Archivi categoria: Rubriche

A. Moore, La moglie dell’albergatore

Il posto che non c’è

di Antonio Stanca

  A Maggio del 2015, nella serie “Le Piccole Varianti” della casa editrice Bollati Boringhieri di Torino, è stato pubblicato il romanzo La moglie dell’albergatore della scrittrice inglese Alison Moore. La traduzione è di Carlo Prosperi (pp.169, € 9,50). La Moore ha quarantaquattro anni, è nata a Manchester nel 1971 e vive nei pressi di Nottingham col marito e un figlio. Ha scritto questo romanzo nel 2012 dopo aver scritto dei racconti che ha pubblicato su riviste o in antologie tra le quali Best British Short Stories. La moglie dell’albergatore è il suo romanzo d’esordio e nel 2012 è stato selezionato per il Man Booker Prize e per il Book Awards National. Nel 2013 ha vinto il Premio Mckiherick.

   Quello della fantascienza, dell’horror è il genere nel quale la scrittrice viene fatta rientrare specie per i suoi racconti mentre nei romanzi si mostra incline a rappresentare situazioni particolari, a scandagliare l’animo di chi le vive, a mostrare le complicazioni dei suoi pensieri, i disturbi della sua mente. Di vite insolite dice la Moore nei romanzi e così fa pure ne La moglie dell’albergatore dove il giovane protagonista Futh decide di recarsi per una settimana dall’Inghilterra in Germania al fine di liberarsi dei problemi che lo assillano. In casa egli ha vissuto una triste esperienza soprattutto da quando la madre se n’è andata lasciandolo solo col padre. Non sopportava più quanto doveva subire, la superficialità con la quale il marito la trattava, i continui tradimenti ai quali la esponeva. Neanche a Futh piacevano i modi, i vizi del padre e per questo era stato più vicino alla madre fin da quando era bambino. Presso di lei aveva trovato conforto per le sue inquietudini, le sue ansie, con lei aveva stabilito un rapporto fatto di rivelazioni, confidenze, intimità. Era stata lei a capire i suoi pensieri, a cogliere i suoi problemi, a soddisfare i suoi bisogni. Rimasto senza la madre Futh aveva sofferto la sua assenza e aveva creduto di colmare quel vuoto sposando Angela, sua vecchia compagna di scuola. Ma questa non si era mostrata disposta a capirlo completamente, a dedicargli molto tempo perché presa da altri interessi, attirata da altre esperienze comprese quelle sessuali. Si separerà da Angela e intanto aggravata si è la condizione del suo spirito. Paure, ossessioni sono diventate le sue ansie. Tra l’altro teme sempre che possa accadere improvvisamente qualcosa di molto grave e che non riesca a mettersi in salvo. Per questo si è legato ad oggetti che è convinto gli portino fortuna, che ha sempre con sé ed ai quali è arrivato ad attribuire un valore sacro. Per questo ambisce ad un luogo sicuro, ad una vita tranquilla, ad una casa che lo accolga, ad una persona che lo ascolti, quelle che aveva pensato di trovare, che si era costruito in seguito ai lunghi dialoghi con la madre.

   Erano ambizioni semplici quelle di Futh, esprimevano i bisogni di uno spirito umile, pacifico. Erano state quelle a farlo andare in Germania, lontano dai luoghi, dalle persone che vedeva all’origine dei suoi problemi. Ma neanche qui riuscirà a realizzarle, a liberarsi dei pensieri, dei ricordi che ormai lo perseguitano e lo portano a ripercorrere la vita passata in ogni particolare, nei momenti più gravi, nelle circostanze più dolorose. Ne uscirà indebolito, fiaccato nello spirito e nel corpo. E’ ancora giovane ma ha assunto l’aspetto, l’atteggiamento di una persona incerta, confusa che con facilità sbaglia l’autobus da prendere, la fermata da usare, l’albergo dove alloggiare e molta strada è costretta a percorrere con i piedi che gli bruciano. Un viandante solitario, dolorante, un ramingo diventerà Futh una volta in Germania, non una vacanza sarà la sua ma una peregrinazione tra posti che non conosce, persone che non capisce, immagini, visioni che lo rincorrono. E sempre lontana rimane quella tanto sospirata quiete che aveva creduto possibile. Non c’è posto per Futh in una vita che altro chiede da quello che lui può dare.

   Il ricordo della madre, delle sue parole, delle sue cose, ritornerà nella mente di Futh, l’attraverserà a volte improvvisamente, inaspettatamente e abile sarà la Moore a mostrare tale movimento, a spostare in continuazione i tempi, i luoghi della narrazione, a saper stare tra passato e presente, Inghilterra e Germania, seguendo quanto avviene nel suo personaggio. Molto ha fatto rientrare nell’opera la scrittrice, tanti elementi, tanti tempi, tanti luoghi, tante persone, senza mai riuscire complicata, difficile nella scrittura. Ha mostrato come i pensieri di Futh passano da quanto è avvenuto a quanto sta avvenendo, da come si è comportato a come si sta comportando, dalle prime persone della sua vita alle altre, da quel che avrebbe voluto a quel che ha ottenuto, dall’idea alla realtà, dal sogno alla verità, dalla speranza alla delusione.

   Non è un romanzo psicologico questo della Moore ma niente trascura della complessa psicologia del protagonista e niente della realtà che lo ha circondato e lo circonda. Dal confronto con questa fa emergere i suoi problemi. Non divisa è l’opera tra l’interno e l’esterno di Futh, tra il suo passato e il suo presente, tra lui e gli altri, tra la sua e la loro vita, ma comprensiva di tutto, ampia, estesa. Questo la rende nuova rispetto ai molti echi letterari, ai molti luoghi comuni, quelli del giovane incompreso, solitario, del viaggio come evasione, fuga o ricerca d’altro, che in essa si possono rintracciare. Nuova è la Moore perché il suo sguardo comprende tutto ciò che è stato ed è del suo personaggio, tutta la vita che intorno a lui si è svolta e si svolge e che ne ha fatto un “diverso”.

Madre per quanto?

Madre per quanto?

di Adriana Rumbolo

Una giornata afosa d’estate e un dubbio che non vorrei più fosse tale,  che rimetteva in discussione il ruolo di “madre”,  mi guidano a scegliere nello scaffale  di una libreria “Le mani della madre”  di Massimo Recalcati ”
Mi basta il messaggio della copertina per acquistarlo ; in un gioco di bianco e nero la foto di un bambino diafano , indifeso sorretto ma non costretto da due grandi mani forti e scure ,
Da un po’ di tempo mi capita di frequente di ascoltare madri che mi raccontano che dopo una separazione il bambino -adolescente (5, 7, 10, 18 anni) è tornato a dormire nel lettone con loro,
In un primo momento affermano  che è stato il bambino-adolescente  a fare questa scelta, ma poi guardandomi negli occhi aggiungono:ormai non so più  se è solo lui  che non vuole tornare nel suo letto o sono io  che  preferisco rimanga con me . In fondo è  ancora  un bambino!
Anche quando non c’è una separazione  può avvenire.
Una mamma parlando in generale;ma sa che la sera il  mio  bambino(14 anni)mi raggiunge nel lettone dove io mi sono buttata per la stanchezza di una giornata di lavoro;mamma posso mettermi qui per ripeterti una volta storia ,una volta una poesia,..
Sono ben contenta di contribuire al suo rendimento scolastico.Dopo poco si addormenta e quando arriva mio marito per andare a letto  gli consiglio di andare nella cameretta vicina dove c’è un lettino e gli spiego che domani mattina deve andare a scuola e sarebbe un vero peccato svegliarlo
Si è vero , dopo la separazione  ha preso l’abitudine di dormire nel lettone, ma è un bambino:ha solo 18 anni!
Potrei continuare ma preferisco rivedere il ruolo di “madre”
Quando la donna scopre di essere incinta senza accorgersene scivola in un altra dimensione isolata dal mondo  scandita da sensazioni   nuove , misteriose ma soprattutto sorretta da risorse positive dove finalmente è il corpo il  protagonista;.
In quel periodo le emozioni migliori sono padrone del campo e guidano  la donna che le accetta ricevendone benessere  e una leggera euforia
.Appena il feto  con un soffio appena percepibile  annuncia la sua presenza a madre   e figlio saranno sempre in contatto e la madre comincerà il suo accudimento anche quando cercherà le posture più comode per il bambino  che le cresce dentro  e si accarezzerà quel pancione che fino a pochi mesi fa non conosceva e ora le sembra così naturale.
La madre è lo strumento che la natura usa per portare avanti la vita attraverso l’amore
Nei primi mesi . nel primo anno di vita del bambino la madre è importantissima per un figlio ma da una presenza così eliocentrica dovrebbe piano , piano  in punta di piedi diventare assente.
Il bambino che ha già conosciuto la figura paterna  per l’assenza   della madre lo cercherà sempre di più
Anche per il padre non è un ruolo facile
Ricordo che a scuola quando conducevo incontri con studenti dai 12 ai 16 anni  per fornire informazioni sul cervello in generale e sul cervello emotivo in particolare con grande interesse dei ragazzi  facevamo anche delle piccole rappresentazioni  per capire meglio-
Un ragazzo si metteva in piedi davanti alla cattedra e recitava la parte del figlio , un altro ragazzo  interpretava il padre.
Il “padre” si poneva a fianco per dialogare,  informare senza  competizione accentuata ,  un passo indietro per permettere al figlio   di rafforzare  la propria autostima nel fare  esperienze nuove da solo , ma non abbandonato o un passo avanti per per offrire e non imporre le proprie esperienze
I tagli,le assenze della madre quando cominciano sempre per amore del figlio e a favore della vita?
Mentre aspettavo il mio primo figlio mi aiutava  in casa  una tata venuta dalla campagna una donna veramente fantastica
La consiglierei a ogni mamma in attesa. Sua madre aveva avuto dieci figli
Quando si accorgeva  che il parto era prossimo , mandava gli altri figli a cercare una vicina per aiutarla poi si metteva a letto con accanto un paio di forbici e un gomitolo di spago.
Quando rientravano gli altri figli con la vicina lei aveva già partorito , aveva provveduto a legare e tagliare il cordone ombelicale .
Io la guardavo sbalordita , ma lei molto serenamente , con la sua pronuncia umbra mi diceva:” se mamma non avesse fatto così, il figlio sarebbe morto.”
L’aveva fatto per amore come qualsiasi madre quando decide  le sue assenze,  nel momento e nel modo migliore , come tagli  che la faranno tornare donna e daranno al figlio  come dono d’amore  la possibilità di essere un uomo più sereno

A. Kourouma, Allah non è mica obbligato

Bambini d’Africa

di Antonio Stanca

kouroumaAhmadou Kourouma è stato uno dei maggiori scrittori africani contemporanei. E’ nato nel 1927 in Costa d’Avorio ed è morto a Lione nel 2003. Aveva settantasei anni e tante esperienze aveva vissuto: dal 1950 al 1954 aveva preso parte, nelle file dell’esercito francese, alla guerra d’Indocina, in seguito si era trasferito in Francia, a Lione, per studiare matematica e qui aveva conosciuto la donna che sarebbe diventata sua moglie. Nel 1960, quando la Costa d’Avorio si era liberata dalla colonizzazione francese ed aveva acquistato l’indipendenza, Kourouma vi era tornato ma, accusato falsamente dal nuovo governo di essere membro di una congiura ad esso contraria, era stato costretto ad andare in esilio. Dopo molti anni trascorsi tra l’Algeria, il Camerun e il Togo, tornerà in Costa d’Avorio. Qui nel 2002 scoppierà la guerra civile e Kourouma si mostrerà contrario a tanta ostilità tra connazionali. Perciò sarà di nuovo accusato di complottare contro il governo e di nuovo dovrà lasciare il suo paese.

Era bastato che Kourouma non si mostrasse convinto di quanto stava succedendo in Costa d’Avorio perché la sua posizione diventasse motivo di accusa.

Anche i suoi romanzi, che gli sarebbero stati ispirati dalle tristi vicende attraversate, avrebbero sofferto di molti divieti prima di essere pubblicati. Il sole delle indipendenze, il suo romanzo d’esordio scritto nel 1968, avrebbe visto la pubblicazione dopo molto tempo e soltanto in seguito ad un premio ottenuto da Kourouma presso l’Università di Montreal. Da allora le sue narrazioni avrebbero conquistato il mercato francese e poi quello inglese, avrebbero avuto molti riconoscimenti. Il romanzo Aspettando il voto delle bestie selvagge, del 1998, avrebbe vinto in quell’anno il Prix Tropiques e nel 1999 il Grand Prix de la Societé des gens de lettres e il Premio Livre Inter. Il romanzo Allah non è mica obbligato, che risale al 2000, ha vinto il Prix Renadout 2000 e il Prix Goncourt des lycéens. Quest’opera è comparsa per la prima volta in Italia nel 2002 presso le Edizioni E/O di Roma e da queste è stata recentemente ristampata. La traduzione è della Scuola Europea di Traduzione Letteraria.

Anche per il teatro e per i bambini ha scritto Kourouma ma soprattutto nei romanzi ha espresso le sue migliori qualità e sono stati questi a farlo conoscere ed apprezzare. La loro lingua non è raffinata poiché impegnata a dire delle gravi realtà dell’Africa, a far emergere, tramite quanto rappresentato, la posizione dell’autore, la sua condanna di tutto quanto, tra passato e presente, si è opposto al desiderio, al bisogno di libertà del popolo africano, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle rivalità, delle crudeltà, degli orrori, della violenza di ogni genere che percorre ancora oggi l’Africa e fa apparire come unica, inevitabile, necessaria la sua condizione di miseria, di fame, di morte. Premiato è stato Kourouma per i suoi romanzi perché con essi ha avuto il coraggio di denunciare una situazione tragica, di proclamare ad alta voce che anche i negri hanno diritto alla vita, che anche i poveri devono mangiare.

In Allah non è mica obbligato attraverso i pensieri, i sentimenti, le emozioni, le azioni, le esperienze, la vita del bambino Birahima lo scrittore dice dell’Africa, di quanto negli ultimi anni del secolo scorso succedeva in particolar modo in Liberia e in Sierra Leone, dove erano in corso due guerre civili che si erano trasformate in guerre tribali tante erano le fazioni che miravano al potere, tanti i capi che le comandavano e che si alternavano.

Birahima è un bambino povero che vive con la madre molto malata e che dopo la morte di questa è costretto, per assicurarsi il minimo necessario alla vita, a lasciare la scuola e diventare bambino soldato, a mettersi al servizio del capo di una delle fazioni in lotta prima in Liberia poi in Sierra Leone, a cambiarlo se fosse stato necessario e a combattere contro i suoi nemici, contro altri bambini soldati che per altri motivi lo erano diventati, ad uccidere, a veder uccidere, ad assistere a tante stragi, a tante torture, a tante esecuzioni, a tanta ferocia in quell’Africa dove “Allah non è mica obbligato ad essere sempre buono, a provvedere, cioè, che non si verifichino situazioni sanguinarie”. La guerra e quanto essa comporta di attentati, complotti, inganni, tradimenti, crudeltà, diventeranno gli aspetti quotidiani della vita di Birahima, con essi s’identificherà la sua esistenza, con un’interminabile peregrinazione tra luoghi, persone, cose sempre nuove, sempre ostili, sempre pericolose. Attraverso le peregrinazioni di Birahima lo scrittore farà comparire tante altre tristi verità d’Africa, farà vedere come sono sfruttati i suoi abitanti, le sue regioni, le sue ricchezze, come è percorsa da ladri, banditi, falsari, furfanti di ogni tipo. E tutto dirà con un linguaggio semplice, spontaneo, quello appunto del bambino Birahima, che Kourouma mostrerà come l’autore del romanzo, al quale farà dire di averlo voluto scrivere per narrare le gravi esperienze vissute in Africa da lui e da tanti altri bambini. E’ un espediente che consente allo scrittore di muoversi liberamente tra pensieri e ricordi, realtà e fantasia, magia, leggenda e religione, superstizione e mito. Meglio che in altre opere è riuscito stavolta Kourouma perché immediato, naturale come un bambino è stato, di più ha aderito a quanto voleva dire, più vero, più autentico, più africano è risultato.

Settembre 2015: parte la scuola “altra”

Settembre 2015: parte la scuola “altra” *

di Maurizio Tiriticco

 

Penso che tutti sappiano – favorevoli o meno alla riforma avviata dalla legge 107 – che nel nostro Paese dal prossimo anno scolastico ci avviamo a costruire una scuola “altra”. In effetti non si tratta di un riordino, come da sempre è avvenuto dalla Liberazione a oggi, via via che si considerava necessario rendere il nostro sistema di istruzione e di formazione professionale sempre più rispondente ai cambiamenti in atto nella struttura economica e sociale del nostro Paese, ma di tutt’altra cosa, rispetto alla nostra storia.

Della quale mi limito solo a rapidi accenni: l’innalzamento dell’obbligo di istruzione nel ‘62, la legge quadro 845 del ’78 in materia di formazione professionale, i nuovi programmi della scuola media nel ‘79, quelli della scuola elementare dell’85, gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia del ’91, i progetti assistiti nell’istruzione tecnica, il Progetto ’92 nell’istruzione professionale. Per concludere con un complessivo riordino del cicli con la legge 30/2000, meglio nota come riforma Berlinguer, abrogata nel 2003 con la riforma Moratti, con cui si apriva il quindicennio delle riforme dei governi di centro-destra (Moratti e Gelmini), tranne qualche breve ma scarsamente significativa parentesi di governi di centro-sinistra.

Perché questi accenni? Solo per dire che, con l’avvio del nuovo millennio, hanno cominciato a confrontarsi nel nostro Paese due modelli di scuola: il primo, strettamente legato alle indicazioni della Costituzione, orientato a coniugare costantemente l’innalzamento della cultura e delle conoscenze della nostra popolazione TUTTA con i cambiamenti economici e strutturali del nostro assetto produttivo: il secondo, invece, più preoccupato di garantire una scuola ai cosiddetti MIGLIORI, incurante della sorte dei cosiddetti PEGGIORI. Si tratta di una cultura della scuola tipica di certi Paesi, ma estranea assolutamente alla nostra tradizione repubblicana e costituzionale.

In effetti, i meccanismi che saranno messi in moto dal prossimo settembre. per quanto riguarda il funzionamento delle singole istituzioni, sono noti: assunzioni “di massa”; POF triennali; offerte formative più ricche; raddoppio del fondo di funzionamento; un dirigente scolastico che formerà la sua squadra, che assumerà il personale in funzione degli obiettivi assunti con il POF, insegnanti che dovranno essere “scelti” dal dirigente per un triennio e poi da lui “valutati”, indipendentemente dai titoli concorsualmente conseguiti; valorizzazione delle eccellenze; incremento dell’alternanza scuola-lavoro; una card per l’aggiornamento degli insegnanti e valorizzazione del merito; un bonus per le famiglie che intendano iscrivere i figli alle scuole paritarie. Il tutto dovrebbe essere sostenuto e garantito da uno stanziamento di fondi estremamente copioso.

Nulla da eccepire rispetto a un articolato così ricco, ma… si tratta della nostra scuola o di una scuola altra? Viene da chiedersi: se i finanziamenti saranno così copiosi – e sono anni che le nostre scuole languono – quale necessità c’era di scompaginare un assetto che si è sempre mostrato funzionante e che ha permesso di innalzare il livello culturale della nostra popolazione? Sappiano tutti benissimo che i livelli di literacy dei nostri adulti oggi sono preoccupanti, ma ciò non dipende dal fatto che la nostra scuola non abbia “funzionato”, ma dal fatto che da anni non è stata messa più in grado di “funzionare”. E’ stata soltanto umiliata e messa ai margini, in nome del fatto che “con la cultura non si mangia”.

E allora, solo oggi ci accorgiamo che con la cultura, invece, “si mangia”? Ma la nostra scuola da sempre ha voluto garantire che tutti, non uno di meno, potessero “mangiare”! Che succederà ora con l’avvio della legge 107? Che le scuole saranno messe tra loro in concorrenza, come se vendessero oggetti di consumo e non fossero tenute, invece, a promuovere quelle competenze che l’intero mondo della cultura e del lavoro oggi ci chiede, e in un ambito europeo e transnazionale.

La concorrenza sarà spietata, perché ciascun dirigente vorrà accaparrarsi i docenti “migliori” e i fondi più cospicui. Così diremo addio alla scuola della Repubblica e della Costituzione. E ciò che amareggia, soprattutto, è che i promotori di questa scuola “altra” sono uomini – e donne, ovviamente – di un governo di centro-sinistra.

* pubblicato sul n. 7-8 de “Il Maestro”

Il caldo estivo, la buona scuola e la non logica del dissenso

Il caldo estivo, la buona scuola e la non logica del dissenso

di Alessandro Basso

 

I lunghi pomeriggi estivi e il caldo che si sta facendo sentire devono avere avuto giocato la loro parte nella narrazione di questo di questo periodo di intensa attività per l’apparato scolastico periferico, quando si stanno susseguendo le operazioni per la prima fase delle nomine volute da La Buona Scuola.

Se risultavano poco comprensibili alcuni passaggi nella fase di gestazione del provvedimento di legge, risulta ancora più strano comprendere quanto stia accadendo nel mondo del precariato in questo periodo per loro più che mai storico.

La stravaganza dell’opposizione riguardo questo provvedimento, da una lettura politica, aveva destato la mia curiosità, espressa in precedenti articoli, soprattutto per la nascita di un’opposizione al provvedimento interna alle fila della sinistra e del mondo sindacale.

Avevo , però, ingenuamente pensato che nel momento in cui la legge fosse entrata in vigore, perlomeno sul piano delle assunzioni, si sarebbe raggiunta una tregua dettata dall’entità numerica del numero di insegnanti assunti a tempo indeterminato.

Condivido l’assunto del collega Stefano Stefanel sul senso dello Stato. Cito anche il dovere di obbedienza che il pubblico dipendente deve esercitare nei confronti della propria amministrazione.

Come si può entrare a far parte di un’amministrazione di cui non si condivide nulla? Come si può entrare a far parte di un apparato lavorativo senza condividerne il pensiero? Dall’altro lato viene da chiedersi, come si può assumere tutto questo personale in partenza contrario alla applicazione delle leggi e di una legge così importante di cambiamento nel settore dell’istruzione?

Si tratta di personale che un tempo poi non così lontano avrebbe dovuto prestare giuramento. Potrebbero giurare questi insegnanti che stanno arricchendo la cronaca estiva della loro acrimonia contro una Legge dello Stato?

Sorge una riflessione a cascata su un principio contenuto in quello che dalla vulgata è definito il Codice della P.A., il D.lgs. 165/2001, laddove si dice che nelle amministrazioni pubbliche si applicano le leggi del mondo del lavoro privato (cd privatizzazione del lavoro pubblico).

È proprio così o questa privatizzazione è solo uno strumento gestionale?

Quale azienda privata si può permettere, oggigiorno, di assumere 100.000 persone? Se lo facesse la FIAT, il mondo intero lo segnalerebbe. Così come sarebbe da segnalare al mondo intero che la carica dei centomila (non tutti, ovviamente) non sono nemmeno contenti di entrare nella scuola a tempo indeterminato.

Non si dica che non è una contraddizione, al netto di tutta la comprensione e il rispetto per le persone che dovranno decidere le sorti della propria famiglia, in poco tempo.

Un tempo poi non così lontano, si diceva che il rapporto di lavoro era sacro, in un momento in cui la disoccupazione regna sovrana avere un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dovrebbe essere un traguardo.

Altra considerazione, l’improvvida continuità del dibattito ideologico che serpeggia tra le fila dell’istruzione: un’ideologia pansindacale che si sofferma sempre e comunque dalla parte del lavoratore, non sempre facendo del bene ai lavoratori.

A volte si dice che la terza camera del paese è il programma televisivo Porta a Porta; sembra invece che la terza camera del nostro paese siano diventate le aule di tribunale perché quello che non si raggiunge attraverso la dialettica politica o sindacale, lo si cerca attraverso il giudice del lavoro o attraverso il Tribunale amministrativo, l’infausto destino dei concorsi pubblici ne è esempio tristemente evocativo.

Stiamo per iniziare un anno scolastico con nuove leve che anziché pensare con entusiasmo a progettazioni per l’apprendimento dei nostri alunni, si stanno scervellando su come fare ricorso conto La Buona Scuola, chi per entrare dalla finestra, chi per entrare dalla porta, chi per ottenere un posto in questa o quella provincia, chi per far prevalere una graduatoria su un’altra.

Non eravamo tutti d’accordo che qualcosa si doveva fare per eliminare lo scempio delle graduatorie?

A mio modesto avviso, qualsiasi cosa si faccia per eliminare il meccanismo della chiamata per graduatoria, che non garantisce la continuità didattica e nemmeno l’assunzione di responsabilità da parte dei dirigenti è un tentativo valido e va tentato . Tutti dovremmo averne coscienza, soprattutto la società civile, che avrà forte beneficio da questo cambiamento, se sarà applicato senza sbavature della seconda ora.

Questa levata di scudi che i precari stanno facendo sta assumendo tinte fosche, così come i tentativi di alzare il tiro continuamente: se si assume la prima fascia, vuol essere assunta la seconda fascia; se si assume la seconda fascia, vuol essere assunta la terza fascia e via dicendo…Ora sbucano dal cilindro persino i diplomati dell’istituto magistrale i quali pretendono, ovviamente su buona base giuridica conclamata da giudici, di poter essere assunti in quanto il loro è un titolo di per sé abilitante.

Con tutto il rispetto per il vecchio istituto magistrale che io stesso ho frequentato, come è possibile garantire standard di qualità in una pubblica amministrazione, nel settore dell’insegnamento, assumendo personale che non ha nemmeno la laurea? La Costituzione ha previsto che nella pubblica amministrazione si entri per concorso, perché ora un giudice deve decidere che queste persone possono entrare non solo senza laurea ma senza nemmeno aver fatto un concorso? E tutti i diplomati magistrali dei 30 anni precedenti che, pur avendo questo diploma, hanno fatto un concorso per essere assunti ,che cosa dovrebbero dire?

Chiedo scusa fin d’ora per guardare la questione solamente dal punto di vista del dirigente e dal punto di vista dell’utenza, sempre con la dovuta comprensione nei confronti di tutte queste persone che per anni hanno fatto supplenze e si sono sacrificate per il mondo della scuola.

In conclusione è sempre il buon senso che deve avere la meglio, ma anche la necessità ben visibile che siamo tutti chiamati ad uno scatto di reni verso l’innovazione e verso il cambiamento, altrimenti rischiamo che quelle piccole gocce di miglioramento che si stanno verificando nel Paese non trovino terreno fertile per crescere verdeggianti.

Lo spazio/tempo, lo sviluppo, l’apprendimento

Lo spazio/tempo come condizione primaria per i processi di sviluppo/crescita e apprendimento

di Maurizio Tiriticco

  
Ottime le considerazioni di Agostina Melucci a proposito della progettata costruzione e/o ricostruzione degli edifici scolastici (edscuola del 4 agosto). Ottimi i rinvii a studi che in tal senso ci hanno fornito Piero Bertolini e, più recentemente, Maria Grazia Contini e Vanna Iori. Quanto le coordinate spazio/temporali condizionino i nostri comportamenti e, in misura assai rilevante, gli atteggiamenti e i comportamenti dei soggetti in età evolutiva, è noto a chi insegna: forse meno noto ai tanti architetti che hanno costruito gran parte delle nostre scuole. Nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla finalmente conseguita Unità nazionale, furono varati due obblighi, quello scolastico e quello militare. E non fu un caso che caserme e scuole di nuova costruzione obbedissero a criteri analoghi: ampi e lunghi corridoi che consentivano l’accesso ad aule o a camerate, in genere tutte eguali. In effetti, non faceva poi eccessiva differenza l’obbedire al frustino del tenente o alla bacchetta del maestro. O tempora o mores! Occorreva far presto per costruire un Paese che potesse concorrere con potenze europee di più antica costituzione.

Da quegli anni è trascorso più di un secolo. Abbiamo abolito la leva militare e abbiamo, invece, incrementato l’obbligo di istruzione: la società della conoscenza richiede competenze sempre più elevate, nonostante la crisi che oggi investe l’intero mondo del lavoro. In parallelo, abbiamo “imparato” tante cose circa lo sviluppo/crescita e l’apprendimento. Sappiamo che un nuovo nato, subito dopo il “grido” con cui ci annuncia il suo ingresso nel mondo, comincia la sua faticosa marcia per conquistarlo e farlo proprio: e i processi di assimilazione, accomodamento e adattamento, di cui ci parla Piaget, garantiscono la lunga e faticosa marcia per il successo.

Lungo l’asse e il piano orizzontali dello spazio il nuovo nato costruisce, e non con poca fatica, i suoi rapporti fisico-sensomotori: può cominciare a vedere e ad ascoltare, solo se luci, colori, immagini, suoni, stimolano la sua capacità visiva e auditiva. Comincia a toccare e ad afferrare: sono i primi passi del futuro prendere e maneggiare. Infine conquisterà la posizione eretta e imparerà a gestire i primi campi del suo spazio vitale. I cosiddetti cinque sensi sono un insieme di facoltà che solo con il contatto diretto e attivo con l’ambiente e i suoi stimoli “si accendono” e si sviluppano, almeno per il primo anno di vita e/o poco più. Il corpo non è tanto l’oggetto che appare, quanto un insieme di movimenti intelligenti, attivi e produttivi, via via sempre più articolati e organizzati. Il corpo – o meglio lo schema corporeo – viene di fatto “costruito”, momento dopo momento, attività dopo attività, dal nostro nuovo arrivato.

Lungo l’asse verticale del tempo il nuovo nato costruisce e memorizza le sue prime ed essenziali conoscenze. E il faticoso sviluppo del linguaggio ne è la spia: prima la conquista delle parole essenziali, “pappa”, “mamma”, poi dei loro legami sintattici, “mamma voglio pappa”. Il vocabolario e la grammatica non sono i libri adottati dalle scuole – a quando la loro abolizione? – ma una continua e progressiva costruzione condotta non senza fatica dal nuovo nato. Costui, se ha a che fare con attanti (in genere i genitori) “ricchi” sotto il profilo grammaticale (fonologia, morfologia e sintassi) e sotto quello dei contenuti (lessico e semantica: c’è quel bel libro di Federica Casadei, edito da Carocci, Roma), non ha difficoltà a costruire un linguaggio altrettanto ricco. Tale costruzione si avvicenda minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, mese dopo mese, lungo l’asse verticale del tempo.

L’asse dello spazio fisico, visibile e concreto, è orizzontale (una suggestione ci può essere offerta dallo spazio vitale di Kurt Lewin); l’asse del tempo, invisibile e concettuale, è verticale. Dall’immaginario centro di incrocio si diparte verso il basso l’asse della memorizzazione/conservazione dei ricordi del passato, verso l’alto quello della immaginazione e dei progetti per il futuro. Il nostro nuovo arrivato si trova al centro di questo incrocio spazio/temporale e sta a lui, in ordine agli stimoli che gli vengono lanciati, costruire giorno dopo giorno la progressiva spirale della conquista del Sé, del Sé con gli Altri, del Sé con le Cose. E non è un caso che le competenze chiave per l’apprendimento permanente, da conseguire al termine dell’obbligo di istruzione decennale, siano descritte e definite proprio in tal senso (si vedano la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 dicembre 2006 e il dm 139/2007, che le fa proprie e le declina). Il rinvio all’illustrazione allegata può rendere più chiaro un concetto che richiederebbe argomentazioni molto più mirate.

Se le considerazioni fin qui condotte sono vere, la gestione dello spazio e dei suoi oggetti diventa una questione fondamentale per lo sviluppo/crescita e l’apprendimento di un nuovo nato, e non solo per la fase infantile, ma per tutta l’età evolutiva. C’è da augurarsi che i prossimi architetti costruttori di scuole si avvalgano del supporto dei pedagogisti.

Grazie, Agostina, di avere avviato il dibattito su un argomento così vitale per il futuro della nostra scuola, o meglio, del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione”.

Nel nome del popolo italiano

NEL NOME DEL POPOLO ITALIANO

di Vincenzo Andraous

Me ne stavo disteso in piscina rilassato e tranquillo, acqua blu, un cielo ribaltato ai miei piedi.

Una giornata di sole e di riposo domenicale, ci voleva proprio, un bisogno feroce di staccare la spina, la necessità di rimanere in scia a quel dipinto tra le dita.

A pochi passi dal mio lettino, una coppia con qualche anno adagiato nei capelli, stanno parlottando con una loro conoscente incontrata casualmente pochi istanti prima.

Le parole sono pronunciate con perentorietà, nonostante gli schiamazzi intorno impossibile non farci caso, le voci esprimono consapevolezza di chi sa quel che sta dicendo, si presume partorite dalla conoscenza del tema in oggetto.

“Hai sentito che hanno scarcerato quello? Tre anni ed è già fuori, è ospite in quella comunità da quel prete famoso. Proprio vero, in galera non ci sta più nessuno, tutti fuori sti buontemponi, a fare quel che facevano prima, come quell’altro amichetto prima di lui. Non c’è niente da fare questi non cambiano mai, ce l’hanno nel Dna l’irrefrenabile desiderio a reiterare i reati.

In che paese viviamo, non ci sono leggi, norme, regole, ognuno fa e disfa come meglio crede, tanto non c’è pena certa, non c’è castigo, non c’è sanzione, la pena retributiva è soltanto una mera utopia”.

Pochi attimi e la signora si congeda mentre la coppia di amici ritorna serenamente ad abbronzarsi.

Li per li ho sorriso sotto i baffi, mentre la mia compagna con gli occhi chiusi e il sole ben calcato sul viso, non ha colto una sola parola della chiacchierata da poco conclusa.

Un malessere sottile mi attraversa la testa, il petto, la pancia, come a volermi significare che non c’è un bel niente da ridere, anzi, permane discutibile il mio silenzio, somigliante a una sorta di comoda ritirata.

Per tutto il pomeriggio ho pensato a quelle affermazioni, come a volte l’informazione sia ammorbata a tal punto da fare ammalare di indifferenza il cittadino comune, attraverso una vera e propria inondazione di notizie e accadimenti spesso comunicati con lo strumento dell’appropriazione indebita, costringendo la verità a piegarsi al danno minore.

Eppure il carcere non è quello raccontato con la tecnica del bar sport, è piuttosto uno scafo affondato dall’ingiustizia, uno spazio scomposto dai tanti vuoti a perdere, e come traspare evidente dalle affermazioni di quei villeggianti, è percepito come una sorta di scivolata intellettuale.

Le carceri italiane sono sovraffollate di cose, di numeri, di oggetti, di corpi e storie accatastate ma rese inesistenti da colpevoli che non debbono assolutamente fare comunione con alcun innocente.

Chissà se sarà davvero così.

Ho ascoltato, sono rimasto muto come un pesce, con un sorriso da ebete sulle labbra, invece avrei dovuto intervenire, tentare di dire a quelle persone, che in carcere ci si va e come, soprattutto quelli che si credono i più furbi, in carcere si paga il dazio e come, fino in fondo, anche per quarant’anni checchè se ne dica bellamente il contrario, una, due, tre, condanne, una sopra all’altra, moltiplicate all’infinito, più in là della stessa condanna erogata dal Giudice, dal Tribunale, dal popolo Italiano.

A volte il carcere ti seppellisce, ti annienta, ti devasta così profondamente da diventare quel dato statistico che fa di te non più soltanto un detenuto, ma un vero e proprio malato, spesso terminale, ma questo non bisogna dirlo.

Le persone non cambiano mai?

Sul carcere pregiudizi e spallucce più o meno pilotate da sempre hanno fatto fallire rinnovamento e ideale rieducativo.

Ugualmente gli uomini cambiano “nonostante” questo carcere capovolto negli scopi e nelle sue utilità, sarebbe bene che la collettività guardasse con occhi e sguardi nuovi a cosa non accade mai in quelle celle, quando per le legge, per norma, per quella Costituzione così tanto sbandierata, dovrebbe accadere, non per un atto puramente pietistico, più semplicemente per un dovere che sta a diritto di ogni tutela e interesse collettivo, in quella giustizia giusta che sta innanzitutto dalla parte delle vittime ma proprio per questo non abbandona i rei.

Come ho già detto in passato: una comunità è vera quando aperta allo scambio relazionale e delle idee, perché a volte si ha la sensazione di non avere nulla da dare che già non ci sia.

Tranne che la voglia e la volontà di crescere insieme.

L’assenza di professionalità: la zavorra de La buona scuola

L’assenza di professionalità: la zavorra de La buona scuola

di Enrico Maranzana

 

I professionisti della scuola sono soggetti che progettano, che realizzano o che progettano e realizzano processi volti al conseguimento dei risultati attesi [In rete: “Insegnare matematica dopo il riordino”]

Un indirizzo di pensiero suffragato dalla norma sull’autonomia scolastica che “si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana”, prescrizione cestinata dalla legge 107/15 [In rete “La vena reazionaria de La buona scuola”].

Una definizione fondata su “progettazione” che è

  • ideata all’interno d’un contesto;
  • finalizzata al conseguimento di specifici risultati;
  • la caratteristica delle organizzazioni che, capitalizzando il vissuto, apprendono.

 

L’ambito in cui nasce il problema educativo

Il vorticoso cambiamento del mondo contemporaneo, l’incontrollabile dilatazione del campo dei problemi, l’esplosione delle conoscenze, rendono imprevedibile lo scenario con cui interagirà lo studente che accede alla scuola secondaria.

Un’incertezza che implica l’individuazione di variabili non soggette all’usura del tempo, la cui determinazione consente di fissare la finalità del sistema scolastico.

L’art. 2 della legge 53/2003, in conformità a tale presupposto, recita:  “È promosso l’apprendimento in tutto l’arco della vita e sono assicurate a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimensioni locali, nazionale ed europea” .

Ne discende la strumentalità di conoscenze e abilità: rappresentano opportunità per la messa a punto di occasioni d’apprendimento [Il significato di apprendimento è circoscritto in “All’origine della dispersione scolastica”, visibile in rete].

La buona scuola banalizza il problema educativo ancorandolo al presente:

Art. 33 – “Al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti, i percorsi di alternanza scuola-lavoro sono attuati, negli istituti tecnici .. e professionali, per una durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi, di almeno 400 ore e, nei licei, per una durata complessiva di almeno 200 ore nel triennio”.

Art. 40 – “Il dirigente scolastico individua, gli enti pubblici e privati disponibili .. e stipula apposite convenzioni anche finalizzate a favorire l’orientamento scolastico e universitario dello studente”.

Un appiattimento confermato dall’art. 56: “Al fine di sviluppare e di migliorare le competenze digitali degli studenti e di rendere la tecnologia digitale uno strumento didattico di costruzione delle competenze in generale, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca adotta il Piano nazionale per la scuola digitale, in sinergia con la programmazione europea e regionale e con il Progetto strategico nazionale per la banda ultralarga”, norma decodificata in “La scuola regredisce. Dal Piano Nazionale Informatica al Piano Nazionale Scuola Digitale”, visibile in rete.

 

I risultati attesi

Al termine dell’obbligo scolastico e della secondaria superiore le commissioni d’esame devono certificare le competenze che gli studenti hanno esibito: la valutazione del grado di conseguimento della finalità istituzionale.

Razionalità avrebbe voluto che gli estensori de La buona scuola, prima di elaborare il testo del provvedimento, avessero ricercato e identificato il contenuto di tale parola; si sono limitati a aggettivarla: linguistiche, logico-matematico e scientifiche, digitali, in materia di cittadinanza attiva .. i principi fondanti la prassi progettuale sono elusi.

Un primo raffinamento della problematica è in rete: “La professionalità dei docenti: un campo inesplorato”.

 

L’organizzazione che apprende

La complessità dei problemi si domina procedendo per raffinamenti successivi: il problema principale é scomposto in sottoproblemi che, se non elementari, sono a loro volta smembrati.

I decreti delegati del 74 sono una puntuale applicazione dei dettami delle scienze dell’organizzazione: a soggetti diversi è affidato un preciso mandato che esplicita, puntualizzando, i traguardi da conseguire. Questi, una volta ottenuti i risultati, consentono di capitalizzare gli scostamenti rilevati e migliorare l’incisività del servizio scolastico. In rete: “Coraggio! Organizziamo le scuole” tratteggia la via risolutiva, esplicitando i nodi di feed-back.

La legge 107/15 non riconosce la dimensione del problema educativo, lo semplifica, snaturandolo. Le responsabilità strategiche sono attribuite al dirigente scolastico. Il Consiglio di Circolo/d’Istituto è esautorato: il TU 297/94 gli aveva affidato la responsabilità di “Elaborare e adottare gli indirizzi generali” e quella di deliberare “I criteri generali della programmazione educativa” al fine di orientare il lavoro del Collegio dei Docenti, prerogative confermate e rinforzate dal DPR sull’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Il buon padre di famiglia, prima di ogni sostituzione, ricerca e individua le cause dei malfunzionamenti.

Nella presentazione alle Camere de La buona scuola si afferma, senza portare alcun argomento a sostegno della tesi: Il testo unico infatti, risalente al 1994, non risulta più coerente con la legislazione vigente”. [CFR. in rete “I responsabili del disservizio scolastico sono premiati”].

Ambienti scolastici da rifare

Ambienti scolastici da rifare
Per una teoria pedagogica intorno alla costruzione/ricostruzione dello spazio scolastico
 
di Agostina Melucci*

Si scrive e si parla molto di edilizia scolastica, di scuole insicure per problemi statici o igienici (es. per amianto) oppure dai soffitti che cadono a pezzi, o semplicemente inadatte a una moderna gestione della didattica. Molti edifici, splendidi per progetto, specie al Sud sono stati iniziati, mai terminati e lasciati lì a marcire.

Ora si predispongono, pare sia la volta buona, significativi stanziamenti per l’edilizia. Occorre evitare alcuni errori del recente passato: costruzioni astratte dall’intenzionalità educativa, invivibili a causa delle troppe superfici vetrate, fredde d’inverno e caldissime già in un aprile soleggiato oppure disegnate da architetti a prescindere dalla loro funzione. Costruire/ricostruire dunque ma come, in che senso, con quali accorgimenti?

La pedagogia come scienza filosofica ha sempre considerato lo spazio, insieme al tempo, come agente che influisce profondamente sulla qualità della vita e dell’educazione.

Il processo educativo avviene infatti non solo nel, nello spazio e nel tempo, ma per, attraverso  lo spazio e il tempo. Se i decisori tenessero maggior conto dei pedagogisti disporrebbero che le scuole fossero disegnate in termini non solo di tempo e di spazio ma di spazio-tempo e dei processi didattici e comunicativi che vi si verificheranno. L’essere di un bambino e di un insegnante è un essere  “qui e ora”;  ed  è da   questo “qui e ora” (spazio della coincidenza,  tempo della fruizione) che i restanti spazi e tempi possono essere intenzionalmente pensati.  L’ “adesso” e “in questo luogo”   rappresentano le coordinate  che fondano  le altre dimensioni e aprono  alla co-scienza dell’altrove, all’in-tensione verso il mondo, a un’intenzione di vita. Le belle, dunque buone strutture architettoniche fanno eco alla natura (linee del suolo, alberi, acque) e pre-dicono un desiderabile mondo venturo.

La miglior pedagogia e in particolare la scuola fenomenologica (Bertolini, Contini, Iori) ha inteso e scientificamente sviluppato l’idea che l’esperienza dello spazio e del tempo, universali non interamente concettualizzabili, trovi accoglienza in forme virtualmente contenute anche nei propri predicati.

Sono contro l’architettura seriale, alle scuole tutte uguali, tutte squadrate e innaturali come disegnate da cattivi geometri iper-razionalisti e volute da politici incolti indifferenti alla sorte di chi le dovrà abitare. Una scuola felice non può che disegnarsi la propria casa a seconda del contesto fisico e umano con cui si trova a che fare.

…………………….Anche la struttura interna e la disposizione dei tavoli, i segni e le figure appesi alle pareti, il materiale ludico e didattico costituiscono aspetti che articolano il vissuto spazio-temporale.   Noi siamo anche i luoghi che abitiamo, gli oggetti che manipoliamo (e che ci manipolano); ne interiorizziamo i suggerimenti impliciti o espliciti.

Un’ articolazione degli spazi in cui tutto sia previsto, tirata con la riga e la squadra, senza quelle linee curve in cui si articolano ordinariamente i vissuti dell’esistente umano irrigidisce l’operare  della persona  che vi è inserita;  viceversa   un’ articolazione non statica,   capace di ripensamenti, riallocazioni, ridistribuzioni in evoluzione favorisce un pensiero libero.

Una scuola di qualità è anche un luogo dell’abitare in cui ci si sente ospitati (e ospitanti) da spazi  amici e non intimorenti, accolti da persone che non ci ignorano,  tra cose che dicono e pre-dicono il nostro vissuto. Gli insegnanti dovrebbero esseri i “primi architetti” della loro scuola.

Comunque, un edificio con scopi educativi progettato da architetti e ingegneri entro un disegno pedagogico e dunque orientati da pedagogisti e da educatori dovrebbe porsi sia preliminarmente che successivamente almeno alcune delle seguenti domande:

Quali forme e suggestioni di vissuto comunicano gli spazi della scuola da costruire?
L’ambiente è  gradevole e ben progettato anche grazie al nostro concorso?
E’ curato esteticamente o pare prodotto seriale che prescinde da coloro che ci vivranno?
Sono preferibili spazi monovalenti o polivalenti? Fissi o mobili? Identificati o in cambiamento? Sociali e  privati in quale proporzione?
Come lo spazio può chiudere o invitare l’esplorazione dell’esterno?
Stimola o inibisce la relazione?  L’autonomia?  Il movimento?………………….

*Già insegnante nelle scuole dell’infanzia, ora dirigente UST di Ravenna

Z. Bauman – E. Mauro, Babel

Una conversazione di alto profilo sulla babele del mondo contemporaneo

di Maurizio Tiriticco

 

Zygmunt Bauman, Ezio Mauro, Babel, Laterza, Bari, 2015, pp. 166, € 16,00

“Un tempo, in alcuni regimi, bisognava difendere l’autonomia dell’individuo davanti alla totalità pervasiva del sistema che lo annullava. Oggi bisogna dare un valore alla solitudine del singolo, renderla intelligente, consapevole: anche in questo caso autonoma, sia pure per un processo inverso. Conservare la libertà di scegliere significa tenere aperte opzioni diverse, cioè lo spazio dell’azione, dell’azione politica. Il problema sembra addirittura fisico, è invece culturale” (p. 152).

 

babelIl volume raccoglie una lunga, articolata e documentata conversazione sui problemi del mondo contemporaneo tra un autorevole “lettore” della società di oggi e un giornalista di alto profilo. Il focus è la complessa fenomenologia di un mondo che nel giro di qualche decennio ha subito mutamenti radicali nell’economia, nella politica, nei comportamenti di ciascuno di noi, e soprattutto nei processi di comunicazione.

Il processo di globalizzazione e tutti quei fenomeni che rendono la nostra società sempre più “liquida” non solo sembrano essere irreversibili, ma subiscono giorno dopo giorno sempre più sensibili accelerazioni. In effetti sono le stesse coordinate spazio/temporali, su cui si intrecciano da sempre le relazioni interpersonali, a subire profonde modifiche, le quali si ripercuotono sui campi di comunicazione e sui comportamenti. E’ ozioso alludere ai cellulari e ai social network, che costituiscono i terminali tecnologici di un sistema di relazioni assolutamente nuovo. Ciò che conta e che costituisce spunti di analisi interessanti nella conversazione di Babel è l’insieme delle profonde ricadute che i sempre più veloci cambiamenti a livello planetario impongono sull’economia, sul lavoro, sulla politica, sui modi stessi di pensare e di essere – soprattutto di essere – di noi tutti, cittadini del terzo millennio.

L’accelerazione sempre più intensa delle comunicazioni fisiche – i trasporti – e delle informazioni sta modificando profondamente le coordinate stesse dello spazio e del tempo e della percezione che ciascuno di noi ne ha. E’ come se fossimo “schiacciati” su uno spazio sempre più piccolo e su un tempo sempre più ravvicinato. Il “lontano” non sembra più esistere e il futuro è letteralmente schiacciato su di un presente che sembra ignorare lo stesso passato.

Quando Romolo tracciava il solco a due passi dal Tevere ignorava l’esistenza stessa di un Po e il futuro del suo regno era legato al volo augurale di dodici avvoltoi. Il gruppo degli allevatori e degli agricoltori delle origini della nostra storia viveva e operava nel suo piccolo spazio, e nel tempo si scandivano le regole dei comportamenti che garantivano la coesione e la continuità del gruppo. La trasmissione costante e continua delle leggende – era il ruolo delle mamme e delle nonne – e il culto degli antenati garantivano l’identità e la coesione del gruppo, il suo presente e il suo futuro: un piccolo spazio, ma un tempo estremamente dilatato. Oggi il grande gruppo planetario non conosce più confini e limiti spaziali, ma il tempo si restringe al semplice succedersi delle giornate. Non c’è passato e il futuro è solo quello del giorno dopo. E troppo spesso l’Ecstasy lo suggella per sempre.

E’ una fenomenologia assolutamente nuova e complessa, nella quale e per la quale si allentano anche i vincoli che in genere sono, anzi, erano dati dalla necessità dello “stare” insieme” e insieme garantire la sopravvivenza e il futuro del gruppo.

E le funzioni stesse della comunicazione interpersonale subiscono profonde modifiche. Jakobson ci ha insegnato che le funzioni del comunicare sono sei, che qui non è il caso di ricordare, ma… solo una, purtroppo, è oggi quella dominante, quella fàtica: si ha quando ci si preoccupa soltanto che l’interlocutore ci sia, qualsiasi cosa si dica o si ascolti! L’importante è esserci, inviare e ricevere messaggini a iosa, faccette e altri emoticon, marcare il territorio, possiamo dire. Di qui le centinaia di “amici” sempre nuovi, come scalpi da aggiungere alla propria cintura. Gli oggetti del comunicare diventano sempre più poveri, ma i soggetti che comunicano sul nulla e di nulla sono sempre più numerosi.

In parallelo si va sempre più perdendo la dimensione sociale dello stare insieme e del comunicare; si allenta lo spirito pubblico e si logora la stessa democrazia. Il numero sempre più basso di votanti – fenomeno non solo italiano – è indicativo di un ripiegarsi di ciascuno sul proprio Io. “In questo strappo del patto tra Stato e cittadino c’è una condanna, come se la democrazia fosse una forma temporale della costruzione umana e non riuscisse a governare il nuovo secolo appena incominciato, arenata nel Novecento” (p. 19). Questa instabilità politica e sociale si coniuga con un’altra instabilità, che riguarda il lavoro.

“In passato i lavoratori potevano combattere con un minimo di successo contro gli attacchi dei capitali fissi al loro standard di vita; oggi sono del tutto disarmati di fronte a ‘investitori’ straordinariamente mobili, ondeggianti, capricciosi, inquieti e imprevedibili, continuamente a caccia di più alti profitti e pronti a volare dove la pubblicità fa intravedere fugaci opportunità favorevoli”. Così, assistiamo impotenti a un costante e progressivo logorio dei rapporti sociali e, purtroppo, anche di quelli interpersonali. A valori che si stanno perdendo non corrispondono valori nuovi. E il futuro ci si presenta sempre più liquido, stando all’ultima pubblicazione di Bauman, “Il futuro liquido”, edito da Feltrinelli.

Concludendo, Babel è un libro molto molto amaro: “Viviamo in mare aperto, sotto l’onda continua, senza un punto fermo che misuri il peso e la distanza delle cose” (risvolto di copertina). Forse può fargli da controcanto l’ultimo libro di Edgar Morin, “Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione”, Raffaello Cortina, 2014. Ma in un mondo liquido o che si sta liquefacendo, è possibile un rilancio dell’educazione? Come se questa potesse essere immune dall’assalto della marea liquida? Chissà!

Il volume lascia il lettore abbastanza sconcertato. Possibile che anche la politica sia essa stessa soggetto di liquidità? Le recenti vicende di una Grecia al tappeto in effetti non sono confortanti. Sono un fenomeno a sé, oppure una pericolosa linea di tendenza? Una deriva dalla quale nessuno potrà uscire?

Il libro che ho letto è veramente sconcertante. Le seguenti osservazioni di Ezio Mauro, a mio vedere, costituiscono il senso e il significato dell’intero volume: “Siamo arrivati a Mefistofele: la parola prende completamente il posto del pensiero. In realtà anche la parola viene sempre più spesso ridotta a segno, o almeno a segnale: pensa all’abuso di acronimi. Se ieri il medium era il messaggio, ora il medium può fare a meno del messaggio. I ragazzi si scambiano col cellulare segnali vuoti per salutare, sollecitare, confermare, e l’impulso riassume definitivamente la parola e il vuoto, sostituendoli. D’altra parte, se la tua identità è quella di un punto in una rete e il tuo sistema è fatto a nodi, la questione vitale diventa quella di pulsare, partecipare al grande battito più che al vecchio dibattito, non perdere il ritmo, non uscire dal cerchio. Sentire è necessario più che capire, è una facoltà e non uno sforzo. Al centro della rete – ognuno è al centro e alla periferia del web – io vivo connesso alle emozioni altrui, alle sensazioni degli amici, alle reazioni di sconosciuti, alle informazioni del flusso, alle selezioni prodotte dai social network, alla ‘folla delle impressioni vaganti e volatili’, come dici tu. Io sento, dunque sono. Io sono in rete, dunque sento” (p. 117).

E’ il rovesciamento del “cogito” cartesiano! Dall’affermazione del Sé al suo rovinoso declino…

Donna Tartt, Il cardellino

Donna Tartt, Il cardellino
Rizzoli Vintage

di Mario Coviello

 

tarttLa gente muore, questo è un dato di fatto” dice una madre al figlio, dentro al Metropolitan Museum Of Art “ma il modo in cui perdiamo le cose è insensato e terribile […]. Tutto ciò che sopravvive alla Storia dovrebbe essere considerato un miracolo”. Undici anni dopo Il piccolo amico, Donna Tartt torna con il suo terzo lavoro, Il cardellino, un’opera di 892 pagine, con la storia di Theodore Decker e della detonazione nel museo newyorchese, in cui perde la madre e da cui si salva per caso, per aver seguito i capelli rossi di una ragazza, per noia, per coincidenza. È il caso a essere protagonista di questo romanzo: quello stesso caso per cui anche lei, Pippa, si trova là con l’anziano Welty che, prima di morire, consegna a Theo un anello e il compito di riportarlo al suo socio di affari, l’antiquario Hobart. Prima di uscire dal museo, come richiamato dallo stesso quadro, Il cardellino del titolo, Theo si avvicina alla parete e lo porta via: la tela del 1654 di Carel Fabritius, allievo di Rembrandt, è una delle poche ad essersi salvata dall’esplosione in cui ha trovato la morte, giovanissimo, lo stesso pittore, secoli prima; ancora il caso, le ripetizioni.

“Cosa sarebbe successo se quel particolare cardellino (ed è molto particolare) non fosse mai stato catturato o nato in cattività, esibito in una casa dove il pittore Fabritius potesse vederlo? Non può aver compreso perché sia stato costretto a vivere in una tale tristezza, spaventato dai rumori (così immagino), stressato dal fumo, dai cani che abbaiavano, dagli odori di cucina, importunato dagli ubriachi e dai bambini, impedito a volare dalla più corta delle catene.”

Basta tenerlo tra le mani per cogliere la prima fondamentale componente di questo libro: è una lettura imponente, quasi 900 pagine, che mi ha fatto compagnia nel mio viaggio in Grecia e non poteva avere una cornice migliore. Se a questo aggiungiamo che l’autrice ha impiegato circa dieci anni per scriverlo, così come era successo per i suoi due romanzi precedenti Dio di illusioni e Il piccolo amico, allora si comprende il motivo per cui questo romanzo, Il cardellino, sia nato come un successo annunciato e abbia vinto il premio Pulitzer nel 2014.

Tra le sue pagine scorre la storia della letteratura americana, buona parte della storia dell’arte europea, la frantumazione della società contemporanea e un leggero filo dorato capace di tenere insieme ciascuna di queste grandi tematiche. Come un’ossessione.
Il protagonista della storia è  un adolescente di Manhattan tremendamente intelligente e conseguentemente vessato dai compagni di scuola, molto legato a sua madre, una donna colta e solitaria, e scontroso nei confronti del padre, un ex attore di Broadway, alcolizzato e assente.

Seguiremo Theo durante i primi mesi a New York, solo senza famiglia, ospite nella ricca casa di un suo compagno di scuola, e poi lo ritroveremo quasi catapultato in una realtà a lui completamente avulsa, a Las Vegas, insieme a suo padre, o a quel che ne resta, e alla sua nuova compagna, Xandra, barista al Casinò, spacciatrice di coca e anfetamine. È nelle strade deserte di Las Vegas che il romanzo di formazione che abbiamo letto nella prima parte, ambientato tra Park Avenue e Down Town, si trasforma in un romanzo on the road della Beat Generation. Tra sbronze, fughe, furti, sballo e stordimenti, Theo conoscerà uno dei suoi più grandi amici, Boris, in parte russo in parte polacco, cosmopolita, figlio di un minatore, che gli farà scoprire il lato più oscuro della vita e di se stesso.
Sarà ancora una volta a causa un incidente che Theo, dopo due anni, ormai quindicenne, tornerà a New York e andrà a bussare ancora una volta alla porta del suo amico Hobie, il gigante buono, l’antiquario del Village, da cui era già stato salvato una volta, subito dopo l’esplosione. Il legame tra Hobie, Il cardellino e Theo lo scoprirete immergendovi nella lettura di questo intrigante romanzo. Un libro che si legge ossessivamente fino alle ultime pagine in cui, in una Amsterdam decadente, l’azione e il thriller prendono il posto del racconto di formazione. Un romanzo poderoso, complesso, scritto magistralmente e capace di trasformarsi sotto i nostri occhi, proprio come un capolavoro dell’arte fiamminga che rivela parti di sé in base al punto di osservazione. La voce narrante di questo libro seduce, ci commuove e ci ferisce, è una di quelle voci che continuerà a parlarci anche dopo che avremo letto l’ultima pagina. Perché da un luogo all’altro Theo si porta addosso la stessa condanna, quel rumore sordo della solitudine che si può solo attutire, per un po’, con la sostanza giusta.

Inno all’America e inno a New York, città mondo bellissima e crudele, piena di segreti come in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, Il cardellino è un catalogo delle paure e dei traumi dell’Occidente post 11 settembre. E una preghiera sul potere che ha l’arte. Non certo di salvarci, ma di rendere più lieve il nostro passaggio su questa Terra.

La vicenda di Theo è una discesa agli inferi a cui fino alla fine speriamo tenacemente corrisponda una risalita ma ciò che è certo è il peso del passato e il senso di colpa che condiziona tutta la sua vita di adolescente e poi di uomo. È l’incapacità di accettare la perdita e superare un trauma così terribile e l’attentato terroristico, con quel boato che non smette mai di risuonare nella mente dei sopravvissuti, è raccontato in pagine così riccamente dettagliate da richiamare immediatamente quelle immagini tristemente note; è la perdita dell’innocenza, è distruzione che spezza quel legame e quella vita che ancora sembrava possibile.

E il senso di colpa – per la morte della madre, per il furto del dipinto, per le truffe- è il veleno che rovina l’esistenza di Theo. Anche l’amicizia, imperfetta e complicata, è un filo sottilissimo che tiene Theo alla vita, lo strappa alla solitudine pur non riuscendo a colmare la profonda infelicità che lo opprime. Boris è l’unico vero amico di Theo, con lui litiga furiosamente, prova ogni tipo di droga, si azzuffa e si confida, in un rapporto sempre in bilico tra amicizia e amore. Complicato, il confine tra giusto e sbagliato incerto e mobile, innocente e corrotto allo stesso tempo, Boris rappresenta uno dei rapporti più solidi di Theo e un appiglio alla vita.

È, dunque, un romanzo sull’amicizia. Ma è anche un romanzo sulla libertà, sulla solitudine, sul senso della vita. Sulla possibilità di scegliere tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ma anche e soprattutto, si tratta di un romanzo sull’amore. Non solo amore nei confronti di qualcuno. Ma amore come ossessione per un’opera d’arte e in particolare per Il cardellino.

Vi consiglio questo libro perché penso che affezionarsi ai personaggi, giustificarli anche nei momenti peggiori delle loro esperienze, amarli in qualsiasi punto della storia, debba essere una delle prerogative di un buon romanzo.

Z. Bauman – E. Mauro, Babel

La Crisi delle “esauste democrazie” occidentali secondo Bauman

di Luigi Manfrecola

 

babelRitengo estremamente interessante il contributo di riflessione sullo stato di salute delle democrazie occidentali recato al dibattito da parte del solito Bauman, che ha peraltro trovato un puntuale interlocutore in Ezio Mauro, sviluppando una suggestiva disamina della tematica in questione nel Testo “BABEL” – Ed. Laterza.

Voglio riferirne qui in rapida sintesi per sottolineare l’acutezza dell’analisi, pur non evitando di manifestare qualche mia perplessità (segnalata dai punti di domanda) , facendo posto a qualche osservazione finale.

 

 

Interconnessione , Predomino della Finanza e Crisi di governance degli Stati Territoriali

In premessa va osservato che Bauman concorda con Hobbes nel ritenere che ogni Governo dovrebbe disporre della forza necessaria a garantire la sicurezza dei cittadini : una sicurezza che va pagata con la corrispettiva perdita di una certa percentuale di libertà. Ebbene, oggi un tale sacrificio appare mal compensato.

In effetti i Governi non solo non sanno rispondere più alla loro funzione di tutela ma si fanno essi stessi origine e causa dell’ insicurezza globale e rappresentano perfino una minaccia per le rispettive comunità. Non possono e non vogliono arginare la Crisi che sta travolgendo tutta l’impalcatura dell’Occidente : materiale, istituzionale , intellettuale. La democrazia è “esausta” e non basta più a se stessa poiché è messa sotto attacco, con la sconfitta di quel pensiero lungo ed organizzato che l’aveva sorretta e che si va sciogliendo anch’esso nell’attuale “mondo liquido” .

La mutazione è partita nel territorio dell’economia finanziaria, per estendersi poi all’ambito dell’industria e quindi del lavoro, fino a divenire una dinamica sociale e politica. “IL DISORDINE ECONOMICO- FINANZIARIO ha potuto allargarsi a dismisura poiché ha trovato aperti i cancelli della democrazia (?) e si è insinuato comodamente nella debolezza del sistema democratico come ruggine” (E.M.). L’economia finanziaria si è insomma dimostrata una variabile indipendente dal potere politico . Di conseguenza, oggi siamo nell’era della “post-democrazia” originata dall’incontrollabilità di un mondo che vive di interconnessioni globali , tali da scavalcare le possibilità di controllo dei vecchi Stati territoriali nazionali. Quegli Stati “giardinieri” che avevano segnato il felice passaggio dai vecchi Stati monarchici pre-moderni (paragonati a dei “dentisti”, solo pronti ad estorcere risorse dal popolo) agli Stati moderni , capaci invece di raccogliere e di distribuire le risorse a beneficio delle comunità. Ebbene, questi Stati moderni sono ormai impotenti e si dimostrano cattivi conduttori della volontà generale alla quale non sanno più rispondere, anche e soprattutto perché alla lunga, nei sistemi democratici, finisce col prevalere la ferrea “legge dell’oligarchia”, generata dalla mancata partecipazione e dalla distanza che viene a porsi fra eletti ed elettori. In questa “fase di INTERREGNO”(?) e di decadenza che vede la Crisi della Governance, il popolo giustamente si contorce in forme di sterile ribellismo mentre aumenta la distanza fra gli elettori e i loro rappresentanti . Dominano perciò le forme di “neo-populismo” (?), segnate dalla relazione fideistica fra leader e masse, mentre il consenso è banalizzato in “audience” ed il comizio diviene uno show… L’interconnessione globale ha frantumato l’indipendenza dello Stato-Nazione che aveva garantito la libertà dei popoli e viviamo in un mondo che vede il tramonto della cittadinanza solidale, delle Comunità di Vicinato, dell’artigianato.

Vanno dunque indagate le cause storiche d’una tale trasformazione.

 

Il Vecchio Capitalismo

Tali cause, secondo Ezio Mauro, vanno ricondotte alla trasformazione subita dal primo capitalismo moderno che aveva generato benessere collettivo fino a quando era stato interpretato da una classe di artigiani trasformatisi nei primi imprenditori: un capitalismo che si alimentava della “cultura del dare” e non perdeva i legami con la comunità di appartenenza. Era l’epoca in cui le mamme ancora seguivano i figli in azienda e le famiglie si conservavano compatte nei ruoli di sostegno ed ausilio. Proprio la fabbrica e la famiglia rappresentavano, dunque, il tessuto d’una società solidale. Anche secondo Bauman la trasformazione indotta dalla “cultura aziendale del management ha ,però, presto soffocato la fiamma della cooperazione col fumo tossico della competizione”. Ha introdotto la “cultura del prendere” al posto della precedente propensione a dare ed a condividere . Oggi, nell’epoca del Capitalismo finanziario, la società è ridotta ad una “società di consumatori” individualisti. Non abbiamo nemmeno più una vita pubblica che viene sterilmente ridotta ad un gossip incentrato su frammenti di vita spiati dal buco della serratura. La Politica è anch’essa ridotta ad uno show e il cittadino è trasformato in un semplice spettatore.

Ebbene, secondo Ezio Mauro, in un tale scenario il MUTATO RAPPORTO FRA L’UOMO ED IL LAVORO costituirebbe, il tratto distintivo della crisi epocale vissuta dall’Occidente.

 

Il mutato rapporto uomo – lavoro

Riprendendo l’analisi di Rifkin, l’editorialista osserva perfino che già si potrebbero intravvedere le prime avvisaglie d’un mondo “senza lavoro” a causa della SOSTITUZIONE TECNOLOGICA nel settore manifatturiero, con la definitiva rottura del legame fra produttività e occupazione (?). Dunque, come affermato da alcuni ,”se il capitalismo globale vale a dissolvere il nucleo dei valori della società del lavoro, si rompe un’alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e democrazia” poiché, fino ad oggi, il “cittadino doveva guadagnare denaro principalmente per sostenere i suoi diritti politici di libertà”. Si perde, insomma, la storia novecentesca del lavoro come fabbrica di solidarietà e come luogo privilegiato della capacità di passare dagli interessi privati alle questioni pubbliche e viceversa.(?)

Dissentendo da tale impostazione, Bauman non attribuisce solo alle dinamiche della trasformazione produttiva tale situazione. Riprendendo il pensiero di Habermas osserva invece che sono state direttamente LE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE a perdere interesse per la gestione di un lavoro che per secoli era stato concepito come un preciso diritto-dovere. In effetti, lo Stato capitalista era venuto molto presto meno a quella sua doverosa funzione di assicurare l’equilibrio e la regolarità nell’ acquisto/vendita fra capitale e lavoro; situazione che solo inizialmente aveva indotto il capitale a pagare un prezzo equo al lavoro , comprendendosi che questo valeva di per sé molto più del capitale impiegato, al punto da essere parzialmente ricompensato – ad integrazione – mediante diritti e prestazioni sociali costituenti il cosiddetto WELFARE. Il compito primario per lo Stato di garantire l’incontro regolare fra capitale e lavoro aveva insomma indotto a ridistribuire le risorse all’interno d’una società che era e restava una società di “produttori”. Mutatasi tale società in una diversa Società di “consumatori”, lo Stato ha poi acquisito l’abitudine a non interpellare più il cittadino, badando alla collettività, ma piuttosto ha fatto principale riferimento al consumatore individualista, lavandosi le mani delle sue responsabilità (?????), unicamente preoccupandosi di garantire l’incontro fra merci e clienti (pag.17).

 

Una Società di consumatori individualisti?

Alla prova dei fatti è stata così sconfessata la tesi di Parsons secondo cui la società vive mantenendo in un suo spontaneo equilibrio interno le varie funzioni . Viceversa, s’è reso evidente che ciascuna Società è un “processo” in dinamica trasformazione e non una struttura omeostatica. La trasformazione subita è visibile nel passaggio da una economia “timotica” ad un’economia “erotica”. La prima era dominata dal timore di non essere apprezzati dagli altri ed induceva ciascuno a rendersi visibile col donarsi e col “dare” agli altri (spinta etica). La seconda ed attuale (economia erotica) è mossa dal desiderio, dalla sensazione di mancanza, dal bisogno di prendere e di possedere. L’attuale società civile propende verso questa seconda dimensione verso la quale viene anche artatamente spinta con la creazione di sempre nuovi e falsi bisogni. Secondo Bauman «Oggi, l’individuo è prima di tutto un consumatore e poi un cittadino».

Fortunatamente però, non mancano studi recenti che dimostrano crescere nel corpo sociale uno spirito comunitario forte, la voglia di dare e di darsi (come appare, ad esempio, dal diffondersi del volontariato- n.d.r.) e si può dire ,con Brower, che «sotto un sottile strato di consumismo giace un Oceano di generosità». Il problema è che un tale atteggiamento non trova un suo prolungamento nella Politica. Su queste premesse Bauman conclude queste prime sue riflessioni riportando un quesito d’un certo Coetzee che si chiede «perché mai la vita debba essere paragonata ad una corsa e perché mai le economie nazionali debbano competere una contro l’altra piuttosto che dedicarsi, insieme, ad una salutare ed amichevole corsetta…»

 

Interrogativi e perplessità

Conclusivamente riprendendo alcune delle idee espresse, non mancano tuttavia delle perplessità.

  • Che senso ha parlare di “Interregno”, quasi a voler prefigurare uno sviluppo futuro della disastrosa situazione sociale, quando è questione, viceversa, di saper recuperare l’antico primato della Politica su un’Economia snaturata, distorta e oltraggiosa.

  • Come è possibile definire “neo-populismo” il richiamo legittimo e doveroso rivolto agli attuali Governi servili affinché perseguano il reale benessere dei cittadini?

  • Chi è stato ad aprire i cancelli della democrazia allo strapotere finanziario, se non qualche idiota incapace di interpretare e di volere il bene collettivo, magari innamoratosi dei salotti buoni e del proprio personale e privatissimo benessere?

  • Il lavoro si traduce, sempre e comunque in un “servizio”, qualunque ne sia la natura, prestato per la comunità di appartenenza. Pertanto l’automazione tecnologica non può che riguardare solo alcune prestazioni, lasciando campo libero alle mille altre forme d’impegno che è possibile spendere per il benessere comune. L’idea espressa nel libro intende, viceversa, il lavoro in un’accezione produttiva limitatamente materiale e costruttiva, com’è tipico della cultura mercificata che sta imperando. Si può invece rendere un servizio alla comunità in mille modi diversi : a livello artistico, culturale, sanitario, di accudienza, di custodia, di tutela …in mille forme differenti, dirottando in quei campi d’impegno le risorse eccedenti che siano state liberate dallo sforzo meccanico o routinario.

In tal senso occupazione e produttività possono comunque e sempre coesistere.

  • Non s’intende, e spiace per Bauman, come possa uno Stato limitarsi a blandire il semplice individuo consumatore . Forse qui il sociologo ha confuso, magari per il caldo eccessivo, l’Azienda e il Mercato per quello che lo Stato è e deve essere, anche e soprattutto in democrazia. Né vale la tesi della distanza fra eletti ed elettori. Un’Oligarchia, comunque costituitasi, non può essere identificata con le Istituzioni democratiche.

  • Malgrado il riferimento a Platone, convince poco anche la distinzione artificiosa fra economia erotica e timotica, fermo restando che ci trova perfettamente d’accordo l’analisi di Bauman sull’ attuale Società di passivi consumatori, plagiati , eterodiretti , smarriti nella precarietà d’un mondo instabile, liquido ed informe.

E si tratta di un mondo liquido, dalle acque agitate solo dai capricci di pochi stolti, di imbecilli avidi che amano solcare questi mari a bordo di yacht osceni, senza mai essersi bagnati nemmeno una volta e senza nemmeno considerare che anche loro varcheranno, alla fine, le Colonne d’Ercole con l’ultimo salto nel vuoto!!!