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M. Tiriticco, Balilla moschettiere

Venerdì 19 febbraio alle ore 18

Libreria KOOB (quartiere Flaminio, via Luigi Poletti 2, di fronte all’entrata del museo MAXXI) 

Presentazione di

BALILLA MOSCHETTIERE, MEMORIE DI UN ANTIFASCISTA, di MAURIZIO TIRITICCO

copertina_maurizio-tiriticco

F.A. Amodio, La lunga notte del tempo

“La lunga notte del tempo” una fiaba di Francesca Antonella Amodio,
illustrazioni di Gabriella Bulfaro,
editrice Universosud, 2015

di Mario Coviello

 

amodio“Il tempo, la nostra vita, spenderlo stando insieme, un dono… Bimbi, genitori, nonni, tutti negli stessi spazi, ognuno con il suo.. Se qualcuno é davvero prezioso per te, gli donerai il tuo tempo senza un ritorno che non sia il solo piacere di stare con lui…..”

Qualche mese fa ho conosciuto Francesca Antonella Amodio, docente di educazione fisica del Liceo Scientifico Galilei di Potenza, psicoterapeuta ed esperta nei disturbi dell’apprendimento. Abbiamo viaggiato insieme da Potenza e Matera e ho sentito subito grande empatia verso di lei che mi raccontava la sua storia di dislessica, con una delle sue due figlie dislessica, la sua passione per l’insegnamento, il suo lavoro con Enrico Ghidoni e la sua equipe, il suo lavoro di ricerca sulla “Scuola come possibile fattore di rischio” (editrice Ermes, 2015).

Mi raccontava che aveva vinto una borsa di ricerca presso l’Università degli studi di Foggia e che aveva scritto una storia per bambini. Quando, con insistenza, le ho chiesto di dirmi di più non ha voluto.
Allora le ho detto a bruciapelo “ E perché non la pubblichi…?”. L’ho colta di sorpresa e mi ha guardata interdetta.

Venerdì scorso ci siamo rivisti nella Sala Inguscio a Potenza per la discussione di una proposta di legge regionale per introdurre lo psicologo a scuola e mi ha regalato un grande libro illustrato a colori “ La lunga notte del tempo”, editrice Universosud, 2015, con illustrazioni di Gabriella Bulfaro, con una calorosa dedica.

Con calma a casa ho letto il racconto e la storia mi ha preso fino alla fine. L’autrice confessa che la storia del principe Assan gli è stata raccontata dalla nonna, “ nelle lunghe notti d’inverno passate attorno al camino” e continua raccomandando che “ adesso che ci sono i termosifoni ..la fiamma, il suo calore (devono essere serbati gelosamente) sono un luogo del cuore, un luogo che nessun cuore deve perdere mai….”

Assan crebbe felice nel regno di suo padre fino a quando un giovane mago..” bello della bellezza dei giovani anni, dell’intrigo del mistero e della magia…” divenne il suo confidente, amico,…” l’unico con il quale spendeva il suo tempo..”. Assan non aveva più tempo per gli amici, per la natura, per la musica, per la bellezza.

Nemmeno la principessa Chirion, amica d’infanzia riesce a farlo tornare in sé e riceve come unica risposta…” non posso, devo….”. Chirion ricorda al giovane Assan i loro giochi da bambini, le avventure da ragazzi, i suoi affetti..

Assan si chiede allora chi ha rubato il suo tempo, le sue emozioni, il suo piacere e parte alla ricerca del colpevole…. Solo alla fine   Assan capirà che il mago gli aveva rubato con il tempo il gusto della vita.

Presentando la fiaba l’autrice ha scritto “La lunga notte del tempo è una fiaba che si è scritta da sola, uno di quei racconti che voleva essere raccontato ed ha incontrato me, Antonella Amodio. Nata per un gioco letterario, mi ha preso la mano ed è diventata molto di più, la prima a rimanerne incantata sono stata io.. Poi ha incontrato la mano di Gabriella Bulfaro, anch’ella ne è rimasta affascinata e l’ha tradotta in undici splendidi quadri, poi ancora ha incontrato Tonia Bruno che se ne è innamorata e l’ha riempita col suono caldo della sua voce, quindi ha incontrato Antonio Candela che le ha fatto una preziosa veste di mille colori, in ultimo ha incontrato la Regione Basilicata che ne ha voluto far dono alle scuole lucane ed ora spero incontrerà voi e i vostri bambini. “

Raccomando ai genitori, ai nonni, ai docenti questa fiaba avvincente e di immediata lettura. “ La lunga notte del tempo” di Francesca Antonella Amodio si presta a diversi piani di lettura. Il racconto parla ai giovanissimi di quanto sia prezioso il tempo, di quanto il tempo sia la nostra vita e non deve essere sprecato. Il mago che affascina e rapisce il giovane Assan può essere identificato in una delle dipendenze che affliggono attualmente gli adulti e, purtroppo anche le giovani generazioni a partire dalla ludopatia. Essa miete vittime fin dall’adolescenza e il cui focus non è l’utilizzo di sostanze ma appunto il comportamento disfunzionale e il tempo che si dedica a tale attività.

La fiaba si rivolge ai ragazzi degli ultimi anni della scuola primaria e a quelli della scuola media ma la sua lettura non ha età. E’ un invito ai giovani e agli adulti perché siano esempio positivo per loro. I nostri ragazzi non hanno bisogno di “prediche” ma di esempi per sperimentare con adulti consapevoli, genitori e insegnanti, esperienze di buon tempo vissuto.

C. McCarthy, Il guardiano del frutteto

Di quell’altra America…

di Antonio Stanca

McCarthyL’ “invisibile” Cormac McCarthy è ancora vivo. Ha ottantatré anni e si trova nel Nuovo Messico, a Tesuque, con Jennifer Winkley, sua terza moglie e il figlio John. Non appare in pubblico, non prende parte a cerimonie o manifestazioni ufficiali nemmeno a quelle di carattere culturale o specificamente letterario, non scrive più da quando nel 2006, a settantatré anni, pubblicò l’ultimo romanzo, La strada, col quale vinse il Premio Pulitzer per la Narrativa e mostrò di riprendere i modi dei primi romanzi, quelli degli anni Novanta anche se con un accentuato senso del fantastico e del disastroso. “Invisibile” è stato definito perché sempre e ovunque assente è ormai McCarthy.

E’ nato a Providence, Tennessee, nel 1933, ha studiato in scuole cattoliche, ha più volte frequentato l’Università senza mai completare gli studi, è stato per quattro anni nell’esercito, ha lavorato per la radio e a ventiquattro anni, nel 1957, ha scritto i primi due racconti. Questi furono premiati e seguiti, nel 1965, dal primo romanzo Il guardiano del frutteto, che l’editore Albert Erskine avrebbe pubblicato per venti anni consecutivi e che recentemente è stato ristampato dalla Einaudi di Torino nella serie “ET Scrittori” con la traduzione di Silvia Pareschi.

Ha anche viaggiato McCarthy, è stato in Alaska, in Irlanda, nell’Europa meridionale, in Jugoslavia e sia in questi luoghi sia nel suo Tennessee ha scritto. Molto ha scritto e i suoi romanzi gli hanno procurato importanti riconoscimenti. E’ compreso tra i maggiori scrittori della letteratura americana contemporanea insieme a Thomas Pynchon, Don Delillo e Philip Roth. Si è pure dedicato al teatro come autore e sceneggiatore e da alcuni suoi romanzi sono stati tratti film di successo. Noto, famoso è diventato McCarthy anche se la sua fama non ha superato i confini dell’America. E in America sono ambientate le sue narrazioni, in quell’America rimasta lontana, esclusa dai grossi sviluppi industriali, dall’inarrestabile avanzata del progresso, dalla rapida formazione della ricchezza e della forza proprie di una potenza economica e militare a tutte le altre superiore. L’America del McCarthy scrittore è quella che non ha partecipato di tali movimenti, quella ancora primitiva, ancora immersa tra boschi, fiumi, monti, praterie, abitata da comunità rurali, da animali selvaggi, capace di meravigliare, affascinare perché antica nelle sue luci, nei suoi colori, nei suoi suoni, nella sua vita. Di questi luoghi, di questa vita scrive McCarthy, di una vita che ha accettato di rimanere invariata, che è fatta di espedienti di ogni genere, che è determinata dall’ambiente, dalle sue condizioni e perciò priva di regole, affidata al caso, imprevedibile. Così ne Il guardiano del frutteto e così in tanti altri romanzi dello scrittore. Il suo primo sembra abbia stabilito quello che sarebbe stato l’intero percorso della sua produzione narrativa. In quel romanzo difficile riesce distinguere quanto effettivamente accade tra le persone che vi prendono parte. La vicenda, il suo senso, il suo svolgimento, i suoi protagonisti non seguono un ordine completamente chiaro, sono sempre nuovi nelle loro parole, nelle loro azioni, sempre da scoprire nelle loro intenzioni. Senza alcun riferimento preciso, senza alcuna certezza si svolge la vita in quel Nord America dei primi anni del Novecento, in quel Tennessee dove è ambientata l’opera. Un Tennessee ricco di piante, di acque, di animali ma selvaggio, senza ordine, senza regole.

Un vecchio che vive in una capanna da lui costruita tra gli alberi di una collina e che si mantiene con il misero guadagno ricavato barattando radici di piante, un ragazzo che non ha dimora fissa e baratta pelli di animali catturati con trappole, un giovane che contrabbanda whisky, il cadavere di una persona uccisa scoperto dopo molto tempo in una vasca d’acqua, una legge che interviene senza molta decisione e si arrende alle prime difficoltà, un paesaggio che tutto contiene e tutto sembra spiegare: questi sono i personaggi, gli ambienti, i temi di una narrazione che li fa comparire e scomparire, che procede a intervalli, che si sposta tra luoghi, momenti, eventi diversi protraendosi per molte pagine, diventando interminabile poiché bisogno ha McCarthy di dire dei tanti aspetti di un’America poco nota, di come si vive, di cosa avviene in quell’America, tra le campagne, le foreste che la compongono. E lo fa con una scrittura così ampia da raggiungere e mostrare ogni cosa, con un linguaggio così esteso da saper dire di tutti quei posti, da diventare come essi, mai definitivo, mai ultimo, sempre disposto ad accogliere, aggiungere altro, ad essere altro, a stare tra la terra e il cielo, il giorno e la notte, la fine e l’inizio, la vita e la morte, la storia e la leggenda, la realtà e l’immaginazione, la verità e il mistero, la fede e la credenza, la rassegnazione e la speranza, la volontà e il destino, tra tutto ciò che può appartenere ad un’umanità che vive di risorse proprie, di un patrimonio proprio e che ad esso non vuole rinunciare.

Eccezionale è questo processo d’identificazione tra l’uomo e la natura che lo scrittore riesce a compiere tramite infinite, raffinate metafore. Con McCarthy non sembra di leggere ma di vedere.

C. Mezzalama, Il giardino persiano

Come salvare la vita

di Antonio Stanca

mezzalamaChiara Mezzalama, giornalista, saggista, scrittrice, traduttrice, psicoterapeuta romana, che attualmente vive a Parigi, ha pubblicato a Giugno del 2015, il suo secondo romanzo dal titolo Il giardino persiano, edizioni E/O, Roma, (pp. 192, €17,00). Nel 2009 aveva pubblicato il primo, Avrò cura di te, e intanto collaborava con riviste quali Leggendaria e Left e scriveva un’opera sugli attentati terroristici a Parigi intitolata Voglio essere Charlie: diario minimo di una scrittrice italiana a Parigi.

Ha cominciato come giornalista e saggista ed ha continuato come scrittrice la Mezzalama senza rinunciare alle precedenti attività. E’ nata a Roma nel 1972, è figlia di un diplomatico italiano ed ha trascorso molti anni della sua infanzia all’estero dove il padre veniva spesso inviato in rappresentanza del governo italiano. In questo secondo romanzo narra, infatti, di un’estate trascorsa in Iran dove il padre era stato mandato quale ambasciatore d’Italia. La madre, lei che aveva nove anni e il fratello più piccolo, Paolo, lo avevano seguito come era successi altre volte e si erano stabiliti in un’antica e lussuosa residenza appartenuta a principi persiani e poco distante da Teheran. E’ un romanzo autobiografico come mostra pure il nome, Chiara, della bambina protagonista, della quale è la voce narrante.

Capace è stata la Mezzalama di scrivere, all’età di quarantatré anni, un’opera dove rivive le emozioni, le gioie, le delusioni di quando aveva nove anni, di renderle con la sua lingua di allora, di quando trascorse quell’estate in quell’antica villa a Farmanieh, nei dintorni di Teheran, che oltre all’uso di grandi stanze offrì alla sua famiglia anche quello di un grande giardino, di un laghetto, di una fontana e di una piscina.

Era l’estate del 1981 e l’Iran era sconvolto dalla rivoluzione islamica, che aveva portato all’affermazione dell’Ayatollah Khomeini, e dalla guerra con l’Iraq, da due avvenimenti che sarebbero stati determinanti per la storia del Paese, l’avrebbero segnata per molto tempo e ne avrebbero lasciato lunga traccia. Il regime instaurato da Khomeini era rigido, quasi crudele. Contrario, proibitivo era nei riguardi di qualunque manifestazione, fosse individuale o sociale, culturale o religiosa, musicale o figurativa, mostrare di risentire dello spirito, dell’ambiente occidentale. Ad una serie infinita di divieti era sottoposta la popolazione, in particolare quella femminile. Tanti erano gli obblighi da rispettare compreso quello dei bambini che venivano arruolati, armati e preparati per la guerra. La povertà, la miseria, l’ignoranza diffuse presso larghi strati della popolazione, impedivano qualsiasi forma di protesta e costringevano all’accettazione di quanto veniva ordinato.

Per la famiglia di Chiara era stato messo a disposizione personale del posto e molto guardati, osservati si sentivano lei, la madre, il fratello, le poche volte che uscivano da casa.

In un clima simile Chiara vive l’estate del suo nono anno. Ma poco, niente avverte dei tumulti esterni poiché avvengono lontano dalla casa dove alloggia. Il giardino di questa, che la madre comincia ad ordinare con l’aiuto dei domestici, è tanto grande da offrire alla bambina la possibilità di trascorrere in posti diversi la maggior parte del suo tempo compreso quello dedicato alla lettura. Diventerà il suo “giardino persiano” con molte piante, molti animali, molti colori, molte luci, molti suoni, molte voci, con quanto serviva a lei per provare quella sensazione di ampiezza, di scoperta, di novità, di libertà che sempre aveva desiderato. Nel giardino si sentirà ogni giorno nuova, diversa perché sempre nuove, diverse cose le sarà possibile fare, vedere, scoprire. Le sembrerà di vivere un sogno, di essere il personaggio di una favola, verrà a contatto con elementi, aspetti della natura che non sapeva, che la vita a Roma non le aveva fatto conoscere, crederà di essere diventata uno di essi, di poter scambiare, comunicare con essi, lo farà, proverà affetto, amore per Massoud, il bambino iraniano povero, lacero che incontrerà per caso e perché niente di tutto questo vada perduto, perché sia salvato dalla guerra, dagli orrori, dalle distruzioni, dal male che stanno oltre il muro della villa, perché valga più di essi, perché rimanga per sempre, ne farà l’oggetto di una scrittura che inizierà su fogli di carta già usati.

La Mezzalama scrittrice è nata così, l’ispirazione le è venuta dai luoghi della sua infanzia, da qui la sua intenzione, il suo impegno a fare di quella della natura una vita da narrare, da indicare come possibilità di salvezza in un mondo percorso dal male. E’ questo il significato del romanzo, rappresentare un messaggio, un insegnamento e modo migliore non c’era se non quello di scriverlo nella lingua della Chiara di allora, di una bambina cioè, e delle favole sue proprie.

Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli

PER LA GIORNATA DELLA MEMORIA UN FILM DA NON PERDERE

Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli. Recensione di Mario Coviello

 

ricciarelli«Il peso della storia è secondo solo a quello della verità». Così è stato presentato alla Casa del Cinema di Roma, ‪Il Labirinto del Silenzio, del giovane regista italiano Giulio Ricciarelli , tra i candidati all’Oscar per il miglior film in lingua straniera, che dal 14 gennaio  si proietta nei cinema italiani. E’ un film che vi consiglio di vedere e far vedere per prepararci alla “ Giornata della memoria” .In questi primi giorni del 2016 che sono velati di tristezza per gli sbarchi dei profughi che continuano a morire sulle coste dell’Europa, per il terrorismo cieco e crudele che massacra anche i bambini, per la paura che aleggia ,ci toglie la speranza e ci fa diventare diffidenti, razzisti, “cattivi” , “ Il labirinto del silenzio” ci invita a non restare indifferenti, in silenzio.

Nel 1958, il giovane magistrato tedesco Johann Radmann viene a sapere, per  puro caso, che un ex ufficiale delle SS, responsabile di atti efferati, lavora come docente in un ginnasio della sua città. È l’inizio di un’indagine travagliata e difficile.  “Questo è un labirinto, non si perda” dice il pm Bauer al giovane procuratore , determinato a portare alla sbarra gli aguzzini di Auschwitz . Chi ha creato questo labirinto? Per quale motivo? Se in Germania nel ’58 si fosse chiesto cos’era Auschwitz, nessuno avrebbe risposto. Tutti,dopo la ricostruzione del dopoguerra e la ripresa economica che stava portando il benessere,volevano dimenticare. Scavare negli archivi del Terzo Reich significò andare a toccare con mano la colossale e sfuggente estensione di un fenomeno – l’adesione al nazismo – in cui non è sempre facile tracciare un confine tra il conformismo di facciata dei tanti, semplici iscritti al partito e la partecipazione attiva e convinta al suo sistema ideologico.

Ed il protagonista, durante il film, nel suo difficile cammino verso la verità e la giustizia pronuncia queste frasi

– “Voglio che ogni ragazzo tedesco si chieda se suo padre fosse un nazista”

– “Mengele è Auschwitz, perché Mengele è come noi, ha una famiglia, è colto, ama l’opera… è quasi… simpatico”

– “Se io fossi stato qui [ad Auschwitz], non so come mi sarei comportato”

La questione morale finirà per dover cedere il passo alla necessità giuridica di condannare gli assassini: un sigillo posto su un passato da superare, ed una consacrazione di uno stato diritto. Il film ha il merito di raccontare un pezzo di storia, poco conosciuta, che mostra le difficoltà di arrivare a quel processo che, nel ’63, porto’ in aula 211 sopravvissuti a Auschwitz e 19 Ss e una nazione alla coscienza di un terribile recente passato.

L’opera di Ricciarelli, milanese di nascita e tedesco d’adozione, mette in campo tutti i temi legati alla Shoah: la responsabilità di chi partecipo’ a quell’orrore, diviso tra coscienza e dovere di soldato, le suggestioni del revisionismo storico, la banalità del male di Hanna Arendt e soprattutto la volontà di un paese che non vuole davvero sapere la verità.

”Fritz Bauer – ha spiegato il regista – è un po’ un eroe dimenticato. Era il procuratore generale e, non a caso, affido’ la lista dei responsabili a due giovani colleghi perche’ sicuramente non coinvolti nel nazismo”.

Sulla responsabilità di quell’eccidio, spiega ancora Ricciarelli:”non e’ importante quando si e’ nati, prima o dopo Auschwitz. Anche se non si e’ colpevoli resta comunque la responsabilità di quello che e’ successo allora”. ”’.

Nel film non si salva nessuno: innanzitutto i tedeschi, che hanno colpevolmente chiuso gli occhi e si sono gettati in una Germania protesa verso il futuro e il benessere; poi gli Alleati, che hanno protetto, fatto espatriare o reinserito nella pubblica amministrazione  grandi nomi e pezzi grossi del governo nazista, in barba a un processo di Norimberga forse utile solo a eliminare chi non sarebbe servito; e infine tutti coloro che hanno collaborato alla tessitura di questo velo con cui coprire gli occhi di uno stato appena nato.

La storia funziona, il ritmo prende lo spettatore, le interpretazioni sono convincenti e le scelte registiche, insieme alla fotografia, danno ancora più forza ai personaggi, immersi in una Francoforte quadrata, austera e dal sapore anni sessanta. Una Francoforte in cui tutti hanno un legame col regime, un motivo per tenere immutato quel silenzio, anche i più insospettabili.

“ Il labirinto del silenzio” racconta la necessità di alzare quel sipario, di fare i conti col passato, perché il silenzio non aiuta nessuno: senza analisi, senza informazione, senza consapevolezza non si può comprendere e non si può porre rimedio. Al centro del racconto si colloca l’idea che uno sguardo universale sia l’unico vero presupposto di una società civile, in cui nessun individuo e nessun traguardo si  ponga al di sopra del bene comune.

“ Il labirinto del silenzio” ci può aiutare forse a non chiudere gli occhi sui drammi del nostro tempo e spingerci a fare ciascuno la propria parte.

Incontro con Giuseppe Lupo

Incontro con Giuseppe Lupo

a cura di Mario Coviello

 

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Lo scrittore Giuseppe Lupo è nato ad Atella, in Basilicata, il 27 novembre 1963 e vive a Milano. Si è laureato in Lettere moderne nel 1986, presso l’Università Cattolica di Milano, con una tesi sul poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli. Dal maggio 2015 è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso la stessa università.

Ha pubblicato i saggi: “Sinisgalli e la cultura utopica degli anni Trenta” (Vita e Pensiero 1996; Premio Basilicata 1998); “Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana (1930-1940)” (Vita e Pensiero 2002); “Le utopie della ragione. Raffaele Crovi intellettuale e scrittore” (Aliberti 2003), “Vittorini politecnico” (Franco Angeli 2011) . E’ inoltre autore dei romanzi “L’americano di Celenne” (Marsilio 2000; Premio Giuseppe Berto 2001, Premio Mondello, Prix du premier roman 2002), “Ballo ad Agropinto (Marsilio 2004), “La carovana Zanardelli” (Marsilio 2008; Premio Grinzane Cavour-Fondazione Carical, Premio Carlo Levi), “L’ultima sposa di Palmira” (Marsilio 2011; Premio Campiello-Selezione giuria dei letterati, Premio Vittorini), “Viaggiatori di nuvole” (Marsilio 2013; Premio Giuseppe Dessì), “L’albero di stanze” (Marsilio 2015; Premio Palmi) e della raccolta di scritti “Atlante immaginario. Nomi e luoghi di una geografia fantasma” (Marsilio 2014).

E’ consulente presso alcuni editori, dirige la collana Novecento.0 presso Hacca Editore e la collana Atlante letterario presso La Scuola. Collabora alle pagine culturali del “Sole-24Ore” e di “Avvenire”.

L’ho incontrato per parlare dei suoi romanzi, della sua lingua e del sud. Ecco le mie domande e le sue risposte.

  • Ho amato molto “ L’albero di stanze” , rimando a questo proposito alla mia recensione ( https://www.edscuola.eu/wordpress/?p=70792 ) e sono stato rapito da “ L’ultima sposa di Palmira “,premio Selezione Campiello 2011, anch’esso edito da Marsilio, che volevo non finisse mai,e voglio farti alcune domande per conoscerti meglio come uomo e come scrittore.

-Chi è Giuseppe Lupo ?

lupo2Giuseppe Lupo è uno che ama stare con la testa nei libri, ragiona pensando ai libri, codifica il mondo attraverso le parole che sono contenute nei libri. Scherzi a parte, è uno che crede nella forza delle storie e nelle parole che hanno il potere di inventare il mondo.

-Perché scrivi ?

Perché mi piacerebbe leggere alcuni particolari libri che poi nella realtà non trovo e allora i libri che vorrei leggere (e che non trovo) provo a scriverli io. Scrivo perché raccontare storie è il mestiere più affascinante che esista al mondo-

  • Al centro dei due romanzi mi sembra ci sia la famiglia, il matrimonio, l’amore. E’ così , quanto è importante per te tutto questo ?

Sono valori/principi in cui ovviamente credo e che sono stato educato a rispettare. Più che altro, a me interessano i rapporti tra gli individui in un tempo e in una geografia, intesa come lettura antropologica di un luogo.

  • Il tuo universo letterario in questi due romanzi è il sud, il Mediterraneo, l’Appennino, la Lucania e in “ L’ultima sposa di Palmira “ la Lucania dopo il terremoto del 23 novembre 1980. Tu sei nato ad Atella e vivi a Milano. Quanto è importante per te il sud, la Lucania e perché ? Quale è il futuro della nostra terra e su cosa dobbiamo puntare per non morire..?

La Lucania è il grande magazzino di storie, a cui attingere come in un granaio. Essere lucani non significa solo essere nati in una geografia (anzi, io penso di essere nato in un non-luogo), piuttosto significa avere un certo tipo di sguardo, un certo modo di stare al mondo. Credo che sia un segno di distinzione rispetto alle regioni meridionali che ci stanno intorno e credo sia una risorsa. La Lucania dovrebbe credere nella cultura che da essa si sprigiona. Il caso di Matera è emblematico: da vergogna a capitale europea della cultura.

  • Ami le cose fatte con le mani, i ricami, gli intarsi di mastro Gerusalemme,il protagonista de “ L’ultima sposa di Palmira, le pietre che diventano case. Perché questo universo costruito dalle mani dell’uomo è così importante e va conservato ?

Perché è l’unico segno che l’uomo è passato sulla terra. Mastro Gerusalemme costruisce mobili come lo scrittore costruisce storie. Le storie sono l’unica garanzia che esistiamo.

  • Amo perdermi nel tuo modo di narrare, nella tua lingua semplice ed antica. Hai detto che non vuoi raccontare il quotidiano e in questi due romanzi la realtà che racconti è sempre sognata. Perché ?.E’ questo, secondo te, lo scopo della scrittura ?

Perché il quotidiano/la cronaca è già narrato dagli strumenti di comunicazione: giornali, tv, radio. Un romanzo, una narrazione dovrebbero contenere il respiro del tempo lungo, il fiato delle epopee. Il lettore deve capire che sta entrando in un altro tempo o in un altro luogo rispetto a quello in cui è immerso.

Presentando ai suoi lettori il suo ultimo romanzo “ Un albero di stanze” Giuseppe Lupo scrive “…. La casa dove si ambienta la mia storia è un “albero di stanze”, una costruzione verticale. E io mi continuavo a chiedere: a chi affidare il racconto dei padri, dei nonni e dei bisnonni, vissuti dentro una torre? A chi se non a un giovane chiamato Babele, che non sente le voci degli uomini ma capisce perfettamente il linguaggio dei muri? Forse sono io Babele, forse Babele è l’uomo che sarei voluto essere: un sordo, un indovino. Può darsi.”

Salvatore Marra, La prima luce

“La prima luce”, un film di Salvatore Marra

Recensione di Mario Coviello

 

marraSi chiama Mateo, con una sola t ,perché Martina, la mamma, viene dalle Ande e parla spagnolo. Ha sette anni ed è sempre in allarme perché le cose tra la mamma e papà Marco non vanno bene. Sì è vero litigano a bassa voce e gli dicono sempre che va tutto bene, lo baciano, e soprattutto papà lo fa giocare, appena il suo lavoro di avvocato glielo permette. Marco e Mateo fanno in casa le battaglie con i cuscini, sulla spiaggia di Bari si divertono a fare l’aereo e i tuffi in mare. Papà lo aiuta a non aver paura dell’acqua, a difendersi da Giovanni, il bullo che tutti i giorni gli fa le prepotenze a scuola.

Martina è sempre triste, fa male il suo lavoro di pubblicitaria, privata delle proprie radici, galleggia nelle acque agitate dalla crisi economica ( “Marco qui non c’è futuro – grida al compagno- odio questa crisi di merda e le persone disperate “ ) e da un’inquietudine profonda. Invano cerca di far capire che si sente soffocare al compagno che gli risponde “ Il futuro ce lo creiamo noi “ . Piange quando chiama la madre a telefono in Cile perché non trova i passaporti che Marco gli ha nascosto.

Un brutto giorno Martina porta via Mateo, salgono su un aereo e il ragazzo cambia scuola, lingua, abitudini. E quando la mamma, dopo circa un mese chiede al figlio, immerso per la prima volta nello schermo di un tablet, perché è triste, Mateo risponde che vuole vedere il padre.

Con “ La prima luce”, in concorso alle Giornate degli autori a settembre 2015 alla Mostra del Cinema di Venezia, il regista Vincenzo Marra ci ha regalato una storia davvero emozionante e forse il suo film più bello, perché sentito, vivo, ardente, e nello stesso tempo intimo, composto, quieto, rispettoso. Marra racconta la sua storia di padre al quale la compagna straniera ha portato via il figlio, scappando all’estero. Riccardo Scamarcio con il suo sguardo dolente è il convincente avvocato che parla in dialetto barese con i clienti che non lo pagano e non si accorge che la compagna non ce la fa più a vivere nell’appartamento con vista sul mare e continua a ripetergli che vuole andarsene, tornare a casa. Come molti uomini si illude che le cose si possano aggiustare , anche se Martina non vuole più fare l’amore . Marco è uomo segnato dalla colpa tipicamente maschile della disattenzione: verso un’idea più solida di rapporto a due e nei confronti di una ragazza straniera che, per amore, ha lasciato il proprio paese.  Il dramma viene raccontato con toni dimessi , il bambino passa dalla mamma al padre e i tre non fanno mai nulla insieme per tutto film.

Dopo una serie di inutili tentativi con avvocati,giudici e addetti al consolato, Marco svende la macchina e decide di andare a cercare il figlio. Se Martina si sente estranea sul lungomare di Bari, Marco si immerge nei tristi palazzoni di Santiago del Cile, metropoli indifferente e indecifrabile di sei milioni di persone dove la madre di suo figlio è scappata. Frequenta bar anonimi per incontrare il suo avvocato argentino e un investigatore privato e prova nell’anima cosa significa vivere in un paese straniero, non saper parlare bene una lingua e lottare con il tribunale dei minori, quando la compagna lo accusa di violenza e gli impedisce di avvicinarsi al figlio.

Marco pedina Mateo sulla strada da casa a scuola, bivacca nel giardino di fronte all’aula del figlio, rischia il carcere ma non molla. Affronta il processo per l’affidamento. Vince a metà ma deve rimanere in Argentina per poter vedere il figlio ogni quindici giorni. Decide di rapirlo e poi all’ultimo momento si tira indietro per amore del bambino. Nella scena finale padre e figlio si abbracciano perché Martina apre lo sportello della macchina e fa scendere Mateo che va incontro al padre che li ha seguiti trafelato a piedi. Come andrà a finire…?

Volutamente Marra evita il drammone strappalacrime, la sua narrazione è pulita,sobria, trattenuta. La recitazione di Riccardo Scamarcio nei panni di Marco è tutta nello sguardo, uno sguardo che trasmette arroganza e affetto, ottusità e graduale consapevolezza, sgomento e frustrazione e sa coinvolgere lo spettatore nel dramma di questo padre che impara ad amare veramente suo figlio.

Vincenzo Marra ha detto «L’idea del film nasce dalla somma di tante cose: la mia costante osservazione della realtà, la voglia di raccontare le trasformazioni in atto nella società. E poi questa storia sempre più urgente che narra la vicenda dei figli contesi, bambini figli della globalizzazione. Una storia di fatto universale, al di là dei due paesi scelti».

Il film in questi mesi di sbarchi, di morti in mare, di ragazze palpeggiate e stuprate da immigrati nella piazza di Colonia, ci invita a riflettere sull’incontro e la convivenza tra uomini e donne che provengono da culture, lingue, religioni diverse. E’ questo un film sul rapporto di coppia, sulla famiglia e, come avviene sempre più spesso nella cinematografia odierna, un film sulla maturità triste di piccoli che devono insegnare ai grandi cosa conta veramente nella vita e come si devono comportare.

M. Campanini, Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo

La luce che mancava

di Antonio Stanca

 

campaniniNato a Milano nel 1954, Massimo Campanini ha sessantadue anni. Si è laureato in Filosofia a ventitré anni, a trenta si è diplomato in lingue arabe, a trentadue ha cominciato a pubblicare e suoi primi lavori sono stati saggi e traduzioni, queste ultime di filosofia e teologia musulmana, di esegesi coranica. Anche su riviste specializzate ha scritto trattando del problema della democrazia negli stati di religione musulmana. Altri aspetti del mondo, della cultura, della religione dell’Islam sarebbero stati oggetto di altri suoi scritti pubblicati in seguito mentre svolgeva la sua attività accademica. Questa era cominciata presso l’Università Statale di Milano dove era stato “Cultore della materia” di Storia Contemporanea. Poi aveva insegnato Storia e istituzioni del mondo islamico presso l’Università di Urbino, Cultura araba di nuovo nell’Università di Milano, Storia contemporanea nei paesi arabi nell’Università di Napoli ed infine Storia dei paesi islamici nell’Università di Trento, dove tuttora insegna. Come si può notare predominante è stata nell’attività dello studioso l’attenzione per il mondo orientale, in particolare per quei territori, quei popoli che in esso sono di religione islamica. Uno dei maggiori orientalisti italiani è considerato il Campanini oltre che un importante storico dell’Oriente arabo contemporaneo e della filosofia islamica. Lo dimostrano le numerose pubblicazioni che a tal riguardo ha prodotto compresa la più recente, Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo (Editrice La Scuola, Brescia 2015, pp. 123, € 9,50). In quest’opera il Campanini ha raccolto saggi suoi e di altri studiosi. In ogni saggio il suo autore si è impegnato a chiarire momenti, aspetti, riflessi di quella religione islamica che tanto sta facendo parlare ai nostri giorni dopo gli attentati di Gennaio e Novembre a Parigi. Ogni saggista ha svolto un argomento e più di uno ha svolto il Campanini. Ne è risultato un lavoro molto interessante poiché molta luce fa sulla vita, sulla società, sulla storia dei paesi musulmani. Dal libro risulta spiegato quanto dall’antichità ad oggi è successo in Medio Oriente, cosa ha rappresentato per i popoli di tanti stati l’Islam, come si è sviluppato, in quanti modi è stato interpretato, in quante forme è stato praticato e continuato.

Il lettore si vede chiariti fenomeni importanti, necessari per chi voglia conoscere, valutare, giudicare quanto oggi gli giunge in maniera quasi continua dai mezzi di comunicazione. Un’opera da inserire nei programmi di studio scolastici, nonché universitari, è questa del Campanini dal momento che, grazie ad una forma espressiva piuttosto semplice, permetterebbe ai giovani di conoscere quel che finora è rimasto quasi ignorato, di completare la loro cultura, la loro formazione.

Una ricostruzione della storia, della filosofia dell’Islam contiene il libro, dei rapporti, dei confronti, degli scontri che nel tempo sono avvenuti tra Oriente islamico e Occidente cristiano, Islam ed Europa, Islam e Stati Uniti. Tra passato e presente si muove in continuazione l’opera e vi scopre collegamenti ancora sconosciuti, rivela verità che nessuno sospettava. Accurata, particolareggiata è l’indagine compiuta dagli studiosi. Niente viene trascurato e gran merito va loro attribuito per essere riusciti ad ottenere tanto circa un fenomeno così complicato quale quello della religione islamica, delle sue interpretazioni, delle sue applicazioni, delle sue combinazioni. Non è facile partire dai tempi della rivelazione coranica, del profeta Muhammad, dei suoi primi successori, di Medina, della Mecca, dell’“età dell’oro” dell’Islamismo e giungere alla modernità, alla contemporaneità, a manifestazioni come quelle di al-Qaeda ed infine dell’Isis. E’ un percorso molto lungo e carico di infinite vicende che a breve distanza se non contemporaneamente si sono verificate, sono cambiate a volte completamente a volte parzialmente rispetto alle precedenti. Di tale immensità dice il libro del Campanini: dell’Islam che si scompone in tante correnti, in tante sette, in tante dottrine con gravi ripercussioni sui popoli dei numerosi stati islamici, dell’Islam dei califfi e delle loro mai chiare funzioni, dell’Islam quale riferimento essenziale, motivo di richiamo per popoli ancora privi di una propria identità nazionale perché esposti da secoli alle invasioni coloniali delle potenze occidentali, dell’Islam che si combina, s’intreccia con la storia fino a diventare violenza, terrore, guerra, dell’Islam che vuole riformarsi, ammodernarsi ma non vuole rinunciare al suo passato, alle sue origini, dell’Islam e della donna islamica, dell’Islam e della sua diffusione nei paesi scelti dagli immigrati, dell’Islam e dei suoi difficili rapporti con altri ambienti, altre religioni.

I tempi, i luoghi, gli uomini, gli eventi di un universo così vasto, così complesso, vengono analizzati, chiariti, ordinati nel libro, storia viene fatta di ciò che non lo era.

A. Pian, Visto in Sala

pianAlberto Pian, Visto in Sala
Lezioni di storytelling attraverso il cinema
Trenta storie cinematografiche, analizzate per aiutare a capire come viene strutturata e come si crea una storia di successo.

ISBN: 9788892536944 Protezione: DRM Free (Watermark) Anno di pubblicazione: gennaio 2016

Il libro è solo in formato digitale
Formati: ePub, PDF
Pagine: 228 (ePub): 296 (PDF)

Edizione: Street Lib Narcissus

ABSTRACT: Quelle che vi apprestate a leggere non sono “recensioni” di film.
Le storie cinematografiche sono un pretesto per affrontare i temi della narrazione sotto diversi punti di vista: l’articolazione di una storia, la creazione della suspense, le tematiche che riguardano i conflitti, le relazioni psicologiche, il rapporto con le fonti storiche, i canoni e gli stereotopi, le isotopie e tanti altri che aiutano a costruire storie efficaci.

“Quo vado?” di Gennaro Nunziante

“Quo vado?”, un film di Gennaro Nunziante con Checco Zalone

di Mario Coviello

 

quovado“Da grande voglio fare il posto fisso”: questa battuta, che è già diventata un tormentone, è pronunciata in una delle prime scene del film dal giovane Checco. Da anni impiegato nell’Ufficio Caccia e Pesca della Provincia, quando si vede togliere il lavoro per l’attuazione della nuova riforma, non si perde d’animo e non rinuncia al suo posto fisso, che gli è valso tanto rispetto e reverenza in famiglia e fra gli amici. Inizia così una peregrinazione nei più sperduti punti dell’Italia, senza mai perdersi d’animo e adattandosi con il suo fare strafottente, a costo di non firmare le dimissioni, come più volte incalzato dal senatore Binetto (simpaticissimo cameo di Lino Banfi). Finché non viene sbattuto al Polo Nord, “romantico” luogo di incontro con la ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi).

Mi sono avvicinato all’ultimo film di Checco Zalone “ Quo vado”, campione di incassi di queste periodo natalizio con oltre 38 milioni di euro e cinque milioni e mezzo di spettatori, con la puzza sotto il naso dello spettatore che ama i film impegnati. E subito sono stato catturato dallo stile elementare e dalla comicità semplice ed efficace di Checco Zalone e del suo regista Gennaro Nunziante, che mirano volutamente in basso per colpire un po’ più in alto, ma prima di tutto nel segno. Dal paesino pugliese al Polo Nord. Dal calduccio del posto fisso al gelo del pack artico. Dall’italica autoindulgenza all’ipercorrettezza scandinava. Dagli incontri ravvicinati con i prosciutti e i sottolio conservati dai colleghi nei loro confortevoli uffici (pubblici), a quelli con le foche e gli orsi della stazione di ricerca in Norvegia, dove l’inamovibile impiegato di una Provincia pugliese Luca Medici,viene catapultato dalla perfida funzionaria Sonia Bergamasco per cercare di farlo dimettere come vuole la nuova direttiva.

Checco Zalone nella sua quarta fatica ci porta in giro per l’Italia, anzi in giro per l’italietta, quella dei tanti vizi e delle poche virtù. Col solito savoir-faire il comico pugliese ci fa ridere delle nostre debolezze, dei paradossi italici, dei cinismi della politica, che taglia le vecchie province e ingrassa i nuovi municipi, delle scorciatoie della gente comune che anela al “posto fisso” come bene ultimo nella vita. Zalone padre improvvisato di tre figli non suoi, di etnie e credi religiosi differenti, è il nostrano Forrest Gump che può arrivare ovunque, anche in Norvegia. I film di Zalone mi sono convinto che hanno grande successo perchè sono di grande accessibilità, vagamente infantili ,Checco è sempre un bambinone, in fondo. Ecco cosa dice di lui Lino Banfi “Anzitutto la fisionomia: è giovane, ma rappresenta anche la mezza età. Ha una comicità modernissima, ma sa giocare sul filone classico. È normalissimo, eppure coltissimo. Incarna in un corpo solo tre epoche diverse di comicità. È antico e moderno, anzi postmoderno. E ha tempi di battuta musicali: non gli sfugge mezzo dettaglio.” Alla splendida Sonia Bergamasco che ha il compito di convincere Checco a dimettersi dal posto fisso è stato chiesto: Secondo lei cosa ha portato più di cinque milioni di spettatori al cinema?
“E’ un numero stupefacente. Zalone ha intercettato il tema giusto nel momento giusto. Ha avuto una grande sensibilità, ha colto il momento. Molte persone che lo hanno visto mi hanno raccontato di essersi rispecchiati nel personaggio di Checco, nelle sue cadute, nelle sue fragilità, nel suo essere e non essere. Attraverso una risata liberatoria, gli spettatori riescono ad affrontare i loro limiti, mi sembra il film giusto al momento giusto. Qualche critico lo ha definito un film politico tra virgolette, lo è nella misura in cui è una fotografia, storpiata e grottesca, del nostro paese oggi. E’ politico perché ci riguarda come comunità, non si schiera a destra o sinistra, ma si mette dalla parte dell’uomo comune”.

E l’altra protagonista femminile Eleonora Giovanardi di Checco Anzolone dice “”La maschera di Checco riesce a parlare a chiunque, senza puntare il dito. La sua critica sociale è innanzitutto verso se stesso. Lui ama la gente e riesce a tirare fuori il bambino che ha dentro perché ha una intelligenza emotiva”. Mi piace che nel film sia uscito il Checco che ho conosciuto io”.

L’uomo zaloniano, messo a confronto con orizzonti più ampi di quelli del suo ufficetto di provincia, è capace di allargare le proprie vedute, di accettare famiglie allargate, di abbandonare retoriche maschiliste, perfino di imparare a non saltare le code o non suonare il clacson al semaforo.

Insomma, Quo Vado? non è un film banale. Offre spunti e riflessioni, sfrutta Zalone come un canale mediatico, ficcandoci dentro tutte quelle piccole e grandi cose che tengono ancorato un paese come il nostro. E così Quo Vado? si può permettere un finale che apre una speranza per il futuro. Quella speranza figlia di un rinnovamento al quale tutti siamo chiamati a contribuire.

AA.VV., Doremat – La Musica della Matematica

Doremat – La Musica della Matematica. Il Testo. Insegnare e imparare la Matematica con la Musica
A cura di D. Lentini, di A. Bianchi, C. Cuomo, G. Curti, D. Lentini, N. Magnani, R. Vagni.
Digital Index Editore, Modena, 2015. ISBN 9788899283056.

dorematPubblicato in formato eBook “Doremat – La Musica della Matematica. Il Testo. Insegnare e imparare la Matematica con la Musica” a cura di D. Lentini, dirigente dell’Enfap Emilia Romagna, Scuola di Istruzione e Formazione Professionale, dallaquale nasce l’intuizione del progetto Doremat.
Gli autori del testo sono A. Bianchi, C. Cuomo, G. Curti, D. Lentini, N. Magnani, R. Vagni
Prefazione di Bruno D’Amore e Postfazione di Giorgio Bolondi.

Questo testo nasce da un’intuizione che vede nell’innovazione della didattica una risorsa per motivare i ragazzi all’apprendimento della matematica ed è il frutto di una sperimentazione che dal 2007 ad oggi ha coinvolto quasi 2000 allievi tra scuole secondarie di primo e secondo grado in tutta Italia.

La metodologia didattica adottata ha come scopo l’insegnamento della matematica attraverso la musica e ha visto il proprio sviluppo attraverso un’attività di ricerca e sperimentazione che ha permesso di ripercorrere e mettere in evidenza le analogie che intercorrono tra matematica e musica, compiendo un sistematico lavoro di declinazione in chiave musicale delle conoscenze e delle competenze matematiche del curriculum della secondaria di primo grado fino alla terza classe della secondaria di secondo grado.
Ciò è stato reso possibile dalla stessa natura delle due discipline che usano linguaggi universali e hanno una comune matrice culturale.

Da questo lungo e approfondito lavoro di ricerca e sperimentazione è nato anche il testo per l’insegnamento della matematica attraverso la musica che funge da libro didattico per gli insegnanti dove sono descritti alcuni argomenti matematici dedicati a aritmetica, algebra e geometria, declinati in chiave musicale e proposti attraverso laboratori matematico-musicali.

Il testo è rivolto ai docenti di scuola secondaria di primo grado e primo triennio di scuola secondaria di secondo grado, ed è stato validato scientificamente dai dipartimenti di Matematica e di Musicologia dell’Università di Bologna.

Il libro fa parte della collana Digital Docet – Risorse didattiche digitali curata da Silvia Sbaragli. La collana presenta studi e proposte derivanti dalla didattica delle diverse discipline tesi a fornire agli insegnanti in formazione iniziale ed in servizio, di tutti i livelli scolastici, una lettura utile per acquisire professionalità e per interpretare le situazioni d’aula. I contributi presentati hanno un forte carattere teorico e empirico e puntano sulle riflessioni di ricerca che si trasformano in strumenti efficaci per la realizzazione di “buone” situazioni di insegnamento-apprendimento.

Checco Zalone fra i cani di Pavlov e i piccioni di Skinner

Checco Zalone fra i cani di Pavlov e i piccioni di Skinner: le ragioni di un successo costruito.

di Luigi Manfrecola

Sono preoccupato. O forse no…sono solo sconcertato…o forse no…sono semplicemente disgustato .

C’entra proprio Zalone, non lui direttamente, ma CHI lo sta usando ed imponendone le cretinate insulse nel criminogeno circuito mediatico. Posto che quel CHI è come il Padreterno : c’è ma non si vede; c’è e controlla le nostre azioni, i convincimenti, i gusti, i ritmi di vita, gli interessi, i destini. Siamo poco più che marionette attaccate ai fili invisibili delle onde hertziane che trafiggono le nostre stupide menti.

Le holding commerciali , espressione ultima d’un POTERE ECONOMICO che controlla le nostre vite e si fa portatore del nuovo Verbo, d’un tentativo di evangelizzazione al profitto ed all’edonismo più inconcludente, si fanno sempre più pervasive e vanno insidiando anche i nuovi “spazi di comunicazione” presuntivamente liberi da ingerenze monopolistiche. E’ il caso dell’Huffington Post, oggi definitivamente depennato dai miei siti frequentabili per la vicenda “zaloniana” di cui discutiamo. E’ il sito, fra gli altri, che più sfacciatamente ospita i trailer del nostro “sempre stupefatto” eroe barese e ne canta le Lodi in maniera invereconda al punto di dire che ≪Zalone non è un comico qualsiasi (ha la presenza del cabaret, la reattività del battutismo televisvo e un certo amore dei giochi di linguaggio alla Totò: ” buonanotte ai senatori”), ma credo che non si capisca il segreto del suo successo se non si esamina attentamente la sua intelligenza ” politica”: ≫

A voler controllare però l’attendibilità della fonte (Huffington), si scopre che appartiene al “Gruppo Espresso” e che tale gruppo≪ è impegnato ad offrire informazione, cultura, opinioni e intrattenimento secondo principi di indipendenza, libertà e rispetto delle persone, nella consapevolezza di avere una grande responsabilità nella formazione di valori etici e morali del proprio pubblico≫… Cosicché poi resti fortemente perplesso nel vedere dove siano finiti quei dichiarati valori etici e morali, posti al servizio degli sforzi infruttuosi d’un banalissimo “comico” che tuttavia diviene magicamente “campione di incassi” con un insipido ed indigesto cinepanettone natalizio… Un panettone che non ho assaggiato e mai assaggerò essendomi restato in gola il precedente “miracolo” d’un sole piovutomi sulla testa “a catinelle”. Mi è bastato vedere i trailer sparsi perfino in Internet dalla testata citata (Huffigton) che pretendevano di raccogliere le battute più esilaranti (?) del filmetto. Allora ho voluto approfondire la radice editoriale della testata ed ho scoperto che ≪ Il Gruppo Espresso è uno dei principali operatori italiani nel settore dei media, attivo nelle seguenti aree di business: Stampa Nazionale (quotidiani e periodici); Radio; Televisione;Raccolta pubblicitaria;Digitale.≫

Tutto è chiaro, dunque; è ben chiara la strategia di marketing che costruisce a tavolino i successi dell’anno, che crea benevolmente gli “Eventi” per distrarci dalle fatiche del quotidiano, per renderci consumatori beoti e devoti d’una qualsiasi brodaglia che possa consolidare e costruire ricchezza per i pochi rapaci padroni e/o governanti. E così, apprezzi meglio quella che, secondo me, è la battuta principale del film che, a luci già spente, vede coprotagonista il nostro Ministro alla Cultura (!!) Franceschini quando ineffabilmente si dichiara compiaciuto e riconoscente per l’opera svolta dal Zalone a vantaggio del cinema italiano.

A questo punto vi starete chiedendo cosa c’entrino “cani e piccioni” con il nostro discorso ed ho l’obbligo morale di chiarirlo in breve. Vedete, è tutta questione d’intendere i meccanismi sui quali si costruisce il “gusto” e/o il senso estetico delle Folle. Due sono le leve principali saggiamente adoperate dai manipolatori della pubblica opinione: LA “SUGGESTIONE” ed il “CONDIZIONAMENTO OPERANTE” (da Pavlov a Skinner, a proposito di cani e piccioni) che creano le ABITUDINI , secondo quei ben noti meccanismi di associazione – ripetizione di stimoli (vedansi le Leggi dell’esercizio e dell’effetto/rinforzo studiate da Thorndike).

In effetti, il gusto si educa proprio attraverso l’esposizione ripetuta a determinati stimoli che , in larga parte, crea delle “memorie” dell’esperienza vissuta e delle correlate “aspettative”. Ciò è ben evidente a livello sensoriale se consideriamo l’educazione alimentare per la quale è consigliabile sottoporre determinati sapori in giovane età affinché ci si abitui a quel gusto, fino a poterlo apprezzare. Ma la stessa cosa si può dire per l’educazione dell’orecchio . Si consideri , ad esempio, come le canzoni ascoltate una prima volta in un Festival difficilmente piacciano al primo impatto ed abbisognino d’una successiva frequentazione perché riescano gradevoli.

In un certo senso ciò rinvia ad una visione meccanicista dell’apprendimento (Associazionismo) che vuole ogni apprendimento fortemente legato e derivante dagli stimoli introdotti dall’esterno , stimoli “ripetuti” fino a diventare familiari (condizionamento) col creare determinate aspettative per cui la riproposizione dei medesimi, anche in mancanza di gratificazioni esterne di per sé diviene (e con ciò dissento parzialmente dalla convinzione/teoria che sia comunque necessaria una “ricompensa”correlata), una conferma piacevole delle aspettative medesime . Naturalmente ciò non vale per tutti quegli altri apprendimenti che chiamino viceversa in causa l’identità ed i poteri critici dell’individuo, come correttamente sostengono gli psicologi cognitivisti. Tuttavia, nel caso di cui discutiamo, siamo nel parametro opposto che contempla quei processi di “comunicazione di massa” finalizzati al plagio ed alla SUGGESTIONE.

Riportiamo dalla Treccani il significato di tale termine: “Fenomeno della coscienza per cui un’idea, una convinzione, un desiderio, un comportamento sono imposti dall’esterno, da altre persone (la forma estrema è la s. ipnotica e post-ipnotica, esercitata da un ipnotizzatore e operante nel sonno ipnotico e dopo di esso), o anche da fatti e situazioni valutati non obiettivamente, e da impressioni e sensazioni soggettive non vagliate in modo razionale e critico”. A nessuno può sfuggire, d’altra parte, che la velocità del messaggio audiovisivo, l’impatto emotivo esercitato sull’emisfero cerebrale destro, la presunta autorevolezza della fonte (credibile poiché “condivisa”da altri…) rappresentano elementi al cui fascino è difficile sottrarsi. Ma è principalmente la natura stessa dei meccanismi psicologici e sociologici operanti nelle masse a generare quell’acquiescenza, quella credulità, quell’incapacità critica che sta facendo la fortuna di pochi “eletti”: dal latino “eligere” in quanto “scegliere”. Ebbene, pur rischiando di dargli un dolore, colgo l’occasione per comunicare a Checco (ove mai abbia la sfortuna di leggermi) che non potrei mai sceglierlo per accompagnare le mie notti insonni, anche se, adire il vero, qualcosa di azzeccato debbo riconoscerglielo : quel nome da burla al quale deve parzialmente il suo successo.

M. Cerulo, Gli equlibristi

Gli equilibristi con le vertigini

di Stefano Stefanel

 

ceruloGli equlibristi La vita quotidiana del dirigente scolastico: uno studio etnografico è un interessante testo sui dirigenti scolastici scritto da Massimo Cerulo, finanziato dalla Fondazione Agnelli e pubblicato quest’anno da Rubettinoebook. Si può scaricare gratuitamente on line. Gli equilibristi è una ricerca sul campo fatta seguendo per una settimana dalle 8.00 alle 14.00 quattro dirigenti di scuole secondarie di secondo grado (due del Nord e due del Sud, uno con una reggenza nel primo ciclo) e osservando e rendicontando quello che fanno “minuto per minuto”. E’ vero che “Tutto il dirigente minuto per minuto” alla fine dovrebbe spaziare su almeno 16 ore di vita giornaliera, ma è altrettanto vero che un’osservazione come qualla condotta da Cerulo è molto completa ed ampia. I quattro colleghi che si sono prestati alla ricerca svolgono in modo egregio il proprio lavoro, danno risposte sensate e – come tutti noi – interpretano le stesse leggi in modi personali e con stili dirigenziali irripetibili. Il volume è facilmente leggibile, le casistiche pertinenti e proprie di ogni giornata del dirigente scolastico: ci si riconosce facilmente in molto di quello che accade. Inoltre il testo esce dalla logica della statistiche per entrare in quello delle casistiche e l’osservazione esterna è molto interessante perché mostra quali questioni, quali opinioni, quali comportamenti sono i primi ad essere letti e registrati da chi non ci conosce. Gli equilibristi è un libro molto interessante e pieno di spunti per analizzare la professione dirigenziale: proprio perché non è un libro che vuole essere esaustivo permette di isolare alcuni elementi che sono al tempo stesso problematici ed emblematici. Inoltre permette di abbozzare una figura dirigenziale che, pur con ovvie e prevedibili diversità, alla fine coincide in molti tratti. Ritengo l’operazione pienamente riuscita e spero la Fondazione Agnelli e l’autore riescano ad accompagnarla con utili dibattiti nelle varie zone d’Italia toccate da problemi analoghi a quelli descritti nel volume, ma anche da problematiche del tutto diverse.

 

L’ABBRACCIO MORTALE

 

La questione che attraversa tutto il libro è quella del rapporto tra amministrazione e didattica nella professione dirigenziale. Poiché le norme attribuiscono entrambe le funzioni al dirigente scolastico, ma i problemi vengono soprattutto dal lato amministrativo Gli equilibristi descrive per lo più l’approccio amministrativo del dirigente fino a far dire all’autore (smentito dal prefatore della Fondazione Agnelli) che nella scuola ci vorrebbe una doppia dirigenza : didattica assegnata al Preside, amministrativa assegnata al Dsga. E’ questa anche l’idea delle associazioni di categoria dei Dsga, smentita (dico io giustamente) da tutte le leggi sulla dirigenza scolastica (dal d.lgs 165/2001, al d.lgs 150/2009, alla legge 107/2015) e avvalorata invece dal Contratto collettivo del personale scolastico (fermo al 21 novembre 2007) che amplia i campi di competenza del Dsga anche palesemente contro la norma legislativa.

Noterei come i quattro colleghi si siano consegnati completamente nelle mani dei propri Dsga: questa è una scelta che molti fanno, che certo non possono fare i moltissimi dirigenti scolastici in conflitto con i propri Dsga (stimerei intorno al 25% il conflitto che spesso sfocia nel contenzioso anche furibondo tra dirigenti e Dsga della stessa scuola), che però non costituisce una scelta obbligata. Faccio notare infatti che con una doppia dirigenza conterebbe di più chi deterrebbe i soldi e che quindi si arriverebbe all’abbraccio mortale tra didattica e amministrazione con l’amministrazione che sarebbe direttiva di fatto nei confronti della didattica.

Personalmente penso che la scelta di dedicarsi più all’amministrazione che ad alunni, docenti, progetti didattici, successo formativo egli studenti, analisi della curricolarità, valutazione degli alunni, ecc. sia proprio una scelta, niente affatto resa necessaria da quanto prevede la professione. Nel libro si nota come tutti i Dsga tendano a criticare docenti e collaboratori scolastici (bidelli) e a difendere gli assistenti amministrativi. L’amministrazione è e deve restare un supporto all’azione didattica e formativa e non deve condizionare nulla. Senza insegnanti non si fa scuola e senza alunni gli insegnanti non sanno a chi fare scuola. Il resto è contorno e supporto, a volte utile e a volte invasivo. Ma sempre e solo supporto. Questo fatto poi degli uffici comunicanti e dei Dsga che entrano ed escono quando vogliono per evidenziare quello che sembra loro urgenze mi pare almeno bizzarro (e la chiudo qui).

Non si comprende poi perché i docenti dovrebbero avere competenze amministrative (fare le carte giuste, insomma), visto che il loro mestiere è un altro (produrre studenti giusti). Quindi l’amministrazione dovrebbe aiutare, non chiedere. La diarchia dirigenziale (dirigente e Dsga) c’è nei fatti in molte scuole, ma io penso sia sbagliata, perché porta un’ingerenza dell’azione amministrativa in quella didattica e formativa. Se poi tra le due figure c’è conflitto si deve convivere col conflitto: nel testo si fa ampio scandalo sul fatto che il dirigente non può scegliere i docenti, ma mai si dice che non può scegliere neppure i Dsga. Il libro è molto interessante anche perché attorno a quella che io ritengo una patologia mostra comunque un meccanismo funzionante di azione dirigenziale.

 

TROPPI CRETINI IN GIRO

 

Un altro elemento che il testo mette in evidenza è la tendenza delle scuole a considerarsi soggetti virtuosi circondati da uno stuolo di cretini: questi ultimi si annidano in parlamento dove sono approvate leggi assurde, al ministero dove si fanno i fatti loro senza sentire cosa succede sul campo, negli uffici periferici del ministero dove le carte prevalgono sul resto, negli enti locali che non capiscono cosa serva alla scuola (aule in più o una divisione di sedi, come ad esempio indicato nel libro), tra i genitori che non riconoscono alla scuola il ruolo che deve avere, ecc. Questa tendenza intellettuale molto presente nelle scuole è ben evidenziata nella ricerca, ma denota un tratto per me molto pericoloso per la leggibilità e la comprensione del sistema scolastico da parte degli stakeholder e dell’opinione pubblica.

Ritenere infatti di essere gli unici virtuosi circondati da una massa di scansafatiche fuori controllo può portare a ritenere la scuola come un’isola di competenze in un mondo di incompetenti. I dati non dicono questo, le rilevazioni nazionali e internazionali neppure, la società civile ha idee ben diverse su di noi e il legislatore introduce novità che la scuola spesso con modi anche impropri respinge. Chi fa il dirigente scolastico conosce bene le incongruenze, le assurdità, i ritardi, le ripetizioni inutili, ecc. cui si va incontro quotidianamente nella professione. Conosce la cattiveria della burocrazia statale. Sa bene il tempo che si perde per redigere inutili documenti. Ma troppo spesso tendiamo a scaricare su altri colpe nate dentro la scuola se non dentro proprio la dirigenza.

Gli equilibristi ha anche questo pregio: mostra la pochissima autocritica che noi dirigenti mettiamo nel nostro lavoro e evidenzia il piacere del lamentarsi di quello che non funziona e noi col nostro buon senso faremmo funzionare. Ma descrivere la scuola come isola di virtù che deve difendersi dai cretini che vivono nella società civile non credo faccia del bene ad un sistema che viene messo in discussione, troppo spesso a ragione, da più parti.

La questione dei contributi volontari è emblematica di questo: la norma dice che sono volontari e troppi dirigenti li camuffano come obbligatori, ma questo solo nel secondo ciclo. Ecco qua un bell’esempio di norma certa (le tasse le impone lo Stato e non possono essere decise dalle sue autonomie funzionali) che spesso viene aggirata portando ai giusti richiami ministeriali. In questo caso si vede come può accadere che i dirigenti scolastici estendano la categoria dei “cretini” a troppi soggetti, diventando bersaglio di facili ironie (vedi gli sceriffi connessi alle attribuzioni della legge 107).

 

DELEGA ADDIO

 

La ricerca della Fondazione Agnelli mette poi in ottima evidenza la difficoltà di delegare. Il dirigente scolastico è descritto come un accentratore che vuole controllare tutto. In realtà è un po’ così e questo nasce dal fatto che il dirigente scolastico non è più un Preside. Dirigenza vuol dire responsabilità, che non si può mai delegare. Da qui la necessità di controllare, decidere, definire. In questo senso ognuno di noi decide se spingersi più addentro sul lato didattico (“della forza”) o sul lato amministrativo (“della forza”). Per usare una terminologia starwarsiana la solitudine dirigenziale viene attratta dal “lato oscuro della forza” (l’amministrazione) e spesso ci si dimentica che studenti e insegnanti valgono più di qualsiasi carta.

Per questo motivo è molto più utile cercare alleanze, dare compiti e mandati semplici, lavorare per gruppi tematici e di lavoro, affidarsi alle esperienze reali piuttosto che isterilirsi attorno a staff creati metà per nomina diretta, metà per voto del collegio docenti (funzioni strumentali). Il libro insomma chiarisce molto bene come dietro le deleghe ci siano persone e come dietro alla funzione dirigenziale ci siano responsabilità che non si delegano e che come tali vanno semplicemente conosciute ed affrontate. Qualcuna di queste responsabilità è oggettivamente eccessiva (quella sicurezza, ad esempio, che ha portato un di noi in prigione), qualche altra logica, qualche altra ancora nata dentro il bizantinismo normativo italiano, qualche altra ancora prodotta dal nostro modo di fare. Se è vero che siamo un po’ soli è anche vero che spesso siamo ossessionati dalle cose da fare e non usciamo per il confronto, la conoscenza, la collaborazione. Gli equilibristi parla comunque di dirigenti scolastici che escono dai propri uffici più per forza che per scelta e di dirigenti che considerano comunque il confronto esterno come ostacolante il quotidiano lavoro, per altro molto ben descritto nel libro.

 

DOVE NASCE LA FORMAZIONE

 

La scelta di seguire quattro dirigenti del secondo ciclo è forse l’unico neo nel testo. Uno squarcio sul primo ciclo si ha solo con il dirigente pugliese reggente di un Istituto comprensivo. Io credo che la professione abbia il suo ruolo più forte proprio nel primo ciclo, dove si annidano i veri problemi e le vere emergenze. E dove nascono tutte le competenze per gestire una scuola. Ma dove anche partono la formazione e l’apprendimento, dove trovano radici le competenze di tutti gli studenti e di tutti i cittadini. Un dirigente di secondo ciclo che non ha esperienza di primo ciclo è un dirigente scolastico che per sua natura tende a spostarsi verso il “lato oscuro della forza” (l’amministrazione), mentre chi lavora nel primo ciclo deve per forza mescolarsi con le problematiche dell’apprendimento.

Questo è un passaggio non da poco: da quasi quattro anni dirigo un grande Liceo udinese ma mantengo una reggenza nel primo ciclo (dove ho fatto il dirigente per undici anni) che mi permette di vedere tutti i giorni la struttura dell’apprendimento dai 3 ai 19 anni. Questo mi porta per forza di cose a dare più peso all’attività didattica e di progettazione curricolare, a lavorare su Piani dell’offerta formativa molto attenti alle necessità dell’apprendimento. Ma questa mia visione delle cose è una tra le tante possibili e penso che il volume della Fondazione Agnelli aiuti molto la riflessione sul pericolo di scambiare la propria esperienza e la propria visione delle cose in un pre-concetto.

 

Un bel libro con molte e interessanti riflessioni. Come dice Han Solo tornando sul Millenium Falcon nell’ultimo episodio di Star Wars: “E’ tutto vero”.

 

G. Lupo, L’albero di stanze

Pietre, pane, parole

“L’albero di stanze” romanzo di Giuseppe Lupo

di Mario Coviello

LupoDuecento cinquanta pagine, ventinove capitoli e un epilogo “Il millennio e già domani” per raccontare quattro giorni di vita di Babele, ultimo discendente della famiglia Bensalem, che da Parigi, dove vive all’ombra della torre Eiffel, è tornato a Caldbanae, un paese del sud. E’ tornato per svuotare la casa di famiglia negli ultimi quattro giorni del 1999, giorni di attesa, di bilancio, di paura.

Babele è sordo ma è capace di ascoltare i muri della sua casa “un albero di stanze” che è fiorito in verticale con il passare di cinque generazioni, muri che raccontano la storia della sua famiglia sin dalle origini e non si stancano di ripetergli “ Gesù mi metto nelle tue mani, proteggimi fino a domani.”

E io lettore mi sono immerso in queste pagine dalle quali non riuscivo a staccarmi , come poche altre volte mi è capitato con Marquez,Calvino, Allende…

Natale

Certo l’atmosfera natalizia aiuta. E’ tempo di nascita,attesa,bilanci,progetti. E’ tempo di tizzone e arance (pag. 85), di presepe come quello di maestra Severina, fatto da zio Cosma maggiore “ un immenso fiume di statue si muoveva lento e pesante, saliva all’aria delle nuvole, spingeva in cielo i paradisi sognati in ciascuna stanza..“ (pag. 229), e mi sono accorto che Lupo raccontava anche la storia della mia vita.

La casa

“ Io credo che un uomo possa amare una sola casa, dove si arresta l’acqua del suo fiume, dove inizia e finisce la sua strada…” dice Babele e io quale casa ho amato?” Anch’io come Lupo sono profondamente segnato dal terremoto del 23 novembre 1980. Ero vicesindaco del Comune di Bella e dalla mia casa distrutta ho portato in strada le cose più care; ho vissuto il dramma della distruzione del mio paese, le speranze deluse della ricostruzione che non è divenuta sviluppo. E leggendo “ L’albero di stanze” mi sono chiesto : “ E io quale casa ho amato?, quella dove sono nato, quella che ho comprato per i miei genitori… quella dove vivo ora…Le pietre, i muri, gli oggetti sono la nostra carne, raccontano di noi, quello che eravamo, quello che siamo diventati.“ La vita che mi porto dentro è nata qui. Questo edificio è fatto di pane,comete e pietre…Qui c’è tutto luce, memorie,odori, autunni e primavere, il passato e il futuro… Tutto è a portata di mano diviso da un passamano…”E la casa dei Bensalem sale verso il cielo aumentando le sue stanze che diventano mulino, e poi taverna,barberia,officina meccanica,forgia,albergo,drogheria,sartoria,sezione di partito, scuola. E non manca la stanza dei numeri vaganti,l’oblò per le pratiche astronomiche.

E Giuseppe Lupo così risponde alla domanda “La casa è un elemento molto presente nei suoi scritti…” Sì. Ritengo che la casa sia un soggetto molto importante perché è l’elemento più importante per l’uomo, è il suo rifugio, il suo spazio personale, il luogo del riposo, della condivisione, dove si creano gli affetti e dove nascono i nostri primi ricordi. Ma più che la casa questa volta sono importanti i muri della casa: sono quelli che conoscono tutto, vedono tutto e ascoltano tutto. I muri sono i veri custodi delle storie familiari..”. (http://www.meloleggo.it/intervista-a-giuseppe-lupo-sul-suo-ultimo-romanzo-lalbero-di-stanze_940/

Le corrispondenze

Anch’io ho avuto un droghiere “ Zi Annibal” dal quale compravo con poche lire, frutto di “servizi”fatti ai grandi, confetti piccoli, bianchi, duri, con l’anima di cannella;anch’io da maestro ho vissuto in aule che cantavano le speranze di piccoli e poi di giovani, come Severina la maestra;anch’io,accompagnando mia madre al fiume, ho steso panni che profumavano di sapone fatto in casa quando si asciugavano sui rovi. E’ vero anche per me quello che Lupo non si stanca di ripetere “ Ognuno di noi sulla terra realizza le sue somiglianze…..Ogni uomo vive e muore con quello che ha posseduto. E il mondo che gli è appartenuto muore con lui…

La famiglia

Confesso che mi sono perso tra il capostipe Redentore ,cavatore di pietre e poi mugnaio con estro alchemico..” che possedeva il dono di leggere in ogni pietra..” , e suo figlio Salutare, mugnaio e droghiere,tra Apollinare,” mamma granna”,moglie di Redentore e Crescenza,moglie di Apollinare che diviene smemorata dopo aver partorito Primizia,i gemelli Cosma maggiore e Cosma minore,Floridia,Forestino,il padre di Babele,Lucente,Sicurino e Verdellino.

Con loro tanti altri personaggi e soprattutto Crocifossi, il custode senza età della casa, novello Matuselemme,che accompagna Babele nel cammino verso il nuovo millennio.

Perdetevi anche voi, negli “ orizzonti di terrazze e mongolfiere” di casa Bensalem, salite sulle macchine volanti di Taddeo,novello Leonardo che muore cadendo dalle sua macchina perché “ognuno deve seguire la linea del cuore”. Ascoltate le melodie di Taddeo. Ammirate il velo nuziale sul quale nonna Crescenza ha scritto le date di nascita dei figli perchè la memoria svaniva; leggete le pagine misteriose di Forestino, il poliglotta,”sugagnostro, Forestino, padre di Babele,diverso da tutti gli altri della famiglia,l’intellettuale, il topo di biblioteca, lo scrivano giracarte,”… uno che sente la voce dei libri” ,che scrive lettere e discorsi per i futuri sindaci. Scoprite la magia delle pietre con Redentore e seguite i racconti di Salutare che nella drogheria costruisce “ una Bibbia di fiati “ che vi ricorderanno quelli delle vostre nonne,se avete avuto da piccoli la fortuna di averne una che amava raccontare .

I muri dell’albero di stanze sono impastati di calce e farina e le pareti sono tinte “con le rotte profumate di steppe e di deserti “da Albania, prozia di Babele, figlia di Redentore. Albania è l’albergatrice che “sapeva maneggiare il denaro di mille nazioni”e ogni sera cantava “ Vieni a me mio signore, vieni a dar pace ai miei sospiri, vieni a prenderti il mio cuore”, aspettando il suo sposo, un intellettuale con occhiali,baffi e borsalino.

Le cose

La macina del mulino, le pietre magiche portate da mondi lontani dal capostipe Redentore, gli armadi, le cassapanche,i cassetti, i barattoli di vetro delle caramelle dai tanti colori, il quaderno dalla copertina rossa,la macchina da scrivere Olivetti “ pianoforte senza musica “di Forestino,padre di Babele, narrano la vita, le speranze,i sogni, le paure, le attese degli indimenticabili protagonisti della saga familiare di Giuseppe Lupo. Voi lettori sognate con il matrimonio francese di Babele a Mont Saint Michel, con una spiaggia ricoperta di neve e la sposa Cècile che indossa i regali fantasiosi dei parenti per la prima volta usciti da Caldbanae: “una collana con i chicchi a ditaloni, un anello di pane raffermo, un paio di orecchini ricavati dal granturco..” E tornano alla mente i nostri giochi di bambini quando ci bastavano noccioli di pesche e gusci di noci, lucidi per lo strofinio.

I letti

Ma sono soprattutto i letti, fatti da mani esperte,( ce n’è uno con un baldacchino a forma di mezzaluna) come i muri, gli abiti, i ricami, i vestiti da sposa, che narrano carezze,corpi che si scoprono e si danno gioia, donne che partoriscono e donne sterili che maledicono il loro destino. Sui letti il materasso “..niente più che un saccone di frasche e pannocchie…. Tutto è cominciato qui…qui si è spalancato il tempo dei figli e dei nipoti, il tempo del pane e delle pietre, delle parole sbocciate all’alba della grande torre…( pag. 97)

Il cibo

Gustate con lo scrittore la torta miglieccia, il cibo del “consolo “,fatta di farina di granturco, acqua,uva passa, cipolla, lardo fritto…e la verdura fritta di Crocifossi..i dolci delle “ guantiere infiocchetate “per matrimoni che vanno a monte. Con “ L’albero delle stanze” Giuseppe Lupo racconta il tempo lento dell’attesa, la gioia della scoperta improvvisa, la testardaggine che accompagna un sogno ambizioso.

Il corpo

Babele sordo sa ascoltare il corpo, come ha imparato da nonno Salutare. E al giornalista che gli chiede: “Perché ha deciso di rendere il protagonista, Babele Bensalem, un uomo sordo?…Giuseppe Lupo risponde “Perché solo un uomo sordo è in grado di ascoltare i silenzi. Babele Besalem non è soltanto sordo. È anche un medico, un medico delle ossa. Il suo essere sordo è un vantaggio perché quando visita i pazienti ascolta il loro corpo e dai silenzi di quel corpo capisce quale malattia sta causando quel “silenzio” e riesce a intervenire sempre e a curarla; la cosa fa arrabbiare la moglie, anche lei medico ma incapace, attraverso la sola somministrazione di sostanze chimiche, di curare le persone.

La lingua

“ Con una lingua che, rispetto alle precedenti opere, sembra essersi fatta ancora più densa piena e “creativa”, Lupo costruisce mattone dopo mattone un’epopea personale, una costruzione coerente e verticale – un albero-casa – fatta di memoria e, allo stesso tempo, di trasfigurazione in parole e immagini di un passato concreto” ( http://www.satisfiction.me/giuseppe-lupo-anteprima-lalbero-di-stanze/ )

“ Sinforosa e Cristallina, liquore di Mimosa, stoffa di trina “ “ La tua voce è come un pane di vita..”

“ Come alberi piantati lungo un fiume…aspettiamo la nostra primavera…” il canto degli alunni di Severina, maestra, mamma di Babele e la sua esclamazione “ Quanti scioffoloni…” E ancora “….aiut marò…aiut marò….”

“ Troppa carta, troppa polvere…Non è che mi mi lasci e te ne vai nelle terre del tuo alfabeto disperato..” Severina al marito Forestino

La voce che chiama Babele ( pag. 228) “ Sciogli le vele, alza le scarpe, salta i gradini e arriva qui da me prima che scenda il tramonto..”

Il male dell’addio

A Lupo chiedo del male dell’addio…Babele va via, vende la casa e allora noi, i nostri figli che sono costretti ad andare via… e la Basilicata che muore nonostante il petrolio…

E allora….

A pag 196,nonno Redentore , subito prima di morire, agli eredi radunati intorno al suo letto dice “…Siamo passati dalle pietre al pane e dal pane alle parole…Non bisogna mai terminare le storie , perché sono loro, le storie, a dire che esistiamo e se uno dimentica questo lusso,non ha più certezza di esistere.. “ Mai perdere il lusso di raccontare. Mi raccomando. “

E’ anche questo , credo, il viatico di Giuseppe Lupo che ringrazio per avermi dato tanta gioia e che scrive :

“E io mi continuavo a chiedere: a chi affidare il racconto dei padri, dei nonni e dei bisnonni, vissuti dentro una torre? A chi se non a un giovane chiamato Babele, che non sente le voci degli uomini ma capisce perfettamente il linguaggio dei muri? Forse sono io Babele, forse Babele è l’uomo che sarei voluto essere: un sordo, un indovino. Può darsi. Di sicuro l’estate appena trascorsa, licenziate le bozze, sono sprofondato nella solitudine. Il romanzo che avevo atteso da una vita era pronto per essere stampato: copertina, bandella, fotografia… Al libro non mancava nulla, a me invece mancava il libro.” (http://www.hounlibrointesta.it/2015/10/01/giuseppe-lupo-ci-racconta-lalbero-di-stanze/).

E adesso tocca a voi… buona lettura.

Natale in casa nostra

NATALE IN CASA NOSTRA


di Luigi Manfrecola

 L’odore forte della “colla di pesce” riempiva la stanza, mentre papà rimestava con una stecca di legno scheggiata quella strana poltiglia trasparente. Ma a me, bambinello quieto, accovacciato sulla sediolina impagliata, quella puzza piaceva. C’era un che di magico e di rituale in quell’effluvio che richiamava alla mente incantata quasi l’odore d’incenso che si respirava in chiesa in quelle festività solenni. Perché proprio di festa si trattava , anche allora. Una “festa” sommessa e silenziosa che sentivi aleggiare furtivamente nell’aria, quasi volesse raccogliersi nell’intimità inviolata di quella famigliola serena, rannicchiata nella piccola casa arrampicata sulla collina di Posillipo.

 Il Natale si annunziava così , mentre papà mio con le sue forti mani robuste spennellava il sughero odoroso per potervi incollare i pastorelli, sempre in equilibrio precario sulle esili gambe malferme. Lo spuntone metallico presente nei piedi di creta non riusciva mai a reggerli a lungo sulle croste irregolari di sughero, al punto che bisognava incollarli uno ad uno. Di anno in anno li ritrovavi quindi con qualche arto amputato, soprattutto le statuine di quella piccola banda di Mori con i loro piccoli strumenti , assai verosimilmente pitturati d’un giallo improbabile. Ed io mi chiedevo cosa ci facessero quei pastorelli di colore nerastro accanto alla prosperosa lavandaia che stropicciava i panni sulla tavoletta di creta poggiata sulla tinozza . Che poi, “i panni” si riducevano a due soli lembi minuscoli ricavati da un fazzoletto bianco che aveva da tempo esalato il suo ultimo soffio. Presso le tre grotte più ampie situate a valle , che ovviamente ospitavano – in quella centrale – Maria, Giuseppe e il Bambinello , affiancati dall’immancabile cantina e da un’osteria ben accorsata , si apriva lo striminzito pianoro destinato ad ospitare le due o tre bancarelle variopinte del castagnaro, dell’acquafrescaio, del mellonaro pronto a dare “la voce” per decantare i suoi melloni più rossi del fuoco…

 I pastorelli più fortunati si raccoglievano tutti là perché rischiavano assai poco su quella base più stabile , affollata di gallinelle beccanti che si contendevano lo spazio con pecorelle dalle più svariate ed assurde dimensioni. Per recuperare un minimo di credibilità a quell’insieme improbabile io mi arrampicavo, allora, sulla sedia accostata al buffet sul quale troneggiava il presepio in costruzione e tentavo di sistemare con cura i pastorelli più piccoli e poi ne discendevo lentamente, soddisfatto per aver rispettato, con ingenuo orgoglio infantile, le leggi della prospettiva . Non prima, però, d’aver sistemato definitivamente “Benino” , il pastorello che avrebbe dormito fino alla notte di Natale, quando gli avrebbero annunziato la nascita di Gesù bambino. Lo strano era che , poi, quel Benino (che mammà s’ostinava a chiamare Benito) non si svegliava affatto e restava a dormire fino all’Epifania…Quando mammà faceva arrivare i Re Magi, un’incombenza che toccava a Lei sola perché io, a qual punto, avevo perso ogni interesse per il Presepio, a festa ormai passata; anche perché ero intento a ben altro, impegnato in feroci combattimenti col mio fuciletto di latta, corredato di letali e potenti turaccioli…Ma poi, a volerla dire tutta, vero è che da quando avevano comperato quel negro sul cammello, i Magi m’erano diventati tutti e tre antipatici…

 La cavalcatura che più mi appassionava era quello di Ciccibacco sulla botte, ritto sul carro trainato da una coppia di buoi: che poi era il personaggio più costoso dei tanti che affollavano il mio “ricco” presepe: ben ricco di salumi, di quarti di bue appesi a spille da balia, di lunghe teorie di salsicce e di meloni pendenti dalle finestrelle aperte sul cortile che ospitava l’immancabile osteria con quell’ tavolo di vecchietti, ma tuttavia serviti dal cuoco in persona, con tanto di coppolone e di ventaglio in mano per poter arieggiare un’ improbabile fornacella i cui bagliori venivano restituiti all’esterno da una lucina rossastra.

 Forse stavano ordinando del pesce fresco, com’è costume di noi napoletani, vista la contiguità col ruscelletto lì a pochi passi e l’instancabile solerzia del pescatorello, sempre intento all’opera anche quando il filo di cotone che gli pendeva dalla canna s’era magari perso nella carta stagnola che scendeva gorgogliando lungo il pendio. Cosa che non sarebbe mai potuto capitare agli angioletti sospesi dinanzi alla grotta a suonare la cetra e le lunghe trombe trionfali. Allora non mi fermavo a pensarci su più di tanto e nemmeno me lo figuravo il casino che sarebbe venuto fuori da quell’accavallarsi di suoni, visto che i due zampognari fermi sulla soglia della grotta non mostravano nessuna intenzione di interrompere la loro nenia. Che, anzi, era per me la cosa più bella e magica del Natale. La dolcezza di quelle note che risuonavano per le rampe al’imbrunire e che lentamente si avvicinavano sempre di più a casa mia ancor oggi riecheggia nella mia memoria più cara e segreta, come quell’immagine che non s’è più cancellata …e rivedo quelle due figure stranamente vestite, ritte a suonare davanti al mio presepio in cambio di qualche spicciolo elargito loro da mammà !

Perché mi si stringe il cuore? Perché alla dolcezza sommessa si associa una malinconia infinita?! Certo, è la nostalgia del tempo consumatosi e degli affetti più cari, smarriti per sempre nella nebbia infittitasi con gli anni e che tuttavia riesci a diradare per qualche istante, ma non solo….E’ anche un calore che ti fa sentire l’appartenenza ad una terra, ad un popolo “bambino” come sapeva esserlo quel tuo popolo napoletano ingenuamente proteso a rappresentare ed a rappresentarsi in quello spaccato di umanità colorita e vociante, festaiola nel manifestare la gioia dell’Evento a modo suo…una maniera povera e semplice di chi sa accontentarsi di poche cose : un cibo finalmente abbondante, una musica festosa, la vivacità dei colori, il vocìo del mercato, i ritmi d’una quotidianità febbrile, esuberante confusa.

Ed io, che mi sento oggi così distante da quella gente, riscopro per un momento le mie radici più vere, ritrovo i miei cari che sento nuovamente al mio fianco e considero quanto sia cambiato quel mondo che mi ha dato i natali. Allora formulo l’auspicio, poco convinto, che il Presepio non abbia a finire anch’esso come quel popolo di cui s’è persa ogni traccia. Perché il Presepio può e deve essere considerato e custodito come uno spaccato antropologico, come un testimonianza irripetibile d’una cultura semplice e bonaria, soffocata, travolta e smarrita da un’epoca priva di Storia e dimentica d’ogni sentimento di piena e vera umanità.