L’Autonomia e la Scuola
L’AUTONOMIA DIVIDE LE FORZE POLITICHE E I TERRITORI QUALI CONSEGUENZE PER LA SCUOLA ?
di Gian Carlo Sacchi
Alla fine dell’ottocento la riforma Casati voleva realizzare un programma di alfabetizzazione per il popolo italiano riunificato, soprattutto nelle zone rurali ed in quelle più degradate, ma già da allora dietro la massiccia presenza dello Stato si celava la richiesta per l’autonomia della scuola cattolica. Durante il fascismo si ebbe il consolidamento della scuola statale anche se non fu abbandonata, con i Patti Lateranensi, l’idea di una presenza dell’istruzione di ispirazione religiosa.
La Costituzione democratica ha sancito il ruolo della Repubblica nell’emanazione di norme generali sull’istruzione e nell’istituzione di scuole, così come ad enti e privati, senza oneri per lo Stato. Nella gestione del sistema scolastico stato e repubblica sono stati identificati sotto l’egida dell’amministrazione che conserva tuttora un grande potere soprattutto per quanto riguarda le risorse finanziarie e di personale, relegando gli altri soggetti ad una posizione di netta minoranza.
Per tanti anni dal dopoguerra la burocrazia ministeriale ha dominato a fronte di una politica debole ed anche riforme che hanno cercato di estendere e di migliorare il servizio scolastico sono state applicate in un’ottica statalistica, trascurando spesso le esigenze del territorio. La giustificazione era la salvaguardia del titolo di studio a livello nazionale che garantiva il ruolo della scuola come struttura di unificazione del Paese e di promozione delle persone e dei cittadini.
Verso gli anni settanta del secolo scorso la sinistra ha cercato di vedere la scuola sul modello degli enti locali, come avveniva nel nord Europa, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario ha iniziato il passaggio di competenze verso la periferia, per quanto riguardava il diritto allo studio e la formazione professionale; un processo di decentramento che però non verrà mai completato.Nelle scuole venne introdotta la partecipazione sociale che ne allargò la gestione alle componenti dei genitori, degli studenti e delle forze economiche nei vari ambiti territoriali. Sembrava un passaggio epocale, ben presto però ci si accorse che le componenti esterne avevano solo potere di proposta, mentre la decisione continuava ad essere prerogativa dello Stato ed anche la libertà di dirigenti e docenti era molto limitata agli aspetti didattici.
Dagli anni novanta la parola autonomia entrò nel linguaggio amministrativo in diverse direzioni: nella riforma degli enti locali per aumentarne il ruolo di rappresentanza dei cittadini, nella pubblica amministrazione per favorire il decentramento delle competenze statali ed anche nella scuola con il conferimento della personalità giuridica agli istituti scolastici.
Ma la rottura sul piano politico arrivò con le proposte della Lega Nord circa una visione secessionistica dell’autonomia, che assieme alla legge sul federalismo fiscale voleva attribuire più potere alle regioni sottraendolo allo stato, anche per quanto riguardava la materia scolastica. Un primo referendum bocciò una visione così radicale, mentre un lavorìo all’interno del centro sinistra portò alla riforma del titolo quinto della Costituzione con tanto di referendum confermativo.
Tale riforma però non fu applicata in tanti settori compreso quello dell’istruzione e nonostante alcune affermazioni di principio che lasciavano presagire, assieme al decentramento amministrativo, il passaggio di competenze agli enti territoriali ed alle scuole, con l’opposizione dei ministeri si sviluppò un grande contenzioso presso la Corte Costituzionale. Fu però lasciato aperto uno spiraglio, l’art. 116 della nuova Costituzione consentiva alle regioni che lo avessero richiesto un’autonomia differenziata su un certo numero di materie.
Diverse di loro a guida leghista, alle quali se ne aggiunsero anche di centrosinistra, iniziarono una campagna che oggi ha avuto sbocco con l’approvazione della legge così detta Calderoli, dal ministro delle regioni della Lega, che da decenni ormai persegue questo obiettivo, fino a raggiungere con il governo Gentiloni forme di pre-intesa. Ancora una volta però l’autonomia si rivelò una procedura divisiva, sviluppando un dibattito tra nord e sud del Paese in termini di lotta tra ricchi e poveri, anche se l’applicazione della legge avrà bisogno di diversi passaggi parlamentari.
La riforma costituzionale proprio per evitare fughe in avanti e rischi di emarginazione aveva previsto per alcune materia, tra le quali l’istruzione, la definizione a monte del riconoscimento della maggiore autonomia regionale dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) a garanzia di tutti i cittadini per tutto il Paese, in quanto se i LEP non avranno copertura finanziaria le funzioni richieste non vengono trasferite e per le regioni che non partecipano alle intese di differenziazione è garantita l’invarianza finanziaria.
Anche dei LEP però si sa poco, diversi studi individuanocomponenti del sistema scolastico che possono essere identificate con le norme generali sull’istruzione che la Costituzione attribuisce allo Stato: la rete scolastica, i cicli, le indicazioni nazionali per il curricolo e per l’inclusione, gli esami di stato, istruzione e formazione professionale e degli adulti, la parità scolastica, il personale, l’edilizia, il diritto allo studio.
I LEP si collocano sul versante della domanda, in modo che non vi siano sperequazioni, così su quello dell’offerta vi potrà essere la necessaria flessibilità in relazione alle esigenze del territorio, del mondo del lavoro, delle zone a rischio, mentre oggi avviene il contrario e cioè uniformità dell’offerta a fronte delle differenze delle realtà locali. Fare parti uguali tra disuguali, diceva don Milani, è un modo per alimentare la disequità, come avviene attualmente.
I LEP sono lo strumento indispensabile affinchè il Paese conservi la sua unità, mentre le continue liti tra gli schieramenti politici rischiano davvero di spaccarlo; sarebbe meglio approfondire le questioni recuperando un pregresso incline alle intese con le dovute garanzie.
L’autonomia differenziata dunque è nell’occhio del ciclone, perragioni soprattutto di tattica politica, ed anche se oggi, dopo l’emergenza sanitaria del covid, il regionalismo ha rivelato parecchie criticità, si è evocato la ripresa di efficienza del sistema sanitario nazionale, ma nessuno si è apertamente schierato per una riedizione del centralismo gestionale da parte del ministero.
La questione autonomia/decentramento è in campo da tempo dai diversi versanti politici e se da una parte si ha un approccio più secessionistico, dall’altra si privilegia il riferimento agli enti locali contro il centralismo ministeriale che sa un po’ di ancien regime, ma se avessimo attuato la riforma del titolo quinto avremmo potuto sperimentare l’efficacia di una governance decentrata con il tempo necessario per valutare se si doveva richiedere o menoulteriore autonomia. Una bozza di regolamento era stata elaborata ed attendeva l’approvazione da parte della Conferenza delle Regioni, ma registrò la decisa opposizione del ministerodell’istruzione ed il tutto rimase una dichiarazione di principio, compresa l’elevazione a dignità costituzionale dell’autonomia scolastica.
Tale proposta, mentre ricalcava le competenze dei diversi soggetti, voleva intervenire a favore del loro coordinamento per realizzare il governo del sistema educativo, garantendone l’unitarietà a livello nazionale. Lo Stato garantiva le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni e all’attuazione degli obiettivi stabiliti a livello nazionale, le regioni e le autonomie locali si impegnavano per il loro raggiungimento. Ciò presuppone, continua la bozza, una forte interazione tra i soggetti implicati ed un’effettiva governance territoriale.
A tutti i soggetti istituzionali è garantita la libertà di sperimentare soluzioni proprie, in un quadro nazionale di riferimento, secondo criteri di flessibilità e di corrispondenza alle diverse situazioni locali. La programmazione delle attività dei soggetti ai diversi livelli territoriali dovrà rispettare l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Queste affermazioni, com’è noto, non ebbero seguito e l’amministrazione ancora oggi detta norme a tutti i livelli, di carattere ordinamentale, ma anche gestionale; gli altri soggetti, regionali e locali intervengono su materie di supporto alla diffusione del sistema formativo sul territorio.
All’epoca era piuttosto diffusa la sensibilità politica e amministrativa in merito all’autonomia, mentre con il passare del tempo si è affievolita ed è diventata oggetto di accesa disputa nei divari territoriali dovuta soprattutto alle differenti risorse prodotte dalle regioni. Le spinte autonomistiche in atto in alcuni territori, soprattutto per ragioni economiche e di mercato del lavoro, o per iniziativa di alcuni comuni che chiedevano di passare ad altre regioni, ha mosso queste ultime ad imbracciare l’art. 116, per cercare di corrispondere alle aziende e per la paura di perdere il territorio, indipendentemente dalle maggioranze politiche che le governavano, ed a queste si è aggiunto il tema della insularità proposto dalle relative isole regionali.
La legge è nata in questo sentire politico-programmatico ed ha tenuto conto della diversità delle condizioni economiche con misure compensative ed i livelli essenziali delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini. Se tali livelli devono garantire i cittadini vincolano le amministrazioni, soprattutto quelle meno efficienti, richiamandole alle loro responsabilità, con provvedimenti previsti fin dal 2009 nella legge sul federalismo fiscale.
E’ da credere che gli oppositori siano in difesa dei propri territori o facciano gli interessi delle loro amministrazioni, per le quali è comunque sempre presente la spesa storica, che a volte svolge una funzione assistenziale e non di efficienza dei servizi. Nella predetta bozza di accordo si dovevano stabilire tempi e modalità per il trasferimento delle risorse finanziarie, umane e strumentali, necessarie all’esercizio delle nuove funzioni, completando così il decentramento, condizioni richieste anche dalla nuova legge, ma invece ne uscì rinforzata la funzione dell’amministrazione scolastica sul territorio.
Tra i principi fondamentali indicati dalla Costituzione, Sato e Regioni dovevano garantire la libertà di insegnamento, che usciva dal mero ambito didattico e veniva a qualificare il docente come soggetto culturale nella società e o sviluppo dell’autonomia scolastica nel frattempo divenuta di dignità costituzionale, nonché la sua rappresentanza; il che ridefiniva tutto l’impianto degli organi collegiali territoriali al quale nessuno ha messo più mano, fino ad arrivare a livello nazionale ad un consiglio delle autonomie scolastiche e non come siamo ancora nel tentativo del ministro di appropriarsi del consiglio superiore della pubblica istruzione, e il diritto all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.
Le regioni si impegnavano ad emanare una propria normativa organica, cosa avvenuta solo da parte di alcune di loro e non sotto l’egida dell’accordo, per cui spesso si è originato un contenzioso fino alla Corte Costituzionale. Essa prevedeva anche l’integrazione tra l’istruzione e formazione professionale, come indicato dal riformato titolo quinto, con l’organizzazione della rete scolastica alla quale si aggiungeva la gestione del personale e dei finanziamenti, che oggi dovrebbero derivare dalla capacità fiscale delle varie regioni, con eventuali misure compensative.
L’applicazione del titolo quinto avrebbe potuto raffreddare gli animi, anche in considerazione del superato referendum; l’accordo tra stato e regioni arrivava nel momento in cui la parola autonomia riscuoteva ancora consenso, fresca di interventi sugli enti locali, pubblica amministrazione e scuola. Anche allora sussisteva il rischio economico ma c’era un impegno degli enti territoriali ad intervenire sul distacco dal centralismo statalista. Oggi oltre al conflitto tra centro-destra, che deve approvare la legge per ordine di coalizione, e centro-sinistra, che in buona parte apprezza l’autonomia, anche se con una norma più condivisa, il problema di fondo rimane il rapporto tra centro e periferia, tra obiettivi del sistema, unitari, ed esigenze dei territori, diversificate: è proprio il centralismo, com’è noto, a produrre i danni in termini di apprendimento e di disagio sociale.