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M. Veladiano, Parole di scuola

veladianoMariapia Veladiano, Parole di scuola, Edizioni Erickson 2014

Mariapia Veladiano conosce bene il mondo della scuola, ha insegnato lettere per oltre vent’anni, e successivamente è diventata preside. Conosce i ragazzi, le difficoltà e i successi. Conosce i professori le loro frustrazioni ma anche i loro sogni. Parole di scuola, Edizioni Erickson 2014, è un concentrato di consapevolezza, suoni e, appunto, parole.
Pur sottolineando il lato critico della scuola, quello che sta perdendo fiducia, che fatica ad avanzare giorno dopo giorno, Mariapia Veladiano cerca di donare un messaggio di speranza, e sottolinea l’importanza di capire le parole giuste per capire sé stessi, gli altri, il mondo. La vita.
Ma i libri a scuola bisogna bene che i ragazzi li possano trovare. Bisogna disseminare la loro strada di libri belli. Perché anche lo studente più riluttante possa trovare quello che lo fa innamorare. Non si può immaginare un modo diverso perché questo capiti se non quello di farli incontrare: esporre gli studenti al libro e alla lettura.
Partendo dall’insegnante apparentemente perfetto, Albus Silente di Harry Potter, l’autrice dona alle parole il potere di descrivere il mondo scolastico, le paure di insegnanti e alunni, aspettative e sogni, con l’augurio che l’entusiasmo non venga mai meno, anzi si arricchisca sempre di novità e vinca tutte le sfide del momento.
La letteratura ci ha consegnato in mille forme la paura dello studente: di essere emarginato, di un maestro severo, di compagni gagliardamente crudeli secondo l’età, di non capire, di restare indietro, fuori.
Oggi la paura è anche dell’insegnante. E la paura è una pessima compagna di strada. C’è uno schiacciamento della nostra esistenza quotidiana sulla paura.

Scheda libro: http://bit.ly/ParoleDiScuola_Veladiano

Mariapia Veladiano Laureata in filosofia e teologia, ha felicemente insegnato lettere per più di vent’anni e ora è preside a Rovereto. Collabora con «Repubblica», «Avvenire» e con la rivista «Il Regno». Nel 2010 il suo primo romanzo, La vita accanto, vince il Premio Calvino e l’anno dopo arriva secondo al Premio Strega; seguono Il tempo è un dio breve (2012), Messaggi da lontano (2012) e Ma come tu resisti, vita (2013).

26 marzo Esiti Iscrizioni A.S. 2014-2015

Il MIUR rende noti i risultati delle Iscrizioni per l’a.s. 2014-2015

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Scuola, i risultati delle iscrizioni al primo anno delle superiori
Scientifico in testa, in crescita il Linguistico
L’Alberghiero secondo indirizzo più scelto in Italia
Un ragazzo su tre opta per un Istituto tecnico

Con 121.686 richieste di iscrizione è il liceo Scientifico l’indirizzo in testa alle preferenze degli studenti che a settembre affronteranno il primo anno delle scuole superiori. L’istituto Alberghiero, con 48.867 domande, è il secondo percorso di studi più scelto in Italia per il prossimo anno scolastico, il 2014/2015. Salgono le quotazioni del Linguistico, preferito da 47.161 ragazzi, con un incremento di 0,6 punti percentuali rispetto a un anno fa. Fa il pieno di domande, oltre 4.000, l’indirizzo Sportivo, al suo debutto ufficiale a settembre.
Sono alcuni dei primi risultati sulle iscrizioni alle scuole secondarie di II grado elaborati dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. I numeri definitivi saranno pubblicati nel mese di aprile.
Cifre e percentuali scattano la fotografia delle scelte operate dai ragazzi e dalle famiglie. Oltre 530.000 alunni si sono iscritti al primo anno delle superiori. Il 50,1% ha optato per un percorso liceale, il 30,8% per un Istituto tecnico, il 19,1% per un Istituto professionale. Continua l’incremento di iscrizioni nei Licei (+1,2 punti percentuali), calano Tecnici (-0,4) e Professionali (-0,8).
Fra le passioni dei ragazzi, le lingue, l’informatica, l’enogastronomia, il turismo, l’agro-alimentare. Famiglie e studenti, insomma, manifestano  interesse per indirizzi che offrono prospettive concrete e competenze subito spendibili nel mondo del lavoro. Vengono privilegiati corsi che aprono al contesto internazionale e ai settori chiave della produzione del Made in Italy.

Licei: lo Scientifico resta il più amato
Oltre 266.000 studenti hanno scelto un indirizzo liceale. Le domande sono in crescita rispetto allo scorso anno. Lo Scientifico resta il più amato con il 22,9% di iscritti sul totale nazionale: nel dettaglio, tiene l’opzione delle Scienze applicate (6,3%), quella in cui l’area scientifico-tecnologica è più forte, mentre l’indirizzo tradizionale cala di 0,6 punti percentuali. Grande successo per le sezioni sportive dello Scientifico ai nastri di partenza quest’anno: le domande sono 4.425. Il liceo Linguistico cresce con un incremento delle preferenze di 0,6 punti percentuali e oltre 47.000 iscritti totali. Tiene il Classico con il 6% di richieste: erano il 6,1% lo scorso anno. Sostanzialmente stabile il liceo Artistico. Mentre nel loro piccolo segnano un incremento di 0,1 punti percentuali i licei Musicali, che in cifre assolute fa 600 domande in più. In aumento le preferenze per le Scienze Umane: +0,3.

Tecnici: confermato l’interesse dei giovani per l’informatica
Più di 163.000 ragazzi hanno scelto un Istituto tecnico, il 30,8% del totale nazionale. Praticamente un alunno su tre opta per questi percorsi che, tuttavia, perdono 0,4 punti percentuali di iscrizioni rispetto allo scorso anno scolastico. Cala l’indirizzo Amministrazione, Finanza e Marketing (9,2% di iscritti sul totale un anno fa contro l’8,6% di quest’anno), ma resta comunque il preferito per chi frequenterà i Tecnici. Molto quotato, con oltre 25.000 iscritti, l’indirizzo Informatica e Telecomunicazioni: 4,8% sul totale nazionale.  In leggera crescita il Turismo, l’Agraria e la Chimica.

Professionali, l’Alberghiero fa ‘gola’
Gli Istituti professionali raccolgono il 19,1% delle iscrizioni, in calo di 0,8 punti percentuali rispetto ad un anno fa. Sono la scelta fatta da oltre 100.000 ragazzi. Lo scorso anno c’era stato un calo più netto: -2 punti percentuali. L’Alberghiero conserva il suo primato fra i Professionali, con quasi 49.000 domande di iscrizione, il 9,2% del totale nazionale, che posizionano l’indirizzo al secondo posto fra i più richiesti in Italia.

Boom dei Licei nel Lazio, picco dei Tecnici in Veneto
Le percentuali di iscrizioni ai Licei superano la media nazionale del 50,1% al Centro-Sud. In particolare è boom nel Lazio dove il 61,7% dei ragazzi opta per un indirizzo liceale. Seguono Umbria (54,7%), Abruzzo (54,5%) e Liguria (54%). Gli Istituti tecnici piacciono di più al Nord con regioni come il Veneto (37,9%), il Friuli Venezia Giulia (37,3%), l’Emilia Romagna (34,7%), la Lombardia (34,3%) che superano ampiamente la media nazionale del 30,8% di iscritti. Al Sud fanno eccezione il Molise (34%) e la Calabria (32%). Infine i professionali superano il 20% di iscrizioni contro una media del 19,1% in Basilicata (21,7%), Emilia Romagna (21,6%), Puglia e Campania (21,5%), Marche (21,3%), Sicilia (20,9%).

Iscrizioni on line, oltre l’80% delle famiglie soddisfatte dalla procedura
Quasi il 70% dei genitori ha inviato la domanda da casa

(Roma, 03 marzo 2014) Oltre 1,5 milioni di domande effettuate, più dell’80% di utenti soddisfatti dalla procedura on line che, confermano le famiglie, serve a risparmiare tempo, quasi il 70% di moduli inviati direttamente da casa senza la necessità di ausilio da parte delle scuole. Sono i primi dati elaborati dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sulle iscrizioni on line alle classi prime (fatta eccezione per la scuola dell’infanzia) che si sono chiuse venerdì 28 febbraio 2014 a mezzanotte.

I numeri
Le domande attese erano 1.567.657, quelle effettuate sono state 1.550.266 (98,9%). Le domande registrate (acquisite correttamente dal sistema) sono state in tutto 1.558.246, il 99,40% delle attese. Stando ai numeri, dunque, le domande registrate ma non ancora trasmesse sono 7.980. Queste famiglie saranno contattate dalle scuole per completare la procedura nei prossimi giorni. I numeri si riferiscono alla scuola statale: la paritaria non aveva obbligo di adesione alla procedura elettronica.

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Famiglie soddisfatte
Quasi il 70% delle famiglie ha effettuato l’iscrizione on line per conto proprio (68,51% è la media nazionale), senza recarsi nelle scuole. In Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia Romagna gli utenti che hanno inviato la domanda da casa superano l’80%. Le iscrizioni elettroniche piacciono agli italiani: il 59,97% delle famiglie trova il servizio molto vantaggioso in termini di risparmio di tempo, per il 25,90% lo è abbastanza. Solo il 5,86% degli utenti non ha riscontrato questo vantaggio. Per oltre il 43% delle famiglie la procedura on line è molto facile, per il 37,41% lo è abbastanza. Infine, quasi l’80% delle famiglie ritiene che il funzionamento del servizio on line sia stato molto o abbastanza efficiente avendo riscontrato pochi problemi di collegamento, scollegamento improvviso o lentezza del sistema.

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Insistere sulla riforma degli organi collegiali e del governo delle scuole autonome

INSISTERE SULLA RIFORMA DEGLI ORGANI COLLEGIALI E DEL GOVERNO DELLE SCUOLE AUTONOME

di Gian Carlo Sacchi

Se da un lato riprende la revisione costituzionale del titolo quinto, con tutto quello che ne consegue sul piano del governo del “sistema educativo nazionale di istruzione e formazione”, dall’altro deve avere compimento la riforma degli organi collegiali della scuola: due facce della stessa medaglia. Ad una riorganizzazione di poteri e competenze che valorizza l’autonomia scolastica deve corrispondere una visione territoriale dei servizi che fanno riferimento all’education, in cui la comunità è coinvolta e che attraverso la partecipazione arrivi a conseguire gli obiettivi dati a livello nazionale e ad ampliare lo sguardo verso l’Europa e le altre culture.

La scuola infatti non è più l’unica struttura tesa a garantire il diritto dei minori alla crescita personale e culturale, ma rimane il presidio pedagogico della Repubblica. Il suo riferimento è lo Stato-Regioni-Comuni per quanto riguarda gli standard da raggiungere e la programmazione dei servizi e la comunità in cui opera per l’offerta formativa ed il contributo da dare allo sviluppo del territorio, integrandosi con gli altri servizi formativi.

Parlare di riforma degli organi collegiali vuol dire andare oltre la dicotomia che si è creata negli anni tra partecipazione e gestione; garantire cioè la presenza dei vari componenti della comunità scolastica non solo sul versante della proposta, ma anche su quello della decisione e della verifica. Autonomia significa autodeterminazione ed anche valutazione sociale, impegno a raggiungere i traguardi comuni di tutto il sistema e maggiore flessibilità per interpretare i bisogni educativi del territorio.

Si potrebbe aprire una parentesi per evidenziare quanto un sistema rigido oggi sia causa di insuccesso e di abbandono, mentre uno flessibile sia più in linea anche con quanto avviene in altri Paesi e più in generale con il contesto europeo. Tale riflessione offre ulteriori spunti perché l’autonomia abbia una solida base costituzionale ed all’autogoverno della scuola, inserita nel suo territorio, una maggiore efficienza e qualità dell’azione educativa.

Tutto ciò se si va oltre la partecipazione e la pura rappresentatività negli organi collegiali e ci si spinge verso una maggiore funzionalità in relazione alle richieste dell’utenza e del territorio stesso. E’ sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche autonome che ormai si concorda, ma sul modo di realizzarlo esistono ancora diversi punti di vista, dettati più dalle difese corporative delle singole componenti che dalla disponibilità ad uno sforzo comune.  Non c’è dubbio però che tale azione comune debba essere fatta su basi di chiarezza e senza ideologie più o meno manifeste, la cui contrapposizione mantiene il sistema sostanzialmente fermo. Ed è quello che è successo nel dibattito sul disegno di legge n. 953 approvato dalla VII Commissione della Camera.

E’ interessante riprendere questa discussione in quanto l’allora Senatrice Giannini, oggi ministro dell’istruzione, aveva recuperato quella proposta per darle gambe nell’altro ramo del Parlamento (atto del Senato 3542), anche se con alcune e non secondarie modifiche.

Il ddl 953 voleva cercare di andare appunto verso l’autogoverno e configurare progressivamente il sistema dell’education, ma da più parti è stato richiamato ad un’impostazione che potremmo definire statalista; l’atto 3542 al contrario ha inteso l’autogoverno in un’ottica neoliberista, per  garantire il “diritto alla libertà di scelta educativa delle famiglie” prevedendo anche la riallocazione delle risorse tra scuole statali e paritarie. Queste due impostazioni prevedono sostanzialmente gli stessi organismi che vengono indicati per le sole scuole statali.

E’ forse l’occasione buona perché si provi a conciliare le posizioni in maniera efficace all’interno della stessa maggioranza politica, in modo da far progredire parallelamente le due questioni sulla governance: quella esterna e quella interna, all’insegna della funzione pubblica di tutto il sistema, facendo maggior ricorso alla sussidiarietà nella gestione.

Iniziamo col dire che questa legge fa parte delle “norme generali sull’istruzione”, che devono cioè indicare gli obiettivi e i principi ispiratori, lasciando poi alle singole scuole autonome, con tanto di statuto, di stabilire le  modalità per metterli in pratica, in base al contesto in cui operano, e verificarne l’efficacia in base agli standard nazionali/europei ed ai “livelli essenziali delle prestazioni”.

Bisogna uscire dalla logica che ha fin qui imbrigliato gli organi collegiali e cioè quella della partecipazione sociale alla gestione statale. Con l’approvazione della legge sull’autonomia e del conseguente regolamento per le scuole riconosciute autonome viene conferita alle stesse la possibilità di iniziativa in materia di offerta formativa e di autonomia didattica, organizzativa, finanziaria e di ricerca e sviluppo; la possibilità di associarsi, di costituire reti e consorzi, ecc. Tale configurazione pone le scuole più verso le autonomie territoriali, ma in proposito si aspetta ancora il decentramento delle competenze previsto dal DL 112/1998. La garanzia di far parte di un sistema pubblico è riposta nelle suddette norme generali  e più che nell’ordinamento negli standard da conseguire, lasciando alla comunità scolastica ed alle sue esigenze la liberta di organizzare la risposta, attraverso appunto organismi formati in modo partecipato.

A questo punto c’è il salto rispetto a prima ed un conseguente rischio che va evitato dimostrando maturità proprio nella partecipazione-governo di qualcosa che rimane sempre un’istituzione della Repubblica e non si trasforma in una “scuola di tendenza” o peggio ancora in un’agenzia privata.

La nuova legge sull’autogoverno dovrebbe tenere in equilibrio queste dimensioni, favorendo l’implementazione di un sistema autonomo, quello educativo-scolastico-formativo, in dialogo con gli altri sistemi del territorio, avente una riconosciuta rappresentanza ai diversi livelli di governo fino a quello nazionale. Saranno le scuole autonome, singole o in rete, ad essere rappresentate e non altri organi collegiali territoriali scuolacentrici, vissuti in passato secondo l’ottica ministeriale.

In questa prospettiva ci sta il diritto della famiglia alla scelta educativa e la valutazione sociale dell’attività; molte di queste cose esistono già e l’introduzione dei nuclei di autovalutazione e di un sistema nazionale di misurazione dei risultati ne sono una conferma. Ciò che manca è un maggior grado di libertà tra i risultati e le decisioni conseguenti, sia sul piano didattico, sia su quello del controllo di qualità complessiva dell’offerta. Si è già detto in precedenza che la rigidità delle strutture aumenta la disuguaglianza e impedisce il recupero e addirittura il prevalere degli indirizzi mantiene la percezione sociale della gerarchizzazione dei saperi.

Sono quindi gli statuti a creare la cerniera tra le norme generali e la realtà locale, ad essi l’indicazione delle modalità di partecipazione della comunità e di migliore organizzazione delle professionalità. Un’autorità governativa, da stabilire a quale livello, approverà gli statuti stessi e commissarierà gli inadempienti .

Le due proposte di legge concordano nel distinguere  funzioni di indirizzo, gestionali e didattiche, ma differiscono sull’attribuire la presidenza del “consiglio dell’autonomia”, l’organo appunto politico: la 953 prevede di mantenere la presidenza ad un rappresentante delle famiglie, mentre la 3542 la affida al dirigente scolastico. Con la prima soluzione si darebbe maggiore equilibrio alle diverse componenti: scuola e famiglia dovrebbero essere le principali responsabili dell’azione educativa e si vedrebbe il dirigente scolastico oltre che come garante per lo Stato anche più vicino a quella che usa chiamarsi la leadership educativa, mentre nel secondo caso si darebbe a questa figura più un valore manageriale, di organizzazione delle diverse risorse presenti nella scuola. E’ sicuramente preferibile una visione di scuola-comunità piuttosto che quella di scuola-organizzazione.

E’ l’autonomia che deve saper analizzare i bisogni del territorio, la qualità che deve promuoverne lo sviluppo, il pubblico, in un’ottica di sussidiarietà, che deve garantire i diritti dei cittadini; organismi di partecipazione costituiscono un atto di trasparenza da estendere progressivamente anche ad altre agenzie educative e formative: statali, regionali, comunali, paritarie o autorizzate. Tale “sistema pedagogico” deve avere, come si è detto, una sua rappresentanza e potere di interlocuzione con altri sistema territoriali e più in generale con il sistema politico, economico, ecc. Qui le due proposte convergono e questo potrebbe aprire la strada ad una rapida approvazione.

Un Consiglio Nazionale delle Autonomie Scolastiche e non solo, come organo di partecipazione e corresponsabilità tra Stato, Regioni, EELL e autonomie scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione e non un consiglio della corona, con compiti meramente consultivi, di cui i ministri si sono serviti o che hanno anche in buona parte disatteso. Organo di tutela della libertà di insegnamento, di analisi della qualità del sistema e di garanzia della sua piena autonomia.

Ogni Regione può mettere in atto analoghi strumenti di partecipazione, attraverso l’istituzione di Conferenze regionali che tra gli altri compiti abbiano anche quello di trattare con lo Stato sulla definizione degli organici, che si auspica possano essere assegnati a livello di istituto o di rete, proprio al fine di conferire stabilità e continuità al servizio locale. Da qui possono derivare la costituzione degli ambiti territoriali (unioni di Comuni) con compiti di programmazione della rete dei servizi e delle relative Conferenze di ambito.

Un’ultima osservazione riguarda la presenza degli studenti degli istituti del secondo ciclo. Pur con toni diversi tutti riconoscono la loro rappresentanza nel consiglio dell’autonomia in misura paritetica a quello dei genitori; è lo statuto, che deve essere approvato del consiglio medesimo, che deve disciplinare le modalità della necessaria partecipazione degli alunni e genitori, comprese le assemblee, in base ai diversi organismi istituiti. E per quanto riguarda la loro presenza in decisioni che comportano movimenti finanziari, il loro voto non può essere consultivo (3542) se maggiorenni; essi infatti devono essere coinvolti nelle scelte gestionali, anche per ragioni educative, cioè di responsabilizzazione nell’uso del denaro pubblico o per pubblica utilità.

E’ singolare che la sen.Giannini, una volta diventata ministro, tra i tanti argomenti anticipati sui media non si sia soffermata su un provvedimento presentato proprio da lei, anche perché questa apertura offerta alla legge 953 avrebbe bisogno di un percorso accelerato proprio come quello che si intende far seguire al rieccolo titolo quinto.

Non era meglio la CEE?

Non era meglio la CEE?

 di Maurizio Tiriticco

Nei primi anni Cinquanta nel nostro Paese cominciammo ad assaggiare quello che poi fu il boom socioeconomico. La guerre era finita nel ’45 e in un quinquennio il nostro Paese aveva già compiuto miracoli! Inaspettati! Tanto pesanti erano state le distruzioni che avevamo subite: riguardavano città intere, case, servizi, fabbriche! Eppure, ce la facemmo! A pensarci adesso, le difficoltà che stiamo attraversando oggi sono infinitamente minori rispetto a quelle dell’immediato dopoguerra. Eppure ci sembrano pressoché insormontabili.

Un gran desiderio di pace e di lavoro accomunava noi tutti! Anche perché avevamo una Repubblica, uno Stato tutto nuovo e una Costituzione che era la più bella del mondo. E ricostruivamo il Paese e anche la nostra vita civile! Poi, quando nel 1951 nacque la Ceca, la Comunità economica europea del carbone e dell’acciaio, per opera dell’iniziativa di Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, Paesi che fino a qualche anno prima avevano combattuto su campi avversi, fummo in molti a capire che si stava cominciando a tracciare una nuova strada anche in campo internazionale! Non c’erano più né vinti né vincitori, ma un insieme di popoli che intendevano costruire per la prima volta insieme una nuova Comunità, anche con la C minuscola, di intenti, di lavoro, di speranze! Ovviamente una strada difficile! Ma che avrebbe potuto garantire una pace futura così pesantemente compromessa in quel lungo secolo che Qualcuno più tardi ha voluto definire invece come Secolo breve.

Comunque, qui in Italia avvertivamo che cominciava a prender corpo la visione mazziniana della Giovane Europa! O forse quella del federalismo di Cattaneo! O di quel socialismo europeo di Pisacane! I sogni ottocenteschi stavano diventando ormai qualcosa di più solido. In effetti, il Manifesto redatto nel confino di Ventotene da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni non aveva nulla di utopistico e disegnava con sufficiente chiarezza i propositi e i passi di una progressiva unificazione europea in chiave federalista. E a quei nomi imparammo ad associarne altri! Oltre al trentino Alcide De Gasperi figuravano il tedesco Konrad Adenauer, i francesi Robert Shuman e Jean Monnet, il belga Paul Henri Spaak. Utopisti? Sognatori? Anche, ma soprattutto dirigenti politici convinti di una comune prospettiva europea.

Quindi, la Ceca, e poi l’Euratom e poi la Cee, quella Comunità economica europea che firmammo qui a Roma nel 1957, potevano costituire l’avvio di un nuovo percorso. Le attese erano indubbiamente molte! L’avvio di un mercato comune, l’incremento dei trasporti e l’introduzione di nuove tecnologie nei processi lavorativi rendevano necessarie, se non ineludibili, intese che solo fino a qualche decennio prima sarebbero apparse impossibili. Non mancavano atteggiamenti critici: la cortina di ferro ormai da quasi dieci anni spaccava in due l’Europa e il mondo intero, per cui una comunità economica che riguardasse solo i Paesi di una determinata area forse avrebbe rafforzato quel sistema capitalistico che i movimenti della sinistra invece osteggiavano e combattevano. Fu così che alle speranze e alle attese di certe parti politiche si associavano le diffidenze e i sospetti di altre parti. Ma la nuova Comunità cominciò a produrre i suoi effetti, nel campo dell’economia, degli scambi commerciali, del lavoro, dei processi lavorativi e, ovviamente, della stessa formazione professionale. Se nei diversi Stati membri i processi dell’istruzione cosiddetta “generalista” procedevano secondo le necessità civiche e culturali interne ai singoli Stati, la formazione professionale, invece, doveva fare i conti con quelle tecnologie che anno dopo anno investivano i processi lavorativi indipendentemente dai confini nazionali. E la classe operaia poneva le sue rivendicazioni economiche, professionali e culturali su basi che cominciavano a travalicare i confini nazionali. Per tutti gli anni Sessanta i gli operai italiani,francesi, della Germania federale e del Benelux, lavorarono di conserva a implementare i loro profili professionali. E la Cee fungeva da grande richiamo. In seguito, a partire dal 1973, con l’ingresso del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, la Cee comincia ad ampliare i suoi orizzonti e i suoi assetti cooperativi.

Fu così che tutta la formazione professionale cominciò a uscire dal ghetto in cui era stata relegata per decenni. Si era sempre trattato di una formazione di second’ordine – non a caso si era sempre parlato addirittura di puro addestramento professionale – nella quale si formava l’operatore per ciò che avrebbe dovuto eseguire nel processo lavorativo, indipendentemente da una visione complessiva attinente ad aspetti culturali e civili di ampio spettro. Da sempre i “padroni” assumevano mani sicure e teste non troppo pensanti. Ma le cose stavano rapidamente cambiando. Anche nel nostro Paese in quegli anni l’attenzione al lavoro operaio e all’intera formazione professionale compie un enorme passo avanti. Per merito delle lotte operaie, ovviamente! Nella legge quadro 845 del 1978, relativa al riordino dell’intero sistema professionale regionale, all’articolo 1 non scrivemmo soltanto che “la formazione professionale è strumento della politica attiva del lavoro, si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro”, ma anche che “la Repubblica promuove la formazione e l’elevazione professionale al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l’acquisizione di una cultura professionale”. Analoghe attenzioni normative riguardarono in quegli anni anche gli altri Paesi della Cee. E non a caso nel 1975 viene istituito il Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale: si tratta dell’agenzia europea incaricata di promuovere e sviluppare l’istruzione e la formazione professionale in tutti i Paesi della Cee e oggi, dell’Unione europea.

Tutto sembrava procedere per il meglio I risultati ottenuti dalla Cee erano molto interessanti, non solo in termini di complessivo sviluppo economico dei Paesi membri, ma anche in termini di continue nuove adesioni. Nel 1981 entra nella Cee la Grecia; nel 1986 entrano la Spagna e il Portogallo. Il progressivo consolidamento della Cee riceve ormai riconoscimenti da ogni parte politica. Lo stesso Partito comunista, da sempre non tenero nei confronti delle iniziative politiche della Comunità, sotto la direzione di Enrico Berlinguer, fin dal 1976 aveva dichiarato di guardare con favore al Patto atlantico, a quella Nato, come garanzia di sicurezza e di pace per tutti gli Stati europei, contro la quale, invece, si era battuto con estremo vigore fin dalla sua costituzione, nel lontano 1949. Quindi la stessa Cee non viene più vista come l’organizzazione del capitalismo dell’Europa dell’Ovest. Anche perché i risultati, in termini di aumentata circolazione delle merci e di aumentato benessere sono più che evidenti.

Ed è proprio da questi successi – reali senz’altro ma quanto duraturi è difficile a dirsi – che insorge l’idea di giungere ad una costituzione più solida, che superi l’ambito della pura “economia” e investa quello ben più ampio della “politica” a tutto tondo. Si ravvisa che è giunto il momento di passare da una semplice Comunità ad una vera e propria Unione. I sogni dei grandi europeisti, da Mazzini a Spaak, sono quindi realizzabili! Si avvia così quel processo che conduce al Trattato di Maastricht con cui nel febbraio del ’92 i dodici Paesi della Cee danno vita all’Unione europea. L’ambizione è tanta! Ormai si affrontano tutti i settori della vita di un Paese. L’istruzione generalista costituisce un punto di grande attenzione e si avvia un processo finalizzato a realizzare una vera e propria Dimensione Europea dell’Educazione. Non è un caso che nel 2000 il Consiglio Europeo si propone l’ambizioso obiettivo di trasformare l’Unione nell’“economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”.

E in politica si auspica che occorra giungere a una vera e propria Costituzione. In questa prospettiva si pensa anche ad una moneta unica! Lo Stato federale che deve coniarla ancora non c’è, ma è solo questione di qualche mese… questo avranno pensato i politici dell’Ue? Mah! Comunque al Campidoglio in Roma nel 2004 viene firmata con il massimo della solennità la nuova Carta costituzionale dell’Unione europea. Un documento lungo, complesso, circa 500 articoli, di non facile lettura. Ma… i conti senza l’oste! Quando la Carta deve compiere tutti i passaggi attraverso i 12 Paesi, emergono tutti gli intoppi del caso. Non sto a riassumere tutti gli aspetti della vicenda! Resta il fatto che dalla Costituzione si deve ripiegare ad un più semplice Trattato. Che viene firmato a Lisbona nel 2007. In soli tre anni il grande sogno è svanito! Quali i motivi di questo disastroso arretramento? Non sono in grado di analizzarli! Resta comunque il fatto che abbiamo compiuto il passo più lungo della gamba! Abbiamo lanciato al cielo un pallone che è scoppiato prima del tempo! E ora ci ritroviamo con un‘Europa che non c’è e non si sa che fine farà – tante sono le tensioni nazionalistiche emergenti – e con una Cee che non c’è più! Con una moneta ingovernabile, con un mercato impazzito e con le banche che fanno il buono e il cattivo tempo! Altro che sovranità popolare!

Che ne sarà dell’Europa di Mazzini, di Spinelli, di Schuman? Dell’Europa che abbiamo sognato? Viene da chiedersi: non era meglio la Cee?

Il tempo, le parole, i bambini

Il tempo, le parole, i bambini

di Claudia Fanti

Sulla questione si sono già spese fiumi di parole. Eppure una in più non credo faccia male.
La mia percezione di maestra sul campo, mi fa dire oggi più di ieri, che il tempo dedicato alle parole con i bambini e le bambine oggi è ben speso. Le classi, lo sappiamo tutti, sono popolate di alunni di ogni paese, di bambini dai mille volti. Uno solo ne contiene almeno dieci che faticano a mostrarsi pienamente, che nascondono in tanti modi, dai più plateali come le ribellioni a quelli più segreti come le “timidezze”, vissuti e stati d’animo. La fragilità di cui sono portatori è conosciuta a ogni insegnante che osservi attentamente la composizione della classe e dei gruppi.

Ebbene, in ogni situazione io mi trovi a operare, sia nella mia classe sia in quella di altri quando vado a coprire i “buchi” delle assenze dei colleghi, mi accorgo del fascino irresistibile della parola e dei gesti che l’accompagnano.

La lettura, la drammatizzazione della stessa, le fermate sapienti sui punti nevralgici di una storia accattivante, attirano come calamite ognuno e ognuna, chiunque e qualunque sia la sua provenienza. Se poi si volesse aggiungere il sottofondo musicale, il top dell’ascolto è facilmente raggiunto.

Su ogni apprendimento e su ogni attività, la narrazione vince, fa strage di cuori e di menti. Ma…guai a disperdere il patrimonio di pensieri nuovi che nascono nelle menti. Alt! Ci si deve fermare a coltivare ogni accenno di dialogo, ogni appuntamento con una nuova idea che fuoriesce dalle minime osservazioni dei bambini/e. Gli occhi e gli orecchi sono puntati, le braccia si alzano, i turni faticano a essere rispettati, ma poi lo sono e le teste si protendono verso il compagno che parla.

Da questi momenti nascono gli apprendimenti efficaci, quelli che durano,  purchè si faccia attività di raccolta di dati, insieme con i bambini/e, nel momento successivo delle eleaborazioni personali e dei gruppi, lavorando su quanto scoperto: in modo concreto se la materia lo richiede, o astratto se la materia è una di quelle che prevedono la produzione scritta di fiabe, racconti, argomentazioni, schematizzazioni…

E anche nel momento della raccolta di dati e delle produzioni, la strategia di usare la parola per nominare, spiegare, esprimere dubbi, perplessità, opinioni, è essenziale. Diversamente cade l’attenzione, le produzioni divengono meccaniche, sciatte, e nulla rimane se non un vago ricordo.

Noi ci troviamo nella situazione di un navigante sulla zattera: se ci sbracciamo per chiedere aiuto a mezzi che navigano troppo lontani, nessuno ci ascolta e ci troviamo con le energie disperse inutilmente, se invece ci rannicchiamo a riposare, a pensare al modo in cui potremo sopravvivere  per poi alzare le braccia al passaggio di un mezzo più vicino, forse verremo uditi e salvati.

Le idee quando nascono, vanno lasciate esprimere ad ognuno/a, vanno lasciate riposare, utilizzate al tempo giusto, allora le salveremo e i bambini le ricorderanno per sempre.

La frenesia, l’attivismo continuo, gli scarti improvvisi tra un’attività e l’altra sembrano, per il loro essere dinamici, apprezzati, tuttavia se volessimo guardare con onestà i risultati sul lungo periodo ci accorgeremmo che essi hanno prodotto sovreccitazione, agitazione, iperproduzione e forse pure entusiasmo, ma si sono risolti in apprendimenti poco profondi e giustapposti senza collegamenti di valore, senza formazione di mappe interiori da poter riutilizzare in altri contesti e ambienti di apprendimento.

Spesso la strada che si imbocca ora con le migliori intenzioni è questa della iperproduzione, per cui si affollano, insieme con i pensieri, pagine e pagine, fotocopie di esercizi cosiddetti di consolidamento, compiti su compiti: questa iperproduzione  può essere consolatoria per gli adulti perché seda le loro ansie da prestazione, ma diviene dispersiva o, peggio, rischia di portare proprio alla cosiddetta dispersione di molti bambini/e che si rifugiano nelle loro ansie segrete create da prestazioni malriuscite, frettolosamente agite, le quali lasciano una traccia di inquietudine dovuta alla sensazione di non avere ben compreso il senso del lavoro svolto.

Proprio oggi, mentre la maggioranza delle esperienze dei bambini e delle bambine si basa sul visivo e su stimoli luminosi, chiassosi e vissuti in modo solitario, divengono coinvolgenti e straordinariamente efficaci modalità di insegnamento basate sulla parola, sul racconto, sullo stare insieme conversando in modo  corale. Le emozioni fluiscono, gli sguardi si incrociano, i corpi si protendono nello sforzo di comprendersi a vicenda.

Tutto ciò che è parola, musica, corpo, rappresentazione attraverso il disegno, espressione di sentimenti acquista un enorme fascino per le classi.

Di contro, tutto ciò che in qualche modo ripropone stimoli conosciuti anche all’esterno della situazione scolastica, alla lunga stanca, viene considerato routine, esclude alunni/e che presentano varie tipologie di disagio.

Se una cosa adorano bambini e bambine è il “perdere tempo” parlando con la maestra di sé, della propria famiglia, delle proprio esperienze, dei giochi e dei pupazzi che amano, dei loro sogni, la notte, proprio di quelli che li impauriscono o che li fanno sorridere. Sono poi attentissimi se si raccontano loro le storie “antiche” della propria vita, di quando la maestra era una bambina, se si recuperano informazioni sul loro passato e le si condividono con compagni e compagne. Non c’è bambino/a che non ami rievocare attraverso i racconti dei familiari le storie dei nonni, dei bisnonni…

Non ho poi mai visto nessuno/a di loro “stancarsi” dinanzi alla storia delle parole, all’  etimologia, ai significati che esse nascondono anche in ambiti diversi da quello della materia “italiano”: la storia dello zero, quella del pi greco, delle cifre, dei simboli…

I bambini e le bambine con i quali lavoriamo ora amano proprio settori della conoscenza che oggi sembrano non essere di moda: sfogliano volentieri i libri, si entusiasmano nell’ascolto della musica classica, si emozionano ascoltando e imparando i versi di una poesia, restano affascinati dai “suoni” delle parole “difficili”, delle rime; chiedono di essere guidati nel gesto grafico e nella bella scrittura, nei suoi riccioli e ghirigori. Domandano l’attenzione dell’insegnante alle loro conquiste culturali. Sono attratti dai dipinti, dai colori, dal pongo, da una pianticella che cresce, da un insetto trovato in giardino…

Le tecnologie li appassionano per un attimo, ma il loro amore incondizionato va sempre di più all’ascolto della voce umana che narra e del corpo che sperimenta con mani e piedi e pelle la natura e l’incontro dialogico con i compagni e le compagne.

La dispersione oggi si affronta con un amore sconfinato per il bambino/a intero, per le sue emozioni, per la sua psiche, per la sua personalità, per la sua singolarità, per la sua provenienza, per il suo desiderio di essere protagonista fra altri protagonisti degli apprendimenti, si affronta se gli si offrono strumenti linguistici per narrarsi e narrare il suo pensiero e le sue esperienze. Così tutto può imparare, tutto può affrontare.

Chiunque si occupi di governare la scuola dovrebbe muoversi con il garbo di un danzatore, in punta di piedi, dovrebbe immaginare, come fa un artista, spazi e tempi liberi in cui tutto è possibile, in cui non esiste misura, costrizione e proibizione; dovrebbe tutelare la libertà di insegnanti e alunni/e affinché possano essere padroni del tempo degli apprendimenti e dei contenuti senza lacci e laccioli. Oggi più che mai la libertà di sperimentare, agire, dialogare per ex-ducere andrebbe protetta da qualsiasi invasione di territorio da parte di agenti esterni. Purtroppo avviene il contrario e il prezzo che paga e pagherà la società sarà altissimo in termini di disamore verso il sapere.

Giovani demotivati

Giovani demotivati

di Emilio Ambrisi

L’impegno paga più del talento, almeno nello studio della matematica. E i quindicenni italiani risultano tra i più demotivati del mondo” è quanto scrive, questa mattina, S. Intravaia su Repubblica a commento dei risultati OCSE.

Ma ci voleva l’OCSE per dirlo? Per dire quella che è stata una verità di sempre, di ogni luogo e di ogni cultura? Che la matematica non si apprende facilmente! Per saperne qualcosa ci vuole fatica e sacrificio. E perchè i nostri allievi dovrebbero compierlo: a che serve?

Lo chiedeva anche il giovane del III sec. a.C. al maestro Euclide! Quello che si studia conta qualcosa? La collettività lo riconosce?

E’ anche il governatore della Banca d’Italia a dichiararlo: da noi, studiare non premia, in ogni caso conta meno che altrove.

Abbiamo abolito anche il bonus maturità che era un modo, mai attuato, solo pensato, di premiare l’impegno nello studio!

E se non bastasse nelle scuole non si sa neppure più cosa insegnare. I programmi ministeriali di una volta non esistono più, li abbiamo sostituiti con le Indicazioni Nazionali che avrebbero dovuto indicare le mete di conoscenze e abilità da conseguire con l’azione didattica, ma non lo fanno.

Sono documenti scritti con superficialità e male. Quelli per la matematica sono  pieni di contraddizioni, di aggettivi inutili, di frasi ridondanti e prive di significato, anche di errori.

In questo modo non è solo sminuita la funzione della scuola, c’è anche una perdita di credibilità della stessa cultura matematica ufficiale.

Una situazione difficile, disorientante. Un ambiente sociale, culturale, normativo, amministrativo, in cui ciascuno gioca a portare acqua al suo mulino, inquinando anche la stessa matematica.

Una generale caduta di valori morali e etici per cui non è ben chiaro ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare. Ciò che è bene e ciò che è sbagliato e da condannare! E, dunque, l’aspetto più rovinoso: la perdita del senso del dovere.

A soffrirne di più è la matematica! Essa è sempre stata la via regia per l’educazione alla razionalità ma anche per l’educazione morale e civile dei giovani. In matematica non s’imbroglia, la matematica è candida, senza macula alcuna. E’ questa la via che bisogna riprendere e sulla quale guidare i giovani. Oggi demotivati! Dove tendere i loro sforzi? Chi glielo mostra?

Tutto  questo rappresenta il perchè del  tema che la Mathesis ha fissato per il suo prossimo congresso nazionale di Spoleto (10-12 aprile): Educazione e Cultura Matematica in Italia. Serve ciò che si studia a scuola?

Figure, figurine e figuracce

Figure, figurine e figuracce fanno venire un “sistema”… nervoso

di Cosimo De Nitto

 

La lettura dell’articolo “Non solo insegnanti: le figure di sistema” – di Fiorella Farinelli sul numero 6/2013 suggerito dall’Ispettore Giancarlo Cerini al gruppo FB “Valutare la scuola” mi ha provocato un amarcord accompagnato da un disagio provocato dalla memoria storica dei processi in cui si è dibattuta la scuola in oltre un decennio, e si dibatte ancora, tra quello che poteva essere un bel sogno, un progetto (l’autonomia), e quello che è ora l’ancorché problematica e spesso triste realtà.

 

Ma che “sistema” è questo?

Definizione di sistema: “Il sistema, nel suo significato più generico, è un insieme di elementi o sottosistemi interconnessi tra di loro o con l’ambiente esterno tramite reciproche relazioni, ma che si comporta come un tutt’uno, secondo proprie regole generali” (Wikipedia).

Una qualche somiglianza tra questa definizione e la scuola reale? Difficile trovarla. Parlare di “sistema” riferendosi all’insieme delle istituzioni scolastiche equivale alla proposizione di un “dover essere” piuttosto che alla realtà di fatto, è piuttosto un fine o un traguardo da raggiungere.

Stando alla definizione ci si chiede: dove sta “l’interconnessione” tra gli “elementi”, i “sottosistemi” tra loro e con “l’ambiente esterno”? Dove sta il suo “comportarsi come un tutt’uno”? E le “regole generali”?

Secondo me bisogna che ci inventiamo un’altra definizione di “sistema” che vada bene solo per la scuola, oppure che si applichino le necessarie riforme per far diventare sistema la scuola che piuttosto si presenta sotto forma di galassia.

Il mondo variopinto, multiforme e multifunzionante della scuola, allo stato attuale, è attraversato da una fondamentale e macroscopica contraddizione tra un principio ed un processo di centralizzazione politica-burocratica-amministrativa-gestionale e un principio di “autonomia” svuotato di senso e soprattutto di poteri, strumenti, campi su cui essere esercitata. Da qui l’elemento caratterizzante della galassia scuola e il suo principio di (mal)funzionamento è piuttosto la schizofrenia (materia da psicologi e psichiatri piuttosto che per ingegneri e esperti in sistemi). Schizofreniche le “regole” (leggi, circolari, direttive, note interpretative, regolamenti ecc.), schizofrenici i rapporti tra scuola e territorio, schizofrenici la maggior parte degli insegnanti fra l’altro male invecchiati in un “non-sistema” di questo tipo che li obbliga in servizio ad un’età “innaturale” per coloro che svolgono questa professione.

 

Figure, figurine, figuracce

Allora, se questo è, se non si costruisce dapprima il sistema, che senso hanno le “figure” di un non-sistema? Rischiano di divenire delle figurine, o peggio, delle figuracce. Solo collaboratori subordinati del dirigente-monocrate che ne dispone a suo insindacabile giudizio, talvolta arbitrio.

Il dibattito sulle figure di sistema è ormai datato, frutto di una stagione ormai superata. Risale agli anni intorno al 1997, quando era forte la spinta propulsiva dell’autonomia e quando si immaginava una scuola autonoma almeno dal punto di vista organizzativo, amministrativo e didattico. Risale a

quando il collegio dei docenti aveva il potere di fare le scelte del progetto educativo e didattico ed eleggere le proprie “figure di sistema”, le funzioni obiettivo in seguito strumentali. Risale a quando l’autonomia era una visione della scuola alternativa a quella verticistica e centralistica tradizionale. Poi questa spinta si è esaurita negli anni col prevalere di tendenze politiche e culturali (ideologiche) diverse, contrastanti e opposte alla cultura dell’autonomia, tendenze centralistiche e burocratiche che hanno progressivamente svuotato di senso, e dei già  pochi residui poteri che aveva, l’autonomia al momento in cui è stata introdotta nell’ordinamento con la legge Bassanini n. 59 del 1997, alla quale ha fatto seguito il Regolamento del 30 ottobre 1998.

 

Quale autonomia?

Quali poteri autonomi ha ora il collegio dei docenti?  Ormai anche le funzioni strumentali sono nominate dai dirigenti scolastici, ormai non ha più potere di decidere nulla sulla sperimentazione metodologico-didattica vietata dalla Gelmini. Ha solo quasi esclusivamente poteri di ratifica in

merito a dettagli di minuta amministrazione e organizzazione. Dico minuta perché, per esempio, col registro elettronico il collegio, i docenti non hanno nemmeno più il potere di scegliere le forme di certificazione degli atti, così pure una sempre maggiore parte di atti amministrativi è assorbita da sistemi centralizzati che richiedono solo azioni esecutive in periferia. Autonomia zero. Alle scuole resta quasi esclusivamente il potere di decidere il calendario delle riunioni e delle ricorrenze, qualche festa e manifestazione e poche altre cose di natura amministrativa e organizzativa. Più che di autonomia delle scuole sarebbe corretto parlare di autonomia dei dirigenti scolastici.

La didattica, almeno quella, che dovrebbe essere il principio costituzionale dell’autonomia scolastica e della libertà d’insegnamento, è stata pesantemente e progressivamente svuotata di senso, condizionata, controllata e centralizzata attraverso l’INVALSI.

Il principio dell’autonomia scolastica è rimasto scritto sulla carta, come tanta parte dei principi che hanno carattere costituzionale fondante.


Ma non finisce qui

In questi ultimi anni sono venute avanti nuove correnti di pensiero che si sono espresse per forme più radicali di autonomia. Mentre  gli autonomisti di vecchia data hanno sempre pensato ad un “sistema” che si componesse di autonomie regolate e coordinate dal governo centrale che riservava per sé i compiti della strutturazione degli ordini, indirizzi e ordinamenti, programmi e orientamenti, gestione e governo dei principali flussi di risorse a cominciare dall’assunzione del personale ecc., questi ultimi orientamenti hanno disegnato le scuole come tante aziende autonome sul  modello privato, un insieme di monadi istituzionali, con poteri di assoluta autonomia, anche di assumere direttamente il “personale”, di decidere e dettare regole di funzionamento, principi e progetti formativi in competizione con le altre scuole nel grande “mercato” della formazione. La formazione anziché diritto di tutti e servizio pubblico è ridotta a merce liberamente offerta da enti il cui statuto ormai è divenuto di ordine privatistico. Questi ultimi orientamenti sono stati sostenuti e incoraggiati dai governi di centrodestra, dal ministero Moratti, a quello Gelmini che hanno avuto come punta di diamante Valentina Aprea, Comunione e Liberazione, Fondazione Agnelli, Treelle ecc. Ma hanno avuto continuità anche con ministri di centrosinistra e PD in particolare, Carrozza, o di area, comunque proposti e sostenuti dal PD, come Profumo. La continuità tra il ministero Profumo e il ministero Carrozza si è impersonata nella figura di Marco Rossi Doria (PD), come la continuità tra il ministero Carrozza e il ministero Giannini è impersonata nella figura di Gabriele Toccafondi (PDL-NCD). Entrambi, Rossi Doria e Toccafondi, sottosegretari.

 

Che fare?

Bisogna radicalmente cambiare governo e indirizzi di governo. Bisogna disambiguare il concetto di autonomia sotto il quale ormai ci hanno messo tutto e il contrario di tutto. Le “figure di sistema” in un non-sistema non hanno senso e non risolvono, semmai aggravano, i problemi della scuola; comunque aggravano le contraddizioni tra poteri da attribuire ai docenti e dirigente monocratico, col trionfo di un centralismo burocratico teso tra la spinta di un’aziendalizzazione e privatizzazione estrema delle singole unità scolastiche e il bisogno di una scuola democratica, pubblica, statale secondo Costituzione. La scuola non è un qualsiasi ente burocratico periferico dello Stato e non è un’isola infelice che scimmiotta l’azienda.

Cosa è la scuola dobbiamo ritornare a scoprirlo tutti insieme leggendo la lettera e lo spirito della Costituzione.

La leadership e il sistema scolastico

La leadership e il sistema scolastico

di Stefano Stefanel

 

L’idea che i sistemi educativi possano aver bisogno di leadership è piuttosto recente ed è un’idea che in Italia non è stata ostacolata solo finché non è apparsa realistica. Tant’è che il termine leadership viene correttamente annacquato, quando si parla nell’ambito del sistema scolastico d’istruzione italiano, con termini come “situata”, “collegiale”, “diffusa”, ecc. La scuola italiana non ha mai voluto prendere in considerazione idee di progressione di carriera, differenziazione stipendiale in base al merito, assunzione del personale solo tramite concorsi ordinari o percorsi abilitanti (l’idea delle SSISS) e questo perché il solo pensiero di una gerarchizzazione dei docenti può portare a scardinare quell’egualitarismo non valutato che piace al mondo sindacale nazionale. Tutto questo si sta ripetendo con la dirigenza scolastica con progetti di valutazione che non diventano mai sistematici e si fermano ad una sperimentazione che dura ormai da quasi quindici anni (“e punta all’eternità”, come cantava Arisa qualche anno fa).

Credo che anche in questo caso un’analisi attenta possa far comprendere come il problema sia più profondo di quanto sembra a prima vista e l’idea stessa che un dirigente possa anche essere leader (magari educativo) non piace molto al personale della scuola. La divaricazione netta tra quelli che sono gli obiettivi del sistema nazionale di istruzione (spesso piuttosto criptici, ma almeno come macro indirizzi abbastanza chiari) e quelli che sono gli obiettivi fortemente conservativi della classe insegnante producono leadership educative dirigenziali sempre tendenti verso quel quadro europeo che alla scuola italiana piace solo a parole. Il quadro europeo piace solo a parole perché poggia su alcuni elementi cardine che sono estranei al sistema dell’istruzione italiano (competenze digitali, spirito di iniziativa e imprenditorialità, competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; imparare a imparare) e su altri concetti che ostacolano il ripetersi dell’identico del sistema scolastico e culturale italiano (certificazione delle competenze, unità di apprendimento, curricolarità). Per non parlare poi dei Dsa e dei Bes, spesso vissuti come extraterrestri planati sull’egualitarismo piatto che tanto piace al corpo docente portato a ripetere e non ad innovare. Il dirigente scolastico che vuole tentare di esercitare una leadership educativa in realtà deve andare su queste “parole chiave europee” e attivarle su terreni molto invasivi di innovazione. Per questo la leadership dirigenziale deve essere innovativa e si scontra per sua stessa natura con il conservatorismo delle scuole.

Questo conservatorismo non è solo dei docenti, ma lo è anche delle scuole laddove per scuola si intenda un’organizzazione che racchiude in sé un rapporto molto stretto tra docenti, genitori, comuni, associazioni ed enti del territorio. Le scuole vedono ogni innovazione come una critica a quel passato di cui sono tenaci difensori e dunque se l’innovazione rimane un nome lontano viene vista come traguardo possibile, se invece la si trova di fronte viene ostacolata prefigurando resistenze delle altre categorie (i comuni dicono che non vogliono cambiare i docenti, i docenti dicono che i genitori vogliono contenuti e non competenze, ecc.). Tutto questo si ingigantisce nel secondo ciclo dell’istruzione dove un’assurda perdita di tempo e di soldi come l’esame di stato conclusivo viene da tutti a parole criticato, ma poi costituisce il punto di riferimento della stragrande maggioranza dei docenti e dei dirigenti. Non c’è nulla di più oscurantista, obsoleto e inutile di quell’esame di stato fatto in quel modo. Quell’esame è però l’argine migliore contro ogni idea di leadership.

 

BILL DE BLASIO E MARIO CUOMO E LE CHARTER SCHOOL

 

Il problema della difficoltà per la leadership ad essere riconosciuta e accettata come tale a scuola ha radici nella storia italiana e nella diffidenza dell’Italia per tutto ciò che non è autoreferenziale, al punto da non allarmarsi più di tanto per la posizione del sistema scolastico nazionale nell’area Ocse e per i risultati dell’Invalsi che mostrano un’Italia divisa, in nome dell’unità del sistema. Il conservatorismo italiano è così forte che si arriva a negare autorevolezza all’Ocse e all’Invalsi pur di difendere una situazione che nel suo complesso è catastrofica, ma in cui nessuno vuole essere chiamato a rispondere di quella catastrofe.

Interessante è dunque vedere in che modo il concetto di leadership è evoluto altrove. Ritengo che il fenomeno, circoscritto ma molto significativo, delle Charter School possa aiutare a capire la profondità del problema. Ho avuto modo di conoscere l’esistenza delle Charter School attraverso Norberto Bottani. Ritengo che non siano un esempio generalizzabile perché legate strettamente al concetto di leadership. Senza leadership non si può fare una Charter School, ma non si possono fare i concorsi ordinari o le graduatorie a pettine di leadership. Ho dunque potuto analizzare il fenomeno da distanza attraverso la lettura delle rendicontazioni pubbliche di alcune di esse. Le Charter School si allontanano dall’idea stessa di sistema nazionale d’istruzione, perché costituiscono una sorta di scuola a progetto. La Charter School nasce su un progetto che riceve finanziamenti, obiettivi e tempi di attuazione: se fallisce viene chiusa, sennò può continuare. In questo caso il Principal della Charter School non sottostà a Contratti collettivi di lavoro, a Programmi nazionali, a imposizioni esterne: gestisce contratti, compensi, assunzioni, licenziamenti, gestione, curricoli scolastici, ecc. in forma totalmente autonoma rispondendo ai suoi finanziatori.

Due esempi di Charter School di qualche tempo fa mi hanno molto incuriosito: entrambe dell’area newyorkese periferica (una nel Bronx e una nel Queens), entrambe hanno raggiunto gli obiettivi quinquennali, entrambe hanno radicalmente cambiato mission nel prosieguo dell’attività scolastica. La prima era una scuola elementare che aveva come obiettivo l’alfabetizzazione degli afroamericani adulti. Questo comportava che i genitori che portavano i bambini a scuola dovevano sottoporsi e test ed eventualmente ad un programma di alfabetizzazione obbligatorio. La scuola al mattino lavorava con i bambini, la sera con  gli adulti, ma l’obiettivo per cui era finanziata era l’alfabetizzazione degli adulti. Terminato il quinquennio e raggiunto l’obiettivo la scuola ha cambiato obiettivi ed ha puntato sul miglioramento della preparazione dei sui alunni sia in termini assoluti (standard nazionali) sia in termini di benchmark, valore aggiunto. Nel quartiere di riferimento l’analfabetismo era praticamente scomparso. La seconda scuola invece aveva come obiettivo il plurilinguismo inglese-ispanico dei propri studenti (una sorta di istituto comprensivo), vista la fortissima presenza portoricana nel quartiere. Dopo i cinque anni e il raggiungimento dell’obiettivo il target si è spostato verso la produzione di studenti bilingui in grado di andare al college e laurearsi sia in lingua inglese sia in lingua spagnola.

Entrambe le esperienze indicano una forte carica progettuale del Principal, un progetto ben strutturato e facilmente valutabile, obiettivi da raggiungere chiari e la necessità di curricoli legati agli obiettivi da raggiungere. I due Principal hanno dovuto creare staff amministrativi, team di valutazione d’istituto, team docenti esperti per presidiare didattica e curricoli anche con azioni di tutoraggio e di supporto ai docenti più giovani e inesperti. Questo ha richiesto una leadership riconosciuta non solo da parte di coloro che il Principal aveva assunto, ma anche da parte dei genitori che hanno affidato i loro figli non a una generica scuola, ma proprio ad un progetto.

E’ di questi giorni un interessante sconto newyorkese tra il Sindaco Bill De Blasio e il Governatore dello Stato Mario Cuomo. Il primo sostiene un progetto per estendere la scuola statale ai bambini di 4 e 5 anni, anticipando l’ingresso alle elementari comunali. Il secondo invece  cerca di generalizzare il più possibile nello Stato le Charter School. Lo scontro è tutto dentro il Partito Democratico e indica le linee di tendenza pedagogiche in atto: in discussione non è il capitale pubblico per la scuola (sia il Comune sia lo Stato sono i finanziatori delle scuole in discussione), ma la loro gestione. Statale e sindacalizzata quella che vuole De Blasio, del tutti privatistica quella che vuole Cuomo. In questo momento sembra che l’opinione pubblica sia più favorevole al modello proposto da Cuomo. Riferisce Massimo Gaggi (Corriere della sera del 7 maggio 2014): “De Blasio incassa la sconfitta immediata convinto che nel lungo periodo la spunterà lui: le eccessive sperequazioni nella distribuzione del reddito potranno essere corrette solo con più istruzione nelle famiglie povere e più tasse sui ricchi. Ma a New York un Fisco troppo pesante comincia a soffocare l’economia, mentre è frequente sentire genitori, anche quelli che votano democratico, riflettere: “Se vuoi sentire un professore di una scuola pubblica ti dirà ‘certo, venga in  istituto e ne parliamo’. Se cerchi un docente di una charter ti risponderà: ‘chiami in qualunque momento’”. I sistemi scolastici di matrice anglosassone (America inclusa) hanno sempre garantito autonomia e rendicontazione. Pere questo le scuole stanno nel dibattito, ma sono anche istituzioni in cui il finanziamento pubblico e quello privato sono poli paritari sia del sistema statale sia di quello privato.

 

CHI HA PAURA DI DON MILANI

        La Scuola di Barbiana, Don Lorenzo Milani, La lettera a una professoressa sono diventati negli anni icone della scuola statale italiana. Credo però che un buon esercizio sarebbe chiamare le cose con il loro nome: se a don Milani lo Stato avesse dato dei soldi e lui con quei soldi avesse fatto Barbiana il concetto di Charter School sarebbe perfetto. Lui l’ha fatta con capitali vari, anche di derivazione statale, ma con un impianto antistatalista (altrimenti a che professoressa parlava?). Sia nella Scuola di Barbiana sia nelle Charter School i docenti non vengono presi dalle graduatorie permanenti. A Barbiana si lavorava per un obiettivo preciso: l’inclusione. Ma la leadership era forte e indiscutibile. La Scuola di Barbiana non era statale, non era paritaria, forse non era neppure pubblica. In quella scuola i Contratto collettivo nazionale di lavoro non valeva, la chiamata dei docenti era diretta, il curricolo era autoprodotto e tutto l’impianto stava nell’ambito privatistico-cattolico e non in quello pubblicistico-statale.

La Scuola di Barbiana mon  era una Charter School ante litteram. Ma era una scuola che aveva poco a che fare col sistema nazionale dell’istruzione e molto a che fare invece con la scuola come soggetto emancipante che permette di ottenere obiettivi se liberata da obblighi, compiti, mansioni rigide e insegnamenti obbligatori.

L’autonomia scolastica per essere tale deve potersi dare obiettivi misurabili e deve poterli misurare pubblicamente. Si conosce la poca propensione italiana a farsi valutare, ma un’autonomia senza valutazione è un’autonomia che non va lontano (e infatti non stiamo andando lontano). A questo punto però torna prepotente l’idea di leadership, come elemento caratterizzante di percorsi complessi. Come quelli intrapresi dalle Charter School, da un’anticipo a 4 anni per decisione comunale e non ministeriale, dalla scuola di don Milani a Barbiana.

La metafora della linea e della rete: percorsi di scrittura cooperativa on-line

La metafora della linea e della rete: percorsi di scrittura cooperativa on-line

 

Premessa

Il numero degli internauti ammonta a circa un terzo della popolazione mondiale. Il modo di utilizzare internet si è rapidamente evoluto negli anni e gli utenti sono passati  dal ruolo di semplici fruitori di contenuti a quello di lettori-autori.

Tra le innumerevoli sfide che la globalizzazione pone sul tavolo c’è anche quella di sviluppare nuove modalità di pensiero in grado di interagire criticamente e cooperativamente con le molteplici possibilità offerte dalla Rete. Appare utile, quindi, indagare le competenze che la miscela “cooperazione-applicazioni web” è in grado di mobilitare per la costruzione di testi e documenti anche e, soprattutto, per dedurne le possibili ricadute o impieghi nella scuola.

 

La nostra proposta.

Alla luce di tale premessa e considerando le esperienze condotte in ambiente virtuale, è nostro intento avviare un percorso di ricerca per verificare come l’utilizzo consapevole degli strumenti offerti dalla rete possa contribuire a sviluppare buone pratiche professionali e didattiche. L’ambiente di abbrivio è una web community di FacebooK:  una scelta non casuale, finalizzata – in prima battuta – ad esplorare la fattibilità di un lavoro cooperativo all’interno di un social e – in prospettiva – a guidare gli studenti verso un utilizzo consapevole degli ambienti virtuali anche ai fini dell’apprendimento.

La nostra proposta di ricerca partecipata[1] si concretizza nella sperimentazione di un protocollo per la scrittura cooperativa nel web (Vademecum per la scrittura cooperativa on line), avvalendosi delle nuove tecnologie e, in particolare, dell’applicazione Drive di Google.  L’obiettivo finale è verificare la possibilità di importare la prassi della scrittura cooperativa on line nelle “normali” attività didattiche affinché la produzione scritta, realizzata in modalità cooperativa, possa riconfigurare gli ambienti di apprendimento e contribuire allo sviluppo dello spirito di condivisione.

Al fine di dare piena cittadinanza alla nostra proposta, di seguito presentiamo:

– La scrittura cooperativa in ambienti diversi;

– L’applicazione Google Drive: istruzioni per l’uso;

– Vademecum scrittura cooperativa on line;

– Esempi operativi (intervista, articolo barbiana, articolo bes, questionario);

– Scheda progettuale di massima.

 

La scrittura cooperativa in ambienti diversi.

All’interno del Gruppo Fb “chiamalascuola”, da parte di alcuni internauti affezionati alla sperimentazione cooperativa, novelli amanuensi telematici, è nato un laboratorio di scrittura collaborativa con l’utilizzo dell’applicazione Google Drive[2]. Gradualmente, ci siamo resi conto delle enormi potenzialità che possono emergere assemblando la tecnica della scrittura cooperativa, la frequentazione di social network e l’utilizzo di semplici applicazioni free. Siamo convinti, infatti, che tale “assemblaggio” possa sfociare  in un particolare percorso operativo che parta e si sviluppi in rete, percorrendo  strade che vanno oltre lo scrivere “tradizionale” anche al fine di favorire l’incontro tra ambienti virtuali, contesti reali e differenti tipologie di autori.

Senza avere la presunzione di inquadrare la nostra visione della scrittura cooperativa on line in un rigido contenitore metodologico, proviamo ad inquadrare il discorso in un percorso operativo condiviso, ancora in gran parte inesplorato.

Sulla scia dell’auspicio testé enunciato, siamo orientati a recuperare alcuni aspetti della straordinaria intuizione di don Milani rispetto alla scrittura collettiva (a tal fine vedi articolo “l’Eredità di Barbiana”[3]) e  la possibilità offerta dagli strumenti e dagli ambienti presenti in rete per co-creare conoscenza. In questo modo e allo stesso tempo, a nostro avviso, la rete può diventare luogo di produzione e fruizione che richiama maggiormente l’interesse dei giovani perchè utilizza strumenti più vicini al loro mondo, presenta una maggiore fluidità delle informazioni, consente di trattare lo stesso tipo di informazione in modi differenti e l’aumento delle interconnessioni può essere di stimolo a discriminare in maniera più consapevole l’enorme mole di dati che la stessa rete ci rimanda senza filtri e controlli.

 

L’APPLICAZIONE GOOGLE DRIVE: indicazioni per l’uso.

 

Tabella n. 1: Google Drive.

INSTALLAZIONE

DI GOOGLE DRIVE

1. Vai ahttp://drive.google.com

2. Fai clic su Collega Drive al tuo desktop sotto l’elenco delle visualizzazioni di Drive nel lato sinistro dello schermo.

3. Fai clic su Scarica Google Drive per il tuo PC.

4. Apri googledrivesync.exe per installare e avviare automaticamente Google Drive sul tuo PC (potresti visualizzare un avviso che ti segnala che Google Drive è un’applicazione scaricata da Internet. Fai clic sul pulsante Apri).

5. Inserisci il nome utente del tuo account Google e la password nella finestra che viene visualizzata. In questo modo l’account viene associato a Google Drive per il tuo PC.

6. Completa le istruzioni del pacchetto di installazione.

7. Avvia Google Drive per il PC dal menù Start. Trascina file e cartelle nella tua cartella Google Drive per iniziare la sincronizzazione degli elementi in I miei file (parte di Google Drive sul Web).

CREARE UN FILE

 

Clikkando su “crea”, si apre una tendina con le varie opzioni, tra le quali scegliere quella funzionale al lavoro che si intende realizzare.
CONDIVIDERE UN FILE

 

1.  Vai sudrive.google.com.

2.  Seleziona la casella accanto al file o alla cartella da condividere.

3.  Fai clic sull’icona Condividi .

4. Scegli un’opzione di visibilità: “Privato”, “Chiunque abbia il link” o  “Pubblico sul Web”.

5. Digita gli indirizzi email delle persone con cui desideri condividere nella casella di testo sotto “Aggiungi persone”. Puoi aggiungere una singola persona o una mailing list. Accanto a ciascun collaboratore, scegli dal menù a discesa il livello di accesso: “Può visualizzare”, “Può commentare” o “Può modificare”. Fai clic su Condividi e salva.

Se condividi con una mailing list, attiva la funzione notifica via email, i partecipanti accederanno cliccano sul link pervenuto tramite notifica.

INVIARE IL LINK

DEL FILE

1.   Se hai impostato un file o una cartella su “Chiunque abbia il link” o “Pubblico”, puoi inviare il link a un’altra persona, che sarà in grado di accedervi.

2.   Vai sudrive.google.com.

3.   Seleziona la casella accanto al file o alla cartella da condividere.

4.   Fai clic sull’icona Condividi .

5.   Copia il link indicato in alto nelle impostazioni di condivisione.

6.   Invia il link a un’altra persona o mailing list in un’email o una chat.

 

 

Vademecum scrittura cooperativa on line

La scrittura cooperativa on line consente l’elaborazione di testi e documenti da parte di più estensori-autori, utilizzando ambienti virtuali e applicazioni gratuite. E’ un modello di lavoro, nato in un contenitore delocalizzato e fluido (web community di docenti e dirigenti), che consente di passare dalla scrittura alfabetica a quella digitale abbattendo i confini spazio-temporali ed ampliando le potenzialità con le possibili e molteplici collaborazioni.

Naturalmente, cambiando l’ambiente  di riferimento, si possono  immaginare sviluppi applicativi in contesti reali e con differenti co-autori e si può passare dalla scrittura professionale ad applicazioni didattiche che maggiormente richiamano l’attenzione, la motivazione e la partecipazione degli alunni.

Nella scrittura cooperativa on line, soprattutto per quanto concerne le possibili applicazioni in campo didattico, occorre necessariamente far riferimento:

– ad alcuni principi teorici che si collegano ad una visione costruttivista della conoscenza, al concetto di intelligenza collettiva e alla metodologia della didattica laboratoriale e narrativa;

– a specifici orientamenti metodologici che presuppongono, anche in ambito virtuale, l’utilizzo del brainstorming, della problematizzazione e del focus group.

 

Presupposti

 

Prima di avviare una stesura testuale in modalità cooperativa on-line:

1 – i partecipanti devono sentirsi liberi di esprimere i propri pensieri. E’ importante la presenza di un buon clima e il reciproco rispetto per favorire, compartecipando, il raggiungimento dell’obiettivo. I partecipanti possono non conoscersi de visu e, paradossalmente, la presenza di “legami deboli” – tipici della frequentazione dei social network o delle web community – abbassa la soglia di “vigilanza” o di conflitti latenti.

2 – occorre condividere un modus operandi che tenga conto dei diversi punti di vista. A tal proposito, può essere utile la teoria dei “sei cappelli per pensare” di Edward De Bono[4]. L’esercizio dell’alternanza dei punti di vista che corrispondono, grosso modo, a sei modi di pensare (ottimista, emotivo, critico, creativo, indagatore, metacognitivo) scarica potenziali conflitti, mette in ordine gli interventi e coordina gli approcci e le scelte, proiettando sulla strategia – i sei cappelli – la responsabilità di prendere decisioni.

3 – vanno comunicati, fin da subito, i ruoli dei partecipanti e l’utilizzo che si prevede si possa fare del risultato finale (pubblicazione, condivisione, uso personale, dimenticatoio, ecc.).

4 – l’obiettivo operativo non è produrre un testo (questionario, manuale, articolo, ecc.) che sia la somma del maggior numero di partecipanti, bensì un elaborato che sia la sintesi, un condensato del lavoro cooperativo. I punti di vista e i contributi dei singoli devono amalgamarsi  in un “prodotto” unico. E’ la condicio sine qua non per la buona riuscita del lavoro. Solo se  le valenze individuali di ciascun operatore saranno sfociate nella dimensione cooperativa potrà dirsi raggiunto il fine preposto.

5 – il “prodotto” sarà di tutti coloro che avranno a vario titolo contribuito e che si riconosceranno nei contenuti e nei valori espressi.

6 – In tutte le fasi, i partecipanti – anche coloro che si saranno inseriti a testo avviato – potranno entrare nell’ambiente di lavoro, comunicare tramite la chat, fare commenti ed osservazioni, proporre variazioni, aggiungere il proprio nome agli autori.

 

Fase preparatoria

Tema

L’individuazione di un tema di interesse comune e la condivisione di riflessioni ed opinioni sono il punto di partenza. In questo caso, non vi sono ruoli a cui attenersi ma ciascuno, nella genuina e personale convinzione, sa cosa scegliere e perché. Va da sé che il proponente o i proponenti costituiranno, fin da subito, il nucleo di coordinamento.

Istruttoria

Il reperimento di informazioni (link, documenti, video) e la verifica dell’accuratezza dei dati riportati e della loro attendibilità è ciò che si deve, fin da subito, mettere in cantiere per fornire le conoscenze minime necessarie a chiunque voglia dare un contributo (azione a cura del nucleo di coordinamento).

Discussioni

Se si fa parte di un gruppo Facebook che si interessa dei temi oggetto del lavoro cooperativo, può essere utile avviare una discussione con un post sulla tematica individuata. I commenti e i feedback possono fornire una base di partenza anche per pubblicizzare e invitare alla partecipazione. Si possono proporre discussioni (eventi a tema) con esperti (vedi eventi di chiamalascuola) e reperire ulteriori materiali.

Creazione della pagina di lavoro

Al termine della fase preliminare – più sarà ricca di spunti e maggiori saranno le possibilità di scelta durante la stesura del testo – si crea una pagina di lavoro su Google Drive (vedi istruzioni per creare una pagina su Drive).

Per evitare sovrapposizioni o perdite di materiale si può predisporre una tabella a due colonne. Nella colonna di sinistra verrà indicata una scaletta di massima degli argomenti che si intendono trattare, mentre in quella di destra i partecipanti apporranno le relative argomentazioni che, successivamente, verranno sottoposte ad opportuna  selezione e rielaborazione.

 

Tabella n. 2: esempio di pagina di lavoro su Google Drive per l’intervista all’ex allievo di Barbiana

Nuclei tematici di approfondimento Spazio per i commenti dei partecipanti
L’arrivo a Barbiana  
L’organizzazione della giornata  
La didattica di Don Milani  

 

 

Fasi della scrittura cooperativa on line

 

Prima fase (fase dell’abbondanza).

All’inizio è importante che ci sia accettazione ed elasticità, da parte dei partecipanti, nei confronti di tutto ciò che viene inserito. E’ la parte del “pensiero libero”, del brain storming e del focus group di avvio. Tale fase ha in media un periodo abbastanza breve, orientativamente da qualche giorno a una settimana, e serve a mettere “sul tavolo” tutto ciò che si ritiene sia utile a raggiungere l’obiettivo prefissato per far sì che coloro che cooperano, prendano confidenza con le modalità, i tempi e  le idee dei partecipanti.

Va precisato che il “mezzo” tecnologico per la  scrittura on line ha caratteristiche che richiedono adattamento e strategie cooperative ancora poco sperimentate e, pertanto, non appare improduttivo definire:

1) l’organizzazione di un nucleo di coordinamento (come già segnalato) prevedendo da uno a tre componenti, tra i quali, preferibilmente,  un esperto/conoscitore delle tecniche di lavoro cooperativo (in alternativa, si impara strada facendo);

2) i  ruoli dei partecipanti con specifici compiti: creazione file su Google Drive (o su applicazioni simili), controllo del clima di lavoro, aiuto in caso di difficoltà tecniche (come utilizzare la chat per comunicare tra chi sta scrivendo; come inserire tabelle; link; ecc.), inserimento libero di frasi, citazioni, frasi celebri, ecc.

 

Seconda fase (fase delle scelte).

Dopo la fase “dell’abbondanza” è necessario procedere con le prime scelte. Occorre, pertanto,  cominciare ad individuare una linea guida, anche grazie al focus group, per  rivedere i contenuti segnalati e proposti, per riformulare, investire, potenziare ed arricchire  ciò che, man mano, pare prendere una forma più definita. In questa fase è messa alla prova la capacità di decision making; pur avendo, potenzialmente, dei  margini di cambiamento per raggiungere l’obiettivo prefissato, le scelte limiteranno i margini di lavoro e metteranno alla prova la tenuta del lavoro cooperativo. Operativamente, appare utile evidenziare le parti rilevanti – segnalate dai partecipanti stessi – ed inserirle in una terza colonna a destra.

Ruoli: qui entrano in campo i selezionatori e i sintetizzatori, non più di due o tre.

Coloro che assumono il ruolo di selezionatori e sintetizzatori hanno un compito molto delicato poiché possono nascere conflitti o piccole rivendicazioni nel momento in cui cominciano ad operare una prime selezione dei contenuti. Per ovviare a ciò, si possono suddividere i vari contributi invitando a spuntare quelli che si ritengono maggiormente efficaci (la non conoscenza dell’autore dei singoli contributi facilita il compito). Le argomentazioni che acquisiranno maggiori spunte – anche tramite la lettura di esterni che possono fungere da “valutatori” – avranno titolo ad essere tenuti in considerazione.

Se specificato al’inizio, questo ruolo può essere assunto anche dal nucleo di coordinamento che provvederà, al termine della fase, alla creazione di uno spazio apposito, con un nuovo file su Google Drive.

Tempi: due-tre giorni.

 

Tabella n. 3: esempio di pagina di lavoro su Google Drive per la stesura dell’articolo “Formarsi sui BES”

Nuclei tematici di approfondimento Commenti dei partecipanti Selezione commenti rilevanti
Aspetti positivi e aspetti negativi Su questo fronte direi che, dopo un anno, le circolari/note/direttive, che io ritengo un incidente, sono state trasformate in un’occasione da parte di tutti coloro che non si sono inchinati, ma hanno cominciato a confrontarsi e a cercare di capire.

Si sono sviluppate tante comunità web e questo è un bene.

Ma ora è necessario ascoltare Howard Gardner

Sono stati evidenziati aspetti positivi, ma anche criticità.

Se è vero, infatti, che i provvedimenti che si sono susseguiti a vari livelli (Miur, UU.SS.RR.) hanno costituito occasione di confronto e di sviluppo di comunità web, favorendo lo scambio di opinioni, è anche vero che occorre ora giungere ad una sintesi; altrimenti, si legge, il rischio è di essere “travolti dalla mole delle informazioni” senza essere in grado di “compiere scelte sensate”.

I bisogni delle scuole: formazione e autoformazione Comprendere come riconoscere un funzionamento problematico distinguendo un bisogno normale da uno speciale.

Capire come intervenire e saper rispondere al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli studenti.

Formarsi sulla didattica inclusiva

 

 

 

Terza fase (fase della selezione e del trasbordo).

Lettura e rilettura consentono di riflettere sul testo e sulla prima selezione. Qui è necessario elaborare una prima bozza che va posizionata in un nuovo file (sempre su Google Drive o applicazioni simili). In questa fase, il lavoro non ha un tempo ben definito e può prolungarsi con revisioni, rivisitazioni e reimpostazioni parziali, dove ogni parola è sottoposta ad attenta scansione. Nel rispetto dell’impianto complessivo, si ricerca la stesura più efficace del testo.

Tempi: indefiniti.

Ruoli: aggiustatori, “limatori”, correttori del testo, rilettori, esperti di regole sintattiche e grammaticali. Tali ruoli possono essere assegnati in corso d’opera.

 

Quarta fase (fase della messa a punto).

La messa a punto del testo definitivo con “lettori”  non  partecipanti alla fase di stesura rappresenta un momento importantissimo in quanto consente di “testare” il prodotto e raccogliere le riflessioni/impressioni esterne prima della “blindatura” finale. Se si è inseriti in un gruppo fb, generalmente, si pubblica un post che è buona norma offrire a lettori esterni perché se ne testi l’efficacia e l’impatto “a caldo”. In caso di suggerimenti o pareri discordanti, può essere utile ripartire dalla terza fase. Sarebbe comunque buona cosa non aspettarsi l’apprezzamento universale ed accontentarsi di un buon margine di pareri positivi. Qui è rimessa alla prova la capacità di decision making soprattutto se si tratta di operare ulteriori scelte derivanti dalle osservazioni dei lettori non partecipanti.

Tempi: uno o due giorni.

Ruoli: lettori esterni.

 

Quinta fase (fase della disseminazione).

La fase conclusiva del percorso di scrittura cooperativa on line consiste nella pubblicazione e/o disseminazione del testo definitivo in formato non modificabile; a partire dall’ambiente di diffusione prescelto, si può sottoporre il contenuto realizzato ad un nuovo processo di analisi, attraverso la collaborazione dei lettori non partecipanti, per procedere ad un ulteriore raccolta dei commenti e all’avvio di una riflessione collettiva anche, eventualmente, per procedere alla compilazione di un report informativo/valutativo sull’esperienza proposta a cura dei coordinatori o per avviare una nuova attività di scrittura cooperativa.

 

Esempi operativi

 

1. L’articolo “Formarsi sui BES”

Alcuni post nel gruppo chiamalascuola hanno sollecitato, in più momenti, la necessità di mettere in luce la formazione dei docenti a proposito dei bisogni educativi speciali (scelta del tema). A tal proposito, abbiamo proposto un questionario (creato e compilato on-line, sempre utilizzando le applicazioni di Google Drive) che è stato esposto dal 20 novembre 2013 al 5 gennaio 2014[5]. Successivamente, i risultati del questionario hanno prestato il destro per approfondimenti e discussioni, corroborati dal reperimento di documenti e link (fase istruttoria e discussione). Quindi si è proceduto alla creazione di un file dedicato alla scrittura cooperativa (creazione della pagina di lavoro).

2. Il questionario sulla valutazione degli apprendimenti

Anche dalla lettura di un articolo può nascere l’input per un lavoro cooperativo on line. I contenuti espressi nel pregevole testo di Maurizio Muraglia, giornalista siciliano, hanno innescato una serie di discussioni nella web community di chiamalascuola sul tema della valutazione degli apprendimenti vista “dalla parte degli studenti”. (scelta del tema). Attraverso la lettura di forum specialistici e il reperimento degli esiti di una ricerca realizzata dall’Università di Perugia (istruttoria) si sono sviluppate discussioni nella pagina facebook di chiamalascuola (discussione). La stesura del testo cooperativo, che ha visto anche un significativo contributo di Giorgio Allulli, è stata ovviamente preceduta dalla creazione di un file su Google Drive (creazione della pagina di lavoro)

3. L’intervista ad un ex allievo della scuola di Barbiana

Avendo percepito  l’interesse dei membri della community web chiamalascuola nei confronti del dibattito intorno alla didattica inclusiva,  il Nucleo di coordinamento  si è dato come finalità quella di alimentare la discussione mediante  un’intervista sulla scuola di Barbiana (scelta del tema). La fase preparatoria ha previsto la ricerca di link e materiale specifico, nel tentativo di recuperare una narrazione dell’esperienza di Barbiana dalla viva voce di persone direttamente coinvolte nei suoi processi (istruttoria). Edoardo Martinelli, ex allievo della scuola di Barbiana, è stato invitato nel gruppo ed intervistato.

Nell’agorà virtuale (gruppo di docenti e dirigenti su Facebook), la formulazione dell’intervista è stata preceduta da sollecitazioni e post sul tema (discussione). Successivamente, il  nucleo di coordinamento si è occupato di creare il foglio di lavoro e di predisporre la  tabella a due colonne per la formulazione dell’intervista (creazione della pagina di lavoro).

4. L’articolo “L’eredità di Barbiana”.

Sulla scia dei commenti registrati a seguito dell’intervista ad Edoardo Martinelli in chiamalascuola, un gruppo di utenti ha deciso di approfondire alcuni input emersi e, pertanto, è stato organizzato in ambiente virtuale un nuovo foglio di lavoro (creazione della pagina di lavoro) per avviare la scrittura cooperativa di un articolo sulla scuola di Barbiana che avesse un taglio più specialistico. La scelta del tema da parte del nucleo di coordinamento ha orientato il gruppo di lavoro a ricercare materiali ed approfondimenti che potessero restituire il senso dell’esperienza di Don Milani con lo scopo di attualizzare alcune sue intuizioni.

Il lavoro di approfondimento e ricerca (istruttoria) è stato condotto in maniera capillare e, nel corso dello stesso, sono stati pubblicati vari post per mettere al corrente tutto il gruppo del lavoro che si stava organizzando e per accogliere ulteriori suggerimenti o estensori . Nella fase della discussione, invitando anche dei lettori esterni, si è operata una copiosa selezione dei contenuti proposti e, successivamente, si è giunti ad una prima stesura del testo dell’articolo che è stato poi inviato ad Edoardo Martinelli per una sua valutazione. Ottenuta l’approvazione di Martinelli ed operato solo piccole modifiche, l’articolo è stato pubblicato su “chiamalascuola”, su Educazione & Scuola e su PVM.

 

Scheda progettuale.

 

Tabella n. 4: Scheda Proposta progettuale.

 

Destinatari – Professionisti del mondo della scuola;

– gruppi di alunni.

Obiettivi 1.  Sperimentare protocolli per la scrittura cooperativa on line;

2. incentivare lo scambio e la collaborazione nelle comunità di pratiche “virtuali”;

3.  produrre materiale di vario genere (questionari, interviste, articoli,..);

4. sviluppare tecniche di stesura testuali in cui le valenze individuali di ciascun operatore sfocino in una dimensione cooperativa;

5. riconfigurare gli ambienti di apprendimento per sperimentare didattiche laboratoriali ad orientamento cooperativo.

Sviluppo progettuale A carico dei diversi destinatari con la consulenza, se richiesta, degli estensori della presente proposta.
Competenze attese 1. Acquisire la capacità di lavorare in contesti virtuali sviluppando lo spirito di squadra;

2. saper utilizzare gli strumenti digitali in ambiente Cloud (Google Drive).

Verifica e valutazione del lavoro cooperativo Indicatori:

– Partecipazione e interazione positiva;

– quantità e qualità dei contenuti;

– qualità, coerenza e forma espositiva della produzione finale;

– soddisfazione dei partecipanti;

– gradimento dei lettori.

Ricadute professionali L’acquisizione di competenze utili alla scrittura cooperativa arricchisce la professionalità del singolo e tale professionalità diventa una risorsa per la scuola che aspira a diventare un’organizzazione che apprende.
Ricadute didattiche –  Applicazione del lavoro cooperativo on-line in contesti di classe (gruppi di alunni eterogenei per potenzialità e motivazione; compensazione, peer tutoring, inclusione);

– applicazione della proposta in contesti extra classe (gruppi di alunni omogenei per potenzialità e motivazione provenienti da classi diverse, quindi con background ed esperienze differenti);

– sviluppo di competenze relazionali e sociali attraverso un utilizzo significativo dei Social e delle applicazioni per la scrittura cooperativa.

Valutazione degli input progettuali – Analisi delle modalità cooperative attivate per la produzione di scritture professionali e non;

–  analisi dei punti di forza e debolezza della sperimentazione del protocollo operativo (“Vademecum per la scrittura collaborativa on line”);

–   analisi delle interazioni nei differenti ambienti di lavoro;

–   stesura report valutazione finale.

 

Stesura cooperativa a cura di Valeria Brunetti, Antonietta Damiano, Giovanna D’Onghia, Marco Renzi, Alessandra Silvestri. Lettori esterni: Sabrina Bianchi,  Giorgio Ragusa, Patrizia Sciarma e docenti esterni “non identificati”.



[1] Il nostro percorso di ricerca è alimentato dalla produzione di testi di vario genere: due articoli di cui uno a carattere divulgativo (“Formarsi sui BES) e l’altro specialistico (“L’eredità di Barbiana”), un’intervista ad Edoardo Martinelli (ex allievo della scuola di Barbiana) e un questionario sulla valutazione degli apprendimenti.

[2] Google Drive è un servizio Cloud offerto da Google. Attraverso questa applicazione free è possibile gestire documenti di vario genere,  effettuando  molteplici operazioni tramite  risorse disponibili su server remoti.

[4] Edward De Bono, Sei cappelli per pensare, Rizzoli 2011.

Alunni con cittadinanza non italiana 2012-2013

Alunni con cittadinanza non italiana

Alla maturità il 7,4% prende più di 90 ai licei, boom di ragazze iscritte alle superiori

Sempre più numerosi, ma anche più bravi a scuola. La fotografia scattata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in collaborazione con la Fondazione Ismu (l’Istituto per lo Studio della Multietnicità), offre alcune conferme, ma anche nuovi spunti, sugli “Alunni con cittadinanza non italiana”. L’indagine si riferisce a quelli che hanno frequentato l’anno scolastico 2012/2013.

I numeri
Dall’analisi statistica emerge che gli alunni con cittadinanza non italiana continuano a crescere di numero e anche di percentuale: sono 786.630, l’8,8% sul totale degli iscritti nelle scuole italiane. Nell’anno scolastico precedente erano l’8,4%. Il grande boom di presenze comunque sembra essersi arrestato: l’aumento medio annuo è stato di 60/70mila unità dal 2002/2003 al 2007/2008 mentre si è mostrato più ridotto e instabile negli anni successivi. Sono sempre di più, comunque, gli alunni di seconda generazione: il 47,2% degli studenti stranieri sono nati in Italia. Percentuale che sale all’80% nelle scuole dell’infanzia e al 60% nella primaria. Gli alunni con cittadinanza non italiana sono presenti soprattutto nelle regioni del Nord e del Centro, concentrati in particolare nelle province di media e piccola dimensione. Quanto alla nazionalità è confermato il primato, ormai pluriennale, degli alunni rumeni (sono 148.602), seguiti dagli albanesi (104.710) e dai marocchini (98.106). E, se si guarda al genere, le femmine sono quasi pari alle compagne di origine italiana. Nelle scuole superiori le studentesse di origine immigrata addirittura superano per incidenza quelle italiane. In particolare nel Nord est sono il 50,4% contro il 49,1%.

I risultati scolastici
Ma è soprattutto nei risultati scolastici che gli alunni con cittadinanza non italiana guadagnano terreno. E questo pur rimanendo, secondo il rapporto del Miur, in livelli di “ritardo scolastico ancora significativi”. L’integrazione sta diventando una realtà, e la scuola ne è contemporaneamente la cartina di tornasole e il motore. Il ritardo quasi si annulla per gli studenti con diversa cittadinanza che però sono nati nel nostro Paese: le loro performance si avvicinano a quelle degli italiani (in particolare nelle prove di lingua straniera) e sono nettamente migliori di quelle dei loro compagni nati all’estero. In alcune regioni del Sud le differenze tra gli italiani e gli studenti di seconda generazione tendono addirittura ad invertirsi: in Campania gli stranieri nati in Italia fin dalla scuola primaria hanno un rendimento migliore dei loro compagni di classe figli di italiani. Stanno diventando più bravi. E si presentano sempre più in anticipo sui banchi. Quasi cinque alunni su cento (il 4,8%) iniziano la scuola primaria a cinque anni, un dato in aumento e in linea con la tendenza all’anticipo di tutti gli studenti. E differenze eclatanti non ci sono anche nella distribuzione dei voti della maturità, più o meno omogenei in quasi tutti i tipi di indirizzo, ad eccezione dei licei dove il 7,4% degli alunni con cittadinanza non italiana esce con un voto superiore al 90/100, contro il 13,7% degli italiani. Sono in crescita anche gli stranieri che, dopo aver preso il diploma in Italia, scelgono di proseguire gli studi all’Università: nell’anno scolastico hanno toccato una punta del 3,1%. Sono, ed è un dato di solito poco conosciuto, la maggioranza degli immatricolati con cittadinanza non italiana presenti nelle facoltà italiane.

Formazione tecnica in pole position
La formazione tecnica e professionale è sempre in testa alle preferenze dei ragazzi con cittadinanza non italiana (scelta dall’80% degli alunni), mentre l’avvio al liceo o all’istruzione artistica interessa poco più di 2 su 10. Una scelta dettata prevalentemente da ragioni economiche: la necessità di un lasciapassare qualificato ma rapido per il mondo del lavoro. A Nord Est l’iscrizione agli istituti professionali raggiunge la punta massima del 42,1%. In Emilia Romagna il 46,5% degli alunni stranieri frequenta questo indirizzo. I licei sono la prima scelta per gli immigrati provenienti da Romania, Ucraina e Albania.

Alunni con disabilità
C’è anche una novità assoluta. Il Rapporto 2012/2013 per la prima volta si occupa di alunni stranieri con disabilità certificata (visiva, uditiva e psico-fisica). Negli ultimi cinque anni la loro presenza è praticamente raddoppiata: ora sono il 3,1% tra gli alunni con cittadinanza non italiana e il 10,8% tra gli alunni con disabilità. Un dato che rivela la capacità della scuola italiana di saper dare risposte e assistenza formativa a situazioni difficili.

La controriforma del Titolo quinto?

LA CONTRORIFORMA DEL TITOLO QUINTO?

di Gian Carlo Sacchi

Tra i provvedimenti ad alta velocità del governo Renzi c’è la revisione del titolo quinto della seconda parte della Costituzione, già avvenuta una prima volta nel 2001 e suggellata da un referendum popolare confermativo, ma condotta con estrema lentezza dai governi di tutte le maggioranze politiche che praticamente può dirsi in gran parte inattuata. Una tale situazione di incertezza ha permesso alle burocrazie ministeriali di far finta di nulla, con evidenti proteste delle Regioni, viceversa ad alcune regioni di permettersi fughe in avanti con altrettante proteste statali. Questo da un lato ha intasato di ricorsi la Corte Costituzionale e dall’altro ogni tentativo della Conferenza delle Regioni veniva stoppato dal centralismo burocratico, con la politica che sui problemi della governance ha sempre manifestato estrema debolezza.

E’ andata così un po’ in tutti i settori compreso quello scolastico, il quale non avendo ancora adempiuto al decentramento delle competenze previsto dal decreto Bassanini del 1998, aveva bisogno di una più ampia azione di revisione organizzativa del sistema, cosa che la suddetta Corte ha ricordato in più occasioni, a cui però non è mai stato dato seguito.

Uno per la verità intricato capitolo della nuova legge costituzionale prevedeva le “competenze concorrenti” tra Stato e Regioni , che in diverse parti ha voluto dire conflitti di attribuzione e sovrapposizioni di interventi, mentre nella scuola si è limitata ad un puro esercizio giuridico anche per la carenza di legislazione regionale che non ha occupato, tranne in pochi casi, quello spazio prioritario che il nuovo assetto costituzionale consentiva. Ma prima del passaggio incriminato venivano altri obblighi per lo Stato: le norme generali sull’istruzione (già previste nella Costituzione del 1948 e mai realizzate), cioè provvedimenti quadro, con standard e verifiche, per consentire poi alle regioni di “concorrere” con lo Stato alla realizzazione di obiettivi unitari a livello nazionale. Diversamente, nella manovra legislativa lo Stato ha occupato tutti gli spazi. C’erano poi i “livelli essenziali delle prestazioni” che sono stati visti tra il diritto allo studio e la valutazione del sistema. Che dire ancora dell’autonomia scolastica, che era fatta salva, ma ancora monca dalle predette normative decentralizzatrici mai effettivamente realizzate.

La bozza di riforma Renzi-Boschi abolisce tutto quanto era indicato sotto la voce delle competenze concorrenti e ridistribuisce in modo diverso le materie . Viene da chiedersi se è davvero meglio rispetto a prima, pur dovendo ragionare su qualcosa di scritto e mai compiutamente realizzato e con qualcosa di nuovo e di vecchio diversamente organizzati che rimane sempre a livello di provvedimento generale-costituzionale, ancora tutto da capire nella pratica. E qui occorre confidare nella velocità del nostro premier e nella volontà politica di arrivare finalmente in fondo alla strada.

Potrebbe sembra un po’ bizantino ma la prima novità compare quando si indica che lo Stato ha legislazione esclusiva sulle seguenti materie e funzioni, mantenendo il compito delle nome generali  sull’istruzione, ma introducendo l’ordinamento scolastico tra le competenze esclusive. Qui c’è da porre una prima domanda: il collegamento delle funzioni con l’ordinamento scolastico nelle mani dello Stato potrà consentire, come è stato per la riforma Gelmini, di praticare un riordino senza tenere conto che compito dello Stato stesso è quello delle norme generali sull’istruzione ? Norme generali poi significa solo obiettivi, valutazioni, e fino a che punto l’indicazione di una struttura scolastica unica per tutto il Paese e obbligatoria per tutti gli alunni ?

Ad un primo colpo d’occhio sembrava più aperta la formulazione del 2001; si rischia di tornare indietro quando il cambiamento avvenuto in questi anni, anche per effetto di una maggiore internazionalizzazione, è andato nella direzione dell’ampliamento delle opportunità e della flessibilità dei percorsi formativi, fino a mettere in discussione il valore legale dei titoli di studio; una visione sempre più integrata dell’education, che va dall’educazione dell’infanzia fino alla longlifelearning, dovendo relazionare sistemi di governo oggi molto diversi tra di loro e legati al territorio, cosa che l’inserimento dell’ordinamento nella Costituzione sembra volersene distaccare.

Le questioni locali, nel bene e nel male, legate soprattutto al rapporto nord-sud d’Italia, devono essere sintetizzate non tanto nell’ordinamento quanto nei “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP), che devono integrare anche per l’istruzione con quelli della sanità e dei servizi sociali. Su questo si potrebbe lavorare da subito, proprio perché ci sono già esperienze in detti  settori (1).

Per quanto riguarda le competenze delle regioni c’è un nuovo testo, dal quale emergono innanzitutto le competenze sulla pianificazione e l’organizzazione del servizio. Anche qui, come nel precedente, si fa salva l’autonomia scolastica. Nel 2001 tale affermazione veniva a suggellare “costituzionalmente” quanto introdotto nel 1997 con la predetta legge Bassanini e nel 1999 con il regolamento sull’autonomia funzionale delle unità scolastiche. Ora che anche questi sono rimasti in gran parte lettera morta, il ripeterne l’incipit sembra quasi una presa in giro, e proprio a questo proposito  che deve subentrare la volontà politica per arrivare al completamento dell’autonomia delle scuole vista più nell’ottica dell’autonomia dei sistemi di governo locale che del decentramento statale. Ed allora occorre tenere presente gli effetti sul sistema dell’education territoriale conseguenti all’abolizione delle province, alla costituzione delle unioni/fusioni dei comuni e della distribuzione delle deleghe che all’interno degli organi di governo devono  assicurare una coerente visione ed una efficace azione del sistema nel suo complesso.

Rimane un’altra affermazione sibillina che è tempo però di vedere chiarita e attuata con ciò che ne consegue in termini di assetti istituzionali e di innovazione pedagogico-didattica: la questione dell’istruzione e formazione professionale. Le ricerche sugli apprendimenti e sulla dispersione, il rapporto tra competenze generali e tecniche, gli stage e tirocini, l’assolvimento dell’obbligo di istruzione nell’apprendistato, ecc., mettono in evidenza la necessità di una politica che riunisca gli attuali segmenti: statali, regionali, aziendali, ecc., per realizzare un processo formativo ad hoc, in uno dei passaggi più delicati e decisivi per l’orientamento dei giovani in rapporto con la loro motivazione, i progetti di vita e di lavoro.

Dentro l’autonomia scolastica e la rappresentanza delle scuole autonome (statali e paritarie) e per un proficuo dialogo con il sistema delle autonomie locali occorre riprendere in mano la legge di riforma degli organi collegiali, nell’ottica delle predette norme generali e quindi valide sia per il sistema statale che per quello paritario. Non si tratta più soltanto della partecipazione, come previsto dai decreti del 1974, ma dell’autogoverno. In quest’ottica andrà affrontato il problema della valutazione delle scuole stesse e quello delle risorse finanziarie secondo una prospettiva “multilivello”. Una proposta di legge approvata alla Camera c’è già: si può ripartire di lì.

Il rapporto tra Stato, Regioni ed Enti Locali vive attualmente una sorta di confronto/scontro tra poteri che spesso, come si è detto, si intralciano ritardando o addirittura bloccando provvedimenti, non riuscendo a trovare le necessarie intese, cosa che in primis ha riguardato la stessa applicazione del vigente titolo quinto. Questa riforma propone l’attribuzione di dette funzioni alla neonata “assemblea delle autonomie”, che dovrebbe essere in grado di elaborare dal basso le norme e gli indirizzi creando così una maggiore coerenza e capacità risolutiva.

Un passaggio degno di nota è che la funzione legislativa di esclusiva competenza statale può essere delegata alle regioni o ad alcune di esse, con legge nazionale, anche per un tempo limitato.

Un’ultima considerazione, che pur non potendo essere prevista nella bozza di riforma costituzionale,  costituirà l’asse portante dell’organizzazione istituzionale e operativa, riguarda il rapporto tra decentramento e fisco.  I processi di autonomia territoriale vivono sulla connessione  con la base fiscale, che deve dare responsabilità politica a chi viene eletto localmente.

Si dovrebbe andare oltre la logica dei trasferimenti finanziari verso la periferia, ma regioni e i comuni devono esercitare poteri chiari e ben supportati da un prelievo obbligatorio, che insieme alla fiscalità generale contribuisce a finanziare il servizio; ciascuno per la propria parte pur nella gestione di poteri locali integrati.

In sostanza la riforma costituzionale ribadisce molto di ciò che già si sapeva, anche nei poteri da trasferirsi alla nuova Camera; un passo decisivo in avanti sarà fatto se si metterà mano alla governance: questa è la vera riforma che ancora dobbiamo attendere nel sistema dell’education, che forse non costa tanto e potrebbe far risparmiare, altrimenti la spending review anziché tagliare gli sprechi rischia di tagliare i servizi.

(1)   Gian Carlo Sacchi: Livelli essenziali delle prestazioni nel settore dell’istruzione; in Scienze dell’Amministrazione Scolastica,n.1/2013
Forum delle Politiche dell’Istruzione del Partito Democratico: Idee ricostruttive per la scuola 2010-2012

J. Richter, Io sono soltanto un cane

“Io sono soltanto un cane” di Jutta Richter

di Mario Coviello

richter1La casa editrice Beisler si presenta così : “Pubblichiamo i libri che vorremmo leggere se fossimo bambini o adolescenti. Pensiamo che i ragazzi e le ragazze siano una meravigliosa, unica, enorme risorsa. Conoscerli non è facile, educarli è difficile ma un buon libro di sicuro aiuta. L’importante è che dentro ci sia almeno una passione.”

Le scuole primarie in rete della provincia di Potenza di Bella, Rionero, Barile, San Fele e Muro Lucano per la  finale della settima edizione del Torneo di lettura  che si terrà nella palestra dell’istituto Comprensivo di Bella giovedì 20 marzo dalle 9,30, hanno scelto di questa casa editrice  “ Io sono soltanto un cane” di Jutta Richter

Ti sei mai chiesto come i cani potrebbero vedere il mondo? Adesso te lo spiegherà Anton, il cane pastore che viene da molto lontano. Friedbert, Emily e la loro bambina sono la sua nuova famiglia. E una famiglia vuol dire tanto per chi ha conosciuto le gigantesche steppe dell’Ungheria…

Anton è un cane felice, ma guai a credere che se ne stia a guardare! Lui pensa e parla e, soprattutto, è un attento osservatore degli esseri umani. Che strani che sono, medita fra sé, camminano su due zampe, hanno la lingua corta, il pensiero lento e credono che noi cani non sappiamo ridere! Nessuno sfugge allo sguardo attento di Anton. Eh già, perché i cani parlanti la sanno davvero lunga e dicono sempre la verità. E con un po’ di fortuna gli umani non capiranno mai da quale lato del guinzaglio passeggiano!

richter2Dalla penna della celebre autrice per ragazzi tedesca Jutta Richter, un racconto tenero e brioso che ha come protagonista – e come narratore in prima persona – un simpaticissimo, e un po’ incompreso, amico a quattro zampe.

Un punto di vista canino al cento per cento, che evidenzia pregi, difetti e assurdità di questa strana razza umana con la quale gli animali domestici devono fare i conti. E quanta fatica, nonostante gli sforzi di entrambi, per costruire una relazione positiva e, soprattutto, per comunicare senza fraintendimenti, anche quando la buona fede e l’ottima volontà da entrambe le parti è indiscussa!

La storia che ci viene raccontata trae spunto da una vicenda reale, e cioè dal salvataggio e conseguente adozione da parte di una famiglia tedesca – padre, madre e figlioletta – di Anton, cane pastore ungherese.

Per farsi carico di un animale ci vuole senza dubbio tanto amore e la disponibilità a fornire le cure e le attenzioni necessarie. E sicuramente i nuovi padroni di Anton non difettano in nessuno dei due aspetti, seppure l’uomo di casa appaia un po’ burbero e non comprenda appieno le intenzioni del cane e la signora tenda a prendersela un po’ troppo per qualche scarpa rosicchiata e una manciata di stoviglie andate in frantumi.

Ma non importa: ad allietare le giornate di Anton ci pensa Lili, la piccola di casa. La sintonia tra cane e bambina è immediata, la comunicazione tra i due – tutta affettiva e di gioco – è spontanea e proficua, la comprensione assoluta, anche senza l’uso delle parole.

L’amore della bimba fa sì che il nostro protagonista a quattro zampe non avverta troppo la mancanza della sua terra, l’Ungheria delle pianure steppose e sconfinate, delle mandrie di pecore racka e di manzi grigi, che tanto ricorre nelle pagine e nei ricordi del cane.
E che, come sottolinea alla fine di ogni capitolo, non possa lamentarsi della sua nuova vita.

Anton è un irresistibile miscuglio di istinto e tenerezza, di nostalgia per la sua terra – intesa come luogo di libertà, dove un cane può seguire i diktat biologici della sua specie senza le sovrastrutture dell’educazione necessaria per convivere con gli umani – e di desiderio di essere benvoluto dai nuovi padroni, di difficoltà a rinunciare alle sue propensioni naturali e di curiosità per un mondo nuovo e diverso, dove i codici sembrano essere capovolti rispetto a quelli noti.

Anton è sempre in buona fede, positivo, sempre animato dalle migliori intenzioni e le sue motivazioni, non c’è dubbio, non fanno una piega: lui risponde ai principi nobili che da secoli hanno guidato la sua specie e che l’hanno resa eroica nel compito assegnatole: difendere gli animali più deboli dai predatori.
Ma nella terra cittadina le regole cambiano e si fa fatica a comprenderle.
E così si combinano una serie di guai, che divertono e inteneriscono il lettore. Piccoli peccati che però comportano sempre un po’ di frustrazione e, insieme, la necessità che cane e padroni si mettano in discussione.

Qui risiede il bello del libro: pur se la storia è narrata da Anton, rappresenta, in un certo senso, il racconto della costruzione di una relazione tra diversi che si incontrano.
Assieme al cane cambiano un po’ anche tutti i componenti della famiglia, come accade sempre quando un nuovo membro entra in una comunità, umano o quattro-zampe che sia.

“Io sono soltanto un cane” – in Italia edito da Beisler – è una lettura divertente e lieve, che tanto profondamente e opportunamente parla dei nostri amici animali.

Generosi, disposti ad amarci, affettuosi, volenterosi, pasticcioni, a volte testardi…chi di noi ha un cane in casa non faticherà a ritrovarlo in Anton, e ancor più si affezionerà all’uno e all’altro.
Come anche faranno i bambini, solitamente più istintivi e vicini agli animali, che potranno immedesimarsi sia nel peloso protagonista e nelle sue buffe disavventure, sia nella piccola amica di Anton, la bimba speciale capace di ridere insieme al cane e a capire i suoi racconti, seppure non verbalizzati.

La penna di Jutta Richter è, come al solito, esemplare. Appropriata, delicata, poetica, una carezza in una prosa che ha anche la musicalità perfetta per la lettura ad alta voce.
Credo che con questo libro – rinunciando a contenuti più filosofici ed esistenziali e abbandonandosi alla leggerezza e al brio di una storia vivace – possa guadagnare un consenso più ampio, facendosi apprezzare anche da quei piccoli lettori meno abili e un po’ più scanzonati.

D’altra parte solo una grande autrice è in grado di passare così appropriatamente dall’animo umano a quello degli animali, sapendo scavare ottimamente in entrambi. E questo a Jutta va proprio riconosciuto.

Da segnalare che le pagine sono inframmezzate dalle belle illustrazioni in carboncino di Hildegard Muller, espressive ed efficaci nella loro essenzialità.

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Le scelte dei diplomati – Indagine 2013

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Rapporto AlmaDiploma

sulla condizione occupazionale e formativa dei diplomati di scuola secondaria superiore ad uno, tre e cinque anni dal diploma

Cosa avviene dopo il diploma? Il nuovo Rapporto 2014 sulla condizione occupazionale e formativa dei diplomati di scuola secondaria superiore, realizzato da AlmaDiploma e da AlmaLaurea, racconta le scelte compiute dai diplomati alla conclusione della scuola secondaria superiore in termini di performance negli studi accademici e di occupabilità nell’immediato e in un più lungo periodo.

“È importante conoscere il destino dei diplomati dopo il conseguimento del titolo di studio,  al di là delle loro intenzioni e desideri, perché incide sul miglioramento del sistema scolastico, sulle politiche all’istruzione e al lavoro, sull’orientamento”, dichiara Andrea Cammelli, professore di Statistica e direttore di AlmaLaurea, il Consorzio Interuniversitario che insieme all’associazione di scuole AlmaDiploma ha curato l’indagine a uno, tre e cinque anni dal conseguimento del titolo. “In questi anni il tema della valutazione dell’istruzione e quello dell’orientamento sono diventati sempre più centrali, perché riguardano la formazione e il destino dei nostri giovani che si accingono a diventare cittadinanza attiva della nazione di cui rappresentano il futuro prossimo.”

Scuole o caserme?

Scuole o caserme?

 di Maurizio Tiriticco

E’ senz’altro apprezzabile il fatto che il nuovo Presidente del Consiglio abbia posto la scuola e l’edilizia scolastica tra le priorità del governo del Paese. Ed è anche apprezzabile che abbia voluto coinvolgere l’architetto Renzo Piano come garante per la “qualità del rammendo” degli edifici scolastici. Ma… non sarebbe forse il caso di ripensare all’edilizia scolastica in funzione di un modo diverso di “fare scuola”? Si veda al proposito il mio “Appunti per un riordino complessivo del Sistema educativo di istruzione e di formazione”. In effetti, quando nel secondo Ottocento il governo italiano postunitario si preoccupò di costruire una “coscienza patria” in milioni di sudditi – o di “regnicoli”, sic! – che fino alla proclamazione del Regno avevano appartenuto a Stati diversi, investì soprattutto in due direzioni: la scuola e l’esercito. Con la legge Casati dal 1861 fu generalizzata la scuola elementare e i primi due anni furono dichiarati obbligatori e gratuiti; e dal 1862 venne dichiarato obbligatorio anche il servizio di leva.

Si rese quindi necessaria una massiccia costruzione di scuole e caserme e gli architetti che le progettarono non persero molto tempo ad inventiva. Caserme e scuole erano più o meno simili: lunghi e larghi corridoi lungo i quali si affacciavano aule o camerate. La bacchetta nelle mani dei maestri, il frustino in quelle dei caporali. Regole, disciplina, obbedienza caratterizzavano la vita sia della scuole che delle caserme! Nelle scuole l’italiano era obbligatorio; e così nell’esercito! E le reclute del Sud andavano a prestare servizio nelle Regioni del Nord, e viceversa. Fatta l’Italia, occorreva fare gli Italiani! Eravamo tra gli ultimi Paesi europei che avessero raggiunto l’unità nazionale! Se volevamo cimentarci con loro, occorreva anche fare in fretta.

Mettemmo in piedi un enorme apparato militare, amministrativo e giudiziario, e senza badare a spese! Ne sono testimonianza quelle caserme di Viale delle Milizie, in Roma, quei bellissimi ministeri romani e lo stesso Palazzo di Giustizia. Nel 1914 fu costruito quel meraviglioso Palazzo delle Poste in Piazza Dante a Roma. E mettemmo in piedi anche un vasto apparato educativo, diffuso in tutto il Paese, anche se l’edificio del Ministero della Pubblica Istruzione, quello di Viale Trastevere, allora Viale del Re, venne inaugurato più tardi, nel 1928. Tutti palazzi oggi più o meno dismessi: i numerosi impiegati di un tempo, le mezze maniche non servono quasi più! L’informatica e il web ne stanno facendo giustizia! Si tratta di costruzioni fatte a regola d’arte! Anche perché la manodopera era a… buon mercato! Nonostante i grandi scioperi dei muratori! Ricordate “Metello” di Pratolini? Ma ora, che ne sarà di questi meravigliosi palazzi?

Tornando a noi, come si suol dire, di interventi edilizi ce ne sarebbero da fare a iosa, sia per ristrutturare le scuole fatiscenti, sia per adattare a servizi scolastici ed educativi di largo spettro edifici ormai pressoché dismessi, sia per la costruzione di nuovi edifici! E’ importante, però considerare che non possiamo più pensare alle tradizionali aule destinate ad ospitare ciascuna una classe di età. Allora era così, ma domani? Non sarà più opportuno pensare ad almeno tre categorie di spazi. Una prima sarà costituita di “aule base” – le tane dei lupetti? – destinate ad ospitare gruppi di alunni che hanno lì la loro sede istituzionale – chiamiamola così – ovviamente opportunamente attrezzata! Basta con i soliti banchi! Occorrono strutture accoglienti, che facciano sentire all’alunno uno spazio e un arredo che gli siano propri! Occorrono tavolini – e già in molte aule ci sono – ma anche armadietti, strumentazione didattica e tecnologica ad hoc, libri e altro arredo che concorra a rendere funzionale e “familiare” il soggiorno di alunni che lì discutono, studiano, ricercano, insomma vi “vivono” attivamente”! Occorreranno poi spazi attrezzati come minilaboratori, per attività di ricerca/studio “avanzate” – chiamiamole così – in cui operano e “risiedono” docenti “esperti di disciplina”. E occorreranno infine laboratori veri e propri per ricerche più avanzate e mirate. Per non dire di biblioteche, ludoteche e altri spazi attrezzati. E le cosiddette attività motorie andranno organizzate non più come quell’inutile ora tra una lezione di italiano e una di matematica, ma come attività “altre” rispetto a quelle di studio tradizionali.

Mi sono limitato solo ad alcuni spunti! Ha ragione Renzo Piano, quando dice che il tutto va costruito attorno a un albero! Sì! Ma questo tutto va pensato in funzione di un “fare scuola” diverso! Casati e la sua legge sono tramontati da tempo! E la Finlandia è vicina!