l’educando di tipo astratto, oggettivistico, di conseguenza pericolosamente autoritario.”

Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento, Maslow, psicologo comportamentista statunitense, ha sviluppato una teoria dei bisogni di ogni essere umano e, attraverso la sua famosa piramide,li ha classificati secondo differenti livelli, dai bisogni di base, la cui mancata soddisfazione può compromettere la vita, a bisogni progressivamente più complessi. E tra questi troviamo la necessità di dare un senso alle nostre azioni e trovare una ragione in ciò che facciamo . 

È evidente che sentirsi costretti a fare qualcosa senza vederne lo scopo costituisce un forte ostacolo alla motivazione e all’impegno. È compito del docente aiutare i propri studenti a trovare la ragione dell’alzarsi ogni mattina per recarsi in un’aula ad ascoltare per -mediamente – trenta ore la settimana degli insegnanti che spiegano, talvolta argomenti che toccano e coinvolgono i ragazzi ma, più spesso, temi che non suscitano il loro interesse.  

Per gli studenti delle scuole secondarie, le indagini più recentimettono in evidenza la necessità di trattare durante le lezioni questioni legate all’attualità e tematiche più concrete – questioni legate al genere, al rispetto delle minoranze, ai temi di Educazione Civica, solo per citare alcuni esempi – che abbiano dunque un riscontro nella vita di tutti i giorni, con conoscenze ancorate al quotidiano. 

Se dare un senso al proprio agire è indispensabile per gli studenti più grandi, per gli alunni delle scuole dell’infanzia e della primaria può essere più complesso. Per loro è indispensabiletrovare modalità e strategie che rendano più piacevole l’apprendimento, anche e soprattutto quando questo rischia di essere vissuto come costrizione. 

Dismettere i panni del docente e indossare quelli dei propri allievi può dunque rivelarsi essenziale per comprenderne gli stati d’animo, prevederne le reazioni, intercettare i segnali che potrebbero innescare una crisi. Infatti “l’empatia va considerata come un fattore importante nello sviluppo delle capacità di porsi in relazione con gli altri per le sue evidenti relazioni con lo sviluppo dei comportamenti prosociali o altruistici, con la comprensione delle emozioni, con il prospective taking, cioè con la capacità (…) di assumere la prospettiva di un’altra persona”, tutte capacità che assumono un’importanza fondamentale nel lavoro di chi si prende cura degli altri, come i docenti che si prendono cura dei processi di apprendimento e di socializzazione degli studenti.

Ma quali sono gli atteggiamenti – le posture diciamo oggi – che i docenti assumono e che gli studenti leggono come segnali di apertura, interesse, empatia – appunto – nei loro confronti? Non solo ciò che l’insegnante dice, ma il “come” lo dice è altrettanto importante, se non addirittura più importante, perché è risaputo che siamo prima visti e poi ascoltati e siamo più visti che ascoltati. Il paraverbale dunque assume un ruolo essenziale nell’approccio empatico verso lo studente.

Il primo assioma della comunicazione, secondo Watzlawick, è che non si può non comunicare. La non comunicazione è impossibile, perché qualsiasi comportamento comunica qualcosa ed è impossibile avere un non-comportamento. Comunichiamo continuamente dunque, più o meno consapevolmente, e per raggiungere scopi diversi, spiega Jakobson, teorizzando sei funzioni. Quelle riferibili all’empatia che il docente può mostrare nei confronti del discente riguardano i due interlocutori:

a. La funzione emotiva è riferita all’emittente ed è quella nella quale si esprimono gli stati d’animo, anche attraverso la modulazione della voce, che può rendere più vivido il sentimento provato;

b. La funzione conativa, riferita al destinatario, ha l’intento diinfluire sul proprio interlocutore, suscitando in lui emozioni che lo persuadano ad agire o pensare in un determinato modo. Questa funzione può anche essere attuata senza che l’attore ne abbia davvero consapevolezza. 

Costitutiva della relazione empatica è dunque la dimensione relazionale della comunicazione, area del dialogo e dello scambio interattivo con l’altro. In questo incontro non vengono scambiate solo parole, ma anche emozioni, gesti e sentimenti. Le funzioni del docente in questa relazione sono positive e fungono da facilitatori nell’instaurarsi di una relazione di ascolto e comprensione. Il docente, dunque, non dispone né moralizza, ma chiarisce, dimostra, stimola, apprezza, offre supporto ed aiuto, loda, mostra sollecitudine, interpreta e riconosce un proprio errore. 

Il comportamento verbale del docente è evidentemente di apertura nei confronti dello studente, di ascolto e comprensione.

Come è noto però non si comunica solo con la voce, ma con l’intero corpo; è dunque importante mostrare coerenza e corrispondenza tra gli atteggiamenti e gli intenti comunicativi. 

Fondamentale è l’aspetto paraverbale, cioè il modo con cui qualcosa viene detto. 

Le principali qualità vocali che caratterizzano il tono di un discorso sono l’altezza (acuta o grave); il timbro (che può essere, a titolo esemplificativo, squillante, graffiante, freddo, penetrante…); la velocità di eloquio; il ritmo (che riguarda l’alternanza delle velocità in un discorso) e l’intensità (che permette di distinguere i suoni deboli da quelli forti). 

L’altezza e il timbro ci appartengono per natura e sono difficilmente modificabili. Nell’interlocutore possono suscitare sentimenti, talvolta fastidio ma, generalmente, non esprimono le emozioni e gli atteggiamenti di chi parla. Queste peculiarità consentono piuttosto di distinguere e riconoscere una voce tra mille altre. 

Le caratteristiche note, invece, con il nome di “colore”, oltre a suscitare la reazione dell’interlocutore, sono riconosciute come rivelatrici di sentimenti ed emozioni di colui che parla. Pensiamo al ritmo: la velocità di elocuzione è certamente influenzata dalle inclinazioni, dalla storia personale e dal contesto culturale. Generalmente noi italiani abbiamo un comportamento “logorroico”, poiché abbiamo orrore del silenzio, che cerchiamo di riempire in ogni modo. Al di là di queste considerazioni interculturali, comunque, lo stato emotivo gioca qui un termine fondamentale. Parlare troppo rapidamente è abitualmente indice di apprensione, ansia, imbarazzo… tutte sensazioni che mal si sposano con l’intento di mostrare ascolto e comprensione nei confronti di uno studente. Viceversa, una parlata lenta può suscitare calma, tranquillità, predisporre all’ascolto e al confronto. 

Adattare il ritmo al discorso è quindi molto importante e modularne l’andamento consente di far passare intenzioni diverse, catturare e mantenere l’attenzione dell’altro. Le pause, inoltre, consentono all’interlocutore di inserirsi nel discorso che, in questo modo, diventa collaborazione, co-costruzione, comprensione. 

Altrettanto importante nella comunicazione è l’intensità della voce, intesa anche come volume, che si deve adattare al contesto e alle circostanze. Se in un’aula una voce forte richiama l’attenzione, incita e esorta, in un dialogo a due può diventare prevaricatrice e aggressiva. D’altro canto, il volume utilizzato per una confidenza non è adeguato alla gestione di una lezione in un’aula piena. Una voce troppo bassa rischia di perdersi e mostra indifferenza alle esigenze di studenti che necessitano di sentire con chiarezza quanto viene detto dal docente. 

Se poi analizziamo il non verbale sono numerosi gli atteggiamenti che meritano una riflessione.

Innanzitutto, il contatto fisico. È una delle forme più comuni di comunicazione e l’interpretazione che si dà varia molto a seconda delle circostanze, dell’età e del genere degli attori, della cultura di appartenenza. Ci sono situazioni nelle quali il contatto fisico può favorire l’avvicinamento tra le persone e trasmettere vicinanzaemotiva, solidarietà, comprensione. D’altro canto, può essere percepito anche come violenza e intrusione nel proprio spazio personale. La sensibilità nel leggere le evidenze e ciò che si cela tra le righe è essenziale per capire l’opportunità o meno di un contatto fisico. Ciò vale naturalmente anche per la prossimità, cioè la distanza tra i due interlocutori. Entrare nello spazio dell’altro, quando dall’altro siamo accolti, favorisce l’instaurarsi di una certa sintonia. 

Guardarsi poi ha un enorme significato a livello emotivo: “l’incontro tra due paia di occhi rappresenta la modalità primaria fondamentale che favorisce l’incontro interpersonale”. Lo sguardo non è indagatorio, accusatorio o di sfida, ma è uno sguardo intenso, sincero, aperto e mai sfuggente. Il sorriso, aperto o appena accennato, a seconda delle circostanze, è un invio ad aprirsi e a fidarsi. 

È tutto il corpo, dunque, a comunicare la nostra disponibilità all’ascolto. La postura – in una dimensione empatica – non rimanda messaggi di chiusura, come le braccia conserte o la testa ripiegata, non si mostra prevaricatrice, ma è rilassata, protesa verso l’altro, pur nel rispetto dei suoi tempi e dei suoi spazi. I gesti devono essere coerenti con questa apertura. 

Naturalmente il controllo costante e completo dei nostri atteggiamenti è praticamente impossibile. È molto importante però essere consapevoli che determinate posture comunicano chiusura e posizioni rigide, di scarso ascolto nei confronti dell’altro, in questo caso dello studente. Affinché gli studenti comprendano la disponibilità al dialogo da parte dei docenti, non è sufficiente che questa venga esplicitata, ma è necessario che traspaia dalle parole e dai modi dell’insegnante, coerenti con le intenzioni dichiarate. 

Il dialogo educativo è complesso, non sempre facile o lineare. Ècostituito da tappe, da passi in avanti e rapidi passi indietro,perché è dialogo intergenerazionale, tra ruoli diversi e in circostanze in continua mutazione. Naturalmente non è la singola postura a trasmettere scarsa disponibilità, ma l’insieme dei diversi atteggiamenti. Ciò che è imprescindibile è il sincero interesse del docente nei confronti dello studente, la vera disponibilità ad ascoltare, che è molto di più del sentire. 

L’empatia, la disponibilità ad aprirsi all’altro è impegnativa, richiede costanza e fatica, perché chiede di mettere in discussione i propri pregiudizi, i propri preconcetti e, talvolta, anche i propri valori. D’altro canto, può essere fonte di grandi scoperte, perché l’altro ha sempre le sue ragioni, sebbene possano essere diverse dalle nostre e talvolta incomprensibili. 

“Il bambino e il maestro” è un corto nel quale si vede un docente di scuola elementare punire un bambino perché arriva sempre in ritardo. Una mattina, recandosi a scuola, il maestro vede il suo alunno accompagnare il fratello sulla sedia a rotelle in un’altra scuola e poi correre per arrivare nella sua aula e, come ogni giorno, arrivare in ritardo. A quel punto il maestro chiede perdono e stringe a sé l’alunno. 

Dietro ad ogni comportamento ci sono ragioni che chiedono di essere viste e ascoltate. Talvolta possiamo non capirle o non condividerle, ma è indispensabile conoscerle per darci, e dare all’altro, la possibilità di accettarle.