Oltre l’educazione ambientale
di Margherita Marzario
Di recente uno degli anglicismi più usati, soprattutto dopo l’avvento dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, è “green education”, ovvero educazione ambientale e allo sviluppo sostenibile. C’è da chiedersi, però, se i veri destinatari siano bambini e ragazzi e, poi, come e a cosa educarli.
Mentre i bambini occidentali devono essere educati alla raccolta differenziata dei rifiuti e al riciclo, in alcuni posti i bambini africani (e non solo africani) vivono in mezzo ai rifiuti, cercano quanto necessario per la sopravvivenza in mezzo ai rifiuti, in taluni casi trasportati là dai paesi industrializzati (come gli ammassi di abiti usati). In entrambi i casi, però, ai bambini sono stati deturpati l’infanzia e l’ambiente circostante.
Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro scrive: “L’essere umano non nasce né buono né cattivo, né educato né maleducato. La cattiva abitudine si sviluppa quando l’ambiente in cui egli si trova non lo abitua a tener conto degli altri. […] Nessun genitore può pretendere dal figlio ciò che egli stesso non insegna né esplicita. […] A Tripoli c’è un detto: “Se la città è sporca tu comincia a pulire davanti alla tua porta”. Così dobbiamo fare anche noi: seguire una linea, andare contro corrente. Genitori, insegnanti, educatori. In un patto d’acciaio famiglia-scuola. Perché a quest’ultima non è affidata solo la trasmissione del sapere, ma anche della civiltà e del rispetto reciproco. […] Bisogna essere ostinati contro l’abuso e l’accumulo di indifferenza”. Educazione ambientale: educazione all’ambiente, educazione dall’ambiente, di ogni ambiente.
Anche la scrittrice Susanna Tamaro afferma: “I bambini e le persone giovani hanno bisogno di avere degli ideali, hanno bisogno di qualcosa in cui credere e per cui valga la pena vivere. La nostra società, in questo senso, è stata drammaticamente carente, perché ha considerato le giovani generazioni soltanto come una categoria di consumatori”. Bisogna rivolgersi direttamente ai giovani, avvolgerli con parole incoraggianti e coinvolgerli in progetti concreti, coerenti e congruenti (e non meramente progetti scolastici).
Solo un’incessante crescita interiore fa affrontare ogni cosa esteriore. L’educazione deve partire dal “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità”, per, poi, arrivare, in un circolo virtuoso, ad “inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale” (dall’art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
Non si ha bisogno solamente di educazione ambientale ma anche di ogni ambiente educante. Non a caso la parola “ambiente” è una delle più ripetute nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, dal Preambolo all’art. 39: dalla famiglia “quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere e la crescita di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli” ad “un ambiente che favorisca la salute, il rispetto di sé e la dignità del fanciullo” per il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di bambini vittime di qualsiasi maltrattamento o violenza.
Essere adulti è essere responsabili e, quindi, un po’ tutti genitori delle vite più giovani, come si legge nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (che può essere considerato un testo della nuova pedagogia, da quella ecologica a quella interculturale): “Ci impegneremo ad assicurare ai bambini e ai giovani un ambiente stimolante per la piena realizzazione dei loro diritti e la messa in pratica delle loro capacità, aiutando i nostri paesi a beneficiare del dividendo demografico attraverso scuole sicure, comunità coese e le famiglie” (dal punto n. 25 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile).
I bambini non vanno riempiti ma, piuttosto, svuotati. I genitori (e gli altri educatori) dovrebbero essere come gli operatori ecologici: rimuovere quello che non va e contribuire al rispetto della natura dei bambini svolgendo una funzione sociale che è quella della tutela dell’infanzia tutta.
I bambini, soprattutto nella scuola dell’infanzia, devono essere “architetti” dell’ambiente circostante (come gli “uccelli tessitori”) per imparare ad esserlo della propria vita. Giocando si imparano i principi di vita: per esempio in maniera ludica il bambino esercita il suo diritto di sporcarsi ma, al tempo, stesso, gli si può dare scopetta o spugnetta e invitare a pulire (anche in gruppo) così acquisisce il dovere di pulire e rispettare l’ambiente (come si fa nelle scuole giapponesi).
Oltre che di “green education” si parla insistentemente di “outdoor education” o di “outdoor learning. “Cosa è l’Outdoor Learning? È didattica attiva, agita ed esperienziale, spesso basata su scoperta condivisa, dinamicità, gioco. È momento inclusivo di apprendimento, porta bambine, bambini, ragazzi e ragazze a ritrovare un rapporto con l’ambiente naturale, che diviene aula aperta in cui apprendere discipline curricolari, sperimentare situazioni interdisciplinari, allenare competenze socio-emotive, agire l’apprendimento e vivere esperienze formative complete. Moltissime sono le scuole che relegano la vita outdoor a semplice spazio del break o come luogo di attività didattiche occasionali” (cit.). “Outdoor” significa letteralmente all’aperto, fuori dalla porta: in senso lato la scuola deve fare uscire dagli schemi, dai preconcetti, dai pregiudizi. Già dalla Costituzione è chiamata ad aprirsi, “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.), ma purtroppo continua ad essere chiusa o a chiudersi in burocrazia e altre formalità o in raffigurazioni negative dell’immaginario collettivo. Di educazione all’aperto ne avevano già parlato pedagogisti e esperti del passato, anzi la scuola nel suo senso etimologico di “tempo libero, occupazione piacevole” è nata con la scuola peripatetica di Aristotele. L’educazione all’aperto favorirebbe la stessa educazione ambientale perché consentirebbe ai bambini, per esempio, l’osservazione del comportamento degli insetti, dall’organizzazione sociale delle formiche all’attività diriciclo degli scarabei stercorari.
I bambini (i figli) non sono il nostro futuro, ma il loro futuro, anzi sono il presente immanente e incandescente della vita e delle singole vite che nessuno dovrebbe ignorare, rovinare o spegnere, “considerando che l’infanzia di un individuo e le caratteristiche particolari dell’ambiente familiare e sociale ne determinano in buona parte la successiva vita da adulto” (dal Preambolo della Carta europea dei diritti del fanciullo”, Risoluzione A3-0172/92). Quel futuro che era stato già oggetto della Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 27 luglio 2012 A/RES/66/288, intitolata “Il futuro che vogliamo” (documento non vincolante).
“[…] un compito si è reso ancora più urgente: mostrare la bellezza del deposito ricevuto, capace di dare risposta alle domande disattese di molti giovani” (lo studioso gesuita Giovanni Cucci). Oltre a una transizione ecologica o ecosociale, urge una transizione etica. Si tenga conto della locuzione aggiunta all’art. 9 della Costituzione: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. È anche una forma di adempimento del dovere inderogabile di solidarietà intergenerazionale (art. 2 Cost.).
Si rispetterebbero (di più) l’ambiente e le biodiversità se ci si rendesse conto che tanto l’ambiente (“ciò che sta intorno”) quanto le biodiversità sono l’umanità stessa.
Il diritto all’ambiente può essere considerato “umano” anche alla luce della formulazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, tra cui l’incipit dell’art. 29 par. 1: “Ognuno ha doveri nei confronti della comunità”.
“Animaletti / Farfalle e insetti / Bambini e bandiere / Passeri in terra / Barche nel mare / Gabbiani nel cielo” (da “Bambini e bandiere” dell’artista gesuita Giovanni Poggeschi): la geografia del regno dell’infanzia come dovrebbe essere in ogni ambiente, soprattutto in famiglia e a scuola.
A tale proposito, incisive le parole dello psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro: “La natura protegge i piccoli dalla conoscenza della dura legge della nostra finitudine – nulla dura per sempre – che potrebbe togliere loro la voglia di vivere. Bambini e bambine, se la miseria e la violenza della guerra o dell’ambiente familiare non glielo impediscono, vengono al mondo esplorandolo attraverso il gioco e grazie alla sicurezza offerta dall’ambiente familiare – materno nel senso più ampio del termine – che li accoglie, sicuri che tutto ciò che li circonda è vivente e immortale”.