Uscire dalla scuola a 18 anni? Sì, ma, come…

Uscire dalla scuola a 18 anni? Sì, ma, come…

di Maurizio Tiriticco

La provocazione di Luigi Berlinguer va assolutamente raccolta. Che i nostri giovani debbano uscire dal Sistema Educativo di Istruzione a 18 anni di età non è affatto cosa peregrina o avventata. Il fatto è che in alcuni Paesi dell’Unione europea, e non solo, i giovani escono da tempo a 18 anni, perché “mandare a scuola” alunni ormai maggiorenni non è cosa facile né per chi apprende né per chi insegna. E i motivi sono più che ovvi. Il che non significa che non sia necessario continuare a studiare dopo la maggiore età: si studia all’università fino a conseguire lauree brevi e lauree magistrali, si studia nell’istruzione e formazione professionale, nell’apprendistato e anche negli stessi posti di lavoro. In una società, che ormai tutti chiamiamo della conoscenza, apprendere per tutta la vita e ovunque è una necessità e un dovere. La questione, quindi, non riguarda la fine di un’attività di studio, ma la fine di uno studio fortemente formalizzato qual è quello offerto da una scuola, con i suoi orari, le sue scansioni disciplinari, ecc.
Con la legge 30/2000 – firmata Berlinguer – avviammo un complessivo riordino dei cicli di istruzione, che avrebbe impegnato tempi non brevi per la sua definitiva messa a regime. Si prevedevano: una scuola per l’infanzia dai 3 ai 6 anni di età fortemente generalizzata sull’intero Paese; una scuola di base settennale (6-13 anni di età); un’istruzione secondaria quinquennale (13-18 anni di età); l’obbligo di istruzione avrebbe avuto la durata di 9 anni, dai 6 ai 15 anni di età. Uno dei punti di forza di quella legge era quello di aver definitivamente liquidato pezzi di istruzione ereditati da un lontano passato per riordinarli in un percorso continuo fortemente unitario e progressivo. Con tali misure venivano cancellate la scuola elementare quinquennale e la scuola media triennale e si dava vita a un percorso continuo settennale: e l’obbligo di istruzione veniva esteso ai primi due anni del secondo ciclo.
Si avviava così per la prima volta una continuità, da sempre estranea alla nostra scuola, ma oggi estremamente necessaria. In effetti, lo sviluppo della scolarità nel nostro Paese, dall’Unità nazionale in poi, si è realizzato per “spezzoni” che si sono via via aggiunti nel tempo, per rispondere a esigenze via via emergenti sia dal sociale che dal mondo del lavoro. La situazione era in effetti la seguente: una scuola elementare per fare dei buoni sudditi capaci di leggere, scrivere e far di conto; un liceo funzionale alla formazione della classe dirigente; l’istruzione tecnica per i quadri tecnici intermedi, la formazione professionale e l’avviamento per i lavori essenzialmente manuali. Ma oggi la situazione è assolutamente diversa: non dobbiamo formare dei sudditi obbedienti, bensì dei cittadini responsabili e consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri. Inoltre, la rigida partizione del lavoro non esiste più. Ogni attività lavorativa impegna sempre più mano e cervello: da cui l’adagio “fare con la testa e pensare con le mani”. Però, nonostante questi cambiamenti strutturali, il nostro sistema di istruzione è rimasto, di fatto, quello di sempre, ripartito in gradi e, per quanto riguarda il secondo ciclo, in ordini, le canne d’organo parallele di sempre: il liceo per gli alunni “migliori”, poi, a scalare, i tecnici e i professionali.
Una logica di questo tipo la legge 30/2000 aveva cominciato a metterla fortemente in discussione. Ma ciò che è accaduto dopo è a tutti noto. I governi di centro-destra – tranne la breve parentesi di centro-sinistra con cui siamo riusciti a innalzare l’obbligo di istruzione da otto a dieci anni (dm 139/2007) – hanno rimesso le cose al “loro posto”! E così, grazie alla riforma della Moratti e al riordino della Gelmini, abbiamo ancora i due cicli di sempre, e ben distinti: all’inizio, la scuola dell’infanzia, la primaria, la media, il biennio successivo con cui si conclude – o si dovrebbe concludere l’obbligo – e alla fine il triennio che conduce a un esame che, purtroppo, è un ibrido: non è più di maturità, cioè non ha più “come fine la valutazione globale della personalità del candidato” (legge 119/1969, art. 5), ma ancora non certifica competenze, come dovrebbe in forza della legge di riforma 425/2007, art. 6. Di fatto, sono quelle competenze che il mondo del lavoro richiede, chiede in primo luogo ai giovani, e che in altre scuole dell’Unione europea sono debitamente certificate. Il Parlamento europeo e il Consiglio europeo fin dal 2008 hanno raccomandato a tutti i sistemi, sia di istruzione che di formazione professionale, l’European Qualifications Framework, un quadro con cui sono indicati e definiti otto livelli di uscita dai diversi gradi, dal più basso al più alto, a cui tutti i Paesi membri devono adeguarsi. Ma il nostro governo ha recepito solo nel 2012, tale Raccomandazione e il recepimento ha a tutt’oggi un carattere, di fatto, solo formale.
Il nostro sistema di istruzione è ancora ripiegato su se stesso, chiuso sui propri rigidi passaggi da un grado a un altro e sulle tre canne d’organo di sempre del secondo ciclo. Ne consegue che il solo pensare di anticipare di un anno l’uscita dal sistema di istruzione crea seri problemi, se non si ha il coraggio di mettere in discussione la stessa partizione dei gradi e degli ordini. Giustamente osserva Berlinguer: “E’ necessario rendere congruente l’impianto culturale con gli ordinamenti, oggi separati in tre diversi segmenti che costituiscono una delle principali cause della dispersione scolastica che inizia sin dal primo ciclo. Ed è qui che va accorciato di un anno e non nel secondo ciclo, in modo da renderlo unitario con il percorso di apprendimento dell’alunno”.
Tagliare semplicemente l’ultimo anno ma lasciare indenni gli attuali contenuti e obiettivi di studio – sperimentazioni in tal senso sono in atto, ma l’andamento non sembra offrire risultati e indicazioni esaltanti – è pericoloso. Il problema non è tagliare in alto, ma riordinare in basso. E’ l’intero percorso dai 6 ai 14 anni che va rivisitato! Anzi, dai 6 ai 16, quando si conclude l’obbligo di istruzione (non il diritto/dovere che, com’è noto, si conclude solo se lo studente ha conseguito almeno la qualifica professionale triennale). Possibile che non si sia capaci di dar vita a un curriculum di istruzione continuo verticale e progressivo della durata di dieci anni? Possibile che non si sia capaci di ricucire lo spezzatino di sempre e di oggi, 6-11, 11-14, 14-16? Cioè scuola primaria, scuola media, biennio? Possibile che non si sia capaci di rileggere che cosa accade nel primo segmento della scuola per l’infanzia? So benissimo che è un gioiello prezioso, ma è anche vero che gli alunni anticipitari sono in continuo aumento, e che la stessa infanzia non è immune dai cambiamenti che attraversano le nostre giovani generazioni. In un mondo in cui si impara a scrivere prima con la tastiera e poi con la penna, certi interrogativi ce li dobbiamo porre. Anche per le ricadute che hanno sugli apprendimenti iniziali e propedeutici a saperi sempre più complessi.
Sono discorsi complessi e non facili a condurli e a concluderli. Ma dobbiamo cominciare a farli. La difesa in assoluto dei gioielli di famiglia rischia, a lungo andare, di aprire le porte della cantina per conservarli, più che rivedere, invece, tutti i piani dell’edificio. Anche perché ci sono gli ascensori che ci aiutano a salire senza che ci accorga della fatica che si compie quando, piano dopo piano, facciamo le scale… se vogliamo veramente che la scuola sia anche un ascensore sociale.

“Instructables”, il social network delle invenzioni che pensa anche alla disabilità

“Instructables”, il social network delle invenzioni che pensa anche alla disabilità

Oltre 2.500 pagine di istruzioni, per realizzare svariati oggetti. Tante idee riguardano la disabilità: dal guinzaglio da fissare alla carrozzina al sollevatore in legno per salire e scendere le scale, dall’acquascooter al tagliere per chi usa una sola mano

da Redattore Sociale
10 dicembre 2014

ROMA – Un social network delle “invenzioni”, in cui anche la disabilità trova spazio e idee. Si chiama “Instructables”, è stato creato quasi 10 anni fa dall’ingegnere meccanico Eric Wilhelm e oggi raccoglie, suddivise per categorie, foto e istruzioni per realizzare oggetti utili in casa propria. Le categorie comprendono tecnologia, lavoro, vita quotidiana, cibo, gioco e vita all’aria aperta. Tante e svariate le “ricette” condivise dagli utenti, in 2.560 pagine di testi e di immagini. Uno spazio aperto a chiunque voglia condividere una propria invenzione, o voglia provare a realizzare quella di un altro, eventualmente valutandola.

Nel “mare magnum” delle invenzioni, la disabilità occupa un posto non secondario: se procurarsi un ausilio è spesso complicato e dispendioso, se alcuni strumenti devono necessariamente essere acquistati, è però anche vero che a volte basta un po’ di fantasia e d’inventiva per rendere la vita più semplice. Così, cercando la parola “disabile” nel motore di ricerca interno al sito, ci si troverà davanti a decine di “buone idee”, alcune più semplici da realizzare, altre meno. La più recente è il “sollevatore fai da te”, costruito principalmente in legno, che permette alle persone con disabilità motoria di salire e scendere autonomamente le scale; c’è il “braccio robotico”, che imita le funzioni e i movimenti di un arto umano; ci sono le istruzioni per modificare il “wiimote”, il controller senza fili della nota console, così che possa essere facilmente gestibile anche da chi ha problemi motori; ci sono, addirittura, le indicazioni per realizzare in casa gli stencil con cui contrassegnare il parcheggio riservato.Per i più audaci, c’è la moto acquatica per i bambini con disabilità, mentre per chi preferisce i giochi da tavolo, c’è il “reggicarte”, pensato per chi ha difficoltà a tenere il proprio mazzo in mano. Non è difficile, a quanto pare, neanche costruire in casa il deambulatore per il proprio bambino, o una palestrina che permetta ai più piccoli di fare i primi giochi per terra. Tra le idee più fantasiose, c’è il bastone per camminare con la luce incorporata, o il tagliere per chi utilizza una sola mano, o il guinzaglio da attaccare alla sedia a ruote. Non mancano, naturalmente, le invenzioni più “tecnologiche”, come il mouse da indossare sulla testa o l’interruttore del microfono facilitato. Insomma, ce n’è per tutti i gusti e per tutte le esigenze: bastano tanta fantasia, un po’ di manualità… E molta pazienza. (cl)

Il diritto al dissenso degli studenti deve essere garantito

Il diritto al dissenso degli studenti deve essere garantito

È una singolare iniziativa –afferma il prof. Francesco Greco, presidente dell’Associazione Nazionale Docenti- quella intrapresa da alcuni per censurare, anzi per chiedere il licenziamento di un sottosegretario, reo di aver espresso liberamente la propria opinione riguardo alla occupazione di qualche scuola da parte dei loro studenti, promovendo a questo fine addirittura una petizione sul Web.
“Forse i promotori dell’iniziativa pretendevano –prosegue Greco- che il Governo ordinasse ai celerini di entrare nelle scuole roteando i manganelli per zittire il diritto alla critica e al dissenso? Forse gli studenti non fanno parte della scuola? Sarebbero solo degli utenti o dei clienti a cui altro non sarebbe permesso che cambiare fornitore? Il diritto al dissenso, fatta salva ogni forma di violenza sulle persone e sulle cose, può e deve poter trovare in un Paese democratico ogni forma di manifestazione. Forse colpevolmente si dimentica che è nelle scuole e nelle università che le istanze di cambiamento sociale e culturale generalmente condivise trovano la forza per rompere il velo di abiette ipocrisie sociali, per superare la stanchezza della rassegnazione ad un futuro ineluttabile, per rompere i muri costruiti da comportamenti bigotti che demandano ad altri ciò che ognuno dovrebbe fare in prima persona e quando altri lo fanno pronti ad invocare l’adozione di misure farisee in chiara contraddizione con quanto ipocritamente sostenuto in altri contesti e in altri luoghi.
Le scuole devono essere in primis luoghi di democrazia e non dei feudi da gestire secondo le proprie convenienze e convinzioni; non possono essere l’emulazione di modelli aziendali anacronistici, ma luoghi distribuiti delle responsabilità in cui tutta la comunità scolastica è partecipe e concorrere alla sua gestione; non hanno bisogno di manager, ma di leader educativi, di persone competenti ed autorevoli; non hanno bisogno di dirigenti scolastici, ma di presidi eletti e a tempo.
Non pensano i promotori dell’iniziativa che nella scuola si stanno ergendo muri là dove prima non c’erano? Si stanno costruendo gerarchie, là dove prima c’era il confronto tra pari? Si stanno costruendo nuove forme di asservimento all’autorità burocratica, là dove prima c’era il rispetto dei ruoli? Si è smesso di sentire, là dove prima c’era l’ascolto e la comprensione?
Al sottosegretario on. Davide Faraone, e al Governo di cui è espressione, questo si deve chiedere: chiudere al più presto il penoso siparietto di una rappresentazione farlocca della scuola e incominciare a lavorare davvero per la scuola reale. Altrimenti altro non si potrà fare che contestare. Oggi contestano gli studenti, domani i docenti, poi forse chissà anche i dirigenti scolastici …, è la democrazia bellezza. Bisogna pur farsene una ragione.”

#italiasicura e il progetto per avere scuole più belle, più sicure e più nuove

#italiasicura e il progetto per avere scuole più belle, più sicure e più nuove

Italia-sicuraCon il claim: “se si cura l’Italia, l’Italia è più sicura” è stata avviata la campagna di comunicazione sulla riqualificazione dell’edilizia scolastica da parte del Governo, finalizzata a tutelare e ad investire sulla sicurezza delle strutture scolastiche, affinché le generazioni future possano reagire alle difficoltà della crisi economica sviluppando, in totale serenità, quelle competenze e quelle capacità di cui hanno diritto. Con questa campagna di comunicazione la struttura di missione per il coordinamento e l’impulso nell’attuazione di interventi di riqualificazione dell’edilizia scolastica intende focalizzare l’attenzione sugli obiettivi che il Governo vuole raggiungere per gran parte delle scuole presenti sul territorio nazionale. L’azione del Governo prevede infatti interventi di messa in sicurezza e decoro per un investimento complessivo che supera il miliardo di euro. Questi interventi saranno attuabili grazie allo sblocco di fondi comunali, fino ad ora vincolati dal patto di stabilità, ed a finanziamenti in conto capitale degli enti proprietari degli edifici scolastici. Per garantire una maggiore trasparenza e partecipazione da parte dei cittadini è stato creato un portale dedicato: italiasicura.governo.it. Oltre al video che presenta la missione, si può monitorare lo sviluppo del progetto.

I lavori sono a buon punto: entro il 31 dicembre 2014 saranno appaltati 1.533 cantieri nell’ambito #Scuolesicure, 306 sono già conclusi e 411 sono in dirittura d’arrivo. Sono previsti 7.697 interventi grazie all’operazione #Scuolebelle: ad oggi 1.013 sono conclusi, 4.524 sono in conclusione, 2.160 saranno svolti nel mese di dicembre. Le #Scuolenuove contano 454 interventi, 205 ultimati nel 2014, 269 saranno conclusi entro il 2015. Il piano sull’edilizia scolastica non prevede esclusivamente la messa in sicurezza e la manutenzione di scuole già esistenti ma anche la costruzione di nuove strutture scolastiche.

Per conoscere i dettagli del progetto #italiasicura è stato creato un sito – web partecipativo: Italiasicura.governo.it, dove sono stati pubblicati i video di presentazione dell’iniziativa, con link appositi di connessione alle piattaforme social: Facebook, Flickr e Twitter @italia_sicura, @Palazzo_Chigi.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: dalle basi fisiologiche agli ausili

Arezzo. Disturbi Specifici dell’Apprendimento: dalle basi fisiologiche agli ausili

Sabato 13 dicembre 2014 alle ore 9.00, presso l’Aula Magna del Centro Affari e Convegni ad Arezzo, il Centro Ausili Tecnologici, il Centro Territoriale di Supporto e la U.O. Neuropsichiatria Infantile della ASL8 organizzano un convegno dal titolo Disturbi Specifici dell’Apprendimento: dalle basi fisiologiche agli ausili

BUONA SCUOLA: LIBERACI DAI BANDI

i dirigenti scolastici della provincia di Viterbo

BUONA SCUOLA: LIBERACI DAI BANDI

Da qualche tempo fare bandi sembra essere diventata la pratica preferita dal MIUR per finanziare

le scuole. A prima vista sembrerebbe il modo giusto per superare la pratica dei finanziamenti a pioggia; in realtà….. In realtà le cose non stanno esattamente così: provate ad immaginare di avere davanti a voi una moltitudine di persone che stanno morendo di fame e voi volete aiutarle; fareste un bando del tipo: “Fate una corsa, chi di voi arriva primo vincerà un bel pranzetto ! “.

In un Paese normale la via del bando potrebbe anche essere una pratica interessante, ma qui da noi stiamo parlando di scuole con:

  1. a) connessione internet e wi-fi inesistenti o lenti;
  2. b) dotazioni strumentali assolutamente insufficienti;
  3. c) il fondo per l’offerta formativa che in tre anni è stato più che dimezzato;
  4. d) formazione per il personale praticamente azzerata etc, etc.

Pensiamo che una politica intelligente di impiego delle risorse dovrebbe puntare prima a garantire i cosiddetti “livelli essenziali” di qualità; poi si potrà pensare a valorizzare le eccellenze. Lasciando stare i dubbi sulla effettiva capacità dei valutatori di individuare i soggetti che veramente meritano di vincere un bando, dare soldi ad un ristretto numero di scuole e lasciare tutte le altre nella indigenza ci pare un autentico spreco di risorse, che non andranno certo “a sistema”.

Per fare alcuni esempi tratti dal bandificio recente: competenze informatiche per i docenti, formazione sulle Indicazioni Nazionali, wi-fi, formazione per la disabilità etc; tutti ambiti strategici che negli ultimi anni sono stati finanziati solo attraverso bandi; ma a macchioline di leopardo.                                                     Vuoi che le scuole non sprechino e imparino a gestire bene le risorse ? Allora investi sul capitale umano.

 

Nel nostro piccolo ci permettiamo anche di fornire qualche suggerimento non richiesto:

  1. a) deficit strutturali: attraverso gli USR si poterebbe sviluppare la mappa dei fabbisogni strutturali delle

scuole (edilizia, dotazioni strumentali, wi-fi etc) e, quindi, elaborare un piano strategico di rientro dai deficit

sulla base di priorità;

  1. b) comunicazione didattica:
  • eliminare la sciagurata disposizione contrattuale Art. 64, comma 1, che qualifica la formazione come un

“diritto” e ripristinare la formula del “diritto-dovere”;

  • ferma restando l’autonomia e la responsabilità delle singole scuole nello sviluppo di politiche locali di

miglioramento, attraverso l’INVALSI e altri soggetti si dovrebbe riuscire a costruire una mappa dei

     deficit di apprendimento di scala degli alunni italiani, ossia di rilievo nazionale o di macro-area, in

particolare rispetto a tre ambiti:

  • ambito dei contenuti disciplinari “;

  • ambito delle operazioni cognitive” (e meta-cognitive) richieste per elaborare i predetti contenuti;

  • ambito delle modalità di gestione“del gruppo-classe;

si tratta, come si vede, di tre ambiti altamente strategici ai fini del successo scolastico;

  • sviluppare un piano nazionale di formazione dei docenti, eventualmente diversificato fra macro-aree

territoriali in ragione dei rispettivi fabbisogni, mirato alla costruzione e diffusione delle competenze di

contrasto dei deficit sopra indicati, selezionati e distribuiti secondo un ordine di priorità.

La priorità si ottiene combinando almeno due fattori (diciamo) di rischio formativo: la “magnitudo” (ossia

un indicatore di importanza intrinseca di un determinato deficit) e la “prevalenza”, ossia la diffusione

relativa di tale deficit .

Che la Buona Scuola ci ascolti !

 

PS: INTANTO PERO’ NON SI ARRESTANO I PRELIEVI AL BANCOMAT SCOLASTICO

Ultimo (in ordine di tempo) disinvestimento sulla scuola: la legge di stabilità in cantiere, stando ai documenti ufficiosi in circolazione, prevede:

1) abolizione degli esoneri e dei semi-esoneri dall’insegnamento del docente collaboratore con delega alla funzione vicaria, attualmente previsti nelle mega-scuole;

2) abolizione delle supplenze di un giorno per il personale docente;

3) abolizione delle supplenze inferiori a 7 giorni per il personale collaboratore scolastico nelle sedi con più di 2 unità di personale.

L’Italia fuori dai test Ocse-Pisa

da ItaliaOggi

L’Italia fuori dai test Ocse-Pisa

La legge di Stabilità taglia i fondi e vieta le assunzioni

Emanuela Micucci

Se non arriveranno i fondi, sarà il primo anno che l’Invalsi non parteciperà alle indagini internazionali Ocse-Pisa. A lanciare l’allarme è la presidente dell’istituto nazionale di valutazione ,Anna Maria Ajello, nel corso della due giorni di convegno organizzata, la scorsa settimana a Roma, per il decennale delle prove Invalsi.

Lo fa ricordando le attività dell’Invalsi oltre l’annuale rivelazione degli apprendimenti degli studenti. Ma è l’urgenza del reintegro nella Legge di Stabilità 2015 delle risorse per l’istituto e per la stabilizzazione del suo personale, per due terzi precario, a segnare l’incontro.

Durante l’esame del provvedimento, infatti, la Commissione Bilancio della Camera ha stralciato il comma 24 dell’articolo 23 della Legge di Stabilità che prevedeva un finanziamento una tantum di 10 milioni di euro nel 2014 per l’Invalsi da utilizzare per strutturare il Sistema nazionale di valutazione secondo le linee guida della Buona Scuola. Una risorsa importante chiesta e ottenuta per stabilizzare i lavoratori precari dell’istituto: 62 dipendenti a tempo determinato su un totale di 93, la metà dei quali precaria da 14 anni. «Tutti indispensabili per lo svolgimento delle funzioni ordinarie di istituto», sottolinea Paolo Mazzoli, il direttore generale. Posti che entro il 31 dicembre saranno vacanti, salvo eventuale proroga di 4 mesi. Con lo stralcio del comma 24, infatti, sono saltati anche i commi 26 e 27, che autorizzavano l’Invalsi ad un piano «assunzionale straordinario» a copertura dei posti vacanti in pianta organica e in deroga ai vigenti vincoli in materia di facoltà di assunzioni. Con spese pari a 593.000 euro per il 2015 e 692.000 dal 2016, la cui copertura veniva effettuata dal correlativo prelievo dalla legge 440/97, il Fondo per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa. Risorse saltate e che si chiede vengano reintrodotte nell’esame della Legge di Stabilità in Senato.

«Finora l’Invalsi ha utilizzato i fondi europei – spiega Ajello- ma i Pon si possono utilizzare solo per progetti sperimentali, non per l’ordinamentale: sarebbe illegale». C’è un problema di risorse. «L’Italia spende – ricorda Attilio Oliva di Treelle – 50 miliardi per la scuola e solo 10 milioni di euro per l’Invalsi. In Inghilterra si spendono 130 milioni per l’Osced e altrettanti per i test nelle scuole, in Spagna 80-90 milioni, in Francia ci sono 3.000 ispettori. E’ un segnale di allarme». E c’è un problema di personale. «In Olanda l’istituto di valutazione può contare su 700 lavoratori», insiste Ajello.

Rassicurazioni sono arrivate dal sottosegretario all’istruzione Davide Faraone sicuro dell’«impegno del Senato per reintegrare le risorse nella Legge di Stabilità», perché senza Invalsi e senza un sistema nazionale di valutazione «la Buona Scuola non ha senso, la riforma crolla». Il ruolo della valutazione, aggiunge, «è importantissimo» nel sistema scolastico, perché «non è una gara per certificare chi arriva prima, ma uno strumento utile per migliorare la situazione delle scuole del nostro Paese e per ridurre le differenze tra gli istituti».

Impegno confermato anche da Francesca Puglisi (Pd) della Commissione Cultura del Senato. In 10 anni «le prove sono migliorate, i tempi di restituzione dei risultati si sono accorciati e si è garantita la comparazione tra scuole con caratteristiche socio-economiche e territoriali simili», illustra Ajello ricordando che l’Invalsi è impegnata in altre attività, come le ricerche sulla scuola dell’infanzia, e partecipa a tutte le rivelazioni internazionali.

Presidi sul piede di guerra contro i tagli retroattivi Pronti ricorsi al giudice e mobilitazioni a gogò

da ItaliaOggi

Presidi sul piede di guerra contro i tagli retroattivi Pronti ricorsi al giudice e mobilitazioni a gogò

Un nuovo vertice domani al miur per trovare una soluzione tecnica

Giorgio Candeloro

Moderata soddisfazione – per essere stati ascoltati e per la promessa che le loro richieste verranno quanto meno valutate – mescolata ad una buona dose di diffidenza e al timore di aver ottenuto un risultato soltanto interlocutorio. Sembra questo il sentimento dei dirigenti scolastici in agitazione dopo l’incontro del 4 dicembre col sottosegretario Faraone, seguito alla la manifestazione di protesta sotto la sede del Miur.

Un’iniziativa che ha visto scendere in piazza moltissimi presidi, chiamati alla protesta da una mobilitazione unitaria di tutte le sigle sindacali della dirigenza, con in testa Anp, Snals e Cgil, Cisl e Uil. Un nuovo incontro ci sarà domani.

I dirigenti arrabbiati che hanno invaso in diverse centinaia la scalinata del palazzo del ministero rispondevano solo in parte alla tradizionale immagine del preside (o della preside) attempato e dai capelli grigi: tra i manifestanti giunti da tutta Italia erano tanti anche i giovani vincitori dell’ultimo concorso; quarantenni o poco più giunti alla dirigenza dopo procedure concorsuali complesse e martoriate da ricorsi e ritardi burocratici durati anni. In prevalenza una protesta motivata da ragioni economiche, determinate dalla mancata erogazione di una parte di retribuzione, il Fondo Unico Nazionale (in pratica il salario accessorio dei presidi), atteso da due anni e tagliato pesantemente dal Miur su indicazione del Mef per un importo di poco meno di 50 milioni di euro. Come se non bastasse i tagli sono stati estesi anche al passato, applicandoli pure al fondo 2012-13 e 2013-14, con il risultato che molti dirigenti si sono visti recapitare una richiesta di restituzione di somme già percepite per un ammontare oscillante tra i 5000 e i 10000 euro.

Una beffa dolorosa, originata da un errore dell’amministrazione, come sottolinea Giorgio Rembado, presidente dell’ANP: «Si tratta di somme che non sono a carico dell’erario ma derivano da accantonamenti della categoria. Non vengono assegnate perché il Mef e l’Ufficio centrale del bilancio hanno un’interpretazione diversa di una norma». Sul tappeto anche la questione del mancato rinnovo contrattuale, bloccato come tutti quelli del pubblico impiego, e fermo ormai da sei anni. In campo anche la vecchia questione della perequazione retributiva con gli altri dirigenti della pubblica amministrazione –ma da questo orecchio sembra proprio che il governo non voglia sentire- resa peraltro impossibile proprio dal mancato rinnovo del contratto.

Forse anche per questo sulle scale del Ministero campeggiava giovedì scorso uno striscione con lo slogan «Invisibili per il Governo»: i dirigenti scolastici italiani, insomma si sentono demotivati e poco rispettati, vittime di una doppia ingiustizia: il fatto di guadagnare molto meno della restante dirigenza pubblica, e l’ aggravio continuo di responsabilità e carichi di lavoro a fronte, addirittura, della riduzione stipendiale determinata dal taglio del Fondo.

Durante l’incontro, comunque, Faraone sembra aver rassicurato i rappresentanti della dirigenza, riconoscendo la legittimità delle loro richieste e assumendo l’impegno di affrontare le questioni poste attraverso un confronto con il Mef all’indomani dell’approvazione definitiva della legge di stabilità. Il sottosegretario ha anche riconosciuto che l’insieme delle richieste dei dirigenti richiederanno interventi legislativi e, nota dolente, la difficile individuazione di risorse aggiuntive.

Per ora è stato fissato un nuovo incontro per il 10 dicembre al ministero per iniziare l’indispensabile lavoro tecnico preparatorio ad ogni futura soluzione politica della questione. I dirigenti però, si fidano fino a un certo punto: pur considerando l’incontro un primo passo positivo, temono lungaggini e meline, soprattutto da parte dell Mef. E intanto affilano le armi non escludendo, se necessario, il ricorso ad azioni giudiziarie.

Sì alle occupazioni, no alle bocciature. Le scorciatoie che fanno male ai ragazzi

da ItaliaOggi

Sì alle occupazioni, no alle bocciature. Le scorciatoie che fanno male ai ragazzi

Le ricette dei sottosegretari faraone e d’onghia alle prese con emergenze vere. Dure le reazioni dei prof

Giorgio Candeloro

I sottosegretari all’istruzione del governo Renzi fanno a gara nella ricerca di protagonismo e consensi. Specie tra gli studenti. Per un Davide Faraone che esalta le occupazioni -illegali- di scuole come momento di «crescita democratica» (facendo imbestialire le associazioni di categoria della dirigenza e la preside di un noto liceo romano, che gli ha organizzato sotto la sede del Miur un sit in di prof e genitori inferociti), c’è un’Angela D’Onghia che fa balenare ai ragazzi delle superiori la possibilità di un’imminente abolizione delle bocciature nel primo biennio, che pare sia effettivamente allo studio dei tecnici del Miur.

Anche lei, come l’incauto collega filo-occupatore, lancia la proposta in un’intervista, sostenendo che i primi due anni delle superiori «devono essere un periodo di inclusione e non di sbarramento».

Immediato quanto ovvio il successo raccolto dall’ipotesi sui siti studenteschi e nei capannelli di corridoio a ricreazione; tutto piuttosto prevedibile, almeno quanto lo scetticismo manifestato dai docenti informati della proposta. In realtà, ancora una volta, a dettare legge sono considerazioni –peraltro molto fondate- legate ai costi dell’insuccesso scolastico, ormai poco sostenibili per il sistema.

Tutto parte da una reale emergenza i cui contorni sono stati chiariti nei giorni scorsi dalla presentazione dei risultati di un’indagine conoscitiva della commissione cultura della Camera sulla dispersione scolastica in Italia, a cui hanno fornito il loro contributo specialisti del Miur, dell’Invalsi, dell’Ispol e anche dirigenti scolastici e docenti ed effettuata nell’aprile scorso. Nel nostro paese il 17,6% della popolazione scolastica abbandona il percorso di studi superiore , con picchi di quasi il 26 in Sardegna, del 25 in Sicilia e di circa il 22 in Campania, mentre percentuali di gran lunga inferiori a quelle nazionali si hanno nella maggior parte delle regioni del nord e del centro.

Pur se in calo netto rispetto al 2006, quando il dato nazionale superava il 20%, la dispersione scolastica nella penisola continua dunque ad essere troppo alta, sia rispetto alla media europea, attestata al 12%, sia in vista dell’ ambizioso obiettivo della “Strategia Europa 2020”, che fissa per la fine del decennio una drastica riduzione al 10%.

Un ritardo, quello italiano, che ha un costo elevatissimo in termini economici: secondo dati OCSE, ogni studente disperso, costa al sistema scolastico nazionale circa 6400 euro, mentre un ipotetico azzeramento della dispersione scolastica italiana avrebbe un impatto sul PIL stimato prudenzialmente attorno al 5%. Tradotto, alcuni miliardi. Quali strategie adottare allora? Il sottosegretario D’Onghia sembra avere pochi dubbi, attribuendo implicitamente agli approcci rigidi di alcuni insegnanti e all’eccesso di bocciature, la responsabilità principale della dispersione troppo alta.

Effettivamente 180mila respinti l’anno, di cui 100.000 nella fascia tra i 14 e i 17 anni –proprio quella del biennio superiore- sembrano davvero troppi, ma pare azzardato affermare che la sanatoria nel biennio possa bastare di per sé a far evaporare la dispersione. Crederlo significherebbe imboccare una scorciatoia, ignorando gli altri fattori che concorrono alla fuga dai banchi, come i contesti sociali ed educativi difficili, la vita in quartieri disagiati e, forse, anche l’eccessiva lunghezza, almeno negli indirizzi tecnico-professionali, del percorso quinquennale delle superiori, ormai quasi un unicum in Europa.

“La Buona Scuola”, il 15 dicembre il Miur presenta numeri e risultati della consultazione

da La Tecnica della Scuola

“La Buona Scuola”, il 15 dicembre il Miur presenta numeri e risultati della consultazione

Alla presentazione invitati addetti ai lavori e giornalisti: sulla scorta delle opinioni espresse dai 170mila partecipanti e dai 100mila questionari, comincerà a delinearsi il piano di riforma governativo. Ci sarà anche il ministro Giannini e a seguire dibattito con esperti. In contemporanea attivati “Laboratori in mostra al @MiurSocial”.

Ad un mese esatto dal termine della consultazione della cittadinanza italiana sulle linee guida di riforma dell’istruzione in Italia, meglio nota come “La Buona Scuola”, il ministero dell’Istruzione decide di rendere pubblici i primi risultati convocando addetti ai lavori e giornalisti nel palazzo bianco di Viale Trastevere lunedì 15 dicembre alle ore 16.30: alla presentazione sarà presente anche il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini.

A seguire, a partire delle ore 18.00, è previsto un dibattito sullo stesso tema alla presenza di alcuni esperti. Nella stessa giornata, a partire dalle ore 14.00 e sino alle 20.00, sempre all’interno del Miur sarà anche allestita “LaBuonaScolaLabs Arte, Musica, Digitale. Laboratori in mostra al @MiurSocial”.

L’appuntamento di lunedì prossimo al Miur potrebbe rappresentare un importante spartiacque: da quel momento, sulla base di quanto emerso dalle opinioni espresse dai 170mila partecipanti alla consultazione e sui resoconti di 100mila questionari compilati, comincerà a delinearsi il piano governativo sulla riforma del settore. Potrà anche non piacere, ma per la scuola è già tempo di scelte. Vedremo se saranno anche pesanti.

La musica? Va insegnata già dalla scuola primaria

da La Tecnica della Scuola

La musica? Va insegnata già dalla scuola primaria

Ad auspicarlo è il massimo rappresentante dell’Istruzione pubblica: c’è il mio impegno, ha detto il ministro Giannini rispondendo a Napoli alle sollecitazioni del direttore d’orchestra Riccardo Muti. Via libera del responsabile del Miur anche alla revisione della struttura dei conservatori: basta vincoli burocratici.

Il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, torna a caldeggiare lo studio della musica all’interno del curricolo scolastico della scuola primaria. Una disciplina che oggi, invece, viene insegnata solo attraverso progetti esterni o all’interno di più ampi programmi disciplinari.

“C’ è il mio impegno per portare la musica nella scuola sin dalla primaria”: ha spiegato il titolare del dicastero dell’Istruzione, parlando il 9 dicembre al Conservatorio San Pietro a Majella dopo la consegna delle chiavi di Napoli a Riccardo Muti.

La presa di posizione di Giannini è giunta proprio come risposta al direttore d’orchestra, in questi giorni inserito nella lista dei papali come prossimo presidente della Repubblica, che dal palco aveva lamentato l’assenza della musica dalle scuole italiane.

Il ministro ha detto anche che bisogna ripensare alla struttura dei conservatori “dando loro libertà da vincoli burocratici”.

Insomma, sull’introduzione della musica nelle ex elementari il responsabile del Miur ci ha messo la faccia: la speranza di tanti docenti interessati all’insegnamento della musica ai bambini in tenera età, è che al più presto l’impegno si concretizzi in atti concreti.

Pensioni scuola 2015: chi può presentare domanda

da La Tecnica della Scuola

Pensioni scuola 2015: chi può presentare domanda

L.L.

In attesa dei chiarimenti sull’Opzione donna e delle possibili novità per la pensione anticipata contenute nella Legge di Stabilità, proponiamo un riepilogo dei requisiti necessari per poter andare in pensione dal 1° settembre 2015 secondo le regole pre-legge Fornero e quelle previste dalla legge n. 214/2011.

In attesa della pubblicazione della circolare ministeriale con la quale il Miur fornirà indicazioni per la trasmissione dell’istanza per la cessazione dal servizio dal 1° settembre 2015, il D.M. n. 866 del 1 dicembre 2014 ha fissato al 15 gennaio 2015 il termine ultimo per la presentazione delle domande di dimissioni volontarie dal servizio ai fini del pensionamento per il personale della scuola (docente, educativo ed Ata). Ricordiamo che, invece, per i dirigenti scolastici il termine per la presentazione delle istanze è il 28 febbraio 2015.

Questi i requisiti necessari per poter andare in pensione, secondo l’elaborazione della Flc Cgil:

 

Requisiti posseduti al 31 dicembre 2011 ante Legge 214/11 (Fornero)

Vecchiaia

  • 65 anni di età anagrafica – requisito per uomini e donne
  • 61 anni di età anagrafica – requisito di vecchiaia facoltativo esclusivamente per le donne

Anzianità

  •  40 anni di contribuzione – requisito della massima anzianità contributiva

Quota

  • 60 anni di età e 36 anni di contribuzione – quota 96
  • 61 anni di età e 35 anni di contribuzione – quota 96

Per raggiungere la “quota 96” si possono sommare ulteriori frazioni di età e contribuzione (esempio: 60 anni e 4 mesi di età anagrafica con 35 anni e 8 mesi di contribuzione).

Per le sole donne resta in vigore fino al 31 dicembre 2015 la norma prevista dall’art. 1 comma 9 della Legge 243/2004 (cd. Opzione donnavedi articolo del 3/12/2014), che consente l’accesso alla pensione con 57 anni e 3 mesidi età anagrafica e 35 anni di anzianità contributiva. Il pensionamento è consentito dal 1° settembre 2015 a condizione che il requisito di età e contribuzione sia stato maturato entro il 31 dicembre 2014 e che venga esercitata l’opzione per il calcolo della pensione col sistema contributivo. Secondo le norme attualmente in vigore, il pensionamento sperimentale per le sole donne, non può decorrere oltre il 31 dicembre 2105, ma come abbiamo anticipato l’Inps ha richiesto al Ministero del Lavoro come considerare il termine del 31/12/2015, cioè se si possa intendere come data limite per il perfezionamento dei requisiti.

 

Nuove regole per l’accesso alla pensione previste dalla Legge 214/11

I nuovi requisiti dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015 sono i seguenti:

Pensione di vecchiaia per uomini e donne con almeno 20 anni di contributi

  • 66 anni e 3 mesi entro il 31 dicembre 2015

Pensione anticipata

  • per le donne, 41 anni e 6 mesi di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2015;
  • per gli uomini, 42 anni e 6 mesi di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2015.

Per la pensione anticipata è attualmente prevista una penalizzazione sul calcolo del trattamento per chi abbia meno di 62 anni di età, salvo nel caso in cui la contribuzione derivi da prestazione effettiva di lavoro (ricordiamo che sono inclusi i periodi di astensione obbligatoria per maternità, per l’assolvimento del servizio militare, per infortunio, per malattia, periodi per i congedi parentali di maternità e paternità, donazione di sangue e emocomponenti e cassa integrazione guadagni ordinaria). Nella legge di Stabilità 2015, in discussione in Parlamento, tale penalizzazione potrebbe essere eliminata se il Senato confermerà quanto già previsto in prima lettura dalla Camera. È necessario pertanto attendere l’approvazione definitiva della Legge per avere un quadro chiaro della questione.

Le prove Invalsi? Promosse, ma non faranno parte della maturità 2015

da La Tecnica della Scuola

Le prove Invalsi? Promosse, ma non faranno parte della maturità 2015

La conferma arriva alla ‘Tecnica della Scuola’ da Anna Maria Ajello, presidente Invalsi: stiamo lavorando ad una prova collocata in uno o più momenti dell’anno scolastico e non all’interno dell’Esame di Stato. Comunque nessuna marcia indietro, anzi: dove si propongono, i test non servono per dare un giudizio sull’operato del docente, né per punire o fare classifiche tra scuole, ma per consentire agli istituti di riflettere sul proprio operato e migliorarsi. Per vincere le resistenze dei docenti diventa determinante coinvolgerli nella formazione: grazie ai fondi strutturali europei, tanti prof del Sud si sono convinti…

Cresce l’interesse per la valutazione. A livello di studenti, di insegnanti, di famiglie. E di istituti. Tra l’altro con molteplici scopi: le valutazioni possono influire, infatti, sull’assegnazione dei fondi alle scuole, sul miglioramento della didattica, sulla verifica delle sperimentazioni in corso, sull’indirizzamento degli incentivi da assegnare in base al merito. Quindi anche degli aumenti stipendiali del personale.

E allo stesso modo cresce, di anno in anno, l’interesse per i test Invalsi, le prove standardizzate che misurano le competenze degli studenti in italiano e matematica, che si vorrebbero introdurre anche in occasione degli esami finali della scuola superiore.

Ne abbiamo parlato con Anna Maria Ajello, presidente Invalsi, incontrata a Roma durante la due giorni di convegno organizzata per il decennale delle prove Invalsi.

 

Presidente, pochi giorni fa l’Invalsi ha fatto sapere, al termine di un’indagine condotta dal 2011/12 con 9.968 insegnanti, che oltre due terzi dei docenti della V primaria ritengono che vi sia corrispondenza tra i contenuti delle prove e le competenze richieste dalle nuove Indicazioni nazionali per il curricolo. Significa che avete intrapreso la strada giusta?

Si tratta di un riscontro importante del grande lavoro svolto dall’Invalsi in questi anni proprio per assicurare una maggiore rispondenza tra gli obiettivi di apprendimento prescrittivi delle nuove Indicazioni e i contenuti delle Prove. Ed è anche un dato che permette di intravedere il cambiamento avvenuto nelle relazioni tra l’Invalsi e le scuole. E soprattutto tra le scuole e la valutazione. La cultura della valutazione in Italia ha avuto vita difficile per molti anni, ma ha fatto molta strada e comincia ad essere diffusa.

 

Di recente, lei ha detto che l’Invalsi fornisce misurazioni e non valutazioni: perché molti docenti non ne sono convinti e mantengono resistenze?

Nella comunicazione sulla valutazione si è fatta sempre una certa confusione e le incongruenze nelle dichiarazioni delle istituzioni e della politica non hanno aiutato. Si è creato il sospetto, mai del tutto fugato, che l’uso finale dei dati raccolti con le prove sia quello di punire o fare classifiche tra scuole e che le prove siano l’unico elemento utilizzato per formulare giudizi sul lavoro delle istituzioni scolastiche. Per questo è importante ribadire sempre che l’Invalsi fornisce attraverso le prove misurazioni attendibili su alcuni e solo alcuni aspetti dell’apprendimento. Come dimostra il format appena pubblicato che le scuole dovranno utilizzare per l’autovalutazione, i risultati delle prove sono soltanto uno di 15 macro-indicatori per analizzare la qualità di un’istituzione scolastica.

Tuttavia diversi addetti ai lavori, anche una parte dei sindacati, si lamentano perché intravedono nelle prove la somministrazione di test nozionistici e poco pedagogici?

E’ importante sottolineare che l’Invalsi svolge una funzione di servizio alle scuole e alle istituzioni, raccogliendo e restituendo informazioni rispetto a molti aspetti del nostro sistema educativo. E’ il piano politico, quindi il ministero dell’Istruzione, il Governo ed il Parlamento, che ha potere di decidere come utilizzare queste informazioni. Per la nostra relazione con le scuole, è fondamentale che si comprenda questa distinzione di ruoli, per sostenere il crescente clima di collaborazione che troviamo tra dirigenti e docenti.

 

Ma per non pochi insegnanti, i test Invalsi vengono considerati una minaccia, una sorta di valutazione del loro operato in classe. Come si fa a convincerli che non c’è alcun intento di questo genere?

Come dicevo, fugare queste preoccupazioni è innanzitutto un compito della politica e delle istituzioni. Noi siamo impegnati a ribadire e sottolineare il nostro ruolo di servizio sia verso le scuole che verso il decisore pubblico. Le nostre informazioni possono consentire alle scuole di riflettere sul proprio operato per migliorare e servono alle istituzioni per prendere decisioni informate. C’è inoltre da dire che l’Invalsi ha sempre ribadito la parzialità delle sue misurazioni (matematica, comprensione della lettura e grammatica): quindi è insensato e non corretto scientificamente inferire da queste misurazioni gli elementi per un giudizio sull’operato complessivo di un docente, che come sappiamo bene riguarda molti aspetti altri della vita quotidiana in classe.

 

Durante il suo intervento a Roma ha parlato di “ingente impegno per la formazione ai docenti per una corretta interpretazione” dei test nazionali: se la sente di assicurare a quei docenti che sino ad oggi non hanno ancora frequentato corsi di approfondimento o aggiornamento sulle prove Invalsi che presto saranno coinvolti?

Grazie ai fondi strutturali europei siamo riusciti a coinvolgere in progetti sperimentali moltissime istituzioni scolastiche nel Mezzogiorno in attività di formazione ed accompagnamento all’interpretazione dei dati. E i risultati si sono visti, anche nell’indagine di cui parlavamo all’inizio: i docenti del Sud sono fortemente convinti dell’utilità delle prove. Quanto riusciremo a fare nei prossimi anni dipende anche dalle certezze che avremo sui finanziamenti ordinari, per fare fronte alle nuove responsabilità che il Sistema Nazionale di Valutazione ci affida. Garantisco il nostro impegno per la formazione e l’accompagnamento, ma le istituzioni competenti devono fare la loro parte per metterci in condizioni di lavorare bene.

A proposito di novità, si parla da tempo di test Invalsi anche all’interno degli Esami di Stato. Sono voci infondate o potrebbero esserci degli sviluppi, anche nel breve periodo?

Il Miur ha affidato da tempo all’Invalsi il compito di sperimentare una prova da introdurre nel quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado. Stiamo portando avanti tali ricerche, ma saremmo orientati per una prova collocata in uno o più momenti dell’anno scolastico e non all’interno dell’Esame di Stato. Ovviamente, quando le sperimentazioni saranno concluse, spetta al ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca prendere decisioni definitive su questa questione. In ogni caso, possiamo dire con certezza che non verrà introdotta alcuna prova all’interno dell’Esame di Stato di quest’anno, almeno se è l’Invalsi che deve produrre tali prove.

Senza fondi a rischio i test Ocse-Pisa

da La Tecnica della Scuola

Senza fondi a rischio i test Ocse-Pisa

Se non arrivano i fondi all’Invalsi, l’Italia per il primo anno non potrà partecipare ai test internazionali Ocse-Pisa. Anna Maria Ajello, la presidente dell’istituto, lancia l’allarme

Lo fa sapere Italia Oggi, secondo cui c’è pure l’urgenza del reintegro nella Legge di Stabilità 2015 delle risorse per l’istituto e per la stabilizzazione del suo personale, per due terzi precario

La Commissione Bilancio della Camera, scrive Italia Oggi,  ha stralciato il comma 24 dell’articolo 23 della Legge di Stabilità che prevedeva un finanziamento una tantum di 10 milioni di euro nel 2014 per l’Invalsi da utilizzare per strutturare il Sistema nazionale di valutazione secondo le linee guida della Buona Scuola.

Una risorsa importante chiesta e ottenuta per stabilizzare i lavoratori precari dell’istituto: 62 dipendenti a tempo determinato su un totale di 93, la metà dei quali precaria da 14 anni.

Con lo stralcio del comma 24, infatti, sono saltati anche i commi 26 e 27, che autorizzavano l’Invalsi ad un piano di assunzione straordinario a copertura dei posti vacanti in pianta organica e in deroga ai vigenti vincoli in materia di facoltà di assunzioni.

Con spese pari a 593.000 euro per il 2015 e 692.000 dal 2016, la cui copertura veniva effettuata dal correlativo prelievo dalla legge 440/97, il Fondo per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa. Risorse saltate e che si chiede vengano reintrodotte nell’esame della Legge di Stabilità in Senato.

«Finora l’Invalsi ha utilizzato i fondi europei – spiega Ajello- ma i Pon si possono utilizzare solo per progetti sperimentali, non per l’ordinamentale: sarebbe illegale». C’è quindi un problema di risorse e un un problema di personale.

Il sottosegretario all’istruzione Davide Faraone assicura l’impegno del Senato per reintegrare le risorse nella Legge di Stabilità, perché senza un sistema nazionale di valutazione «la Buona Scuola non ha senso, la riforma crolla».

Impegno confermato anche da Francesca Puglisi (Pd) della Commissione Cultura del Senato, mentre Ajello ricorda che l’Invalsi è impegnata in altre attività, come le ricerche sulla scuola dell’infanzia, e partecipa a tutte le rivelazioni internazionali.

L’insegnamento della religione non è titolo valutabile per l’abilitazione ad altri insegnamenti

da La Tecnica della Scuola

L’insegnamento della religione non è titolo valutabile per l’abilitazione ad altri insegnamenti

L.L.

Per il Tar di Catania il servizio degli insegnanti di religione è prestato sulla base di specifici profili di qualificazione professionale che, di per sé, non costituiscono titolo di accesso ad altri insegnamenti

La recente sentenza del Tar Sicilia – sezione staccata di Catania (Sezione Seconda), n. 2772/2014, ha deciso nel merito del ricorso tra un’insegnante di religione e il Miur, per l’annullamento di un provvedimento con cui il Provveditore agli Studi di Catania aveva disposto la esclusione della ricorrente dalla sessione riservata di esami finalizzata al conseguimento dell’abilitazione nella scuola secondaria, avendo la stessa prestato servizio nell’insegnamento della religione cattolica.

Tale sessione riservata di esami per l’abilitazione all’insegnamento prevedeva l’esclusione della validità dei servizi prestati nell’insegnamento della religione cattolica, in quanto non prestati su posti di ruolo, né relativi a classi di concorso, esclusione che secondo la ricorrente era da considerare illegittima.

Il Tar ritiene infornato il ricorso.

Infatti, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che “il requisito cui fa riferimento l’art. 2, comma 4, della legge n. 124/1999 per l’accesso alla sessione riservata di abilitazione, ed integrante lo svolgimento di pregressa attività didattica, giustifica modalità agevolative di accesso nei ruoli docenti solo ove tale attività sia stata svolta secondo regole dettate dallo Stato, nonché in corrispondenza di materie individuate dallo stesso come parte del processo formativo della pubblica istruzione. Poiché l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche non corrisponde a scelte squisitamente didattiche, ma ad un impegno assunto dallo Stato rispetto ad altro Ente sovrano, al cui magistero resta direttamente connessa una dottrina, con modalità di selezione del tutto peculiari, lo svolgimento di detta attività non può integrare gli estremi del requisito richiesto dal detto art. 2”.

Come già ritenuto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 343/1999, le particolari modalità di reclutamento dei docenti di religione da parte dell’ordinamento ecclesiale senza ingerenze da parte dell’Amministrazione scolastica, l’inesistenza di un ruolo che li ricomprenda e la circostanza che i contenuti del loro insegnamento non siano curriculari e i relativi programmi non siano soggetti ad approvazione da parte dello Stato, secondo il Tar inducono ad escludere i dubbi di costituzionalità sollevati dal ricorrente.

Le norme in materia di reclutamento del personale della prevedono, infatti, modalità semplificate di accesso ai ruoli del personale docente, mediante concorsi per soli titoli, riservati a chi sia in possesso di un duplice requisito: abbia in precedenza superato prove di concorso o di esame, anche ai soli fini abilitativi, ed abbia maturato una consistente esperienza didattica, acquisita con l’insegnamento, svolto sulla base del titolo di studio richiesto per l’accesso ai ruoli, corrispondente a posti di ruolo o relativo a classi di concorso. La sessione per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento, riservata ai docenti che abbiano prestato tale servizio, è considerata utile anche per acquisire uno dei requisiti necessari per l’ammissione al concorso per soli titoli di accesso ai ruoli. Tale meccanismo si basa dunque sullo stretto collegamento tra titolo di studio posseduto, servizio di insegnamento prestato e superamento di prove di esame, sempre nel contesto del medesimo ambito disciplinare.

Inoltre, “l’insegnamento non costituisce una generica e comune esperienza didattica da far valere in ogni settore disciplinare, ma uno specifico elemento di qualificazione professionale per impartire l’insegnamento corrispondente al posto di ruolo cui si intende accedere. Difatti, nello stesso contesto normativo, il legislatore ha disposto che il servizio riferito ad un insegnamento diverso da quello inerente al concorso non sia valutato quale titolo”.

Non è da ritenersi una via d’uscita l’apertura interpretativa, effettuata da altra parte della giurisprudenza amministrativa orientata a non precludere l’ammissione alla sessione riservata degli esami di abilitazione anche se l’insegnamento sia stato prestato per una classe di concorso diversa da quella per la quale si sia chiesto di partecipare, perché tale discorso vale per classi di concorso affini, per le quali lo stesso titolo di studio, in base al quale si è prestato il servizio, dà accesso ad entrambe le classi considerate. Non è invece assimilabile a questa situazione quella degli insegnanti di religione, il cui servizio è prestato sulla base di specifici profili di qualificazione professionale (determinati con l’intesa tra autorità scolastica e Conferenza episcopale italiana), i quali, di per sé, non costituiscono titolo di accesso ad altri insegnamenti.

Quindi, è legittima la mancata valutazione dell’insegnamento di religione quale titolo di servizio valutabile ai fini dell’ammissione alla sessione riservata di abilitazione all’insegnamento e l’esclusione della docente di religione, in quanto non era in possesso dei titoli di servizio pregresso espressamente richiesti.