Nota 26 marzo 2012, Prot.n. 811

Nota 26 marzo 2012, Prot.n. 811

Oggetto: Informativa: “VINITALY 2012” – Premiazione “1° Concorso Enologico Istituti Agrari d’Italia”

Spread, art. 18 e vecchi merletti

Spread, art. 18 e vecchi merletti

di Vincenzo Andraous

Ci sono guerre dimenticate, alcune sottilmente retrocesse, altre spettacolarmente pubblicizzate.

Guerre appena fuori l’uscio, ma lontane dalle nostre tavole ben imbandite di sapori e di colori vivaci.

Eppure c’è un’altra guerra con la residenza a fianco della nostra dimora, che deruba vite,  che recide esistenze, che rapina umanità nel silenzio più malato di illegalità.

Mentre tutti, quindi nessuno, giocano a fare dello spread, dell’art. 18, il grimaldello intangibile per ogni eventuale crescita possibile, continua la sequela dei morti accatastati uno sull’altro, morti insignificanti di ieri, di oggi e di domani, morti che non parlano, che non possono dettare i tempi alla giustizia disattenta.

Sono morti e basta.

Morti meno importanti di quelli dell’emergenza mafia, terrorismo, criminalità, infatti quelli, sebbene con il ritardo assassino della storia, hanno imposto il risveglio delle coscienze.

Questi altri invece sono morti che vengono da prima della vittoria su ogni mafia, e  continuano a dispetto di ogni tragedia, di ogni solitudine, soprattutto a causa di ogni smemorata ingiustizia.

Sono i morti che ogni giorno inzuppano di lacrime di coccodrillo i tanti contratti di lavoro fantasma, nei cantieri, nei luoghi destinati alla  fatica ma privi di ogni sicurezza.

Sono troppi questi morti che gridano vendetta, lo fanno senza armi, ma con la richiesta feroce di una ingerenza umanitaria,  dal momento che quella sindacale rimane inevasa alla coscienza.

Sono questi i morti che indicano una tradizione, diventata infame malcostume, quale accondiscendenza della sciagura già prossima.

Nel bel paese si ode il corpo a corpo  con la mafia, il terrorismo, la politica corrotta, la corruzione capillare, c’è frastuono di colpi, c’è lotta, c’è vita, c’è speranza.

Invece per questi morti senza lode né medaglie scintillanti, c’è ad attendere il prossimo sventurato, la postura composta del giuda di turno, di quello e di quell’altro che racconterà una verità disconnessa dall’altra, da quella che è per davvero causa di tante dipartite sconosciute.

Italia, Italia, è sempre Italia,  quella del pallone d’oro mondiale e quella per l’inciucio nazionale, è Italia che si barrica, che si offende, che carica a testa bassa, che marcia per le strade, che prende le botte e le restituisce, è Italia che rimbrotta e si intestardisce,  ma non si impunta per l’ennesimo innocente caduto dall’impalcatura perché sprovvisto della necessaria  imbracatura.

C’è chi imputa questa cecità diffusa alla strategia furba e alla pressione opulenta esercitata dagli interessi di categoria, dalle lobby solitamente ignote.

Sono tante le inefficienze, altrettante le inefficaci soluzioni mostrate alla fiera degli stolti, esse inciampano sovente con la disonestà intellettuale  insita nel profitto quale fine, che inventa e costruisce il potere della politica, quella politica che non fa servizio, perché opera per alcuni, e non per tutti, tanto meno per quei morti  in lista di attesa, e comunque tutti finiti in serie B.

Ricerca come metodo per la formazione dei giovani

Ricerca come metodo per la formazione dei giovani

di  Anna  Marra  Barone

 

Cosa si intende per “ricerca

Il termine “ricerca “ in senso generico significa indagine, investigazione,  analisì  sistematica che persegue il fine di accrescere e verificare il complesso di conoscenze,  documenti,  teorie e leggi generali inerenti ad una data disciplina. Al termine ricerca, sotto il profilo pedagogico, si possono attribuire almeno due significati: ricerca sull’educazione o ricerca pedagogica e ricerca nell’ educazione o ricerca didattica. Nel primo caso si tratta di attività sistematiche di studio che si propongono di indagare intorno a fatti e fenomeni collegati in maggiore o minore misura con i vari sistemi educativi e che possono coinvolgere, oltre ai docenti, gli operatori culturali e sociali più svariati. Nel secondo caso, invece, si tratta di un’attività investigativa che mira a facilitare l’apprendimento e a sviluppare la formazione della mente. Si tratta, dunque, di un metodo educativo che tende a migliorare il processo di insegnamento-apprendimento e che rientra, pertanto, nell’ area di competenza professionale dei docenti e che vede coinvolti, quali protagonisti principali, gli stessi allievi.

Ricerca didattica, quindi, intesa come metodo di apprendimento per l’allievo e come tecnica d’insegnamento per il docente. Uno strumento didattico innovativo, quindi,  da usare non tanto in alternativa alle tecniche tradizionali d’insegnamento quanto piuttosto ad integrazione delle stesse in un processo di profondo rinnovamento del rapporto educativo. È ovvio che la stessa ricerca didattica può rientrare nel campo d’indagine della ricerca pedagogica, il che sta a significare che i due tipi di ricerca, per quanto distinti, possono coesistere ed integrarsi reciprocamente.

Ovviamente, in una scuola  dove si verifichi da parte del docente la pura e semplice trasmissione di cultura e da parte del discente la passiva acquisizione di conoscenze accettate come verità indiscutibili ed assolute, il metodo della ricerca incontrerà naturalmente  resistenza alla sua attuazione.  La ricerca didattica, infatti, potrà trovare condizioni favorevoli al suo sviluppo soltanto in una scuola disponibile al cambiamento ed alla innovazione, in una scuola  che sappia rispondere alle esigenze di una società complessa che richiede doti quali il continuo autoapprendimento,  la cooperazione, la solidarietà, la partecipazione attiva, la capacità di scelte autonome e responsabili. Ed erano proprio questi gli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere con i decreti delegati del ’74, che intendevano  apportare profonde innovazioni sia nel ruolo della scuola, intesa come centro permanente di cultura, sia nella funzione docente, di cui veniva  messa in risalto tutta la responsabilità professionale, morale e sociale. All’art. 2 del DPR 417/74, infatti, si recita testualmente  che “la funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo ed alla formazione umana e critica della loro personalità”

Purtroppo, sembra che in genere si attui nella scuola solamente trasmissione di contenuti, che poco incidono sulla formazione dei giovani i quali, al termine dei loro studi, si trovano molto spesso a dover confrontarsi, ed a volte scontrarsi, con una realtà per molti aspetti sconosciuta, perché essi nella scuola hanno vissuto una realtà completamente diversa, asettica e priva di significato, come se l’individuo che studia fosse diverso dall’ individuo che vive. Ed in questo confronto, i giovani mettono in luce tutta la loro incapacità ad affrontare e a risolvere i problemi più disparati, sia personali che ambientali, naturali o indotti, e tutta la loro fragilità nei confronti dei mass-media e dei messaggi pubblicitari che, sempre più frequenti ed ingannevoli, tendono a plagiare le loro coscienze ed a massificare i loro comportamenti.

Che cosa, dunque, manca nella formazione di questi giovani? Quali capacità non sono state potenziate sufficientemente? Quali  responsabilità morali e sociali ricadono sulla scuola che non ha saputo curare in modo adeguato l’aspetto critico della loro formazione? Se nella società del passato era sufficiente il possesso di un bagaglio più o meno considerevole di contenuti culturali per affrontare i molteplici problemi della vita, oggi questo non basta più.  ln  una società tecnologicamente sempre più avanzata ed in continua e profonda trasformazione, quale è la nostra, non può bastare l’ avere acquisito dei contenuti, ma è sempre più necessario avere sviluppato determinate capacità, abilità, competenze.

Parte integrante del Regolamento sull’obbligo scolastico, innalzato a 16 anni, è rappresentata dal   Documento tecnico nel quale  sono riportate  le Otto  competenze chiave di cittadinanza da acquisire al termine dell’istruzione obbligatoria. Le predette competenze, che  sono considerate essenziali per favorire il successo formativo e, soprattutto, per prevenire e contrastare la dispersione scolastica sono le seguenti:

1) Imparare ad imparare; 2) Progettare; 3) Comunicare; 4)Collaborare e partecipare; 5) Agire in modo autonomo e responsabile; 6) Risolvere problemi; 7) Individuare collegamenti e relazioni; 8)  Acquisire ed interpretare l’informazione). 

La cornice delle  Competenze-chiave  per l’apprendimento permanente, che sono state  indicate dalla Raccomandazione del Parlamento europeo  e del Consiglio del 18 dicembre 2006, stanno a rappresentare  la soglia culturale comune necessaria per preparare i giovani  alla vita adulta e per offrire  loro  un  metodo da seguire per continuare ad apprendere per tutto il corso della loro vita.

Lo spiriro di ricerca auspicato dal De Sanctis

Obiettivi importanti della formazione dei giovani  si rivelano  essere  oggi, soprattutto,  la capacità di ricerca,  intesa come manifestazione di uno spirito euristico e critico, e la creatività che della ricerca rappresenta forse la nota più qualificante e produttiva, sia sotto il profilo personale che sotto quello sociale. Creatività, dunque, intesa come capacità di porsi, in maniera autonoma e sempre diversa, di fronte a problemi nuovi e di saperli affrontare e risolvere inventando strategie e procedimenti adeguati.

In questo senso Francesco De Sanctis, che oltre ad essere uno dei più grandi critici letterari italiani fu anche un appassionato studioso di problemi educativi in funzione soprattutto della realtà politica italiana del tempo, si può considerare, a buon diritto, un autentico anticipatore delle più avanzate concezioni moderne sulla scuola e sui sistemi educativi nel loro complesso. Le sue concezioni pedagogiche, racchiuse per la maggior parte nelle sue prose autobiografiche e nelle sue numerose lettere, furono il frutto delle sue esperienze di insegnante. Quale uomo di scuola, era fermamente convinto che alla base dell’apprendimento di qualsiasi disciplina ci dovesse essere innanzitutto l’interesse, quale stimolo per l’allievo  ad intraprendere attività autonome. Al riguardo,facendo riferimento all’alunno, affermava testualmente «che lo scibile è lui che deve conquistarlo, se vuole che sia veraménte cosa sua». E di qui ne derivava la sua avanzatissima concezione  della scuola  intesa «come laboratorio dove tutti siano compagni di lavoro, maestri e discepoli, ed il maestro non esponga solo e dimostri, ma cerchi ed osservi insieme con loro, sicché attori siano tutti, e tutti siano come un solo essere organico, animato dallo stesso spirito».

Il suo ideale educativo appare ancora più evidente in uno scritto del 1872 intitolato «La scuola)) in cui  affermava: «Cominciai la scuola con questo disegno, di associare giovani al mio lavoro, e far sì che ciascuna lezione fosse il prodotto di un lavoro collettivo. Spiegherò il soggetto di una lezione, indicherò le indagini, le analisi, i libri da consultare, i materiali da raccogliere, e poi li comporremo, li formeremo,  et  lux facta est  e la lezione è fatta. Avremo forse una sola lezione  in un mese, ma sarà il frutto del lavoro collettivo di tutto il mese. Ciascuna lezione sarebbe stata un avvenimento. I giovani l’avrebbero veduta nascere, formarsi, acquistare colore. Questo è il laboratorio come io l’intendo”

La lezione, dunque, concepita dal De Sanctis come attività di ricerca programmata, il tema di studio inteso come unità di lavoro da sviluppare in una successione di attività collettive e l’insegnante, infine, raffigurato come guida e ricercatore insieme ai suoi alunni, impegnato non tanto a svolgere il suo corso, quanto piuttosto a scoprirlo con i suoi alunni in un continuo processo di comprensione e di reciproco confronto di esperienze, di conoscenze, di capacità. Purtroppo il De Sanctis dovette accontentarsi di far lezione secondo il modello tradizionale, in quanto i suoi allievi, immaturi per questo suo progetto, desideravano ascoltare il maestro piuttosto che lavorare loro. Egli riuscì soltanto a mantenere viva, nel corso delle sue lezioni, la discussione sugli argomenti da lui presentati.

Ancora oggi, a distanza di più di un secolo, la nostra scuola difetta di quello spirito comunitario di ricerca tanto auspicato dal De Sanctis e che si rivela oggi, a tutti i livelli, necessario per un reale rinnovamento della scuola e per la formazione critica della personalità dei giovani.

La situazione reale

E dobbiamo constatare con amarezza che,  nonostante le numerose e profonde innovazioni introdotte in questi ultimi anni in campo educativo, quali l’individualizzazione e la socializzazione, le attività integrative, il tempo pieno, la programmazione educativa e didattica, il lavoro di gruppo, l’autonomia scolastica, il nuovo modello  di valutazione ecc.,  permane in genere nella scuola, prevalentemente,  la lezione di tipo tradizionale in cui primeggia la posizione frontale del docente e viene trascurato l’altro importante termine del rapporto educativo che è l’allievo, il quale, privato di qualsiasi iniziativa culturale autonoma, non riesce  a  qualificarsi come protagonista della lezione stessa. «C’è un grosso divario» afferma il De Bartolomeis «tra ciò che gli allievi sarebbero in grado di produrre se fossero utilizzate le loro potenzialità e ciò che attualmente producono. La ricerca è una delle vie per ridurre progressivamente tale divario».

A cosa tende, infatti, la ricerca se non a far sviluppare le capacità critiche e di decisione autonoma degli alunni e a far emergere gradualmente le loro energie intellettuali latenti? La ricerca, del resto, rappresenta la forma più autentica e vera di qualsiasi esperienza umana, la via più naturale e spontanea seguita dall’uomo nel corso del suo sviluppo per accumulare conoscenze, la base più salda e sicura di qualsiasi apprendimento. Il sapere conquistato dall’alunno mediante un iter programmato di ricerca ha il sapore di una verità scoperta, a differenza del sapere appreso direttamente dal libro o dall’insegnante che ha il sapore di una semplice informazione  molto spesso avulsa dalla realtà e priva, pertanto, di significato e di utilità pratica. La ricerca, essendo tesa essenzialmente a stimolare le capacità intellettive dell’alunno e a risvegliare in lui autonomia di giudizio e di risposta personale, potrà assumere il significato di un’ autentica operazione culturale  capace d’ incidere profondamente sul comportamento dei giovani e sul loro modo di vivere e di adattarsi alla realtà esterna.

Ma la ricerca è metodo, ed in quanto tale, ha bisogno di guida e di consulenza. Il docente, coinvolto direttamente nel processo di ricerca, deve saper guidare i propri alunni ad individuare e a selezionare problemi, chiarendone gli ambiti ed i limiti d’indagine, e a progettare itinerari  in cui si  possano   individuare le fasi operative e precisare gli strumenti idonei all’espletamento delle stesse. La funzione del docente nella lezione/ricerca assume una importanza fondamentale e decisiva, ed il suo lavoro si presenta impegnativo e non privo di difficoltà. Indubbiamente, insegnare nel modo tradizionale è più semplice e meno laborioso; la lezione di tipo classico non richiede mutamenti negli schemi didattici prefissati dal docente e non comporta variazioni nella disposizione strutturale della classe. Tale tipo d’insegnamento, inoltre, è più sicuro per l’insegnante stesso, perché la sua lezione, il più delle volte, si riduce ad un monologo che non riesce a solleticare la curiosità degli alunni, né tanto meno a promuoverne l’interesse, non avendo essi partecipato minimamente  all’impostazione della stessa ed al suo successivo svolgimento.

Il metodo della ricerca, invece, tende a mettere continuamènte in crisi l’insegnante, sul quale agisce da stimolo positivo proprio l’iniziativa culturale degli alunni che, impegnati in una forma di apprendimento attivo, non vengono più a trovarsi in uno stato di passività e di arrendevolezza nei confronti del libro e dell’insegnante. Le stesse parole dell’insegnante ed il contenuto del libro di testo possono venire messi in discussione  in quanto non sono più visti dagli alunni come fonti assolute di verità da imparare, ma come materiale da analizzare, da consultare, da interpretare. Il docente è costretto, così, a rivedere continuamente le sue posizioni e a rimettere in discussione, in ogni momento, il proprio operato e le sue convinzioni. Egli è spinto, altresì, a confrontarsi e ad aggiornarsi costantemente al fine di corrispondere ai bisogni sempre emergenti dei suoi allievi che, sotto la sua guida ed in un rapporto di autentica collaborazione, si trovano di fronte ad un processo di costruzione del proprio mondo culturale e della propria personalità. In questo modo, con l’impiego cioè del metodo della ricerca correttamente impostato e razionalmente usato, docenti ed allievi potranno produrre  veramente cultura.

Fare ricerca, inoltre, non significa procedere alla cieca e non strutturare il progetto.La ricerca, intesa come procedimento sistematico di risoluzione di problemi, non è mai un processo di acquisizione accidentale e casuale, ed anche quando essa prende il via da interessi occasionali e contingenti, deve sempre inserirsi in un processo di apprendimento ben preciso e seguire un iter ben definito sul piano operativo. In ogni attività di ricerca, inerente ad un problema o ad un tema di studio bene individuato e delimitato, si possono distinguere, in linea di massima, almeno tre momenti: 1) Un momento iniziale dedicato essenzialmente alla progettazione ed alla programmazione dell’itinerario didattico-metodologico da seguire sia sul piano teorico che su quello pratico; 2) Un momento centrale di esecuzione dedicato allo svolgimento delle attività programmate; 3)Un momento conclusivo dedicato, in particolar modo, alla discussione, al confronto, alla valutazione dei risultati conseguiti. Ogni attività di ricerca, poi,  presenta una sua particolare ed inconfondibile fisionomia, per cui seguirà modalità di svolgimento diverse a seconda del campo disciplinare interessato. Una ricerca scientifica, per esempio, anche se condotta a livello elementare, non potrà non rispettare la prassi del metodo scientifico ed esigere, quindi, la massima accuratezza nelle operazioni di osservazione e di misurazione, la formulazione di ipotesi per la risoluzione provvisoria del problema affrontato, la verifica delle ipotesi avanzate.

Inoltre,  bisogna tener presente che la  scuola non è un ambiente distinto dalla società ed in cui si svolgono attività particolari atte a preparare il fanciullo alla vita adulta, ma rappresenta invece una società in miniatura in cui il fanciullo può dispiegare  tutte le sue potenzialità naturali. La stessa lezione, pertanto, assume il significato di esperienza integrale e l’esperienza vissuta dal fanciullo costituisce la radice della sua formazione culturale di base. La realtà, in effetti, è rappresentata dalla vita di tutti i giorni, sia quella che viviamo direttamente, sia quella di cui veniamo a conoscenza dai discorsi degli amici, degli insegnanti, delle persone che frequentiamo normalmente ed occasionalmente, oppure dalla radio, dalla televisione, dai giornali. E la realtà (naturale, sociale, economica, politica, ecc.) ci provoca continuamente e ci pone problemi, anche se non ce ne accorgiamo, e di ogni fatto o fenomeno accaduto, qualunque sia la sua natura, ci potremmo sempre porre un «come” ed un «perché», tenendo ben presente che le esperienze, vissute realmente dagli alunni o semplicemente conosciute, costituiscono occasioni di formazione che il docente dovrebbe saper sfruttare per fini educativi e culturali, facendone scoprire il significato agli alunni  mediante l’esercizio delle loro capacità intellettive e critiche..

Concorsi nazionali indetti per  studenti del settore scientifico

A questo punto è doveroso da parte mia affermare che se è vero che è necessario che gli insegnanti incoraggino ed orientino sempre più i propri alunni verso processi d’indagine e di ricerca, è altrettanto vero che anche lo spirito sperimentale degli insegnanti ha bisogno di essere alimentato, potenziato, incoraggiato.

Per questo motivo sono meritevoli di particolare considerazione ed apprezzamento tutte quelle iniziative a tal fine promosse da Enti e Società varie e  che,  sebbene rivolte in particolar modo agli studenti, riescono a coinvolgere nei progetti di ricerca gli stessi insegnanti.

Ricordo, per esempio, il concorso nazionale “Premio Cesare Bonacini», indetto dall’ A.L F., che  prese il via dal 1977 e che era destinato ad intere classi delle scuole secondarie superiori e finalizzate al miglioramento ed alla rivalutazione dell’ insegnamento della fisica. Cito ancora il Concorso Esso “I giovani e la scienza» il cui scopo principale era quello di stimolare l’interesse degli studenti  e dei docenti  al fine di contribuire, concretamente,  al miglioramento dei metodi d’insegnamento. Ricordo ancora il Concorso “Ricerchiamo insieme» indetto.nel 1979 dalla rivista “Le scienze,  la matematica ed il loro insègnamento», finalizzato alla raccolta delle varie iniziative didattiche svolte in campo nazionale  a livello di scuola media e nel settore scientifico-tecnologico. E ancora  il Concorso “Philips » per giovani inventori e ricercatori, al quale aderivano organizzazioni Philips di 15 nazioni europee e  il cui scopo non era tanto di ricercare o premiare degli specialisti, quanto piuttosto quello di stimolare nei giovani l’interesse per la realtà alla cui base fossero posti il metodo scientifico e i fondamenti programmatici della ricerca. Ed infine, particolare menzione meritano i Concorsi a premi indetti dal 1973, ogni due anni, dalla Sips ( Società Italiana per il Progresso delle Scienze), aperti a tutti gli insegnanti della scuola secondaria di 1 e  II grado e finalizzati al miglioramento dell’insegnamento in generale e di quello scientifico in particolare.

Allo stato attuale,  particolare apprezzamento merita l’Associazione Nazionale Insegnanti Scienze Naturale (A.N.I.S.N.), che, fin dal 2001,  ha organizzato ogni anno  le “Olimpiadi delle Scienze Naturali”  rivolte a tutti gli indirizzi della scuola secondaria superiore e  che vengono patrocinate dal M:P:I:, Direzione generale per gli Ordinamenti scolastici.

S. Zweig, Paura

Come l’epoca la vita

di Antonio Stanca

È stata ora ristampata dalla casa editrice Adelphi di Milano, con la traduzione di Ada Vigliani, la novella Paura dello scrittore austriaco di origine ebrea Stefan Zweig (Vienna 1881 – Petrópolis, Rio de Janeiro, 1942). Di agiata famiglia Zweig si diplomò a Vienna e qui iniziò gli studi universitari di filosofia che completò a Berlino. Come gli altri giovani del momento fu attirato dai problemi politici e sociali allora discussi e la sua fu sempre una posizione moderata. Scrisse la novella nel 1925, nel periodo, cioè, del suo maggiore successo letterario, seguito alla prima guerra mondiale e durato fino agli anni ’30. Allora Zweig fu autore molto letto, tradotto e ammirato anche se la sua produzione era cominciata in precedenza, ai primi del ‘900, ed aveva mostrato i generi sui quali egli sarebbe tornato più volte durante la sua non lunga vita. Molto avrebbe scritto e in particolare novelle, poesie, drammi, saggi, biografie romanzate, sarebbe stato traduttore soprattutto di moderni poeti francesi, autore di un romanzo ed infine di un’autobiografia completata nel 1941, un anno prima di darsi la morte insieme alla seconda e più giovane moglie con la quale si era rifugiato in Brasile per sfuggire alle persecuzioni naziste.

Anche molti viaggi farà Zweig in quell’Europa del primo ‘900 che, pur essendo attraversata da tensioni belliche, mostrava di tendere, nella cultura e nell’arte, ad una spiritualità  superiore ai limiti della materia e diffusa oltre i confini delle nazioni e dei popoli. I viaggi permetteranno a Zweig di conoscere i maggiori autori del momento e le più importanti espressioni artistiche, di maturare una sensibilità che lo facesse sentire partecipe di un’anima mitteleuropea, di un’idealità che stava oltre le singole realtà. La voce di Zweig autore sarà anche quella di tutti gli autori che aveva conosciuto, studiato, tradotto o ricostruito nelle biografie e che come lui il conflitto tra realtà e idea avevano risolto a vantaggio della seconda. Si suiciderà Zweig per non rinunciare all’idea, per non assistere alla fine di quel mondo, di quell’epoca, di quella cultura, di quell’arte, di quella vita che della vecchia Europa e soprattutto della vecchia Vienna erano state la migliore espressione.

Anche la Irene di Paura penserà di suicidarsi dopo aver visto distrutto, a causa di una sua colpa, quanto da sempre aveva fatto parte della sua vita, del suo mondo. Anche lei si era convinta che niente fosse più possibile di tutto ciò che le era appartenuto. E invece piccola risulterà quella colpa di fronte alla sua intenzione di recuperare, minimo il suo reato di fronte al perdono che le sarà elargito. È lo Zweig del periodo di successo, lo scrittore che risente della corrente letteraria viennese detta Jungwein, che si distingue, cioè, per la finezza del linguaggio e la sottile analisi dei sentimenti. Mai egli, nella novella, interrompe quell’indagine psicologica volta a mostrare i continui, interminabili risvolti avvenuti nell’animo della protagonista prima di giungere alla soluzione del suo dramma. Profondo conoscitore dell’animo umano si rivela lo scrittore, capace di renderlo nei più remoti riflessi, nei più oscuri momenti. Sempre riesce a chiarire, ad esporre in maniera appropriata, pertinente quanto sta succedendo tra i pensieri, i sentimenti della donna. La salverà, infine, dal pericolo che sta correndo, le perdonerà l’azione negativa compiuta in vista di tante altre positive da compiere, le rimetterà la colpa di adulterio in vista della futura funzione di moglie e di madre.

È lo Zweig che ha “paura” ma ancora spera, ancora crede possibile salvarsi, ancora pensa che la società della Belle Époque non sia finita. Altre opere, racconti, drammi, saggi, biografie, proveranno le qualità dello scrittore e la fiducia dell’uomo nonostante la prima guerra mondiale avesse mostrato le tante debolezze, i tanti pericoli di quella società. In Zweig il pacifismo, l’umanesimo continuavano ad animare la vita, l’opera, lo tenevano legato all’idea di un’Europa multietnica, multiculturale  nella quale i diversi popoli potevano ritrovare i loro tratti comuni. Dovrà insorgere la dittatura nazista, dovranno verificarsi le prime persecuzioni, le prime invasioni perché egli rinunci alle sue aspirazioni, perché si convinca che un’epoca è finita e con questa fine faccia coincidere quella della sua vita.

Nuovo Governo delle Istituzioni scolastiche

Nuovo Governo delle Istituzioni scolastiche
ma l’Autonomia è ancora debole

di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia scolastica è l’orizzonte in cui si colloca il governo del sistema scolastico italiano, dopo i decreti delegati del 1974 che istituivano la “partecipazione” della comunità alla vita della scuola e tanti anni di sperimentazione che cercavano di collegare la funzione formativa della stessa con lo sviluppo del territorio.

Questa nuova prospettiva è contenuta nella riforma degli enti locali del 1990 (L. 142), della Pubblica Amministrazione del 1997 (L. 59), che ha iniziato una azione di decentramento delle competenze statali verso gli enti locali (D.Leg.vo 112/1998) e ha dato il via alla costruzione dell’impalcatura della scuola autonoma (DPR 275/1999), con il conferimento della personalità giuridica alle scuole nell’ambito di un’azione di programmazione territoriale (DPR 233/1998).

Questo impianto, anche se ancora lontano dall’essere compiutamente realizzato ha già subito cambiamenti (L. 111/2011), ma comunque non ha perso valore in quanto sancito dalla modifica del titolo quinto della Costituzione (anch’esso però non ancora applicato) (L.C. n. 3/2001) ed è in qualche modo confermato dalla normativa sul così detto federalismo fiscale (L. 42/2009 e D.Leg.vo 68/2011) nonché dai recenti provvedimenti sulla semplificazione (DL 5/2012).

La legislazione richiamata sta cercando, pur non senza contraddizioni, di ricostruire un governo del sistema educativo – scolastico – formativo ai diversi livelli di organizzazione territoriale, che riparta dal basso e cioè dal riconoscimento, secondo quanto indicato dalla predetta norma costituzionale, degli organi della Repubblica tra i quali è “fatta salva” l’autonomia delle istituzioni scolastiche (art. 117 della Costituzione).

L’autonomia dunque non è concessa, in una prospettiva meramente decentralistica dell’ordinamento statale, ma è riconosciuta, e quindi ha bisogno oltre che di avere spazio di darsi  una configurazione istituzionale: autonomia statutaria. La situazione ricalca molto, dicono gli studiosi, quella universitaria, entrambe infatti sono state identificate dalla predetta legge 59 come autonomie funzionali. Per l’università però tale impostazione era già praticata ed è stata riconfermata, mentre per la scuola il centralismo statale ha di fatto sempre impedito di arrivare a soluzioni veramente autonomiste, sia che si tratti di passaggi di competenze agli enti locali/autonomie scolastiche, sia che si voglia valorizzare il “sistema formativo” come una componente veramente autonoma nell’esercizio della funzione culturale ed educativa pur all’interno di un “sistema nazionale dell’istruzione”, anch’esso ridefinito dalla L. 62/2000.

E’ quest’ultimo approccio infatti quello assunto dalla predetta riforma costituzionale, ma, come si è detto, molto resta ancora da fare.

Proprio per rinforzare tale impostazione si deve pensare ad una revisione della governance interna agli istituti, ferma ai decreti del 1974; con la proposta di legge licenziata alla VII Commissione della Camera si cerca dunque di rivedere organi, processi e strumenti nella più recente visione della piena realizzazione di un’autonomia scolastica come parte del sistema nazionale dell’istruzione, ma anche parte inscindibile della comunità locale.

Nell’ambito del “sistema delle autonomie” deve esistere dunque un’autonomia statuaria che dia valore alla personalità giuridica e porti le scuole autonome allo stesso livello di altri enti territoriali. Sono gli statuti delle scuole infatti che devono saper interpretare le “norme generali dell’istruzione” e tradurle in offerta formativa, nell’ambito dei “livelli essenziali delle prestazioni”e per la crescita dei singoli sul piano umano, culturale e professionale, come potrà essere indicato dagli standard nazionali e locali perché sia riconosciuto il diritto alla formazione a tutti i cittadini italiani.

In tale contesto, famiglie, studenti, comunità locali, docenti dovranno potersi muovere autonomamente per garantire un’offerta sempre più qualificata in un’ottica generale ma  che sia aderente alla realtà in cui la scuola opera, per poter incontrare i problemi e le aspettative che tale realtà esprime e nello stesso tempo contribuire a “collocare nel mondo”.

Le scuole autonome sono il punto di riferimento e la loro consistenza deve essere oggetto di un’attenta azione di programmazione territoriale e gestione della spesa secondo un’azione multilivello, come indicato dai predetti provvedimenti sul federalismo fiscale. Reti e consorzi sono strumenti per potenziare l’autonomia e ottimizzare l’uso delle risorse, in vista del raggiungimento di migliori e più qualificati obiettivi.

Gli organi di governo prevedono la distinzione delle funzioni di indirizzo, di quelle professionali in senso stretto e di gestione, pur in una visione e pratica di integrazione tra di loro.

Il dirigente scolastico è il rappresentante legale dell’istituzione, presiede i momenti strategici per l’impostazione della programmazione e risponde dei risultati; i docenti, sul piano individuale e collegiale, hanno “libertà di insegnamento” ma sono responsabili della progettazione e conduzione dell’impianto didattico, nonché della valutazione degli alunni; la comunità locale è corresponsabile, sul piano dei bisogni formativi e delle risorse, e interviene, anche attraverso la compartecipazione alle entrate fiscali, per quanto riguarda il sostegno all’intero sistema: essa deve poter partecipare tenendo presente l’integrazione tra i servizi educativi del territorio.

La presidenza del Consiglio dell’Istituzione Scolastica viene mantenuta ad un membro eletto dalle famiglie, che con il dirigente scolastico ed altre componenti saranno coinvolte nelle modalità di rappresentanza della stessa, sia per intraprendere intese e azioni locali, sia nei processi elettivi di livello regionale e nazionale.

La scuola veramente autonoma non potrà sottrarsi a processi valutativi per corrispondere agli standard indicati a livello di sistema, ma anche come capacità di autoanalisi delle proprie attività, di confronto dei risultati e con le aspettative e su come riesce ad promuovere il successo formativo, anche attraverso una autonomo nucleo di valutazione.

L’autonomia è prima di tutto un processo culturale che oltre a rendere più efficiente il servizio deve migliorare costantemente la consapevolezza di assicurare su tutto il territorio nazionale un sistema di qualità nel quale viene tutelata la libertà di insegnamento. Il tutto verrà demandato ad un “Consiglio delle Autonomie Scolastiche”.

Sono sempre le medesime autonomie scolastiche il riferimento  per le politiche regionali e degli enti locali, i quali devono valorizzare le associazioni tra le scuole che vogliono accrescere l’efficacia della loro presenza e della loro azione insieme ad altri enti e soggetti locali.

Un risultato importante, raggiunto a livello parlamentare, come non si vedeva da tempo: il potere legislativo che finalmente si riappropria del suo ruolo ed i problemi della scuola non vengono relegati alla sola gestione burocratica. Sarà la nuova tregua politica ? Fatto sta che questo provvedimento, bipartisan, è di buon auspicio, sia per il modo, anche se affrettato, sia per il luogo, che allontana dagli interessi che cercano di prevalere in altri palazzi del governo.

Attraverso questi strumenti l’autonomia cerca di prendere il largo, ma la nave è ancora fragile e rischia di incappare nei pericoli tesi da vecchi e nuovi centralismi; soprattutto è la cultura dell’autonomia ed i protagonisti di questa esperienza che devono portare la scuola all’interno di processi sociali significativi per lo sviluppo del territorio ai diversi livelli, in modo da valorizzare questa funzione non solo secondo la logica della gerarchia delle fonti del diritto, ma della qualità della crescita delle persone, dell’economia, della società.

E qui c’è un problema di cornice istituzionale: senza l’applicazione del Titolo Quinto della Costituzione le pedine non vanno a posto ed alcuni passaggi di questa legge sono scivolosi. Ciò che si mette come norma transitoria, riferita al potere degli Uffici Regionali dell’Amministrazione Scolastica nel controllo degli statuti e del (mal)funzionamento degli organi, rischia di rimanere in eterno se le competenze non vengono definitivamente decentrate agli enti territoriali ed alle scuole stesse. Il riferimento alle norme di contabilità dello stato per la redazione del “programma annuale” diventerà un macigno sulla strada della gestione delle risorse, soprattutto se lo Stato continuerà ad essere pressoché l’unico finanziatore. Abbiamo già avuto esperienza di come un decreto di contabilità (1975) di fatto abbia bloccato la nascente autonomia dei decreti delegati (1974). Più o meno le cose stanno ancora così nonostante l’ammodernamento della redazione del bilancio. Altro che scuole/fondazioni, di cui peraltro si è persa traccia! Anche quando si parla di “regolamento” relativo alle reti ed ai consorzi occorre vigilare, per vedere se sono regole che favoriscono o inibiscono.

Rispetto alle risorse finanziarie si capisce che siano erogate in gran parte dallo Stato ed altri (Fondazioni, privati, e quindi anche le famiglie) possono intervenire in senso integrativo, ma la novità insita nel federalismo fiscale è proprio la modalità con la quale vengono prelevate, non più soltanto a livello di trasferimenti (es: fondo di istituto), ma di compartecipazione ai tributi locali/regionali. Quindi occorre presidiare ora l’altro settore, quello delle norme sulle autonomie locali, in discussione al Senato. E’ per questo che se da un lato occorre che i servizi educativi – scolastici e formativi rientrino (come sono rientrati) tra le “funzioni fondamentali” degli Enti Locali e quindi ciò richiede una efficace azione di questi ultimi sul piano delle programmazione  della organizzazione Es.: unioni di comuni/istituti comprensivi), dall’altro diventerà progressivamente inutile uno stringente riferimento alla contabilità statale, quando magari proprio lo Stato si potrebbe limitare alla retribuzione (con partita di spesa in conto tesoro) del personale. Da notare che l’autonomia finanziaria era già contenuta nell’art. 21 della legge 59/1997.

Compito vero dello Stato fin qui disatteso sono le “norme generali sull’istruzione” e i predetti livelli essenziali delle prestazioni: ma su questo non accade nulla, nemmeno nei più recenti provvedimenti del nuovo Governo. Ed allora forse tocca ancora al Parlamento!?

Anche le disposizioni di questa legge costituiscono norme generali sull’istruzione, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera n), della Costituzione ed in quello spirito sono dunque finalizzate alla piena attuazione dell’autonomia scolastica, come indicata dalla già citata legge n.59 del 15 marzo1997, art. 21 e dal DPR n. 275 del 8 marzo 1999.

La nuova governance degli istituti scolastici fa leva sulla capacità delle scuole stesse di concorrere alla definizione e alla realizzazione degli obiettivi educativi e formativi,  che trovano poi compiuta espressione nel piano dell’offerta formativa, fondato su uno stretto rapporto con la domanda sociale, senza perdere di vista l’efficacia (valutazione) della sua appunto funzione universalistica di crescita personale e culturale. Dovranno quindi essere valorizzati la funzione educativa dei docenti, il diritto all’apprendimento e alla partecipazione degli alunni alla vita della scuola, le scelte dei genitori, il patto educativo tra famiglie e docenti e tra istituzione scolastica e territorio.

Con questa legge lo Stato non deve cercare le modalità per condizionare l’autonomia, è già stato così per più di vent’anni con la sperimentazione, in barba a quanto previsto dall’art. 3 del DPR 419/1974 e dall’art. 11 DPR 275/1999, ma fare la sua parte secondo quanto la costituzione gli affida. E’ ovvio che senza cornice si rischia lo sbandamento, ma con la gestione centralistica siamo già nella paralisi.

Il problema dunque non sta nel prevedere nuove reti di scuole per la gestione degli organici, ma in organici anch’essi funzionali alla popolazione scolastica ed all’offerta formativa dati alle autonomie scolastiche, che per effetto delle varie soluzioni territoriali (istituti comprensivi, ISII, ecc.) sono già reti e possono per effetto di quanto già previsto dall’art. 7 del citato decreto 275 scambiarsi il personale e costituire anche laboratori per la documentazione, la ricerca, l’innovazione. Le reti devono infatti essere convenienti e non obbligatorie e andranno valorizzate associazioni di scuole autonome che si costituiscono per esercitare un migliore coordinamento delle azioni delle stesse ed aumentare l’efficacia dei rapporti con altri enti e realtà territoriali.

Domanda e offerta, qualità e partecipazione sono ingredienti che lo Statuto deve saper far reagire per la costruzione della comunità scolastica pienamente inserita in quella territoriale, garantendo per studenti e famiglie l’esercizio dei diritti di riunione e di associazione. In quest’ottica si inserisce la necessità di rendere più flessibili curricoli, tempi, gruppi e organizzazione della didattica e quindi di un’adeguata politica del personale.

Sul piano della valutazione resta in piedi il comitato di valutazione del servizio degli insegnanti di cui al DPR 416/1974, in attesa che venga affrontato il tema specifico anche in vista delle ipotizzate diversificazioni di carriera, e viene introdotto, come si è detto, il nucleo di autovalutazione del funzionamento dell’istituto. Esso coinvolge gli operatori scolastici, gli studenti, le famiglie e predispone un rapporto annuale di autovalutazione, anche sulla base dei criteri, degli indicatori nazionali e degli altri strumenti di rilevazione forniti dall’INVALSI. Tale Rapporto è assunto come parametro di riferimento per l’elaborazione del piano dell’offerta formativa e del programma annuale delle attività, nonché della valutazione esterna della scuola realizzata secondo le modalità che saranno previste dallo sviluppo del sistema nazionale di valutazione. La scuola può decidere di rendere pubblico il rapporto, ma in ogni caso deve organizzare annualmente una “conferenza di rendicontazione”.

La “rappresentanza istituzionale delle scuole autonome” viene costituita a livello locale, regionale e nazionale. Quest’ultima con un decreto del ministro si istituisce il predetto Consiglio delle Autonomie Scolastiche, composto da rappresentanti eletti rispettivamente dai dirigenti, dai docenti e dai presidenti dei consigli delle istituzioni scolastiche autonome. E’ presieduto dal Ministro o da un suo delegato e vede la partecipazione anche di rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, delle Associazioni delle Province e dei Comuni e del Presidente dell’INVALSI. E’ un organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, Enti Locali ed Autonomie Scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione. E’ altresì organo di tutela della libertà di insegnamento, della qualità della scuola italiana e di garanzia della piena attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. In questa funzione esprime l’autonomia dell’intero sistema formativo a tutti i suoi livelli.

A livello regionale saranno le rispettive leggi, in attuazione degli art 117, 118 e 119 della Costituzione a prevedere strumenti e modalità di relazione con le autonomie  scolastiche e per la loro rappresentanza in quanto considerate soggetti imprescindibili nell’organizzazione e nella gestione dell’offerta formativa regionale, in  integrazione con i servizi educativi per l’infanzia, la formazione professionale e permanente, in costante confronto con le politiche scolastiche nazionali e prevedendo ogni possibile collegamento con gli altri sistemi scolastici regionali. Le Regioni istituiscono la “conferenza regionale del sistema educativo, scolastico e formativo. Essa svolge attività consultiva e di supporto nelle materie di competenza delle regioni stesse, e su richiesta di queste, esprimendo pareri sui disegni di legge attinenti il sistema regionale. Le Regioni istituiscono altresì Conferenze di ambito territoriale che sono il luogo del coordinamento tra le istituzioni scolastiche, gli Enti locali, i rappresentanti del mondo della cultura, del lavoro e dell’impresa di un determinato territorio. Alle Conferenze partecipano i Comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le Università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà professionali, culturali e dell’impresa. Esprimono pareri sui piani di organizzazione della rete scolastica, proposte sulla programmazione dell’offerta formativa, sugli accordi a livello territoriale, sulle reti di scuole e sui consorzi, sulla continuità tra i vari cicli dell’istruzione, sull’integrazione degli alunni diversamente abili, sull’adempimento dell’obbligo di istruzione e formazione.

Come si può vedere in conclusione tanti sono i provvedimenti che debbono essere composti e questo è una parte importante, affinché si possa davvero arrivare a costruire un sistema nazionale a partire dai territori e quindi dalle scuole autonome, assicurando risorse umane e finanziarie nell’ottica del multilivello, in modo che la formazione sia un’occasione di crescita di tutta la comunità nazionale, ma prima di tutto territoriale.

Il riconoscimento dell’autonomia vuol dire innanzitutto che le scuole devono saper svolgere il loro ruolo, ma non lo imparano in un corso di aggiornamento organizzato dall’amministrazione scolastica, bensì in un costante rapporto con la realtà locale/nazionale, alle quali devono corrispondere in termini di ricerca e innovazione. Lo Stato deve fare altro, la cornice e il controllo; alle Regioni la programmazione, senza lasciarsi tentare dal riformare nuovi ministeri.

Il circuito si può veramente chiudere. C’è ormai tutto quel che serve, ora largo alla volontà politica: lo potrebbe fare un governo tecnico anche con costi molto limitati. Ma non vi è nulla di questo nei documenti programmatici: forse possiamo chiederci il perché e darci anche qualche risposta circa un’idea immortale di centralismo: le leggi vi son ma chi pon mano ad esse?

Lavorare sulla governance senza autonomia vera è ammassare anche questo provvedimento nel magazzino già affollato degli attrezzi legislativi.

J. Liss, L’apprendimento attivo

L’apprendimento attivo “evoluzionario”: l’arte di insegnare a pensare e a dialogare

di Damiano Mazzotti

“L’apprendimento attivo” di Jerome Liss è un saggio molto chiaro e sintetico sulle metodologie di insegnamento più appassionanti (www.armando.it, 2011).

Il consulente didattico americano ha ottimizzato un sistema educativo dialettico che mira allo sviluppo della creatività e delle predisposizioni individuali degli studenti. E che impiega l’autorità degli insegnanti con modalità varie, alternative e più scientifiche. Liss insegna a “muoversi alternamente tra fatti osservabili e congetture o interpretazione teoriche non osservabili”, seguendo il modello epistemologico del filosofo della scienza Carl Hempel. Nell’analisi dei fatti si utilizzano dei materiali informativi di natura diversa provenienti da più fonti (interviste con esperti, quotidiani, riviste specializzate, filmati, libri non scolastici, giochi di ruolo, laboratori, ecc.).

Naturalmente non si può improvvisare e “se il professore non svolge la lezione con adeguata competenza… se non è preparato da un corso di formazione didattica che gli spieghi come canalizzare la partecipazione degli studenti in modo da produrre pensiero efficace, allora il metodo attivo può degenerare in “caos attivo”. Dunque” serve “una piattaforma di “rigore” per il rendimento individuale, per il dialogo costruttivo” e per l’analisi multifattoriale della realtà.

I comportamenti formativi sono centrati sulla strutturazione di piccoli gruppi di studio, sulla promozione dell’ascolto attivo, sulla partecipazione individuale e sulle discussioni libere e aperte a tutti. Chiaramente “il linguaggio della collaborazione deve sostituire il linguaggio dell’ostilità e della denigrazione, e questo costituisce uno dei risultati più ammirevoli”. Perciò i metodi di insegnamento più attivi permettono di lavorare meglio sulle emozioni e sulle relazioni.

In questo modo gli studenti diventeranno dei lavoratori più dinamici e creativi, e dei cittadini più attenti e impegnati a livello personale e sociale. Infatti “la tendenza a criticare il potere – governo, esercito, industria, esercito, mass media – dà soddisfazione morale, ma non contribuisce affatto a cambiare la realtà”. Bisogna imparare a costruire nuove relazioni e a sviluppare nuove iniziative.

Purtroppo in molti paesi conservatori e burocratici come l’Italia “la comunicazione ecologica” che rinuncia ai giudizi troppo rigidi e alla monopolizzazione, viene apertamente squalificata con tesi ideologiche legate alla misurazione del rendimento scolastico, alla necessaria organizzazione standard delle aule e alla gestione produttivista, nozionista e razionalista di stampo economico. Per questo motivo le autorità italiane trascurano di promuovere i corsi di aggiornamento didattici.

Tuttavia Liss sottolinea che gli insegnanti non devono “adottare il metodo per tutte le materie” e che non tutte le lezioni devono “essere strutturate secondo questo sistema”. Comunque in moltissimi casi gli insegnanti temono le critiche alle loro attività e non vogliono essere superati dai loro allievi. E spesso l’indipendenza intellettuale non è gradita nemmeno ai dirigenti e agli imprenditori, che preferiscono perseverare in condotte scorrette, continuando così a far perdere soldi e posti di lavoro alla “loro” azienda pubblica o privata, pur di non ammettere lacune creative o errori manageriali.

Le autorità in genere non considerano che “l’apprendimento attivo può stimolare la gente a elaborare nuove iniziative in campo economico… contribuendo così a una produzione economica più efficace, con livelli più alti di competenza tecnica… Se i lavoratori e i dirigenti trovassero nuove basi di cooperazione, ogni gruppo riceverebbe maggiore rispetto e approvazione dall’altro”.

Jerome Liss è un professionista americano che vive in Italia. Insegna Psicologia in Svizzera e conduce gruppi di formazione di apprendimento attivo per gli insegnanti (www.corpusinfabula.it).

Nota – Opinione di uno studente sulla didattica attiva: “Adesso che so come esprimere le mie idee, so come difendermi dall’opinione degli altri. Adesso penso con la mia testa. Non voglio seguire nessuno come una pecora”. Opinione di un tipico ex studente sull’istruzione passiva: “Cosa posso fare?”. Ero passivo a scuola e sono passivo davanti alla tv. E sono anni che non leggo un libro.

Legge 24 marzo 2012, n. 27

Legge 24 marzo 2012, n. 27
(in SO n. 53 alla GU 24 marzo 2012, n. 71)

Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività. (12G0048)

La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;

 

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

 

Promulga la seguente legge:

 

Art. 1

 

1. Il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitivita’, e’ convertito in legge con le modificazioni riportate in allegato alla presente legge.

2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

 

La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara’ inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

 

Data a Roma, addi’ 24 marzo 2012

 

NAPOLITANO

 

Monti, Presidente del Consiglio dei Ministri

Passera, Ministro dello sviluppo economico e Ministro delle infrastrutture e dei trasporti

 

Visto, il Guardasigilli: Severino

 

LAVORI PREPARATORI

 

Senato della Repubblica (atto n. 3110):

Presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (Monti), dal Ministro per lo sviluppo economico (Passera) e dal Ministro delle infrastrutture e trasporti (Passera) il 24 gennaio 2012.

Assegnato alla 10ª Commissione (Industria), in sede referente, il 26 gennaio 2012 con pareri delle Commissioni 1ª, 2ª, 3ª, 4ª, 5ª, 6ª, 7ª, 8ª, 9ª, 11ª, 12ª, 13ª, 14ª e Questioni regionali.

Esaminato dalla 1ª Commissione (Affari costituzionali), in sede consultiva, sull’esistenza dei presupposti di costituzionalita’ il 31 gennaio ed il 1° febbraio 2012.

Esaminato dalla 10ª Commissione, in sede referente, il 31 gennaio; 1, 2, 3, 7, 8, 14, 15, 16, 21, 22, 23, 24, 25, 27 e 28 febbraio 2012.

Esaminato in Aula il 21, 29 febbraio; 1° marzo 2012 ed approvato l’8 marzo 2012.

 

Camera dei deputati (atto n. 5025):

Assegnato alle Commissioni VI (Finanze) e X (Industria) riunite,

in sede referente, il 5 marzo 2012 con pareri del Comitato per la legislazione e delle Commissioni I, II, III, IV, V, VII, VIII, IX, XI, XII, XIII, XIV e Questioni regionali.

Esaminato dalle Commissioni riunite, in sede referente, il 7, 8,13,14,15 e il 16 marzo 2012.

Esaminato in Aula il 13,19 20 e 21 marzo 2012 ed approvato il 22 marzo 2012.

23 marzo Riforma Lavoro e Università in CdM

Il Consiglio dei Ministri, nel corso della seduta del 23 marzo, ha approvato

  • un disegno di legge di riforma del mercato del lavoro
  • misure di attuazione della riforma dell’università relative a:
    a) la revisione della normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti;
    b) disciplina per la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli atenei

Di seguito un estartto del comunicato stampa:

A. RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO

Il Consiglio dei Ministri ha approvato, salvo intese, il disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro. La riforma, lungamente attesa dal Paese e fortemente auspicata dall’Europa, mira a realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace cioè di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, di stimolare lo sviluppo e la competitività delle imprese, oltre che di tutelare l’occupazione e l’occupabilità dei cittadini. (…)

F. ATTUAZIONE DELLA RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ

Su proposta del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze e della Pubblica amministrazione e semplificazione, il Consiglio dei Ministri ha approvato, salvo intese, due decreti legislativi che attuano la legge 240 del 2010 (cd. “riforma dell’Università”).
Il primo provvedimento riguarda le misure di revisione della normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti. Il provvedimento individua in particolare, salvo intese con il MEF, l’ambito di intervento (università statali, non statali legalmente riconosciute, istituzioni per l’alta formazione artistica, musicale e coreutica); i destinatari del diritto allo studio; gli strumenti; i servizi per il successo formativo; i soggetti istituzionali coinvolti nell’assicurare tali servizi e il sistema di finanziamento del diritto allo studio.
Il secondo provvedimento prevede invece la disciplina per la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli Atenei. Si tratta di un decreto che, salvo intese con il MEF, inquadra in maniera organica la programmazione economico-finanziaria degli atenei, i criteri per perseguire la sostenibilità delle spese di personale e di quelle per l’indebitamento, l’introduzione del costo standard per studente in corso e, infine, l’introduzione dei criteri per la valutazione delle politiche di reclutamento del personale, sulla base delle procedure di valutazione stabilite dall’ANVUR. (…)

 

Competenze, come e perché

Competenze, come e perché *

 

Le competenze come una conquista progressiva

Ormai di competenze si parla e forse anche troppo! E le scuole sollecitate dall’incalzare della normativa che si fa sempre più ridondante in materia, fanno quello che possono. Non mi meraviglia che ormai, fin da quando sono piccoli piccoli, i nostri bambini della scuola dell’infanzia sono tenuti anch’essi… ebbene sì, è proprio così, a raggiungere determinate competenze. Quando poi le vado a leggere, ecco qualche esempio. Indicatore, il corpo in movimento, competenze: il bambino conosce il proprio corpo, sa controllare il proprio corpo, sa muoversi adeguatamente in diversi contesti, rappresenta graficamente il corpo nei particolari. Non posso esimermi da alcune considerazioni. Mi domando: ma è proprio vero che ogni piccola/grande conquista che ciascuno di noi raggiunge nel suo sviluppo/crescita e nel suo apprendimento sia il segnale di una competenza? Indubbiamente sì, se intendiamo per competenza un saper fare ragionato e finalizzato a un qualcosa. Ma allora è anche una competenza aprire il rubinetto dell’acqua per lavarsi la faccia appena alzati dal letto? E lo stesso alzarsi dal letto è anche questa una competenza? Ne consegue che tutto ciò che facciamo abitualmente sarebbe sempre l’esito di un susseguirsi di competenze?

Ma torniamo al bambino. Appena nato è assolutamente dipendente: non sa far nulla, però… due cose sa fare, e non le ha imparate perché nessuno gliele ha insegnate… ancora! La scuola verrà molto più tardi… fortunatamente per lui! Sa respirare, dopo quel gridolino tanto atteso da mamma e levatrice, e, soprattutto, sa succhiare! Come se madre natura gli avesse regalato queste due opportunità! “Caro bambino! Respiri e succhi… e ringraziami, altrimenti saresti nato e morto subito! Ma, da ora in poi, il resto del da farsi, se vuoi sopravvivere, tocca a te!” Certamente, non è una madre molto generosa e qualche regalino in più poteva pur farglielo! Ma a bavaglini e maglioncini ci penseranno le zie e i parenti tutti!

Dopo quel fausto giorno il nostro nuovo nato dovrà fare tutto da solo! L’ambiente che lo circonda non è più quello caldo e protettivo dei nove mesi di gestazione: nel ventre materno doveva pensare soltanto a costruire tutto il necessario per nascere; non doveva né mangiare né bere perché l’alimentazione era tutta veicolata dal cordone ombelicale! Non vedeva, non sentiva, ma scalciava e smanettava, ogni tanto anche qualche ruzzolone, ma… l’ambiente era più che protetto… ah! che bella vita! Peccato! Dura solo nove mesi! Subito dopo cominciano i guai… grazie tanto che appena usciti al’aria aperta piangiamo a dirotto!

Ma tutto questo che cosa ha a che fare con le competenze? Presto detto: i primi due anni vita – poco più, poco meno – sono tutti dedicati alla “costruzione” – con tanto di virgolette – del corpo! Il neonato ha gli occhi e le orecchie, ma ancora non vede e non sente! Occorrono gli stimoli esterni, della luce, del colore, dei rumori, dei suoni perché vista e udito possano accendersi e svilupparsi. Occorrono gli stimoli fisici, il caldo/freddo, il nudo/vestito, l’interazione con gli oggetti perché possa toccare, distinguere il sé corporeo dal non sé fisico. Costruisce il suo corpo nella misura in cui impara a differenziarsi dall’ambiente fisico che lo avvolge, lo circonda, lo limita. Sono due anni di grande fatica oggettiva! Della quale comunque non sente totalmente il peso! La forza vitale che lo anima e lo sospinge nella vita gli conferisce una carica immane. Non solo! In questo processo di distanziamento dal fuori di sé e della costruzione del sé corporeo riesce anche a “giocare”! Ogni piccola conquista è seguita da un sorriso!

Ebbene! Ogni conquista è anche l’acquisizione di una competenza? Indubbiamente sì, se attribuiamo alla competenza un significato molto lato! In effetti il bambino, quando riuscirà ad afferrare un oggetto e poi a lasciarlo, costruendo il movimento della mano e delle dita, apprende le prime competenze del manipolare. Procedendo con il tempo e con gli anni, la manipolazione potrà anche esercitarsi sui tasti di un pianoforte e la competenza manuale si corregge e si affina. Ed è proprio su questo punto che il discorso sulla competenza, su quella con la C maiuscola si perfezionare e si definisce. Pertanto, non è sufficiente avere una mano e manipolare, aprire e chiudere un rubinetto, usare le posate, o una matita, o sfogliare un libro, o sollevare un peso per dire di essere competenti! Ovviamente, un disegnatore o un pesista sono competenti… specialisti adulti!

Certamente, quando il bambino riuscirà a infilarsi il cappotto e allacciarne i bottoni sarà una grande conquista per lui e un sollievo per la madre e, soprattutto per la maestra della scuola dell’infanzia. Però – ed è qui il però – non costituisce competenza tutto l’insieme delle piccole operazioni manuali che compiamo ogni giorno, dal chiudere a chiave la porta di casa o mettere in moto la lavatrice! E’ chiaro, comunque, che, se abbiamo la mano ferita o abbiamo smarrito il libretto delle istruzioni, aprire la porta di casa o avviare la lavatrice per un bucato sofisticato costituiranno operazioni un po’ difficoltose.

Concludendo su questo punto, non possiamo definire competenze tutte le infinite azioni manuali che compiamo ogni giorno. Anche perché sono operazioni che non richiedono né particolari conoscenze né particolari destrezze. A ogni modo, possiamo pure chiamare competenza quella piccola ma importante conquista che vede un bambino allacciarsi per la prima volta una scarpa o sbucciare una mela con il coltello senza ferirsi! Ma chiamiamola competenza con tutto il beneficio di inventario!

 

Per un discorso corretto sul concetto di competenza

E’ proprio la riflessione sul bambino o, comunque, sull’essere umano, che ci conduce a un discorso corretto sul concetto di competenza. In effetti, che cosa fa il bambino quando, ad esempio, comincia a giocare con la palla, o meglio con il pallone da calcio? In primo luogo faticherà non poco prima di riuscire a calciare imprimendo la giusta velocità al pallone sia che debba tirare in porta o passarlo a un compagno o difenderlo dall’assalto dell’avversario. Quante operazioni sensomotorie dovrà reiterare e apprendere prima di assumere una vera e propria padronanza del pallone e del suo corpo (la vista, il movimento delle gambe e delle braccia, la forza da imprimere al calciare e così via)? E quali operazioni soggiacciono a un semplice calcio al pallone, magari con un bel goal come coronamento finale?

Partiamo da zero, da quando il nostro neonato viene tra noi. Nel giro di un lasso di tempo relativamente breve, un anno o due, deve impadronirsi sotto il profilo concettuale di tutti i dati, le informazioni, gli oggetti che lo circondano. Mamma e pappa costituiranno i primi concetti/oggetti acquisiti: ne va della sopravvivenza! Poi verranno… non so, ciccia e cacca e tutti gli altri concetti/oggetti (biberon, bavaglino, cucchiaino, ecc.), concetti/persone (familiari, parenti, ecc.), concetti/eventi (la mamma che esce, la luce che si accende, la porta che si apre, la pappa che arriva… che gioia, si mangia… ecc.) e i relativi nomi che il bambino apprende, comprende, memorizza, archivia. A ogni nome corrisponde un oggetto, una persona, un fatto.

E nell’interazione comunicativa il bambino comincia anche a costruire il suo linguaggio. Via via acquisisce una serie di dati e di informazioni che organizza e archivia nella sua memoria. Si tratta di tutte le prime informazioni di base che gli permettono la sopravvivenza. Sulla base delle informazioni acquisite, avvia una continua e progressiva interazione con l’ambiente che lo circonda con il quale, ovviamente, deve interagire di conseguenza. Contestualmente apprende i nomi degli oggetti, delle persone e degli eventi che insistono sul suo spazio vitale e a interagire con essi. Quindi, riconosce, “conosce” e “fa”. In altri termini avvia quel processo in cui acquisisce e utilizza le conoscenze e le abilità di base che, procedendo nel processo di sviluppo/crescita, incrementato da continui e irreversibili apprendimenti, gli servono per la prima sopravvivenza.

Sapere e agire, conoscere e fare costituiscono, quindi, le condizioni necessarie perché il nostro nuovo nato si inserisca positivamente nell’ambiente in cui opera, debitamente assistito e sollecitato. Le conoscenze e le abilità sono strettamente interrelate e non è facile – e sarebbe anche inutile farlo – dire quali vengono prima e quali dopo: in effetti sono in uno stretto rapporto dialettico e si condizionano vicendevolmente. Sotto questo profilo allora è anche giustificato il fatto che in una scuola dell’infanzia, là dove i bambini si trovano nella fascia di età tre-sei anni, vengano puntualmente sollecitate, accertate e certificate quelle competenze elementari, specifiche e comuni a ciascun nuovo nato, con cui ho aperto questo articolo. Ed è bene riportare altre competenze, che hanno a che fare con il linguaggio creativo. Il bambino: si esprime attraverso la pittura, il disegno e la rappresentazione; usa strumenti, tecniche e materiali mostrando una adeguata manualità fine; sa organizzarsi nel gioco e nelle attività; sa organizzarsi in un piccolo gruppo nel gioco e nelle attività.

L’attenzione al fare da parte dei suoi attanti – familiari e maestre – è estremamente importante, proprio perché si ha a che fare con soggetti che giorno dopo giorno conquistano nuove conoscenze e contestualmente nuove abilità! Tenere in mano correttamente un pennarello al fine di tracciare segni e colori su un foglio bianco è altra cosa rispetto alla presa dello stesso pennarello, quando il medesimo bambino, qualche tempo prima, apprendeva ad afferrare un oggetto anche senza sapere quale ne fosse la funzione.

Torniamo all’assunto precedente: è corretto definire competenze tutte queste azioni che un bambino che cresce e apprende compie via via in modo sempre più mirato e consapevole? Indubbiamente no, anche se sempre di un saper fare si tratta, e per una ragione molto semplice. Ma voglio ricorrere a un esempio. Quando quei meravigliosi ingegneri di Maranello costruiscono una nuova Ferrari, formulano un progetto debitamente finalizzato e poi a poco a poco ne producono le singole parti, pezzo dopo pezzo e questi dovranno poi essere assemblati insieme. Ciascuno ha una sua funzione, ma la funzione finale è quella di un nuovo modello di macchina rombante sulla pista di Monza! I vari pezzi – immaginando l’automobile come un qualcosa di vivente – costituiscono un insieme organizzato e organico di abilità, ma la corsa vittoriosa è la competenza acquisita, dichiarata, dimostrata e condivisa… ovviamente non dai tifosi della RedBull! Per non dire, poi, che in ogni pezzo funzionante, quindi “abile”, c’è un’alta dose di “conoscenza”! Guai se il pezzo non avesse quel tasso di “conoscenza” che gli permette di interagire con gli altri, a loro volta ciascuno portatore di una quota di “conoscenza”!

 

Conoscenze e abilità come condizioni primarie per una competenza

Così, tra una divagazione e un’altra, una similitudine e un’altra, ci avviamo alla definizione del concetto di conoscenza, come indicato dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008: “Le conoscenze indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche[1].

Potremmo anche dire che una conoscenza è un insieme organizzato di dati e informazioni relative a oggetti, eventi, principi, teorie, tecniche, regole che il soggetto ap-prende, cioè fa proprie, com-prende, cioè lega insieme, archivia e utilizza in situazioni operative procedurali e problematiche. Si noti il crescendo delle operazioni cognitive: un conto è memorizzare una data, un numero telefonico, altro conto è memorizzare un evento (si pensi a una testimonianza oculare) elaborare un principio o una teoria, adottare una regola, sposare una ideologia! Se non addirittura fondarla! Insomma, dal semplice al complesso! In quanto all’applicazione di conoscenze date, si hanno due tipi di operazioni, una procedurale, l’altra problematica. Si ha una operazione procedurale quando il soggetto utilizza le conoscenze acquisite e necessarie per una determinata operazione, abituale e ripetitiva. Aprire la porta di casa, avviare il motore dell’automobile, cercare e trovare un libro nello scaffale in cui siamo solito collocarlo, sono tutte operazioni procedurali: a volte le eseguiamo quasi senza pensarci, magari pensando ad altro. Ma, se abbiamo perso la chiave di casa, se l’auto non parte, se non troviamo il libro, la procedura si interrompe e nasce il “problema”: come fare per…? E’ il caso di accedere ad altre conoscenze al fine di risolvere la situazione problematica: ho affidato a un parente le chiavi di casa? O devo rivolgermi a un fabbro? E così via! Comunque, sono sempre le situazioni critiche che poi inducono ad acquisire nuove conoscenze: i processi cognitivi non hanno mai fine. Caratteristica della natura umana è proprio quella di acquisire conoscenze, ma anche quella di produrre processi cognitivi e di dar luogo a nuove conoscenze. Se fossimo robot programmati solo per accendere il motore di un’auto, quando l’auto non parte, staremmo lì in eterno a girare la chiave! Ne consegue che questa capacità di acquisire conoscenze, utilizzarle, abbandonarle per crearne e utilizzarne di nuove è tipicamente umana!

Ora veniamo al fare! La conoscenza – anche quella che riteniamo speculativa – ha sempre un fine pratico: è l’esito di conoscenze acquisite se ci alziamo al mattino, andiamo al lavoro, rientriamo, organizziamo un piacevole week end, affrontiamo momenti critici e così via. In effetti, le conoscenze non sono mai “gratuite”, sono sempre legate a un fare, semplice o complesso che sia: ci facciamo la barba canticchiando, ma, se siamo architetti o chirurghi, progettiamo edifici o affrontiamo difficili operazioni utilizzando conoscenze anche molto complesse. L’architetto e il chirurgo non si differenziano quando si radono o quando aprono la porta di casa, ma, a fronte di operazioni complesse e particolari si differenziano, e guai se non fosse così!

Il mondo del fare differisce da quello del conoscere perché il primo si vede, il secondo no: le conoscenze sono archiviate nella testa di ciascuno di noi, mentre il fare è visibile a tutti, però… Il però del mondo del fare ci conduce a una distinzione: da un lato c’è il fare semplice e immediato, a tutti largamente comune, camminare, mangiare, lavarsi i denti, indossare il cappotto, aprire la porta di casa, e così via; dall’altro c’è il fare specialistico, non a tutti comune. L’architetto e il chirurgo, come il cuoco o il piastrellista, la manicure o il direttore d’orchestra, quando attendono alle loro specifiche operazioni professionali, “fanno cose”, o meglio attendono a operazioni estremamente diversificate, non trasferibili, irriducibili. Ed è su questo discrimine che cessa l’abilità, o un insieme di abilità, e ha inizio la competenza.

Ricorriamo ancora una volta alla citata Raccomandazione europea: “Le abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-kow per portare a termine compiti e risolvere problemi; le abilità sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti)”. In altri termini, potremmo dire – anche con il soccorso della ricerca psicologica – che un’abilità è un atto concreto singolo, coordinato anche con altre abilità, che il soggetto compie utilizzando date conoscenze e gli “strumenti” del suo corpo, occhi, mani, piedi, ecc. Aprire la porta di casa comporta di individuare con la vista il buco della serratura, con il tatto di selezionare la chiave giusta, con la mano infilarla nella toppa e farla ruotare. Si tratta di un insieme di azioni, o meglio di singoli atti insieme coordinati, sui quali neanche riflettiamo convenientemente, i quali però sono necessari e indispensabili perché l’operazione abbia successo.

La caratteristica delle abilità consiste anche nel fatto che determinate abilità possono essere finalizzate anche ad altre operazioni e alla realizzazione di altri obiettivi. Ad esempio l’abilità manuale del girare la chiave nella serratura rinvia anche ad altre migliaia di operazioni che quotidianamente compiamo. Indossiamo la giacca, utilizziamo la matita, giriamo il volante quando guidiamo, carezziamo il gatto, sfogliamo il giornale e via dicendo… ma! Se ci fossimo feriti e avessimo la mano fasciata, tutta una serie di abilità ci sarebbero negate. Né potremmo aprire la porta di casa se sulle scale manca la luce, perché l’abilità del vedere è compromessa. Insomma, è il concorso intelligente e mirato di più abilità che comporta poi un crescendo di specializzazioni sempre più mirate e differenziate. Ed è in questo crescendo che raggiungiamo il top della competenza.

 

Per una definizione di competenza

Ricorriamo ancora a quanto ci dice la citata Raccomandazione europea: “La competenza è la capacità dimostrata da un soggetto di saper utilizzare le conoscenze, le abilità e le attitudini (nel senso lato di atteggiamenti, n.d.a.) personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale”. Ne consegue che una competenza non è un semplice saper fare, ma un saper fare particolare, che non va confuso con l’abilità. Abbiamo già detto che le abilità sono atti concreti singoli e, ovviamente coordinati e “intelligenti”, che il soggetto compie utilizzando date conoscenze; pertanto, potremmo anche dire che un’abilità è un segmento di competenza. Una corretta operazione manuale “mi serve” sia per aprire la porta di casa che per aprire il rubinetto o per pettinarmi o per usare forchetta e coltello o per scrivere un appunto o per mille altre azioni! Ma manovrare il volante dell’auto o la leva del cambio dovrà coordinarsi con il piede, che deve “giocare” tra i tre pedali del freno, dell’acceleratore, della frizione, con gli occhi vigili sulla strada e la segnaletica, con le orecchie attente ai clacson o al fischio del vigile! Poi, sceso dall’auto, se fossi cuoco, le mie operazioni manuali avrebbero determinati fini e, se fossi scrittore o chirurgo o pianista, ne avrebbero altri.

Ed è proprio in queste azioni particolari e mirate che si esprime la competenza. Il semplice cittadino, come il cuoco, il chirurgo, il pianista hanno le singole abilità manuali, visive, auditive e non so quali altre per guidare l’automobile ma, nel momento in cui attendono a operazioni in cui sono specialisti, quelle abilità acquistano un valore aggiunto specifico: ed è qui che si esprime la competenza. Il cuoco e il chirurgo guidano l’automobile ma, a fronte di specifiche lavorazioni, un pranzo di gala o un intervento sul cuore, l’uno cede il passo all’altro.

Ne consegue che, mentre tra il conoscere e il fare il discrimine è chiaro – il conoscere non si vede, il fare, invece, sì – tra le abilità e le competenze il discrimine non è sempre facile a trovarsi: ambedue sono un fare. E allora, dov’è che una o più abilità cedono il passo a una competenza? E abbiamo anche visto come la competenza acquisita con tanta fatica da parte del bambino di indossare da solo il cappotto – se poi competenza si può definire – diventa di fatto un’abilità che replichiamo migliaia di volte per tutta la vita. A meno che, dopo la rottura di un braccio a seguito di chissà quale incidente, non dobbiamo riacquisire giorno dopo giorno, e chissà con quale fatica, quel movimento così semplice che precedentemente abbiamo replicato centinaia di volte senza neanche avvedercene, per una sorta di automatismo felicemente acquisito.

Ma torniamo ancora a quanto ci dice la citata Raccomandazione a proposito di competenze. Leggiamo che si ha la competenza quando un soggetto dimostra di essere capace di saper utilizzare le conoscenze e le abilità – e sappiamo che cosa sono – ma anche le attitudini personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio. Ma che cos’è un’attitudine? Sappiamo che viene dal latino aptus (da apiscor, meglio adipiscor, ottenere, raggiungere) e che indica una particolare predisposizione di un soggetto a svolgere una determinata attività, a ottenere un certo risultato: è incerto se si tratti di una predisposizione naturale o se la si sia acquisita nel tempo con il reiterare di una serie di operazioni. Non ci interessa in questa sede entrare nel merito. E’ invece interessante sottolineare che la competenza caratterizza il soggetto, quel soggetto e non un altro. Si tratta di una sottolineatura di una estrema importanza.

In effetti, sul concetto di competenza un luogo comune porta a vederla come un qualcosa di statico, ripetitivo, indifferenziato. Un operaio alla catena di montaggio di un tempo doveva svolgere certe operazioni e non altre, seguendo un protocollo preciso di movimenti e di rispetto dei tempi. Un altro operaio sulla medesima postazione avrebbe eseguito puntualmente le medesime operazioni. Ebbene, questo concetto di competenza, cioè come insieme di operazioni eguali e ripetitive nel tempo di lavorazione, chiunque sia il soggetto ad eseguirle, per decenni è stato pressoché dominante. E non è un caso che, quando si parla di competenza in certi ambienti intellettuali – o presunti tali – in genere si storce sempre il naso e si dice: che c’entra la competenza per un avvocato o un professore universitario? Un idraulico, un muratore, un manovale, questo sì deve essere competente!

 

Delle attitudini in quanto atteggiamenti

Ed è proprio su questo punto che non solo cascano gli asini, ma su cui occorre fare il massimo della chiarezza. “Attitudini personali, sociali e/o metodologiche”: così si esprime la Raccomandazione. Che attitudini vada inteso nel senso più lato possibile, in quanto atteggiamenti, è fuor di dubbio, ma che cosa si intende per atteggiamenti? La psicologia sociale è ricca di interpretazioni al riguardo. Un atteggiamento in genere è sempre plurale, nel senso che è un insieme di stati d’animo, di predisposizioni che un soggetto ha o assume nei confronti di un determinato qualcosa, di un altro soggetto, di una situazione e via dicendo. Un insieme di atteggiamenti predispone un comportamento o più comportamenti: gli atteggiamenti sono interni al soggetto, i comportamenti ne sono l’estrinsecazione attiva e concreta. Semplificando, un atteggiamento di amore o di odio si traduce poi in concreti comportamenti: dal mazzo di rose alle violenze psicologiche e fisiche financo alla pugnalata! E le cronache sono ricchissime di amori intensi e poi folli, finiti addirittura in tragedia!

Quindi, un insieme di atteggiamenti tipici di quel soggetto già connota la competenza che poi esprimerà. Ma c’è anche l’aggettivo “sociali”: non va inteso in senso lato, perché non ci aiuterebbe a capire un aspetto pur importante della competenza, ma in senso concreto, quando il soggetto esprime la sua competenza in concorso con altri [2]. Si pensi al pianista in un a solo e allo stesso pianista in un concerto: nel primo caso darà luogo al massimo della sua espressività, nel secondo dovrà anche e soprattutto tener conto della bacchetta del direttore d’orchestra e dei singoli professori intenti nei loro strumenti. O al trapezista che… è inutile dire! Il coordinamento di ciascun movimento di ciascuno degli acrobati è imprescindibile: l’errore dell’uno inficia la prestazione del gruppo. E un bravo chirurgo non può non coordinare la sua perizia con gli atteggiamenti e i comportamenti di ciascun membro dell’équipe! E va sottolineato che oggi un gran numero di competenze si esprime e si realizza proprio all’interno di gruppi di lavoro. C’è poi l‘ultimo aggettivo, “metodologiche”: allude al fatto che un competenza può realizzare gli obiettivi proposti seguendo anche percorsi diversi sotto il profilo delle scelte effettuate. Un avvocato può assumere la difesa del suo cliente secondo una data strategia, centrando l’attenzione su alcuni elementi e non su altri; un altro avvocato ne potrebbe adottare un’altra! E quale pianista di grido non interpreta Chopin diversamente da un altro pianista di grido? E ciascuno di loro è convinto di essere l’unico interprete fedele del grande musicista polacco! Eppure avvocati, chirurghi, pianisti hanno a monte un insieme di conoscenze e di abilità largamente comuni, per quanto attiene i codici, i bisturi, gli spartiti musicali e i tasti del pianoforte. Il che significa che nessuna competenza è, né potrebbe essere, eguale a un’altra, anche se a monte, per quanto attiene gli specifici campi dei saperi, i percorsi per raggiungerla e acquisirla sono largamente comuni.

 

Autonomia e responsabilità connotano una competenza

Va infine ricordata un’importante sottolineatura: nel Quadro Europeo delle Qualifiche la definizione di competenza si conclude con la seguente considerazione: “le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia”. E’ un passaggio molto importante. In effetti non si tratta tanto di “descrizione”, quanto, invece, direi, di “sollecitazione”. Una competenza per essere tale richiede, infatti, che il soggetto sia autonomo e responsabile: autonomo nel senso che abbia la piena consapevolezza di ciò che sa fare, di come farlo, dei limiti in cui può e deve agire e di ciò che non sa fare; responsabile, in quanto deve rispondere del suo operato non solo ai committenti, ma anche a se stesso. In altri termini, la Raccomandazione intende sottolineare in quali termini ed entro quali limiti una competenza possa e debba esprimersi: anche e soprattutto perché mai una competenza può essere assimilata tout court a un’altra! Insomma, è la persona competente che la connota e la “colora”.

In seguito a queste ultime considerazioni emerge un quesito: fino a quale limite una competenza deve rifarsi a comportamenti oggettivi, sostanzialmente eguali, standardizzati – potremmo dire – e in quale misura, invece, deve cedere alla specificità di una data personalizzazione? A questo punto occorre anche considerare quanto pesi la considerazione che il pubblico ha di un determinato soggetto competente. In genere si chiede di essere operati da “quel” chirurgo perché è di chiara fama; o di essere difesi da quell’avvocato perché non c’è causa difficile che non abbia vinta. Eppure ambedue hanno nel loro studio tanto di diploma di laurea bell’incorniciato con il massimo della votazione. In altri termini, dove finisce la certificazione ufficiale e formale di un competenza acquisita e dove comincia, invece, la connotazione personale e pubblica di tale certificazione? E’ difficile a dirsi, ma è certo che le istituzioni che attendono alla formazione di date competenze, quindi le scuole e le università, non possono esimersi dal descrivere, e con un alto tasso di oggettività e di specificazione, quali sono le competenze terminali che propongono ai loro studenti. Potremmo quindi dire che a monte ci deve pur sempre essere una sorta di standardizzazione delle competenze perseguite e che poi a valle c’è, nell’esercizio professionale, quella connotazione che le arricchisce di quel valore aggiunto che il soggetto stesso è in grado di conferire loro.

La centralità della competenza fa sì che oggi l’insegnare per competenze sia diventato una sorta di imperativo categorico. Ovviamente, soprattutto nel nostro Paese, dove si è sempre insegnato sulla base di precisi contenuti disciplinari, di cui si richiedeva la semplice conoscenza, passare dalla verifica e dalla valutazione delle conoscenze di dati contenuti all’accertamento e alla certificazione di date competenze non è cosa facile: anche perché queste “date” competenze non vengono assolutamente indicate da chi ha la responsabilità della Pubblica istruzione, fatta eccezione per quelle da conseguire al termine dell’istruzione obbligatoria decennale [3].

 

Le competenze nel nostro sistema di istruzione

Ma vediamo concretamente che cosa succede nella nostra scuola. Com’è noto esistono ancora i gradi di studio, che nel corso della nostra storia si sono venuti sovrapponendo uno sull’altro e sui quali non si mai fatto né un ragionamento d’insieme né un complessivo riordino. Così, invece di avere una scuola di base decennale continua e progressiva, finalizzata al conseguimento di competenze che l’amministrazione scolastica ha indicate, definite e descritte con sufficiente chiarezza [4], abbiamo ancora una scuola primaria, una scuola media, che è anche il primo livello dell’istruzione secondaria, e una scuola secondaria quinquennale, di cui i primi due anni completano l’obbligo di istruzione. Abbiamo quindi tre gradi, in effetti ciascuno in certo qual modo autosufficiente e chiuso in se stesso, eredità di un passato lontano che ancora pesa negativamente sull’intero sistema di istruzione [5].

E non basta! Siccome ormai insegnare per competenze è di moda, l’amministrazione chiede agli insegnanti di certificare competenze alla fine di ogni grado, senza indicare però – fatta esclusione della conclusine dell’obbligo di istruzione – di quali competenze si tratti. Così i maestri della scuola primaria e i professori della scuola media si devono arrovellare per “inventarsi” competenze che abbiano un minimo di credibilità. Senza contare che ogni scuola certifica le “sue” competenze, per cui è impossibile avere una visione omogenea e credibile delle competenze acquisite dagli alunni. E non solo! Le competenze acquisite non hanno alcun valore né didattico né formale, perché le uniche competenze che fanno testo e che hanno un valore giuridico sono quelle accertate e certificate a conclusione degli studi obbligatori. Per quanto riguarda poi la conclusione dell’istruzione secondaria di secondo grado, occorre ricordare che la legge 425/97 che ha riformato gli esami di maturità prevedeva che il nuovo esame si concludesse con la certificazione delle competenze [6]; ma fino a oggi ciò non si è verificato. Com’è noto dall’anno scolastico 2012/13 vengono avviati i nuovi trienni [7] ed è auspicabile che in tre anni l’amministrazione indichi, definisca e descriva quali competenze i nostri studenti dovranno acquisire negli esami di Stato che concludono gli studi secondari.

Un’altra questione non banale è la seguente: mentre è relativamente semplice declinare competenze professionali (dal cuoco al chirurgo, dall’operatore ecologico al magistrato), non è sempre facile declinare altre competenze, non legate a una diretta attività e il cui confine con le abilità e le conoscenze è estremamente labile. Comunque, se volessimo elencare categorie di competenze, considerando anche il progress degli anni di studio, potremmo dire che in primo luogo vengono le competenze disciplinari, quindi quelle pluridisciplinari, poi quelle trasversali, quelle culturali, quelle di cittadinanza e infine quelle propriamente professionali. Occorre considerare anche che le competenze culturali, quelle di cittadinanza e quelle professionali dovrebbero tra loro interagire. Il condizionale “dovrebbero” sta ad indicare che non è affatto detto che competenze di cittadinanza e competenze professionali siano sempre interattive. Sarebbe auspicabile che così fosse, ma… è sotto gli occhi di tutti che vi sono politici e professionisti anche di chiara fama che evadono le tasse o scambiano bustarelle o sono in combutta con la malavita.

Ma è corretto in assoluto parlare di competenze rigidamente disciplinari? Un solo esempio: un’interprete simultanea, magari anche figlia di madre lingua, quindi più che mai esperta ad esempio dell’italiano e del tedesco, in un convegno internazionale di alta matematica o di cardiochirurgia potrebbe incontrare serie difficoltà laddove i parlanti utilizzassero termini o espressioni altamente specialistiche: è segno che anche la padronanza del linguaggio comune di due lingue e di due culture è insufficiente a fronte di determinate situazioni molto specializzate. In effetti, se la nostra figlia di madre lingua fosse anche un matematico o un chirurgo, il problema non si porrebbe. La lingua è una competenza così trasversale che da sola non reggerebbe a confronti su tematiche di alto profilo settoriale.

Forse sarebbe allora più corretto parlare di competenze pluridisciplinari! In effetti, nei curricoli scolastici i percorsi pluridisciplinari dovrebbero essere presenti in misura maggiore rispetto a quanto avviene. E non è un caso che fin dal lontano 1981, con il dm 26 agosto, introducemmo nell’esame di terza media il colloquio pluridisciplinare [8]. Analogo provvedimento adottammo con la riforma degli esami di maturità del 1969 [9], ribadito poi dalla riforma del 1997 [10]. Il che significa che la pluridisciplinarità di una prestazione può meglio garantire circa il raggiungimento di una competenza data. La prospettiva è chiara, ma è anche assai lontana: infatti le discipline ben tra loro distinte costituiscono ancora le fondamenta della nostra scuola. E spesso in sede di esami colloqui pluridisciplinari diventano rigide interrogazioni spudoratamente disciplinari!

Sono competenze trasversali quelle che implicano i modi di essere, di proporsi, di comunicare e di interagire di un dato soggetto: afferiscono più alla persona in quanto tale che al saper fare in senso stretto [11].

Sono competenze culturali quelle che afferiscono alla cultura di un dato milieu socioculturale, di un dato hic et nunc: ad esempio, conoscere e orientarsi per quanto riguarda la vita di una città, quali siano gli eventi di un certo rilievo, dallo spettacolo allo sport, all’associazionismo, ai problemi della gestione politica e sociale, e così via.

Possiamo anche dire che le competenze trasversali e le competenze culturali riguardano l’utilizzazione di una serie di informazioni riguardanti aspetti globali o specifici della cultura, appunto in ordine alle caratteristiche, alle motivazione e alle attese della persona. In genere soggiacciono a competenze specificamente professionali. Un critico cinematografico ha competenze culturali, che poi utilizza nella sua professione; lo stesso vale per un giurista o per un architetto o per un insegnante. Può darsi anche il caso di un architetto che sa anche tutto di cinema o di un medico che ha la passione della chitarra. Quello delle competenze culturali è un terreno difficilmente misurabile nella vita corrente, ma acquisisce una particolare rilevanza nella scuola, negli studi universitari e nell’apprendimento permanente. Nella scuola di base è importante che gli insegnanti si adoperino perché le competenze disciplinari via via acquisite dagli alunni acquistino anche uno spessore pluridisciplinare e culturale. In genere si dice che si è colti quando si personalizzano conoscenze e competenze con particolari caratterizzazioni. Quando si parla di teatro, Antonio e Luisa non vanno mai d’accordo, anche se, colleghi nel mondo del lavoro, operano sempre all’unisono.

 

Specificità delle competenze di cittadinanza

Le competenze di cittadinanza hanno, soprattutto oggi, un’importanza fondamentale, perché sono quelle che ci permettono di vivere in una società sempre più aperta, ma anche sempre più complessa e difficile, conoscendone gli aspetti critici per affrontarli e gestirli convenientemente. La stessa Unione europea si è fatta carico di individuare e definire le competenze di cittadinanza in quanto sono quelle che non solo permettono a ciascun cittadino dei singoli Paesi membri di sentirsi anche europeo, ma concretamente di circolare in Europa per studio, lavoro, turismo, avendo la piena consapevolezza di quelli che sono i suoi diritti e i suoi doveri in quanto, appunto, cittadino europeo. Si tratta di competenze che quindi promuovono la cosiddetta cittadinanza attiva e sono in grado di garantire l’apprendimento permanente: in altri termini, sostengono il cittadino nella consapevolezza di quanto sia necessario aggiornare costantemente conoscenze, abilità e competenze per fronteggiare quei cambiamenti che sempre più rapidamente ricompongono il nostro modo di vivere.

Il Parlamento europeo e il Consiglio con la Raccomandazione del 18 dicembre 2006 ha individuato e descritto otto competenze chiave per l’esercizio della cittadinanza attiva e per l’apprendimento permanente: Comunicazione nella madre lingua; Comunicazione nelle lingue straniere; Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologie; Competenza digitale; Imparare a imparare; Competenze interpersonali, interculturali e sociali e competenza civica; Imprenditorialità; Espressione culturale. Come si vede, le prime quattro rinviano alle discipline fondamentali di studio, le seconde, invece, investono propriamente la persona nel suo impegno civile verso se stesso e verso gli altri.

La Raccomandazione è stata accolta e recepita dai diversi Paesi dell’Unione e anche dal nostro, che ha assunto le otto competenze come finalità civiche del percorso obbligatorio di istruzione decennale. Nel dm 139/07 con cui, appunto, si è innalzato l’obbligo di istruzione dagli otto ai dieci anni, ritroviamo, infatti, le competenze di cittadinanza indicate dall’Unione, curvate comunque alla realtà del nostro sistema di istruzione. Le otto competenze sono state aggregate a tre macroindicatori, con i quali un soggetto può essere letto secondo tre modalità: a) la persona in quanto tale; b) la persona nelle sue relazioni con altre, il suo impegno sociale; c) la persona nelle sue relazioni con gli oggetti, gli eventi: in altri termini l’impegno professionale, il lavoro.

Nello specifico, si sono individuate le seguenti macrocompetenze: a) il Sé, l’Io sono, la costruzione del Sé, in quanto esito del processo di formazione; b) il Sé e l’altro, l’Io collaboro, la costruzione del Sé nelle sue relazioni con gli altri, in quanto esito del processo di educazione; c) il Sé e le cose, l’Io faccio, la costruzione del Sé nelle sue relazioni con le cose, esito del processo di istruzione. Il riferimento al comma 2 dell’articolo 1, comma 2, del dpr 275/99 (Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche) è più che evidente. Infatti, così recita: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche… si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, istruzione e formazione, mirati allo sviluppo della persona umana… al fine di garantire ai soggetti coinvolti il successo formativo”. Le otto competenze sono così definite: a) il Sé in quanto persona, 1. Imparare a imparare, 2. Progettare; b) il Sé e l’altro, 3. Comunicare, 4. Collaborare e partecipare, 5. Agire in modo autonomo e responsabile; c) il Sé e le cose, 6. Risolvere problemi; 7. Individuare collegamenti e relazioni, 8. Acquisire e interpretare l’informazione.

Va comunque ricordato che tali competenze, che a mio giudizio assumono un’importanza fondamentale anche perché coronano l’apprendimento di una materia fondamentale quale Cittadinanza e Costituzione [12], in effetti non vengono certificate al termine dell’obbligo di istruzione. Nel modello di certificazione allegato al dm 9/10, vengono certificate le competenze culturali, ma non quelle di cittadinanza. In una nota in calce al modello si legge infatti che “le competenze di base relative agli assi culturali sopra richiamati sono state acquisite dallo studente con riferimento alle competenze chiave di cittadinanza”. A mio vedere, si è trattato di una scelta impropria. Non è affatto detto che tra le due serie di competenze vi sia un’automatica contiguità: un soggetto può avere eccelse competenze, culturali o professionali che siano, ma utilizzarle in modo improprio sotto il profilo civico; d’altra parte possiamo avere onestissimi cittadini, privi però di specifiche competenze professionali.

In relazione a considerazioni di questo tipo, abbiamo acquisito che al termine dell’obbligo di istruzione decennale non è tanto importante quanto un alunno sappia degli specifici disciplinari, quanto invece sia capace di avvalersene e di utilizzarli in quando corredo pluridisciplinare: un corredo che lo aiuta e lo sostiene nella gestione di quelle competenze culturali di base che gli permettono di accedere con successo in una società che, com’è noto, si fa sempre più complessa.

Per questi motivi, è necessario che lo studente, alla fine del percorso obbligatorio di studi, qualunque indirizzo abbia seguito, liceale, tecnico, professionale, raggiunga competenze culturali di base a cui concorrono le singole discipline, pur nel loro diverso spessore, data la differenza che corre tra i tre indirizzi. Si sono così individuati quattro assi culturali pluridisciplinari: dei linguaggi; matematico; scientifico-tecnologico; storico-sociale [13]. E’ fondamentale e necessario che i saperi e le competenze, articolati in conoscenze e abilità, assicurino “l’equivalenza formativa di tutti i percorsi, nel rispetto dell’identità dell’offerta formativa e degli obiettivi che caratterizzano i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio” [14]. Analogo discorso vale per quei ragazzi che, all’uscita della scuola media, optano per i percorsi dell’istruzione e formazione professionale regionale [15]o, al compimento dei 15 anni di età, optano per l’apprendistato[16]. Si tratta di scelte operate dall’ultimo governo di centro-destra che, in effetti, hanno rotto la continuità dei percorsi obbligatori all’interno dei soli percorsi dell’istruzione, continuità che da sola avrebbe garantito l’unità dei saperi e l’uniformità delle competenze conseguite.

 

La certificazione delle competenze al termine dell’obbligo di istruzione

Ultima questione riguarda la certificazione delle competenze, a cui è sottesa un’altra questione, quella del loro accertamento. Preliminarmente, va sottolineato con forza che valutare competenze è cosa diversa dal valutare conoscenze. In questo secondo caso, la valutazione decimale tradizionale consente di valutare l’acquisizione di determinate conoscenze dal meno al più (cinque voti riguardano la zona dell’insufficienza, altri cinque quella della sufficienza e dell’accettabilità). La certificazione, invece, riguarda solo competenze effettivamente accertate. In effetti, una competenza c’è o non c’è: non esiste una competenza insufficiente. Quindi, a conclusione dell’accertamento [17], ci si potrebbe limitare a certificare semplicemente che una data competenza è stata raggiunta. In taluni casi si effettuano altre scelte: viene graduata la competenza in più livelli, da quello dell’accertata accettabilità a quello di una massima soddisfazione. In effetti, anche a livello internazionale si opta per tre livelli, essenziale, esperto, eccellente [18].

Nel nostro Paese le competenze vengono certificate sulla base di una disposizione normativa valida per tutto il territorio nazionale, a tutt’oggi, solo al termine dell’obbligo di istruzione decennale. In questo caso, si è optato per i tre livelli, come di evince dal dm 9/10. Per ciascuno dei quattro assi i livelli adottati sono i seguenti: di base, intermedio e avanzato. Segue il dettaglio dei relativi indicatori.

Livello di base: lo studente svolge compiti semplici in situazioni note, mostrando di possedere conoscenze e abilità essenziali e di saper applicare regole e procedure fondamentali. Nel caso in cui il livello base non sia stato raggiunto, è riportata l’espressione “livello di base non raggiunto” con l’indicazione della relativa motivazione Livello intermedio: lo studente svolge compiti e risolve problemi complessi in situazioni note, compie scelte consapevoli, mostrando di saper utilizzare le conoscenze e le abilità acquisite. Livello avanzato: lo studente svolge compiti e problemi complessi in situazioni anche non note, mostrando padronanza nell’uso delle conoscenze e delle abilità. Sa proporre e sostenere le proprie opinioni e assumere autonomamente decisioni consapevoli. Occorre anche specificare la prima lingua straniera studiata.

Occorre anche sottolineare che, mentre per gli assi matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale è stata mantenuta l’unitarietà pluridisciplinare, l’asse dei linguaggi è stato così disaggregato: a) italiano, con tre descrittori – parlare/ascoltare; leggere, comprendere, interpretare; produrre testi; b) lingua straniera, con un solo descrittore – il suo uso per i principali scopi comunicativi e operativi; c) altri linguaggi con due descrittori – fruizione consapevole del patrimonio artistico e letterario – uso e produzione di testi multimediali.

Ovviamente, sta poi alle istituzioni scolastiche e ai singoli consigli di classe considerare che un conto è certificare il conseguimento dell’obbligo di istruzione, che richiede competenze di un livello tale che consentano all’alunno/cittadino di operare le scelte per l’ulteriore percorso di studi a) nell’istruzione, b) nell’istruzione e formazione professionale, c) nell’apprendistato [19], altro conto è promuoverlo o meno al terzo anno del percorso prescelto. Nel primo caso occorre considerare gli assi che sono pluridisciplinari e che afferiscono a date conoscenze, abilità e competenze utili ad un inserimento consapevole nella società dei nostri giorni; nel secondo caso occorre considerare se ci sono le condizioni culturali e disciplinari che consentano un accesso produttivo al successivo anno di studi.

In conclusione è opportuno considerare che sarebbe necessaria una riscrittura e una migliore messa a punto sia delle competenze che concludono l’obbligo di istruzione sia del modello di certificazione in cui va assolutamente recuperata la certificazione delle competenze di cittadinanza. Nel primo caso la riscrittura dovrebbe verificarsi contestualmente con un riordino complessivo dell’intero percorso decennale, attualmente ancora frantumato nei tre segmenti della scuola primaria, della scuola media e del primo biennio della scuola secondaria di secondo grado. Il che permetterebbe di avviare fin dal primo anno di una rinnovata scuola decennale di base attività di insegnamento/apprendimento finalizzate a competenze che l’alunno è tenuto a raggiungere in un periodo di dieci anni di istruzione, formazione e educazione, come dettato nel citato Regolamento sull’autonomia.

In seconda istanza, è necessario che nel corso dei tre anni in cui si matura il triennio dei nuovi percorsi della scuola secondaria di secondo grado, l’amministrazione si faccia carico di riordinare l’esame di Stato finale e indicare con chiarezza quali siano le competenze da perseguire, accertare e certificare per ciascun percorso. Il che consentirebbe di rendere leggibili i nostri titoli di studio soprattutto per quanto concerne la loro circolazione nei Paesi dell’Unione europea, circolazione auspicata fin dalla fine del secolo scorso, come chiaramente indicato dalla legge 425/97, precedentemente ricordata, che ha riformato gli esami di maturità [20].

Roma, 28 gennaio 2012

Maurizio Tiriticco

 

* in corso di pubblicazione sul n. 2/2012 della  “Rivista di scienza dell’amministrazione scolastica” diretta da Anna Armone



[1] Il Quadro europeo delle qualifiche è un documento elaborato dall’Unione europea, con cui si invitano gli Stati membri a indicare a quale di otto livelli indicati dalla stessa Unione europea, da quello rilasciato al termine della scuola di base a quello più elevato, come le specializzazioni universitarie, corrispondano il loro titoli di studio,. Il che consentirebbe di equiparare i diversi titoli di studio e faciliterebbe la circolazione di studenti e di lavoratori all’interno dei Paesi dell’Unione. Entro il 2012 ciascun Paese dovrà indicare a quale degli otto livelli europei si riferiscono i singoli titoli di studio da esso rilasciati..

[2] In effetti lo stesso etimo latino di cum-petere, aspirare insieme a un obiettivo, ci aiuta a capire meglio l’aggettivo “sociali”.

[3] Si vedano i decreti del Miur 139/07 e 9/10 con i relativi allegati.

[4] Vedi i decreti di cui alla nota precedente.

[5] Si veda il Rapporto della Fondazione Agnelli sulla criticità della nostra scuola media, pubblicato nel novembre del 2011.

[6] Legge 425/97, art. 6, c. 1 – Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni, al fine di dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea.

[7] Si vedano le Indicazioni nazionali dei Licei e le Linee guida dei trienni degli Istituti tecnici e Professionali, reperibili sul sito del Miur. I trienni dei licei già sono stati pubblicati con le Indicazioni nazionali, di cui al dpr 89/10.

[8] In quel dm leggiamo tra l’altro: “La commissione imposterà il colloquio in modo da consentire una valutazione comprensiva del livello raggiunto dall’allievo nelle varie discipline, evitando peraltro che esso si risolva in un repertorio di domande e risposte su ciascuna disciplina, prive del necessario organico collegamento, così come impedirà che esso scada ad inconsistente esercizio verboso, da cui esulino i contenuti culturali cui è tenuta ad informarsi l’azione della scuola. Pertanto il colloquio non deve consistere in una somma di colloquio distinti…”

[9] All’articolo 6 della legge 119/69 leggiamo: “Il colloquio, nell’ambito dei programmi svolti nello ultimo anno, verte su concetti essenziali di due materie scelte rispettivamente dal candidato e dalla commissione fra quattro che vengono indicate dal Ministero entro il 10 maggio e comprende la discussione sugli elaborati”.

[10] Nell’articolo 16 dell’om 42/112, che dà istruzioni sullo svolgimento dell’esame leggiamo: “Il colloquio ha inizio con un argomento o con la presentazione di esperienze di ricerca e di progetto, anche in forma multimediale, scelti dal candidato… Deve vertere su argomenti di interesse multidisciplinare proposti al candidato e con riferimento costante e rigoroso ai programmi e al lavoro didattico realizzato nella classe durante l’ultimo anno di corso. Gli argomenti possono essere introdotti mediante la proposta di un testo, di un documento, di un progetto o di altra questione di cui il candidato individua le componenti culturali, discutendole… Il colloquio, nel rispetto della sua natura multidisciplinare, non può considerarsi interamente risolto… se non abbia interessato le diverse discipline”.

[11] L’Isfol individua tre competenze trasversali: diagnosticare le caratteristiche dell’ambiente e del compito, analizzare, capire, rappresentare la situazione, il problema, se stessi (le risorse che possono essere utilizzate o incrementate all’occorrenza) come condizione indispensabile per la progettazione e la esecuzione di una prestazione efficace (abilità cognitive); relazionarsi, mettersi in relazione adeguata con l’ambiente, le persone e le cose di un certo contesto per rispondere alle richieste (abilità interpersonali o sociali: insieme di abilità emozionali, cognitive e stili di comportamento, ma anche abilità comunicative); affrontare, fronteggiare, predisporsi ad affrontare l’ambiente e il compito, sia mentalmente che a livello affettivo e motorio, intervenire su un problema (uno specifico evento, una criticità, una varianza e/o una anomalia) con migliori probabilità di risolverlo, costruire e implementare le strategie di azione, finalizzate al raggiungimento degli scopi personali del soggetto e di quelli previsti dal compito.

[12] La nuova disciplina è stata introdotta nelle scuole con il decreto legge 137/08, in seguito convertito con la legge 169/08.

[13] Per i dettagli si veda l’allegato al dm 139/07

[14] Si veda l’articolo 2 del dm 139/07.

[15] Si veda la legge 133/08

[16] Si veda la legge 183/10

[17] Non è detto che l’accertamento debba consistere in una sorta di prova d’esame. Molto più produttivo dovrebbe essere l’esito di una serie di osservazioni mirate condotte dagli insegnanti per l’intero percorso ottonnale sulla base di opportuni indicatori.

[18]Ad esempio, nel portfolio europeo delle lingue sono stati individuati tre livelli, dall’essenziale all’eccellente, A, B e C, che, a loro volta, sono stati distinti ciascuno in due segmenti, A1, A2, B1, B2, C1, C2.

[19] Va ricordato che con la legge 53/03 (articolo 2, comma 1, punto c) è stato istituito il diritto/dovere all’istruzione e alla formazione per ben 12 anni o comunque fino al conseguimento di un titolo o di una qualifica da conseguire entro il diciottesimo anno di età. Si consideri anche che l’istruzione e la formazione professionale rilasciano le prime qualifiche a 17 anni di età.

[20] Si rinvia alla nota 6.

Più papiste del Papa

ALCUNE AASSLL TORINESI VOGLIONO ESSERE PIU’ PAPISTE DEL PAPA

di Salvatore Nocera

Un recente articolo de La Stampa di Torino sta diffondendo una notizia che crea disorientamento anche negli organi locali del Ministero dell’Istruzione: alcune AASSLL pretendono siano applicate alle certificazione di disabilità ai fini dell’integrazione scolastica le recenti norme sull’accertamento medico-legale dell’invalidità civile.

Il fatto è questo il decreto legge n. 78 del 2009, convertito dalla l.n. 102/09 , all’art 20 ha previsto  due nuove norme per l’accertamento dell’invalidità civile e cioè ha pevisto che le commissioni medicolegali siano integrate da un medico dell’INPS ed inoltre ha introdotto una procedura telematica con la quale il medico di famiglia richiede all’INPS un codice, col quale l’interessato , sempre on line chiede all’INPS la fissazione della visita.

Questa procedura sino ad oggi ha riguardato esclusivamente gli accertamenti per il riconoscimento dell’invalidità civile e non ha mai riguardato l’accertamento di disabilità ai fini dell’integrazione scolastica.

Però la L.n. 111 del 2011 all’art 19 comma 11 ha previsto che anche per l’accertamento di disabilità ai fini scolastici la commissione dell’ASL debba essere integrata da un medicolegale dell’INPS. Di qui alcune AASSLL torinesi hanno dedotto la necessità che si applichi totalmente la nuova procedura di accertamento prevista dal decreto legge n. 78/09, convertito dalla L.n. 102/09.

Se fosse corretta questa interpretazione, si avrebbero le conseguenze denunciate sull’articolo della stampa e cioè che i medici di famiglia  torinesi chiedono   un compenso di 60 euro per l’apertura delle pratiche ed i tempi di accertamento della disabilità contemporanei a quelli dell’invalidità civile slitterebbero di moltissimo, non consentendo alle famiglie di avere le certificazioni in tempo utile per le iscrizioni e quindi per ottenere in tempo utile i docenti per il sostegno e  gli altri servizi necessari all’integrazione  scolastica, come assistenti per l’autonomia e la comunicazione, trasporto gratuito a scuola etc.

Io concordo con quanti, anche al Ministero dell’Istruzione ritengono che l’interpretazione di queste AASSLL torinesi sia eccessiva. Infatti la L.n. 111/2011 si limita a prevedere l’obbligo che le commissioni debbano essere integrate da un medico dell’INPS e basta; non richiama né la nuova procedura, né la norma dell’art 20 del decreto legge n. 78/09 che prevede sia la presenza del medico dell’INPS nelle Commissioni , sia la nuova procedura telematica per l’invalidità civile.

Se fosse corretta l’interpretazione di queste AASSLL torinesi avremmo degli effetti paradossali:

1-      gli alunni con disabilità verrebbero discriminati ai sensi della l.n. 67/06 sulla non discriminazione delle persone con disabilità, poiché essi debbono pagare 60 euro per la certificazione, mentre i compagni non disabili non pagano nulla, non avendo bisogno della certificazione;

2-      verrebbe violato l’art 34 della Costituzione secondo cui l’istruzione è obbligatoria e GRATUITA per almeno otto anni; anzi per    gli alunni con disabilità l’obbligo scolastico si adempie sino al 18° anno di età, secondo quanto stabilito dall’art 14 comma 1 lettera C l.n. 104/92;

3-      i tempi per il rilascio delle certificazioni di disabilità verrebbero paurosamente allungati trascinati da quelli dell’accertamento dell’invalidità civile, con enormi ritardi sul riconoscimento dei loro diritti all’integrazione scolastica;

Ma possono alcune AASSLL stabilire che si debba adottare una procedura di accertamento in contrasto col resto delle AASSLL italiane?

A me pare di no; infatti il Consiglio di Stato, in occasione del Parere reso sulla bozza del regolamento per l’accertamento della disabilità ai fini scolastici, poi divenuto il dpcm n. 185/06 ha chiaramente stabilito che tali procedure costituiscono “ livelli essenziali “ relativi a diritti sociali che, ai sensi dell’art 117 della Costituzione debbono essere eguali su tutto il territorio dello Stato e   la cui formulazione è  riservata esclusivamente allo Stato.

Pertanto provvedano subito Il Ministero dell’Istruzione e quello della Salute a mettere ordine nella materia, riportando serenità nelle famiglie e ordine nelle scuole.

Un problema simile si era prospettato appena approvata la L.n. 104/92 che all’art 12 comma 5 aveva introdotto il principio della certificazione dell’handicap, disabilità, ai fini scolastici. Anche allora ci furono “ le vestali “ del rigore burocratico che avevano sostenuto che per la certificazione di disabilità si dovesse seguire la procedura dell’accertamento dell’invalidità , che invece serve a tutti altri scopi quali le pensioni, l’indennità  e gli assegni di accompagnamento.

Onde evitare confusioni immediatamente allora il Governo intervenne con un decreto legge n. 324/1993, convertito dalla L.n. 423/93, il cui art 2 comma 1, con norma di interpretazione autentica, precisava che per la certificazione di disabilità non si dovessero seguire le procedure per l’accertamento dell’invalidità civile.

Mi auguro che questo precedente possa convincere il Governo ad intervenire immediatamente, perché , in un momento in cui si stanno realizzando delle semplificazioni amministrative, non si sente proprio il bisogno di complicazioni burocratiche.

Già i Governi precedenti hanno abbondantemente colpito le persone con disabilità;  chi vuole essere più papista del papa sia cortese e si faccia da parte, lasciando certi compiti a chi di dovere.

Nota 23 marzo 2012, Prot. n. MIUROODGRUREGUFF 5371

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Dipartimento per la programmazione

Direzione generale per le risorse umane del Ministero, acquisti e AA.GG. Uff. 7

 

Al GABINETTO DELL’ON.LE MINISTRO SEDE

Al CAPO DEL DIPARTIMENTO PER LA PROGRAMMAZIONE

SEDE

Al CAPO DEL DIPARTIMENTO PER L’ISTRUZIONE

SEDE

Al CAPO DEL DIPARTIMENTO PER L’UNIVERSITA’

SEDE

Ai DIRETTORI GENERALI DELLE DIREZIONI GENERALI DELL’A.C.

LORO SEDI

Ai DIRETTORI GENERALI DEGLI UFFICI SCOLASTICI REGIONALI

LORO SEDI

Ai DIRIGENTI DEGLI UFFICI

LORO SEDI

 

Oggetto: Atti di diffida alla cessazione del prelievo della ritenuta del 2,5% sull’80% della retribuzione ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 1032 del 1973 e successive modificazioni.

 

Pervengono a questa Direzione Generale, atti di diffida volti ad ottenere la cessazione del prelievo della ritenuta del 2,5% sull’80% della retribuzione, ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 1032 del 1973 e successive modificazioni.

In proposito si precisa che il MEF Dipartimento dell’Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi, con nota del 13 febbraio 2012, ha chiarito che le modalità di calcolo del TFS non hanno subito, a decorrere dal 1° gennaio 2011, alcuna variazione.

Peraltro, come è dato desumere dalle disposizioni dell’INPDAP emanate con Circolare n. 17 dell’8 ottobre 2010 e dal parere espresso dall’Ispettorato per la spesa sociale presso il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato per i dipendenti in regime di TFR la retribuzione netta percepita resta immutata, in virtù della considerazione che, per gli evocati dipendenti, la contribuzione del 2,5% a carico del lavoratore non è dovuta.

Giova altresì richiamare il contenuto dell’art. 1 comma 3 del DPCM 20 dicembre 1999 secondo cui “per assicurare l’invarianza della retribuzione netta complessiva e di quella utile ai fini previdenziali dei dipendenti ….omissis…. la retribuzione lorda viene ridotta in misura pari al contributo previdenziale obbligatorio soppresso e contestualmente viene stabilito un recupero in misura pari alla riduzione attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul trattamento di fine rapporto, a ogni fine contrattuale nonché per la determinazione della massa salariale per i contratti collettivi nazionali.

La presente nota viene pubblicata sulle reti Intranet e Internet del Ministero, con preghiera da parte delle SS.LL. di massima diffusione tra il personale in servizio nelle strutture di competenza.

 

IL DIRETTORE GENERALE

Antonio Coccimiglio

Nota 23 marzo 2012, MIURAOODGSSSI prot. n. 1369/RU/U

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali
Direzione generale per gli studi, la statistica e i sistemi informativi
DGSSSI – Ufficio VII

Ai Dirigenti delle Istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado

e p.c.
Ai Direttori Generali degli Uffici Scolastici Regionali
Ai Dirigenti degli Uffici Scolastici Territoriali
Loro Sedi

Oggetto: Edilizia scolastica: aggiornamento anagrafe.

Il Ministero, nel corso del 2010, ha aggiornato la banca dati sull’edilizia scolastica per dare un quadro informativo di maggior dettaglio sulla situazione del patrimonio immobiliare scolastico. A distanza di due anni occorre disegnare una nuova mappa degli edifici scolastici, sia per tener conto dei cambiamenti intervenuti nel frattempo e sia per acquisire informazioni aggiuntive, quali lo stato di sicurezza e le caratteristiche antincendio degli edifici medesimi. Dati, questi ultimi, che saranno rilevati d’intesa con il Ministero dell’Interno – Dipartimento dei Vigili del Fuoco.
L’aggiornamento dei dati prevede due fasi.

  • Nella prima fase è effettuato il censimento dei singoli edifici tenendo conto che, nel caso di edifici utilizzati contemporaneamente da differenti istituzioni scolastiche, il dirigente della scuola di livello più elevato e, a parità di livello con il maggior numero di alunni, provvede al censimento dell’edificio.
  • Nella seconda fase ogni istituzione scolastica verifica che siano stati censiti tutti gli edifici dove svolge la propria attività e compila, per ogni edificio, il questionario di rilevazione delle caratteristiche antincendio.

In considerazione della natura di alcuni dei dati richiesti, è auspicabile anche il coinvolgimento del Responsabile del servizio di prevenzione e protezione presente in ogni istituzione scolastica (art.32, del D.lvo n.81/2008).
Dal 26 marzo 2012 al 13 aprile 2012 è possibile accedere nell’apposita area del SIDI Edilizia Scolastica -> Anagrafe Edilizia Scolastica e procedere all’inserimento dei dati.
Dal 16 aprile al 30 aprile 2012 è possibile nella stessa area del SIDI, verificare gli edifici censiti per ogni istituzione scolastica e compilare, se previsto, il questionario delle caratteristiche antincendio.
Nell’area Procedimenti Amministrativi -> Edilizia Scolastica è disponibile, inoltre, la Guida Operativa con tutte le indicazioni necessarie per la compilazione.
L’Ufficio di Statistica del Ministero è disponibile ai seguenti recapiti telefonici: 0658493708 – 0658493751 – 0658493173 – 0658492657 per fornire indicazioni e chiarimenti sull’attività di rilevazione.
Resta comunque possibile contattare il numero verde del gestore del sistema informativo 800.90.30.80 per la risoluzione di problemi di natura tecnica.
Apposite avvertenze, per la compilazione della scheda, sono disponibili nell’area SIDI dedicata alla rilevazione.

Il Direttore Generale
Emanuele Fidora

Allarmismi… più che giustificati!!!

Allarmismi… più che giustificati!!!

Alcuni amici mi fanno osservare che nel mio ultimo “Ipotesi di riordino del sistema di istruzione”, quando ipotizzo dopo il conseguimento dell’obbligo di istruzione un percorso di “istruzione letteraria”, di fatto intenderei liquidare il liceo classico, proprio quel percorso di studi che, nel marasma degli impasticciati riordini degli ultimi decenni, bene o male sarebbe riuscito a conservare una sua identità e valenza culturale. E sostengono anche che non è proprio un caso che gli studenti migliori scelgono tale tipo di studi e che i migliori ingegneri hanno avuto una formazione classica. Constato che i luoghi comuni a proposito del liceo classico abbondano da anni e non voglio discuterli, anche se sono duri a morire e anche se si continua a pensare che solo il classico apra le menti, insegni a ragionare, offra una vera e solida cultura e via dicendo.

Io non sono affatto contro una cultura letteraria, classica, se si vuole, e ho sempre sostenuto che, se avessimo le risorse umane in tal senso, o meglio insegnanti convenientemente preparati, potremmo introdurre il latino e il greco fin dalla scuola primaria. Ma così non è perché non è sufficiente sapere di greco e di latino, ma è importante saperlo fare apprendere – non uso il verbo “insegnare”, che indica un’altra cosa! Al di là della battuta, c’è da fare invece una reale considerazione, che mi viene dalla ricerca più che decennale di Martha Nussbaum, la quale sostiene che la cultura umanistica è indispensabile per una formazione completa e critica di chiunque. Ma quale cultura umanistica? E, soprattutto, come renderla effettivamente una cultura di base per tutti?

Sostiene la Nussbaum che non è soltanto con la strumentazione logica o il sapere fattuale che si può accedere consapevolmente in un mondo complesso qual è quello contemporaneo. Vi è una terza competenza, “strettamente correlata alle prime due, ciò che chiamiamo immaginazione narrativa! Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri. La ricerca di tale empatia è parte essenziale delle migliori concezioni di educazione alla democrazia, sia nei paesi occidentali sia in quelli orientali. Buona parte di essa deve avvenire all’interno della famiglia, ma anche la scuola e addirittura il college e l’università svolgono una funzione importante. Per assolvere a questo compito, le scuole devono assegnare un posto di rilievo nel programma di studio alle materie umanistiche, letterarie e artistiche, coltivando una partecipazione di tipo partecipativo che attivi e perfezioni la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi di un’altra persona” (Martha Nussbaum, Non per profitto, perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, 2011, pag. 111). In effetti la Nussbaum accenna a un umanesimo trasversale, che poi sarebbe una concreta educazione alla cittadinanza, sulla quale tutti oggi convengono: e le Raccomandazioni del Parlamento europeo del 18 dicembre 2006 e del 23 aprile 2008 vanno in tale direzione.

E’ in tale scenario che non ho assolutamente nulla contro la cultura classica, umanistica e letteraria. Il problema è un altro. Da sempre nel nostro sistema di istruzione questo prezioso filone culturale soffre di un doppio strabismo, se mi è concessa questa espressione: da un lato un’enfasi esagerata e tutta autoreferenziale nel liceo classico; dall’altro una convinta ma non dichiarata sottovalutazione negli altri ordini di istruzione. Ed è uno strabismo soprattutto italico, che ci viene tramandato da un attualismo gentiliano da cui ancora non riusciamo a liberarci. Ma non diamo tutta la colpa a Gentile! Potremmo dire che anche le suggestioni crociane e lo stesso spiritualismo cattolico e certe indicazioni della lezione gramsciana – se non ricordo male, Gramsci era contro il verbalismo con cui veniva realizzata la riforma di Gentile più che contro i suoi programmi – hanno fatto la loro parte nell’enfasi che viene data alla cultura classica più che a un sua concreta lettura, severa, rigorosa, scientifica, se è possibile questo aggettivo.

Non solo! Si è anche imposto un mondo classico letto come il periodo di una nostra pretesa meravigliosa grandeur! Basti pensare all’Inno a Roma, musicato da Puccini: una Roma imperiale, entusiasta e festosa: “Madre di uomini e di lanosi armenti, d’opere schiette e di pensose scuole, tornano alle tue case i reggimenti e sorge il sole. Sole che sorgi libero e giocondo, sul colle nostro i tuoi cavalli doma; tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma!” Ritorna puntualmente tradotto il Carmen saeculare di Orazio: Alme sol possis nihil urbe Roma visere maius! E il Vittoriano è la copia architettonica di questa Roma immortale! E’ così che per decenni si è disteso quel gran tappeto di una malintesa classicità, sotto il quale si sono abilmente nascoste le realtà di una storia che, come sappiamo, è stata ben diversa da quella che certi autori amavano rappresentare! E il fascismo e i suoi cantori furono abilissimi registi in tal senso! Mi sembra che da questa visione di maniera della classicità non ci siamo ancora del tutto liberati.

Di conseguenza, a fronte di un mondo classico rappresentato e trasferito in certe scuole con tutte le enfasi a cui abbiamo accennato, non poteva non corrispondere in altri percorsi di istruzione una sua sottovalutazione: quando mai un meccanico o un operaio potranno accedere a tanto splendore? Già è molto per loro che sappiano leggere e scrivere e far di conto a fronte dei lavori a cui dovranno attendere. La cultura non è per tutti! E’ un réfrain che conosciamo bene. Del resto anche i Padri costituzionalisti hanno scritto che solo i capaci e i meritevoli hanno diritto ad accedere agli studi superiori! Il che significa che anche i nostri Padri ritenevano – e siamo negli anni quaranta del secolo scorso – che non tutti siano capaci e meritevoli! Ma che cos’è che produce incapacità e demerito se non l’insieme dei condizionamenti socioeconomici e culturali? Va comunque dato atto ai nostri Padri di avere anche scritto che la Repubblica è tenuta a rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Ed è proprio in virtù di questo principio che dobbiamo adoperarci perché sia proprio l’istruzione a fare in modo che tutti i cittadini divengano capaci e meritevoli. Del resto non abbiamo affermato con l’avvio dell’autonomia che a tutti dobbiamo garantire il “successo formativo”? In forza, appunto, di un altro modello di scuola.

E il modello su cui discutere potrebbe essere proprio questo: a) una istruzione umanistica erogata a tutti, però senza alcun cipiglio retorico, qualunque sia il percorso secondario scelto; b) una istruzione letteraria, depurata anche questa di ogni cipiglio retorico, ma scientificamente fondata, a coloro che scelgono scientemente un percorso di studi mirato. Mi spiego meglio: a) tutti devono essere in grado di leggere e gustare una poesia o un romanzo o una qualsiasi opera d’arte – e a ciò occorre essere ovviamente avviati e istruiti; cosa che attualmente non avviene in certi nostri percorsi perché deliberatamente si è ipotizzato che gustare un racconto o un brano di musica classica è solo per “capaci” e “meritevoli” e non per tutti; b) pochi, o meglio chi sceglie l’istruzione letteraria, affronteranno la stessa poesia o lo stesso romanzo con un approccio diverso, più mirato: quindi con l’enfasi che deve essere data all’analisi del testo, alla ricerca linguistica e a tutte quelle diavolerie che riguardano un approccio scientifico – dico scientifico – alla ricerca letteraria, musicale, artistica in genere.

Ne consegue che tale proposta non è affatto contro gli studi classici: è contraria agli studi classici intesi e affrontati con l’enfasi e quegli accenti di saccenza, sufficienza, pretesa superiorità che una certa cattiva tradizione ha costruito nel tempo. Vuole restituire a tali studi la dignità che meritano, in quanto debbono essere affrontati e condotti con quello spirito di ricerca e con quell’atteggiamento di curiosità scientifica (sic!) che ogni studio rigoroso e severo deve avere. La scienza non riguarda solo la matematica, la fisica la chimica: scienza viene dal latino scio, che significa “so”, “acquisisco”, e con cognizione di causa. Ovviamente, il rigore scientifico dovrà caratterizzare anche gli altri percorsi, quello tecnico e quello professionale. La differenza tra l’hig tech e l’hig touch riguarda le diverse finalità preprofessionalizzanti a cui tendono l’istruzione tecnica e quella professionale, non davvero il rigore dell’approccio che deve essere assolutamente comune.

Insomma, quand’è che avremo un idraulico capace di leggere Dante e un dantista capace di riparare il rubinetto che perde? Io leggo Dante e provvedo sempre ai miei rubinetti! Una società giusta dovrebbe produrre uomini, e donne, “completi” e culturalmente autosufficienti… ma… ci vorranno ancora mille anni, con i tempi che corrono! Per concludere, occorre veramente allarmarsi, perché le cose vanno veramente cambiate! Ma quando?

Maurizio Tiriticco