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XIII Giornata Europea dei Genitori

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca


Il 9 febbraio al Miur la XIII Giornata Europea dei Genitori alla presenza del Ministro Giannini

Lunedì 9 febbraio, dalle 10.00 alle 13.30, presso la Sala della Comunicazione del MIUR, si svolgerà, alla presenza del Ministro Stefania Giannini, la “XIII Giornata Europea dei Genitori”.

Quest’anno l’evento, promosso come consuetudine in collaborazione con il Forum Nazionale dei Genitori della Scuola, è dedicato a “I nativi digitali e l’avventura nella grande Rete: Scuola e Famiglie per un nuovo patto educativo”.

Oggi è necessario un grande lavoro per rifondare il tradizionale patto tra scuola e famiglia, tra genitori ed educatori. La scuola non è più l’unico luogo da cui accedere alle informazioni ed ai modi di apprendere. Tutte le discipline sono infatti parte della Rete e sono accessibili rapidamente in mille forme, con la possibilità ulteriore di essere manipolate, variate, confuse, confrontate.

Lo stesso modo di imparare – il funzionamento del cervello umano – viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita. Questa è la prima generazione di adulti che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle e che deve insegnare a distinguere, scegliere, confrontare, in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere e le competenze che i propri alunni hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola, diversi da come loro hanno imparato.

La presenza di esperti italiani ed europei consentirà di affrontare i temi relativi al necessario rinnovamento della didattica nei nuovi contesti di apprendimento e, al tempo stesso, di ribadire l’importanza della collaborazione delle famiglie con la scuola in questa nuova avventura educativa.

Programma_XIIIGiornataEuropeadeiGenitori

Agenda del Dirigente Scolastico 2015

prima

Le copie possono essere richieste alla segreteria nazionale o alle segreterie provinciali Uil Scuola
(gli indirizzi e i recapiti sul sito Uil Scuola nella sezione ‘dove siamo’)

La corda e il silenzio

La corda e il silenzio

di Vincenzo Andraous

Una signora mi ha chiesto se in carcere si muore ancora? Qualcuno le ha detto che il sovraffollamento come problema endemico dell’Amministrazione Penitenziaria è stato debellato.
Che la totale chiusura di movimento all’interno degli istituti è stata corretta e riveduta. In carcere ora è possibile vivere e non solo sopravvivere.
Con questo nuovo regime carcerario non si hanno più notizie di detenuti che si sono ammazzati.
Forse una visitina in qualche galera non sarebbe inappropriato farla svolgere, non nell’ufficio del Direttore, neppure nella condizione di detenuto, ma volontariamente, tanto per rendersi conto di come una certa disinformazione mieta vittime non solo dentro una prigione, ma anche nella società cosiddetta libera. Costringendo le persone ad allontanarsi dalla realtà circostante, che invece riguarda tutti. In carcere si continua a morire malamente, si muore e tutto finisce lì, senza interrogativi, senza timore di incorrere in una riflessione che faccia male.
Ci si ammazza, tutto qui, niente di eccezionale, come se non accadesse, come se questa ferita persistente della giustizia fosse un semplice ruminar di parole.
No, amica mia, in carcere non c’è tregua a una sfrontata normalità della morte, della violenza, permane un evento critico accettabile, nulla di più e nulla di meno di un conto di mano, una somma da detrarre al famigerato disagio del sovraffollamento.
A volte mi chiedo le ragioni per queste assurde campagne disinformanti, i silenzi assordanti, i rumors ovattati e orchestrati ad arte sulla pena, sulla punizione, sul carcere come Istituzione.
Me lo chiedo perchè chi porta avanti questa sorta di alambicco residuale del male che guarisce altro male, della violenza che sana altra violenza, non alimenta l’economia del dettato costituzionale, ma il suo opposto e contrario: una indifferenza feroce che non risparmia alcuno. Sottostimare questo ragionamento riproduce il dis-valore del cane che si morde la coda, consentendo di aggirare il rispetto della pratica delle leggi, che sono tali, non solo tra la collettività esterna, ma anche e soprattutto dentro una cella, dove è necessario veramente tentare di essere-diventare migliori, ma ciò può accadere solamente con la promozione del pieno sviluppo della persona. Una persona viva, non morta, perché in tal caso nulla apporterebbe in termini di prevenzione, infatti trasformare un luogo di morte in una dimensione di speranza, comporta un grande dispendio di energie per svolgere una congrua manutenzione delle coscienze ritrovate. Papi e Presidenti, riferimenti certi perché autorevoli, ci ripetono come dischi incantati, che c’è un grande bisogno di recupero della legalità, valore questo che non può esser richiesto a comodo, tanto meno licenziato come qualcosa di scontato, per niente eccezionale. Cara amica in carcere si continua a morire disperatamente ( SENZA PIU’ SPERANZA), senza lasciare alcun monito in queste assenze, sbrigativamente additate come un abuso alla propria libertà personale. Dimenticando che l’uomo ristretto nel frattempo quella libertà l’ha perduta.

E se ritornassimo a Cartesio?

E se ritornassimo a Cartesio?
Per una metafora della didattica del dubbio  

di Mariacristina Grazioli

 

 

Tra le mille ipotesi, una cosa è certa: la società di oggi – così come la viviamo, la pensiamo o anche solo la ipotizziamo – ci introduce nell’area del “se”, del “ma”, del “forse”.

E’ il probabile il luogo più certo della vita.

La liquidità di Baumann e la trasparenza di Vattimo sono ancora ben radicate e non certo superate.

Il dubbio alberga nelle anse più solide di ogni strato sociale e nelle pieghe private delle menti, siano esse giovani ed agili che adulte, ben consapevoli ma un poco attardate.

Occorre che il dubbio e il metodo dell’errore consapevole non rimangono sul precipizio dello spaesamento.

Partiamo allora da una certezza, quasi un assioma.
Partiamo da lontano, anzi lontanissimo: partiamo da Cartesio.

 

E come diceva Cartesio: se l’unica cosa certa è il dubbio, dunque…

 

 

Lesperienza filosofica del pensiero: il valore del dubbio

Cogito ego sum, o meglio esisto perché penso.

Come dice Cartesio, agire attraverso il pensiero equivale ad assumere il metodo (mathesis) che non può che coincidere con il dubbio. In effetti laddove la mente umana si realizza nella scienza (cartesiana), e si occupa solo di oggetti che conosce perfettamente, tendenzialmente esclude tutto ciò che è dubitabile.

Attraverso un attento procedimento di analisi dell’evidenza, di sintesi e di enumerazione, l’intuito e la deduzione aprono le frontiere al pensare.

La conoscenza e gli oggetti del sapere sono sottoposti insindacabilmente al test del dubbio: è attraverso una radicalizzazione del concetto di Indubitabile e di Vero che il nostro Cartesio fissa il procedere della “meta-fisica”.

Nel pensiero cartesiano il dubbio crea: il dubbio determina l’IO pensante.

Si tratta allora di un dubbio metodico e antiscettico, capace di costruire conoscenza; anzi pare proprio l’unico metodo possibile per procedere alla conquista della verità.

La conoscenza è un atto dinamico e dipende dalle nostre idee che sono la facoltà di pensare a qualcosa, attraverso passaggi graduali. Leibniz identifica in conoscenza oscura ciò che non pare sufficiente a far riconoscere la cosa rappresentata; chiara ma confusa ciò che non è sufficiente a far riconoscere le caratteristiche che distinguono una cosa rispetto alle altre simili. Sarà solo la conoscenza chiara e distinta l’area di massima espressione del pensiero.

Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Spinoza descrive tre generi di conoscenza con cui noi percepiamo le cose e forniamo nozioni universali quali immaginazione, ragione e scienza intuitiva.

Tre autori del razionalismo ante litteram, tutti da riscoprire in un mondo dove le competenze e le conoscenze sono da rifondare, alla luce del nuovo linguaggio digitale e in relazione agli orizzonti socio-culturali post moderni.

Sembra propio che il processo di conoscenza sia tutt’altro che immediato, tutt’altro che stabile, ben diverso dal concetto di apprendimento per assimilazione mnemonico e di acculturazione per sedimentazione…

Siamo agli albori delle ricerche metafisiche sulla mente, nella piena ricerca speculativa del concetto di pensiero e ragione. Il desidero di scoperta e di senso del razionalismo metafisico ha riscoperto l’evidenza del mondo.

Oggi, un nuovo desiderio di scoperta avanza: il funzionamento delle mente ora domina la scena culturale e scientifica.

Ma è l’esercizio del dubbio di cartesiana memoria che ci invita al cogito e dunque alla prudenza…

 

Le attività didattiche e le neuroscienze

Non vi qui è la necessità di fare un trattato di analisi di matrice neuroscientifica, ma è certo che le nuove frontiere della ricerca hanno dato interessanti sviluppi alla nuova concezione sulle capacità di apprendimento, anche in contesti formali quali la scuola.

Il tema della didattica inefficace è al centro di dibattiti di ricerca sempre più estesi e si esprime in un fenomeno che fa discutere anche l’opinione pubblica, se pensiamo alla spesa nazionale pro capite che sostiene la Repubblica per l’Istruzione nazionale e i risultati deludenti delle performance degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, ben conclamati nei numeri dell’abbandono scolastico.

Non è infatti un mistero che la scienza dell’apprendimento e dell’insegnamento sia intrisa di falsi miti. E’ proprio questa è l’area di analisi di Paul Howard Jones che ha esplorato le credenze e le certezze dei docenti in ambito neuroscientifico.

In uno dei suoi ultimi lavori sostiene che i pregiudizi culturali e la confusione linguistica che proliferano tra i neuoscienziati e gli esperti dell’educazione non fanno certo bene al potenziale dell’apprendimento delle persone.

Molti insegnanti basano le loro tecniche didattiche ed educative su false credenze, non supportate da basi scientifiche; anche le loro competenze sulle modalità di funzionamento della mente e del cervello – in quanto organo – risultano non tempre adeguate.

E’ stupefacente vedere come chi deve pilotare una macchina non ne conosca la struttura del motore, e sono ancora più stupefacenti le resistenze alle necessarie attività professionali di formazione ed aggiornamento – che sarebbero assai utili a conoscere le condizioni neuro-scientifiche – per avere un approccio corretto alla costruzione di un attività didattica significativa.

L’auspicio è quello di una sempre maggiore e più stretta collaborazione tra le neuroscienze (che devono imparare a sfatare i cosiddetti neuromiti) e il mondo dell’educazione. A partire dalla costruzione di campi di ricerca comuni e di comuni linguaggi, ricerca scienza ed educazione devono imparare a cooperare, a tutto a vantaggio della didattica di aula e al fine di promuove lo sviluppo delle capacità cognitive attraverso il pensiero e – conseguentemente – il pensiero attraverso la conoscenza.

 

Strumenti per pensare

L’apprendimento senza pensiero è mero esercizio mnemonico. Dunque occorre pensare o quantomeno avere il coraggio di voler pensare. In effetti pensare costa fatica, pensare è difficile.

“Pensare a certi problemi è così difficile che il solo pensiero di pensare a quei problemi può fare venire il mal di testa”.

Sono parole del filosofo Daniel Dennett che non nasconde la sua personale apprensione per lo strumento principe delle sue attività, ma non cede alla tentazione dell’abbandono al conformismo e lascia tanti piccoli sassi nello stagno della conoscenza: ecco che nascono i suoi magnifici e singolari “strumenti per pensare”. Certo non si tratta di un ricettario di idee e risposte, ma invero di una sfida al conformismo in cui spesso il ragionamento si accomoda supinamente.

Tra gli “strumenti” di Dennett (strumenti per pensare al significato, per pensare all’evoluzione, alla coscienza e al libero arbitrio) sono assai stimolanti le modalità per accendere la mente e per liberare le energie di un apprendimento innovato, dove l’errore è già parte della conoscenza stessa.

Errore e dubbio come metafora del pensiero; l’errore è in fondo la chiave più giusta per fare progressi…

L’uomo di cultura ha un compito: seminare dubbi e non raccogliere certezze. Norberto Bobbio auspica un modello di neo-umanesimo che si rifà all’idea del divenire e che relega il pensiero unico tra le armi antidemocratiche.

L’invito allora è quello di dare maggior attenzione ad una didattica caratterizzata dal ricorso al valore dell’errore, basata

sull’esperienza ragionata, fondata sul dubbio razionale. Per certi versi siamo in pieno accordo con le migliori esperienze della didattica della ricerca, ma l’auspicio è di andare oltre.

 

Le 5 intelligenze, e forse qualcuna in più…

Intelligenza disciplinare, intelligenza sintetica, intelligenza creativa, intelligenza rispettosa, intelligenza etica: ecco le cinque chiavi di H. Gardner per accedere al futuro incerto.

Non si fa mistero – nel pensiero sotteso al testo – che le nuove forme di apprendimento richiesto dallo straordinario e vorticoso processo evolutivo della società attuale non possano prescindere da nuovi modi di pensare, sia a scuola che sul lavoro, nella vita privata, così come nella vita pubblica.

Pare quindi assodato che il dubbio rappresenti lo strumento per eccellenza delle capacità del pensiero dell’uomo, tanto da creare un’area che supera l’intelletto e porta all’intelligenza, intesa come massima forma di adattamento all’ambiente, tanto per citare il mai banale Piaget.

Il contesto scolastico, dove gli apprendimenti sono organizzati con forma e metodo costante, deve sapere sviluppare una didattica del dubbio. Dubbio come cogito cartesiano: dubito dunque penso e se penso sono…

L’esperienza didattica deve pertanto assumere i connotati della formazione life long learning che massimizza l’esposizione ai modelli formativi, indipendentemente dai contesti scolastici di riferimento. Attraverso il superamento del modello lineare e cumulativo di acquisizione nozionistica, il nuovo uomo del terzo millennio adatta le sue competenze metacognitive alla luce dei “nodi di competenze diverse e interscambiabili”, tra le “reti delle conoscenze”, nelle “relazioni tra apprendimenti disciplinari e multidisciliplinari”.

Inevitabile pensare che la complessa sfida per la conquista del sapere sarà garantita dal metodo del dubbio.

 

Il dubbio nellera digitale

L’era digitale ha diffuso un sottile entusiasmo tra vecchi e nuovi adepti dei sistemi tecnologici.

Il New Millennium Learning però ci consegna un quadro piuttosto sconcertante: le tecnologie digitali modificano i comportamenti sociali e cognitivi e nascono nuovi abitanti del sapere, chiamati nativi digitali. Non è una idea vaga, ma una ipotesi fondata da analisi comparate e sostenute da vari campi di ricerca.

Da questi studi emerge che – incredibilmente – l’uso a scuola delle tecnologie digitali non è così rilevante come quello dei contesti familiari e sociali.

L’utilizzo delle tecnologie digitali nei nostri Istituti (sia quelli italiani che quelli degli scenari internazionali più avanzati) è limitato ai docenti “immigranti digitali” più preparati (e il dato a volte è sconfortante), ma il setting di esperienze educative dei ragazzi non coincide del tutto con il mondo digitale, poiché la scuola sa offrire ancora contesti alternativi.

E ciò è un bene, anche se da qualche pulpito questo è un indice di arretratezza…

I nativi vivono in un mondo dove il “virtuale” è una manifestazione del “reale”.

Essi ”crescono, apprendono, comunicano, socializzano all’interno di questo nuovo ecosistema mediale, vivono nei media digitali, non li utilizzano semplicemente come strumenti di produttività individuale e di svago, sono in simbiosi con loro”.

Se questo è il quadro, la capacità di pensare è condizionata dalle nuove forme digitali, dai codici e dai generi del multimediale.

I nativi hanno un approccio pragmatico alla cognizione: essi sperimentano naturalmente la pedagogia dell’errore.

L’apprendimento per successive approssimazioni, secondo la logica abduttiva di Peirce, allontana i nativi dal pensiero aristotelico, ma anche da quello galileiano. In effetti il modello di acquisizione per ricerca e per pratiche – tipico dei nativi – prevede una scarsa valorizzazione dell’errore in senso cognitivo: l’errore fa cambiare strada repentinamente per ottenere il risultato sperato, ma non fa pensare con la lentezza necessaria a ponderare e a sedimentare.

In ogni caso, il nuovo approccio alle conoscenze attraverso la cultura partecipativa tipica del learning by doing e del learning by experience, unitamente all’interazione transmediale dei contesti digitali, impone all’istituzione scuola un ripensamento delle didattiche, necessariamente adattate alle indiscutibili richieste di apprendimento dei nativi.

Ecco allora che il “pensiero” cartesiano fa necessariamente capolino, onde evitare che l’epoca nuova possa approssimare la massima da “cogito ergo sum” a “digito ergo sum”.

Il dubbio nell’era digitale ha dunque a che fare con la pazienza e l’attesa e la frustrazione che ne può conseguire. Si costruirà conoscenza e sapere solo arginando l’onnivoro multitasking digitale con il più sapiente e lento cogito.

 

La metafora della nuova didattica: il relativismo buono

Raymond Boudon traccia le linee del relativismo cognitivo sintetizzandolo in “un punto di vista sulla conoscenza”.

Tra il pensiero degli scienziati, e quello dell’uomo comune con cultura ed istruzione (ma anche dell’uomo senza istruzione) non vi è differenza: semmai la differenza è di grado, ma non di natura.

Tutti sono in grado di ragionare poiché non esiste un ragionamento pre-logico o primitivo. Esiste un concetto di razionalità non di tipo esclusivamente strumentale: una versione cognitiva secondo cui le persone hanno come obiettivo la ricerca del vero, non dell’utile e lo raggiungono attraverso un ragionamento soggettivo.

Il concetto che ci suggerisce l’autore è permettere all’individuo di sviluppare il ragionamento che gli è proprio in contesti differenti, sia sociali che mentali, imparando ad analizzare bene “l’apparente caos del divenire”.

In conclusione l’auspicio che l’individuo sia preparato al domani, comporta una profonda responsabilità didattica dell’agire quotidiano di coloro che sono deputati a curare lo sviluppo del massimo potenziale dei nostri alunni. In altri termini ”da questo dipende la comprensione dell’Altro, del mondo, del divenire storico, così come l’approfondimento della democrazia e l’accantonamento del relativismo cattivo”.

Si deve passare dal fascino della comunicazione, allattrattiva della razionalità”: il cogito e l’esercizio del dubbio ritornano prepotentemente tra gli strumenti indispensabili del nostro futuro.

 

La sintesi dei pensieri di questo piccolo sunto non vuole rivelare certezze, semmai vorrebbe prospettare uno scenario educativo da esplorare nel prossimo futuro.

Ecco allora il valore del dubbio e il senso della metafora di un didattica del pensiero che dubita e si scopre come metodo fondante dell’agire umano: un buon regalo per l’avvenire radioso dei nostri diciottenni a caccia di verità, in un mondo di probabili certezze…

Programmazione di interventi didattico-educativi specifici e valutazione formativa per la riuscita scolastica degli alunni stranieri

Programmazione di interventi didattico-educativi specifici e valutazione formativa per la riuscita scolastica degli alunni stranieri. Il binomio forte da rivisitare

di Domenico Sarracino

Abstract

Nonostante il cammino compiuto in tema di inte(g)razione, inclusione e successo scolastico di tutti gli alunni, sono ancora presenti alcune pesanti criticità. La Programmazione didattico-educativa e la Valutazione formativa sono un binomio di grande portata, che contiene gli strumenti operativi per attuare l’individualizzazione-personalizzazione dei percorsi scolastici curvati sui bisogni dei singoli alunni. È tempo che si torni a riflettere su questi strumenti, rivisitandone lo stato di salute, per rilevare le condizioni di un loro potenziamento in rapporto agli sviluppi in corso ed evitare il rischio che si riducano a tecnicalità e routine, prive della necessaria tensione alla ricerca che non deve mai fermarsi. Occorre anche rivisitare impegno e condizioni operative in particolare dei docenti e dirigenti, ma anche dei Consigli di classe, come insostituibili strumenti di cerniera e raccordo. E ciò anche alla luce della recente direttiva sui Bisogni Educativi Speciali (BES) e degli ostacoli, soggettivi e oggettivi, che una fase difficile della storia della scuola fa emergere. Occorre lavorare con rinnovato slancio e più affinati strumenti per il successo scolastico di tutti gli allievi e, più in generale, per costruire la cittadinanza interculturale e una nuova e più ampia coesione sociale.

Università 2.0: gli atenei comunicano con i nativi digitali

Presentati i primi risultati dell’Osservatorio sulla comunicazione web delle università italiane istituito dal Censis

Università 2.0: gli atenei comunicano con i nativi digitali

Sempre più attivi su Facebook e Twitter. I commenti delle social community sono prevalentemente positivi (71%). E il 65% degli atenei ha anche una web radio

Roma, 6 febbraio 2015 – Dall’analisi dei siti web di 74 atenei italiani (58 statali e 16 non statali) emerge una spinta all’innovazione dei servizi online e una maggiore attenzione all’interazione con un’utenza sempre più composta da nativi digitali. In gran parte dei siti sono presenti motori di ricerca multilingue (l’83,8% fornisce informazioni in una o due lingue straniere). Il 40,5% dispone di un’app per garantire la navigazione agli utenti che si collegano con dispositivi mobili. Il 35,2% dei siti è stato progettato con tecniche di responsive design (i contenuti sono adattabili graficamente ai diversi device utilizzati dagli utenti: computer con diverse risoluzioni, tablet, smartphone). Oltre la metà delle università fornisce entro un giorno un riscontro alle richieste inoltrate attraverso gli indirizzi e-mail presenti sulle loro pagine web, i forum e le bacheche su Facebook e Twitter. Ed è significativa anche la presenza di canali informativi degli atenei con un’attività redazionale strutturata: il 64,9% dei siti dispone di una propria web radio e il 63,5% di un proprio magazine online. È invece ancora minoritaria l’attivazione di e-shop per la vendita di prodotti merchandising: ne è dotato solo il 20,3% degli atenei.
Il mondo dell’istruzione, e in particolare quello della formazione superiore, è impegnato ogni giorno di più anche nella diffusione di informazioni e contenuti sui social network. La ricognizione sugli account Facebook e Twitter di 30 atenei italiani effettuata durante il mese di dicembre 2014 ha prodotto 2.420 contenuti. Di questi, 1.974 sono post e tweet generati dagli atenei stessi, 283 sono stati postati dagli universitari sulle fan page di Facebook e 163 sono i commenti generati dalla stessa utenza. Con riferimento ai soli contenuti generati dagli account di ateneo, il 57,1% proviene da Twitter e il restante 42,9% da Facebook. Sono le donne la componente prevalente dell’utenza che interagisce con le fan page delle università, rappresentando il 63,4% del totale a fronte di un 36,6% di maschi. L’utenza femminile è anche quella più propensa a condividere i contenuti con un engagement pari all’86,5% del totale, più alto su Facebook (85,9%) rispetto a Twitter (14,1%).
È quanto emerge dai primi dati raccolti dall’Osservatorio sulla comunicazione web delle università italiane istituto dal Censis, in partnership con Extreme e Kapusons, nell’ambito del progetto di Competitive Media Intelligence. Lo scopo dell’Osservatorio è analizzare i flussi comunicativi sul web generati dalle università italiane attraverso la piattaforma cloud di monitoraggio WebLive Pro SaaS, ideata per fornire un’analisi quantitativa e qualitativa sui flussi comunicazionali (di cosa si parla) e un’analisi del sentiment correlato (come se ne parla).
Di cosa si parla nelle social community? Il 40% dei post e tweet riguarda gli eventi (congressi, appuntamenti, iniziative sportive, ecc.), il 24,7% la didattica, il 18% argomenti di carattere istituzionale, il 6,4% la ricerca, il 5,4% il placement, il 3,3% informazioni amministrative e il 2,2% notizie relative alle borse di studio. La sentiment analysis dei commenti postati dagli utenti sulle pagine Facebook di ateneo evidenzia prevalentemente umori positivi (71%) rispetto a quelli negativi (29%).
Attualmente l’Osservatorio monitora i contenuti generati su Facebook e Twitter da 30 università italiane (statali e non statali), per un totale di 58 profili sociali analizzati. Nei prossimi mesi l’Osservatorio proseguirà la sua attività di monitoraggio con l’obiettivo di allargare l’analisi a tutti gli spazi online (siti web, forum, blog, altri social network, ecc.) sui quali sono presenti discussioni relative alle università prese in esame.
I principali risultati vengono presentati ai responsabili della comunicazione degli atenei che hanno aderito alla terza edizione del ciclo di seminari su «La comunicazione delle università italiane», focalizzati sui temi della comunicazione 2.0, il primo dei quali si è svolto lo scorso 30 gennaio presso la sede del Censis, il secondo è in programma oggi e il terzo il 27 febbraio.

Diplomati ITS

Diplomati Its: l’82% è soddisfatto dell’esperienza compiuta, il 55% ha trovato lavoro

L’opinione di giovani, Fondazioni e imprenditori sull’esito occupazionale post-Its secondo i dati dell’Osservatorio sulla costituzione di poli tecnico-professionali di Cnos-Fap e Censis

Roma, 5 febbraio 2015 – Gli Its (Istituti tecnici superiori) sono storia recente, ma in rapida evoluzione. Sono aumentati dagli iniziali 59 nel 2010-2011 ai 74 attivi oggi. Sono composti da istituzioni educative e rappresentanti della ricerca e del mondo accademico e produttivo, e vogliono accrescere la loro reputazione tra i giovani e nel mondo delle imprese. La ricerca realizzata da Cnos-Fap con il Censis ha coinvolto 41 Fondazioni (che nel primo biennio di attività hanno erogato 52 percorsi formativi) e 518 diplomati. Questi ultimi hanno scelto gli Its non per far crescere la loro cultura personale, ma per trovare un’occupazione (lo afferma il 29,6%). Per raggiungere questo obiettivo, il 22,8% è stato disposto a spostarsi di provincia e il 7,7% anche di regione. Non è una migrazione dal Sud al Nord, ma una decisione basata sul genere di corso che si intende seguire. Gli ex studenti degli Its hanno spesso un diploma e un’età tra 21 e 22 anni (34,6%), il 21,8% ha superato i 25 anni, e per il 76,1% sono maschi, segno che le vocazioni lavorative tecniche sono ancora poco diffuse tra le ragazze, a meno che non siano legate alla moda, al turismo o ai servizi. I diplomati valutano che il corso ha risposto del tutto (24,4%) o abbastanza (68,9%) alle loro aspettative. E sono molto (28,4%) o abbastanza (54%) soddisfatti dell’esperienza compiuta.
Gli occupati al momento della rilevazione erano il 54,8%. Per il 72% di loro quello post-Its è il primo lavoro. Prevalgono il contratto a tempo determinato (32,6%) e il contratto di apprendistato (29,8%). Solo il 17,6% lavora in un settore diverso da quello del corso Its frequentato, mentre il 49% lavora in un’azienda che fa parte della rete di relazioni della Fondazione Its e spesso (43,3%) lavorano nella stessa azienda in cui è stato effettuato lo stage. Tutti questi aspetti fanno sì che i giovani si dicano molto (53,7%) o abbastanza (34,5%) soddisfatti del proprio lavoro.
Su questi risultati le Fondazioni Its esprimono un senso critico costruttivo. È evidenziata l’insoddisfazione per la precarietà di parte dell’occupazione, ma anche la soddisfazione per la percentuale complessiva degli occupati, soprattutto considerando che si tratta di una nuova esperienza poco conosciuta dal tessuto produttivo, anche se si percepisce un interesse crescente. È intenzione quasi unanime delle Fondazioni (95,1%) rafforzare le attività finalizzate al collocamento dei propri diplomati: ampliare e includere le realtà imprenditoriali del territorio, allargare il numero dei partner, implementare o mettere a regime un sistema di orientamento e placement ex post autogestito (in collaborazione con agenzie di collocamento private) o in accordo con i servizi pubblici per l’impiego. Per questo sono pronte a investire in impegno, strategie di comunicazione e marketing, relazioni, ma aspirerebbero a un maggiore sostegno da parte del Miur e delle Regioni.
Il quadro che emerge dalla ricerca è completato dall’opinione di alcuni datori di lavoro che hanno avuto contatto con i ragazzi appartenenti a cinque settori diversi (meccatronica, moda, agroalimentare, turismo, Ict). Per tutti l’esperienza è stata positiva e considerano due gli aspetti di eccellenza: l’efficacia della formazione teorica integrata con quella pratica e la scelta utilitaristica dei ragazzi che, essendo determinati nel seguire un percorso per trovare lavoro, sono decisamente motivati.
«Abbiamo presentato circa un anno fa il primo rapporto per comprendere come la nuova offerta formativa degli Its fosse adeguata e accolta da giovani e imprese. Quest’anno, invece, l’Osservatorio del Cnos-Fap e del Censis si è concentrato sugli esiti occupazionali», ha detto Mario Tonini di Cnos-Fap. «Con questa ricerca abbiamo voluto comprendere la qualità del lavoro e le dinamiche che lo hanno reso possibile, per meglio indirizzare i nostri sforzi di formatori e il rapporto con il mondo dell’impresa», ha concluso Tonini.
«Questa seconda indagine non ha fini statistici, ma ha l’obiettivo di appurare lo stato di soddisfazione dei ragazzi, delle Fondazioni e degli imprenditori», ha detto Claudia Donati del Censis, curatrice della ricerca. «L’indagine è stata realizzata nel 2014 e si è focalizzata sugli esiti occupazionali dei primi diplomati Its, quelli dei percorsi attivati nel periodo 2010-2011. Tutti ‒ Fondazioni, diplomati e datori di lavoro che hanno assunto i diplomati Its ‒ si sono espressi in termini molto positivi e costruttivi sia sulle dinamiche dalla formazione, sia sugli esiti occupazionali».
«Occorre lavorare ancora su alcune criticità, come la disomogeneità nell’attivazione dei percorsi e la necessaria stabilizzazione di questa offerta formativa», ha detto Mario Tonini di Cnos-Fap. «Sono problemi comprensibili quando si è agli inizi. Migliorare questo percorso alternativo è fondamentale, come dimostrano anche le realtà di altri Paesi europei che hanno attivato formule analoghe di alta specializzazione non accademica con ottime ricadute occupazionali. E come ci chiedono gli stessi allievi, che considerano questa esperienza un successo. Vorrei poi puntare l’attenzione sul nostro ordinamento giuridico, che è ancora troppo strutturato sull’istruzione e favorisce l’ingresso agli Its di chi ha conseguito un diploma, mentre resta molto più difficile per chi proviene dalla filiera della formazione professionale. Occorre rimuovere il vincolo per cui oggi gli allievi degli Iefp hanno l’obbligo di un quinto anno integrativo. Anche un recente documento delle Regioni sembra andare in questa direzione, quindi ci si augura di continuare a muoversi verso questo obiettivo», ha concluso Tonini.

Questi sono i principali risultati dell’Osservatorio sugli Its e sulla costituzione di poli tecnico-professionali creato da Cnos-Fap e Censis, presentati oggi a Roma da Claudia Donati del Censis e Mario Tonini di Cnos-Fap, e discussi da Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, Fabrizio Proietti (Miur), Riccardo Rosi (Unione Industriali di Torino) e Pietro Antonio Varesi (Isfol).

La scuola di fronte a una sfida di civiltà

La scuola di fronte a una sfida di civiltà

di Maurizio Tiriticco

Sto intercettando su FB centinaia di messaggi contro il rogo del povero pilota giordano caduto nelle mani dei miliziani dell’Isis. Non mi meraviglierei più di tanto. Roghi, squartamenti, tagli di teste, mazzolature, tutte pene più che legali – ripeto, legaliii – sono tipiche di ogni fondamentalismo religioso. Nello Stato pontificio la pena di morte fu praticata fino al 1870. Ed è rimasta legale fino al 2001. Pomponio de Algerio, studente protestante, fu arso vivo in un pentolone di olio bollente il 19 agosto 1556 in Piazza Navona nella Roma pontificia: un gran divertimentooo!!! E solo una delle decine di migliaia di efferate uccisioni! Nell’Ottocento Mastro Titta ha giustiziato – si fa per dire – più di 500 condannati, e sempre con la benedizione pontificia! E sotto ogni regime questi spettacoli erano una gran festa. Non c’erano né cinema né TV e neppure le partite di calcio! E, dopo la messa, obbligatoria, ovviamente, una bella esecuzione in una piazza della città, Piazza del Popolo, Campo di Fiori, il Velabro, era uno spettacolo atteso: e le teste mozzate appese nei crocevia facevano sempre bella mostra di sé! Se poi si trattava di una strega, ancora meglio! Centinaia di migliaia di donne per secoli in Europa e in America sono state bruciate vive. Un bel rogo purifica, uccide la strega e ne libera l’anima per il Cielo! Insomma, le si fa un bel regalino!
Se non ci fossero stati Bruno, Campanella (tra le altre imputazioni, aveva anche scritto “De tribus impostori bus”, cioè Mosè, Gesù e Maometto, contro le tre religioni monoteiste), Galilei, Beccaria, Bacone, gli Illuministi, se lo Stato della chiesa non fosse stato abbattuto, le nostre piazze continuerebbero a colare sangue! Galileo è stato riabilitato dalla Chiesa, obtorto collo, solo nel 1992! E torturare poi non era una eccezione, era la pratica principe di ogni interrogatorio, perfettamente legale. Se il condannato resisteva, era salvo; in effetti non resisteva mai: quindi era segno che dio non lo aiutava e che era colpevole! Per non dire degli ammazzamenti degli Indios! Prima li battezzavano e poi li ammazzavano! E gli strumenti di tortura che si sono inventati nei secoli erano i più raffinati, e tutti legali, ovviamente per volontà di dio (lo scrivo sempre con la lettera minuscola per ovvi motivi! Dio è o sarebbe un’altra cosa).
Finché dal mondo mussulmano non emergerà un Voltaire, di sgozzamenti e di roghi ne vedremo ancora, chissà quanti e chissà per quanto tempo! Nella “civilissima” Abu Dhabi, splendida capitale degli Emirati arabi, città dagli alberghi più che avveniristici, omosessuali, apostati, adultere sono ammazzati per strada a colpi di pietre e di frustale, a volta con grande gioia dei presenti. Per non dire che uccidere un “non credente” è regola per un regime teocratico. E ciò valeva anche per la chiesa cattolica. Gli eccidi compiuti dai crociati, quando nel 1099 “liberarono” Gerusalemme, erano auspicati, autorizzati, santificati: ogni morto ammazzato valeva un posto guadagnato in paradiso. Bernardo di Chiaravalle scriveva: “Un soldato di Cristo, quando uccide un malvagio, non è un omicida, ma, per così dire, un uccisore del male e viene stimato vendicatore di Cristo nei confronti di coloro che fanno il male e difensore dei Cristiani. Occorre eliminare questi gentili che vogliono la guerra, eliminare questi operatori di iniquità che vagheggiano di strappare al popolo cristiano le ricchezze racchiuse in Gerusalemme: ecco la più nobile delle missioni”.
Per concludere, la laicità è stato un germe che a poco a poco ha logorato l’infausto assolutismo della religione cattolica di Costantino e di Tedosio: quand’è che il germe della laicità comincerà a logorare l’assolutismo mussulmano? Forse mai!? Ho sempre considerato “La Rabbia e l’Orgoglio” di Oriana Fallaci un testo eccessivo e pericoloso ai fini del dialogo che noi occidentali, di mille diverse culture e religioni, ci siamo proposti di intrattenere con tutte le credenze “altre” del mondo. Ma il recente eccidio degli amici di Charlie Hebdo e le efferate sentenze di morte dei soldati dell’Isis non possono non sollecitare riflessioni e ripensamenti.
Anche perché noi, uomini e donne di scuola, abbiamo responsabilità precise per quanto riguarda quella Educazione del cittadino, che sia nato o giunto qui, rispettoso di ogni cultura, di ogni etnia, di ogni religione. E’ la stessa responsabilità della scuola che cambia e cresce. Se, dopo l’Unità nazionale ci siamo impegnati a far sì che tutti sapessero leggere, scrivere e far di conto, oggi a più di 150 anni di distanza, l’impegno è più gravoso: che tutti, di lingue e culture diverse, sappiano anche e soprattutto convivere per costruire un mondo migliore. Ed è una sfida di civiltà, in primo luogo!

Part time: non discriminazione e proporzionalità sono i principi cardine

Part time: non discriminazione e proporzionalità sono i principi cardine *

a cura di Anna Maria Bellesia

Sull’applicazione del part time e sulla proporzionalità del lavoro per il personale docente continua a regnare molta confusione. Chi cerca informazioni su internet e sui siti specializzati non trova risposte chiare e soprattutto aggiornate.
Anche da parte degli USR, che hanno ricevuto innumerevoli richieste esplicative, sono stati emessi dei pareri legali piuttosto arzigogolati e “cerchiobottisti”. Solo l’USR del Veneto si è pronunciato in coerenza con la norma, che è oggi assimilata a quella europea.
Per il part time il riferimento fondamentale è il D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61, richiamato nel CCNL all’art.39, attuazione della Direttiva Comunitaria 97/81/CE, e che si applica ai rapporti di lavoro di tutte le amministrazioni pubbliche. Il Decreto stabilisce il principio di non discriminazione, che vieta qualsiasi trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno, e il principio di proporzionalità.
Ciò nonostante, ancora oggi continuiamo a trovare in internet risposte come questa: le 40 ore relative ai collegi docenti, programmazione, dipartimenti e altro (il comma 3, lettera a, dell’art. 29 del CCNL/2007) “non devono essere proporzionali all’orario settimanale, quindi andranno svolte tutte”. Una leggenda metropolitana, praticamente insostenibile. Non a caso, sono sempre meno i dirigenti scolastici che si ostinano su queste posizioni.
Anni fa invero, l’appiglio normativo era dato dall’O.M. 446/1997, che riconosceva esplicitamente la proporzionalità solo per i consigli di classe (il comma 3, alla lettera b dell’art. 29 del CCNL/2007).
Ma oggi, l’O.M. del 1997 è in gran parte superata. Diverse norme successive hanno cambiato il quadro complessivo. Non tenerne conto significa guardare erroneamente al fuscello e non vedere la trave portante.

L’EVOLUZIONE NORMATIVA
SINTESI RAGIONATA

La prima applicazione del part time

L’O.M. 22 luglio 1997, n. 446 dettava le disposizioni per la “prima applicazione” del part time, in attuazione dell’articolo 46 del CCNL del 1995. Oggi, di fatto la norma è superata sotto molti aspetti. Per esempio, le “Tipologie del rapporto a tempo parziale per il personale docente” ivi indicate sono due, e non le tre attuali:
“In sede di prima applicazione e per motivi di continuità didattica, la costituzione dei posti a tempo parziale può essere realizzata con una articolazione delle prestazioni del servizio su tutti i giorni lavorativi (tempo parziale orizzontale), ovvero su non meno di tre giorni alla settimana in relazione alla programmazione educativa deliberata dal richiamato organo collegiale (tempo parziale verticale)”.
Negli anni seguenti, sono intervenute altre norme che hanno affermato il diritto alla fruizione del part time “in modo pieno”. Si tratta di Circolari esplicative, di norme contrattuali, di norme di rango superiore.
Da sottolineare che la C.M. 19.02.1998, n. 62 “raccomanda” ai capi di istituto di “facilitare” la prestazione di servizio a tempo parziale, in particolare quello verticale. Mentre, la successiva C.M. 17.02.2000, n. 45 scrive della “necessità” che “nella individuazione delle possibili articolazioni della prestazione lavorativa sia favorita quella segnalata dall’interessato (ad esempio prestazione su tre giorni settimanali invece che su quattro al fine di rendere meno oneroso l’impegno lavorativo)”.

CM 19.02.1998, n. 62
“Si raccomanda, infine, alle SS.LL., all’atto della trasmissione della presente ordinanza ai capi di istituto, di invitarli a facilitare, nella massima misura consentita dalle esigenze generali di organizzazione didattica, la prestazione di servizio a tempo parziale segnalando, in particolare, l’opportunità di contenere in tre giorni per settimana l’orario di servizio del personale che opti per il tempo parziale verticale.”
C.M. 17.02.2000, n. 45
“Considerato quanto sopra, si desidera attirare l’attenzione delle SS.LL. sulla necessità che :
– nella individuazione delle possibili articolazioni della prestazione lavorativa sia favorita, nella salvaguardia della esigenza della continuità didattica delle classi e del principio della unicità del docente per ciascun insegnamento, quella segnalata dall’interessato (ad esempio prestazione su tre giorni settimanali invece che su quattro al fine di rendere meno oneroso l’impegno lavorativo, come già raccomandato nella C.M. n. 62 del 19 febbraio 1998, con la quale è stata trasmessa l’O.M. n. 55 del 13 febbraio 1998);
… Quello che preme sottolineare è la necessità che, in tutte le situazioni di impiego del personale part-time, laddove sia possibile scegliere tra più soluzioni, sia adottata quella che, compatibilmente con le esigenze del servizio, risulti la meno gravosa per il dipendente, al fine di garantire che il diritto alla fruizione del part-time possa essere esercitato in modo pieno e non venga nei fatti reso difficoltoso”.


Il Contratto del 2007

Il rapporto di lavoro a tempo parziale è disciplinato dal CCNL 2007, articolo 39, che prevede la forma del contratto individuale scritto (comma 6), stabilisce la proporzionalità del trattamento economico (comma 10) e l’applicabilità degli istituti normativi previsti per il tempo pieno “tenendo conto della ridotta durata della prestazione e della peculiarità del suo svolgimento” (comma 8).
Il comma 7, distingue le tre tipologie di verticale, orizzontale e misto, con esplicito riferimento al D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61.

7. Il tempo parziale può essere realizzato:
a) con articolazione della prestazione di servizio ridotta in tutti i giorni lavorativi (tempo parziale orizzontale);
b) con articolazione della prestazione su alcuni giorni della settimana del mese, o di determinati periodi dell’anno (tempo parziale verticale);
c) con articolazione della prestazione risultante dalla combinazione delle due modalità indicate alle lettere a e b (tempo parziale misto), come previsto dal decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61.


La norma fondamentale

Il D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61, e successive modificazioni, richiamato nel CCNL all’art.39, è oggi la norma di riferimento fondamentale, attuazione della Direttiva Comunitaria 97/81/CE, norma più recente, di rango superiore, che si applica ai rapporti di lavoro di tutte le amministrazioni  pubbliche. Il decreto recepisce i principi generali della Direttiva europea: non discriminazione e proporzionalità.

– All’art.2 stabilisce che “Il contratto di lavoro a tempo parziale è stipulato in forma scritta” nella quale “è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”.
– All’art.4, comma a, stabilisce il principio di non discriminazione: “il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile”.
– All’art.4, comma b, stabilisce il principio di proporzionalità: il trattamento del lavoratore a tempo parziale è “riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa”.
– All’art.10 prevede che “le disposizioni del presente decreto si applicano anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.

Corollario n.1 – Nessun aggravio rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile
Il principio di non discriminazione vieta che il lavoratore a tempo parziale possa avere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile.
Esempio: se le 18 ore a tempo pieno sono svolte in 5 giorni, articolare 12 ore su 4 giorni diventa molto penalizzante qualora il lavoratore abbia chiesto il verticale e non il misto, a fronte della decurtazione di 1/3 di stipendio.
La consuetudine delle 18 ore su 5 giorni settimanali è radicata e generalizzata, costituisce fonte del diritto. A questa dobbiamo fare riferimento per il “ lavoratore a tempo pieno comparabile”.
Lo stesso Ministero aveva riconosciuto che una prestazione a part time su 4 giorni piuttosto che 3, rende più oneroso l’impegno lavorativo (CM 45/2000). Si tratta pertanto di una disparità di trattamento manifestamente in contrasto alla norma.

Corollario n.2 – Proporzionalità anche per le attività funzionali
In base al principio di proporzionalità, il trattamento del lavoratore a tempo parziale va riproporzionato “in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa”.
Il principio è recepito nel CCNL: “il trattamento economico del personale con rapporto di lavoro a tempo parziale è proporzionale alla prestazione lavorativa” (art.39, comma 10). La proporzionalità della retribuzione è riferita all’intera prestazione lavorativa per 9/18, 10/18, 12/18, a seconda dei casi.
Quindi, se per il docente a tempo pieno gli obblighi di lavoro contrattuali relativi alle attività collegiali sono “fino a 40 ore annue”, per il docente a part time sono automaticamente “riproporzionati” nella retribuzione. Lo dice il D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61. Lo dice il Contratto.
E prima ancora lo dice la Costituzione, che all’articolo 36 riconosce il diritto ad una retribuzione proporzionata al lavoro. Imporre obblighi non retribuiti sarebbe illegittimo, discriminatorio, e perfino incostituzionale.

La Nota chiarificatrice
Riconoscere l’evidenza non è stato facile. Ci sono voluti anni di contenziosi e una marea di lamentele presso i sindacati.
Il parere risolutivo è stato quello della Nota dell’USR Veneto del 13 dicembre 2010, a firma dell’allora direttore generale Carmela Palumbo, oggi a capo della Direzione generale per gli Ordinamenti scolastici e la Valutazione del Sistema Nazionale di Istruzione. La comunicazione è stata inviata ai Dirigenti Scolastici, ai Dirigenti degli Uffici Scolastici Territoriali del Veneto, ai Responsabili regionali delle Organizzazioni Sindacali.
La Nota riconosce il principio di proporzionalità con riferimento all’articolo 29, comma 3, lettere a) e b) del CCNL vigente, ovvero alle attività sia del Collegio sia dei Consigli di classe.
Di conseguenza, “dovranno essere adottate, dalle Istituzioni scolastiche soluzioni organizzative che consentano al docente part time di partecipare a quelle attività collegiali valutate indispensabili. Il Dirigente Scolastico dovrà quindi fornire al docente part time un calendario individualizzato delle attività funzionali all’insegnamento, ove risulti esplicitato l’ordine di priorità delle sedute, compatibili con il suo orario di servizio e ritenute assolutamente necessarie all’espletamento del servizio medesimo”.
“Quanto sopra -conclude la Nota- in coerenza con la ratio della norma che presuppone una stretta correlazione tra monte di insegnamento e partecipazione alle attività a carattere collegiale”.


Le nuove norme sulla trasformazione del rapporto

Negli anni recenti, nuove norme hanno introdotto delle novità circa la trasformazione del rapporto.
L’accoglimento della domanda è oggi subordinato ad una “valutazione discrezionale dell’amministrazione interessata”, che può rigettare l’istanza nel caso di sussistenza di un pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa (art. 73 ex DL 112/2008, convertito in Legge 133/2008).
Nelle intenzioni, l’eliminazione di ogni automatismo aveva lo scopo di razionalizzare e ottimizzare l’utilizzo delle risorse umane. L’effetto però è stato l’aumento del contenzioso, conseguente ad una errata interpretazione a danno soprattutto delle lavoratrici donne, spesso impegnate nella cura dei figli e dei familiari bisognosi di assistenza.
Per questo è intervenuta la Circolare Funzione Pubblica 30 giugno 2011, n. 9, che detta gli indirizzi applicativi a tutte le amministrazioni.
L’attenzione si concentra soprattutto sulla “valutazione discrezionale dell’amministrazione interessata” e ne fissa i criteri. La valutazione dell’istanza si basa su 3 elementi: 1) la capienza dei contingenti fissati dalla contrattazione collettiva in riferimento alle posizioni della dotazione organica; 2) la possibilità di conflitto di interessi con altri lavori eventualmente svolti dal dipendente; 3) l’impatto organizzativo della trasformazione, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, alla congruità del regime orario e alla collocazione temporale della prestazione lavorativa proposti.
La valutazione va fatta attraverso “una seria ponderazione degli interessi in gioco: da un lato l’interesse al buon funzionamento dell’amministrazione, dall’altro l’interesse del dipendente ad organizzare la propria vita”. In certi casi, il lavoratore può essere titolare di un interesse protetto, di un titolo di precedenza o di un vero e proprio diritto alla trasformazione del rapporto (v. paragrafo Le situazioni da tutelare).
In caso di diniego, “le scelte effettuate devono risultare evidenti dalla motivazione”, per permettere al dipendente di conoscere le ragioni dell’atto, di ripresentare nuova istanza o consentire l’attivazione del controllo giudiziale. Si raccomanda di adottare una motivazione puntuale, evitando l’uso di clausole generali o formule generiche “per limitare il rischio di pronunce giudiziali sfavorevoli all’amministrazione”.
Se la domanda è ritenuta accoglibile, ma con diverse modalità, per “perfezionare l’accordo” è necessaria una nuova manifestazione del consenso da parte del lavoratore interessato. In pratica, un ri-negoziazione.
Una “eventuale modifica” del rapporto di lavoro richiede comunque l’accordo tra le parti, che è condizionato al rispetto dei principi di correttezza e buona fede.
Prima della trasformazione, va comunque accordato al dipendente un “congruo periodo di tempo, in modo che questi possa intraprendere le iniziative più idonee per l’organizzazione della vita personale e famigliare”.
In sostanza, viene ribadito che il Contratto individuale presuppone un accordo tra le parti e che le scelte dell’amministrazione, se diverse dall’opzione indicata dal lavoratore, devono essere motivate da oggettive circostanze organizzative.

“La valutazione circa la sussistenza dei presupposti per la concessione o delle condizioni ostative, come pure quella relativa alla collocazione temporale della prestazione proposta dal dipendente e alla decorrenza della trasformazione, non può che essere svolta in concreto, in base alle circostanze fattuali particolari che l’amministrazione è tenuta ad analizzare. In caso di esito negativo della valutazione, le scelte effettuate devono risultare evidenti dalla motivazione del diniego, per permettere al dipendente di conoscere le ragioni dell’atto, di ripresentare nuova istanza se lo desidera e, se del caso, consentire l’attivazione del controllo giudiziale. In proposito, anche per limitare il rischio di pronunce giudiziali sfavorevoli all’amministrazione, si raccomanda di adottare una motivazione puntuale, evitando l’uso di clausole generali o formule generiche che non sono utili allo scopo. Qualora l’amministrazione ritenesse accoglibile la domanda del dipendente ma con diverse modalità rispetto a quelle prospettate, al fine di perfezionare l’accordo, sarebbe comunque necessaria una nuova manifestazione del consenso da parte del lavoratore interessato”.

“In ordine all’impatto organizzativo, la relativa valutazione deve essere operata analizzando le varie opzioni gestionali possibili, ad esempio, verificando la possibilità di spostare le risorse tra più servizi in modo da venire incontro alle esigenze dei dipendenti senza sacrificare l’interesse al buon andamento dell’amministrazione. Inoltre, la valutazione va fatta attraverso una seria ponderazione degli interessi in gioco: da un lato l’interesse al buon funzionamento dell’amministrazione, dall’altro l’interesse del dipendente ad organizzare la propria vita personale nella maniera ritenuta più soddisfacente per le esigenze famigliari o di cura, per le aspirazioni professionali o semplicemente nel modo che considera più gradevole”.


Le situazioni da tutelare

Nella trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, il dipendente può essere titolare di un interesse protetto, di un titolo di precedenza o di un vero e proprio diritto alla trasformazione del rapporto.
L’articolo 7, comma 3, del D.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce il principio generale secondo cui le amministrazioni “individuano criteri certi di priorità nell’impiego flessibile del personale, purché compatibile con l’organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare e dei dipendenti impegnati in attività di volontariato”.
L’articolo 12-bis del D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61 specifica alcuni casi. Hanno diritto alla trasformazione del rapporto i lavoratori del settore pubblico e di quello privato affetti da patologie oncologiche con ridotta capacità lavorativa. Hanno titolo di precedenza nella trasformazione del rapporto: a) i lavoratori il cui coniuge, figli o genitori siano affetti da patologie oncologiche; b) i lavoratori che assistono una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa; c) i lavoratori con figli conviventi di età non superiore a tredici anni; d) i lavoratori con figli conviventi in situazione di handicap grave. Altra situazione meritevole di tutela è quella dei familiari di studenti che presentano la sindrome DSA (legge n.170 del 2010).
L’intesa siglata il 7 marzo 2011 dal Ministro del lavoro e da tutte le parti sociali, a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro e di crescita dell’occupazione femminile, prevede fra l’altro la possibilità della trasformazione temporanea del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, per un periodo corrispondente almeno ai primi tre anni di vita del bambino, ovvero per oggettive e rilevanti esigenze di cura di genitori e/o altri familiari, entro il secondo grado, con diritto al rientro a tempo pieno. L’intesa ha lo scopo di rendere la flessibilità “family friendly” un elemento organizzativo positivo.
Oltre alla casistica tipizzata nella normativa sopra richiamata, il dipendente è comunque titolare di un interesse tutelato alla trasformazione del rapporto a tempo parziale “per organizzare la propria vita personale nella maniera ritenuta più soddisfacente per le esigenze famigliari o di cura, per le aspirazioni professionali o semplicemente nel modo che considera più gradevole” (Circolare Funzione Pubblica 30 giugno 2011, n. 9).


Le sentenze del Giudice del Lavoro e i nodi da sciogliere

Per il docente che sceglie il part time verticale resta aperto il problema della calendarizzazione degli impegni funzionali all’insegnamento.
Se guardiamo il il D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61, il contratto individuale deve contenere la “puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”.
Ma due sentenze del Giudice del Lavoro non lasciano spazio alla richiesta che le attività funzionali ricadano nei soli giorni lavorativi. Del resto, anche il lavoratore a tempo pieno comparabile può avere alcune attività funzionali nel giorno libero. Dunque sembra non esserci “discriminazione”.
La prima in ordine di tempo è la sentenza n. 322 del 08/02/2008 del Tribunale di Ferrara. Il Giudice ha riconosciuto “una certa controvertibilità dei criteri in punto di determinazione degli orari”, tanto da stabilire la compensazione delle spese per il ricorso. Ma ha concluso che la partecipazione agli impegni di carattere funzionale “è doverosa, a prescindere dalla circostanza che gli stessi ricadano nelle giornate o nelle ore contrattualmente prescelte per lo svolgimento della attività lavorativa”. Tanto più che, nello specifico caso, il dirigente aveva calendarizzato tali impegni in modo proporzionato alla quantità di part time pattuito.
Sulla stessa linea si colloca sostanzialmente la sentenza n. 896 del 17/11/2011 del Giudice del lavoro di Perugia, pur con una angolazione diversa. Se il dirigente fissa le riunioni nei giorni liberi, non si può parlare di mobbing.

Resta aperto il problema: il part time verticale è reale o virtuale?
La soluzione potrebbe essere nelle “clausole flessibili e clausole elastiche” che i contratti collettivi possono stabilire (D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61, articolo 3). Bisognerà però attendere il prossimo Contratto Scuola.

RIEPILOGO FONTI NORMATIVE (in ordine cronologico)

  • O.M. 22 luglio 1997, n. 446.
  • CCNL 29.11.2007, Art. 39 – Rapporti di lavoro a tempo parziale (personale docente).
  • Circolare MPI 19.02.1998, n. 62 (Trasmissione O.M. n. 55 del 13.2.1998).
  • C.M. 17.02.2000, n. 45, Rapporto di lavoro a tempo parziale del personale della scuola.
  • D.Lgs 25 febbraio 2000, n. 61 (attuazione della Direttiva Comunitaria 97/81/CE), modificata di recente dalla L. 12.11.2011, n. 183; e L. 28.06.2012, n. 92.
  • Circolare Funzione Pubblica 30 giugno 2011, n. 9.

 

* pubblicato sul sito di Gilda degli insegnanti di Venezia

Rapporto di monitoraggio sulle esperienze di insegnamento/sensibilizzazione alle lingue straniere nella scuola dell’infanzia

infanzia
Insegnamento in lingua straniera nella Scuola dell’Infanzia

Negli ultimi tre anni scolastici (2011/2012 – 2012/2013 – 2013/2014), l’84,8% delle scuole dell’infanzia italiane ha attivato percorsi didattici sulle lingue straniere, il 53,4% percorsi di sensibilizzazione e il 48,7% entrambe le attività.

E’ quanto emerge dal primo “Rapporto di monitoraggio sulle esperienze di insegnamento/sensibilizzazione alle lingue straniere nella scuola dell’infanzia” (in allegato), presentato in anteprima a Reggio Emilia lo scorso dicembre, durante la Conferenza internazionale ECEC & ELL (Early Childhood Education and Care & Early Language Learning), nell’ambito del Semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea, e pubblicato nella sua versione integrale.

Le scuole dell’infanzia italiane, dunque, sono sempre più attente alle lingue straniere e negli ultimi anni si sono moltiplicate le iniziative di insegnamento precoce e di sensibilizzazione degli alunni più piccoli, sebbene tali materie non siano previste a livello ordinamentale. La maggior parte delle attività viene realizzata nelle sezioni dai 5 di età in su.

Nel 49,4% dei casi il docente di riferimento per le lingue straniere è un insegnante interno all’istituto. Una scelta bilanciata quasi del tutto dalla presenza, nel 49,1% degli istituti, di insegnanti esterni. In entrambi i casi, si tratta di docenti in possesso di una laurea abilitante o di una laurea in lingue o di diploma magistrale, tutti qualificati per l’insegnamento delle lingue straniere.

Le attività si svolgono, nella maggior parte delle scuole, una volta a settimana per una durata media di più di 30 minuti e sono quasi sempre di carattere ludico (giochi di ruolo, giochi in lingua, filastrocche, attività con musica, canti, balli, forme di drammatizzazione, attività mimico gestuali, lavori manuali, forme narrative, fiabe, …).

Per quanto riguarda l’insegnamento, nelle scuole statali, il 68,3% dei docenti usa le LS sempre o quasi sempre durante le lezioni e il 30,8% le usa qualche volta. Gli insegnanti delle paritarie le usano sempre nel 67,3% dei casi e qualche volta nel 31,2%. Quanto alle attività di sensibilizzazione, il 57,3% dei docenti delle statali vi ricorre sempre e il 40,9% qualche volta; a fronte, rispettivamente, del 65,4% e del 32,7% degli insegnanti delle paritarie.

Nonostante la predominanza dell’inglese come LS di riferimento, sono presenti anche altre lingue straniere: le “tradizionali”, come il francese, tedesco, spagnolo, e le “emergenti”, come l’arabo e il cinese;

Decisamente positivi, infine, sono i pareri dei genitori e dei docenti della scuola primaria, che accolgono i bambini che hanno fatto esperienza di esposizione alla LS nella scuola dell’infanzia.

Realizzata nel mese di novembre 2014, dalla Direzione Generale per gli Ordinamenti e per la Valutazione del Sistema Nazionale d’Istruzione del Miur, l’indagine è stata condotta attraverso la somministrazione di un questionario relativo alle modalità ed alle strategie attivate negli ultimi tre anni, e per almeno per un anno scolastico, dalle scuole dell’infanzia per la sensibilizzazione e l’insegnamento precoce delle lingue straniere.
Al questionario hanno risposto correttamente 1.425 scuole delle 1.740 partecipanti, sia statali che paritarie, per un totale di 257.713 alunni dei quali 29.150 non italofoni.


 

Rapporto di monitoraggio sulle esperienze di insegnamento/sensibilizzazione alle lingue straniere nella scuola dell’infanzia

Il presente Rapporto è stato presentato durante la Conferenza “Early Childhood Education and Care & Early Language Learning” presso Reggio Children School, 16 – 18 Dicembre 2014, Reggio Emilia, organizzata durante il semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea.

Educazione alla famiglia, della famiglia, nella famiglia

Educazione alla famiglia, della famiglia, nella famiglia

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice traccia un percorso per scoprire, attraverso fonti giuridiche e metagiuridiche, la bellezza e la profondità dell’avventura familiare fondata su pilastri quali ascolto, rispetto e amore.

“Nonostante la famiglia sia un’istituzione sociale pressoché universale, non è facile identificare quali siano le proprietà che universalmente caratterizzano la famiglia e soltanto essa. Le varie definizioni che sono state proposte sono insoddisfacenti per una ragione o per l’altra. […] La generalità di questa definizione deve far riflettere sulla oziosità della questione definitoria e deve invece far convergere l’attenzione sulla varietà di forme storiche della famiglia e sulle trasformazioni strutturali che questa istituzione sociale ha subito nel corso dei secoli”: quello che scriveva il sociologo Alessandro Cavalli negli anni ’70 è ancor più valido nel XXI secolo, epoca in cui sono sempre più in atto la crisi della famiglia e la pluralità delle famiglie, dalla famiglia unipersonale alla famiglia “arcobaleno”.
È necessario perciò fissare dei “pilastri” che siano validi per ogni famiglia ricordando innanzitutto che questa parola deriva dall’italico-osco “faam”, casa. La famiglia è più in crisi come gruppo e non come valore, perché anche da indagini risulta che in cima si mette sempre la famiglia insieme ad altri pochi valori della vita. Una famiglia per quanto lacerata rimane famiglia, altra realtà è la coppia. La famiglia rimane l’aspirazione e l’ispirazione della vita.
La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia comincia col riferimento alla “famiglia umana” perché quello deve essere il sommo obiettivo e perché l’agire di ogni singola famiglia confluisce nella famiglia umana.
Nel penultimo capoverso del Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge che “[…] in tutti i Paesi del mondo vi sono fanciulli che vivono in condizione di particolare difficoltà e che è necessario accordare loro una particolare attenzione”. In realtà nelle famiglie tutti i bambini hanno bisogno di particolare attenzione (da “tendere verso”), bisogno dello sguardo. Oggi in famiglia ci sono tanti occhi, anche di terzi esperti o dei media, ma manca uno sguardo (e riguardo) unidirezionale ed emozionale. “Negli ultimi decenni la famiglia ha troppo spesso allentato la sorveglianza sui più piccoli. Oggigiorno molti genitori, sentendosi in colpa per questa mancata attenzione, tendono a giustificare i figli anche a fronte di comportamenti aggressivi segnalati loro dagli insegnanti. Difendendo i propri ragazzi, madri e padri non intervengono per correggerli e, nel contempo, non fiancheggiano la scuola nel complicato progetto educativo che le compete. Di qui – sui banchi – la presenza di ragazzi da compatire, ma anche di bulli e molestatori, frutto di una mancanza di educazione, dal momento che nessuno, in realtà, si è impegnato veramente a insegnar loro il rispetto umano” (Lucetta Scaraffia, storica). “[…] inculcare al fanciullo il rispetto” (art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). “Rispetto”, da “guardare dietro, di nuovo”: da qui la necessità di educare lo sguardo e allo sguardo. Guardandosi ci si scopre uguali nelle differenze e differenti nell’uguaglianza.
“Tra questa gente, che era la famiglia, io ero un estraneo. Non c’era nessuno con cui potessi intavolare un discorso intelligente. Non facevano che parlare di cose non solo tediose ma esasperanti. Erano tutti privi d’idee. Mai che si parlasse di verità, di onore, di grazia. Sempre di mangiare, dormire, lavoro, far quattrini, accumularli, desiderarli, rodersi per i quattrini” (lo scrittore statunitense William Saroyan). La famiglia non è divisione di tetto, tavola, letto o altro: è condivisione, altrimenti diventa estraneità. E i risultati si vedono nei giovani sempre più estranei ed estraniati. La famiglia è e sia una “società naturale” (art. 29 Costituzione). “Il suicidio è un passo disperato cui oggi la gioventù è particolarmente esposta. I motivi possono essere vari – delusioni d’amore, bocciature, derisione da parte dei compagni -, ma rimandano sempre a situazioni di disagio più profonde, preesistenti e sottovalutate dalla famiglia” (Lucetta Scaraffia, storica). Spesso la famiglia è il luogo in cui meno ci s’incontra e meno ci si conosce. Nella vita di famiglia è vitale il vero incontro, anche nella commensalità, perché così ci possono essere anche quegli scontri di sana conflittualità e non di quella crescente ed insanabile conflittualità cui s’assiste oggi. Le emozioni costituiscono la prima e diretta esperienza che i bambini fanno del mondo e delle relazioni con le persone che li circondano. “I bambini hanno diritto ad essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (dalla Carta dei diritti all’arte e alla cultura del 2011). Bisogna avere più cura dell’intelligenza emotiva per far fronte all’analfabetismo emotivo, anche all’interno della famiglia dove, spesso, si condividono cose ma non emozioni. “Il bambino ha bisogno di essere protetto, nutrito, curato e istruito. Il suo benessere psicologico è anche essenziale. Il suo legame con la sua famiglia e la sua comunità deve essere preservato. Egli ha diritto alla spensieratezza, alla risata, al gioco e anche ad un avvenire professionale. Lo sviluppo integrale del bambino e la sua felicità richiedono ancora, quale sia la sua situazione, che egli possa riflettere sul senso della sua vita, e che si rispetti la dimensione spirituale che è in lui” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, Parigi, giugno 2007). Spesso queste condizioni mancano nella famiglia e i ragazzi, quando si trovano di fronte ai propri interrogativi e a quelli della vita, tentano il suicidio o altre strade.
“Il problema è assai serio e spetta a molti farsene carico. Dai genitori, che dovrebbero intensificare il loro monitoraggio sui figli, intervenendo anche sulle molte ore che questi passano da soli sul web, agli insegnanti, cui è affidato il difficile ma ineludibile compito di trasmettere le regole del rispetto reciproco e della convivenza civile” (Ada Fonzi, professore emerito di psicologia dello sviluppo). Dai genitori agli insegnanti: prima i genitori e poi gli insegnanti, i genitori con gli insegnanti. Non a caso il Costituente ha disciplinato prima la famiglia (artt. 29-31 Costituzione) e poi la scuola (artt. 33-34 Costituzione) e al centro l’art. 32 sulla salute (intesa principalmente come “ben-essere”), perché entrambe, famiglia e scuola, devono concorrere alla salute dell’individuo e della collettività, sin dall’infanzia e soprattutto dall’infanzia. “I drammi del bullismo si consumano, così, in silenzio e i più deboli ne pagano le conseguenze. L’omofobia è una realtà da condannare sempre – e per fortuna sta diminuendo -, ma dovremmo occuparci di più anche di quel fenomeno più generale (il bullismo appunto) che si concretizza nel mancato rispetto degli altri esseri umani, della loro diversità, della loro debolezza. Per combattere questa tendenza, che oggi sembra essere in crescita, dobbiamo combatterne ogni forma fin dal suo manifestarsi. Un compito prima di tutto della famiglia, quindi della scuola. Anzi, possibilmente, di scuola e famiglia alleate” (Lucetta Scaraffia, storica). Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di “responsabilità” (nell’art. 18 relativo ai genitori) e di “opportunità” (nell’art. 28 relativo all’istruzione). Assumersi le responsabilità e dare opportunità: così dev’essere il binomio della famiglia e della scuola nell’univoco e superiore interesse dei bambini e dei ragazzi. “La priorità non è tanto quella di riconoscere il prepotente di turno, quanto quella di vigilare sui giovani e stare in ascolto. Solo in questo modo è possibile riconoscere il disagio e intervenire in sinergia. Tra insegnanti, genitori, figli, psicologi e formatori la soluzione sta nel dialogo e nella collaborazione, in un approccio famiglia-scuola costruttivo e mai protestatario” (l’esperta Ada Fonzi). “Molto di quello che impara relativamente ai valori, il bambino lo apprende in famiglia e con gli adulti che se ne prendono cura. Le modalità e i valori con cui la famiglia e, più in generale, gli adulti si rapportano ai soldi, al lavoro, all’equità dei compensi e all’uso del denaro sono costantemente di fronte agli occhi dei bambini attraverso modi di fare, dialoghi e comportamenti degli adulti. Dalla famiglia i bambini e i ragazzi possono imparare a capire che il denaro fa parte della vita così come tante altre cose; che esso non ha, in sé, una connotazione valoriale o etica; che non è né buono né cattivo” (la psicologa Antonella Marchetti). “Valore” è ciò che vale, ciò che è forte, sano e robusto, e non può essere il denaro che è cosa, quindi fugace e vacillante. Si parla espressamente di educazione valoriale nell’art. 29 lettera c della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del Paese in cui vive, del Paese di cui è originario e delle civiltà diverse dalla propria”. Nella Costituzione la famiglia è riconosciuta dopo le libertà ed è seguita dalla disciplina della salute, della scuola e del lavoro anche perché deve educare alle libertà, alla salute, alla scuola e al lavoro e perché deve essere supportata dalle libertà, dalla salute, dal mondo della scuola e del lavoro. Anzi, da parte di alcuni esperti si avanza la proposta di istituire una scuola dei genitori. Comunque è bene rammentare che i bambini e i ragazzi escono dalla famiglia e tornano in famiglia, per cui il circolo educativo inizia lì e si “con-clude” lì. Gli altri soggetti educativi sono anelli di congiunzione. È quanto espresso in un proverbio africano “Per educare un bambino ci vuole un intero villaggio” e nell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “Gli Stati parti rispettano le responsabilità, i diritti e i doveri dei genitori o, all’occorrenza, dei membri della famiglia allargata o della comunità secondo quanto previsto dalle usanze locali, dei tutori o delle altre persone legalmente responsabili del fanciullo, di impartire a quest’ultimo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento ed i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la presente Convenzione”. Anziché scaricare le responsabilità, ci si senta tutti corresponsabili perché si è tutti e ciascuno corresponsabili.
“Uno stile autorevole riesce a racchiudere in sé i pregi dello stile permissivo e di quello autoritario. Sono per primi i ragazzi a richiedere una “guida”. Tale funzione la si assolve mantenendo certi ruoli saldi e le orecchie aperte all’ascolto attivo delle opinioni del proprio figlio. Appare quindi evidente l’importanza di rivestire un ruolo chiaro, solido, coerente. Un figlio che avanza richieste continue è un figlio che per primo non è in piena armonia con se stesso e che richiede la decisa presenza dei genitori” (Elisa Mazzola, psicologa e psicoterapeuta). I genitori devono “guidare” (art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e devono “essere guidati” (art. 18 Convenzione). Guidare, guatare, guardare hanno un’origine simile (“osservare, vegliare”): è questa la funzione dei genitori e della famiglia in generale. “I genitori possono solo dare buoni consigli o metterli sulla giusta strada, ma la formazione finale del carattere di una persona giace nelle sue stesse mani” (Anna Frank). “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società” (art. 16 par. 3 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani). Quotidianità, autenticità, responsabilità: alcune peculiarità della famiglia. Se mancano queste ed altre peculiarità, la famiglia è solo un gruppo di persone. “Se la famiglia è sana, il bambino apprende per connaturalità ciò che è indispensabile per la vita. Però, crescendo, a causa del naturale allargarsi dei suoi orizzonti, i genitori non possono essere più i soli ed esclusivi maestri, anche perché spesso – non sempre per colpe loro – non sono in grado di proporsi come modello” (Valentino Salvoldi, teologo e scrittore).
La famiglia deve dare ascolto e deve educare all’ascolto. Oggi purtroppo in famiglia si tende più a sentire che ad ascoltare: ascoltare, “coltivare nell’orecchio”, comporta tempo, silenzio, disposizione d’animo. I genitori, spesso presi da altro, sentono le domande, le richieste o addirittura le pretese dei figli e le soddisfano materialmente senza prestare ascolto alle loro esigenze, ai loro bisogni ed anche ai loro silenzi (davanti al computer o altri display). “[…] verrà in particolare offerto al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in qualunque procedimento giudiziario o amministrativo che lo riguardi, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un’apposita istituzione” (art. 12 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Il dettato normativo è chiaro: si riferisce alle modalità di ascolto del fanciullo dinanzi ad autorità (che tecnicamente è più un’audizione). Il bambino o ragazzo, pertanto, non deve essere ascoltato solo nel procedimento di separazione/divorzio che riguarda i suoi genitori, ma soprattutto nel procedimento della sua vita quando lancia larvati o evidenti segnali di malessere che potrebbe diventare bullismo, tossicodipendenza o patologia. “I bambini, ma anche gli adolescenti, vivono questo cambiamento come destabilizzante, perché non capiscono cosa sta succedendo. È necessario allora decifrare i loro comportamenti e i messaggi, a volte criptati, attraverso cui comunicano, ma senza farsi prendere dall’ansia. In genere, le mamme si torturano con molti dubbi e sensi di colpa. Invece è importante sapere che, mantenendo la calma e con il supporto adeguato, si può riportare la serenità in famiglia” (Nicoletta Suppa, psicologa e psicoterapeuta). Anche in caso di crisi della coppia si può salvaguardare, con l’impegno di tutti e di ciascuno, la famiglia, perché questa non s’identifica con la coppia. È questo il senso delle previsioni codicistiche a tutela dei figli specialmente se minori, anche come novellate dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154 in materia di filiazione che ha rinviato la disciplina dell’art. 155 cod. civ., relativo ai provvedimenti riguardo ai figli in caso di separazione dei coniugi, alle disposizioni contenute nel Capo II del titolo IX del Codice Civile, forse più opportunamente in tal senso, perché si distingue la sorte dei figli da quella della coppia dei coniugi (o partner).
Famiglia è anche accoglienza e apertura. “[…] ogni percorso riabilitativo riuscito è frutto di una cooperazione famigliare addirittura di più generazioni, nella costanza e nella pazienza della semina e della cura reciproca, perché la droga ferisce sempre i legami affettivi primari. Per questo è necessario un processo a ritroso: dalla «dipendenza» che congela, alla «interdipendenza» che riapre i rapporti e li moltiplica. Ed è… affare di famiglia! Anche oggi che, a livello sociale, il concetto di famiglia si è dilatato” (Fra Danilo Salezze, uno dei tre francescani fondatori della Comunità di recupero S. Francesco di Monselice, Padova). La famiglia è una “società naturale” (dall’art. 29 Costituzione), in altre parole non è formata solo dalla coppia e da eventuali figli. È una rete di relazioni familiari a cui non ci si deve chiudere soprattutto nei momenti difficili della vita, quali tossicodipendenza o altre dipendenze, separazione/divorzio, disabilità, perché la famiglia, per quanto oggi “scollata”, è fucina di solidarietà. E la solidarietà familiare diventa scuola di quella solidarietà politica, economica e sociale richiesta a tutti (art. 2 Costituzione). Solidarietà che si manifesta nell’attribuire il titolo di “zio” o “zia” pure a coloro che non hanno vincoli di parentela o affinità. “Il «diritto ad essere zii», questo sì potrebbe essere realizzato da tutti coloro che amano i bambini e non ne hanno. Presso i figli di parenti e amici, o nelle comunità e nei luoghi dov’è prevista la presenza di volontari accanto ai piccoli e ai minori. Gli zii sono figure importantissime, che danno e ricevono affetto. Non c’è nessuna controindicazione nell’accettare di esserlo” (la giornalista Rosanna Biffi). Il sentirsi e comportarsi da zii (un aspetto della cosiddetta “genitorialità diffusa”) contribuisce a creare quell’ambiente familiare e quell’atmosfera di felicità, amore e comprensione di cui hanno bisogno i bambini (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), la famiglia allargata o comunità in senso affettivo (art. 5 Convenzione), concorre alla promozione della cultura dell’infanzia (art. 42 e art. 45 della Convenzione in cui si parla di “effettiva applicazione della Convenzione”).
La famiglia è relazionalità e educazione relazionale. “Credo che all’interno di una relazione la presenza non si misuri con l’orologio o con il metro, ma con il contributo ideale, sentimentale, fisico, energetico che viene offerto. Conosco persone che sono sempre presenti, almeno fisicamente, ma io sono convinto che siano del tutto assenti. E so che lo crede anche la loro fidanzata. Anche qui tentiamo, sforziamoci di rompere il velo dell’ipocrisia. Siamo una generazione nuova, dobbiamo tentare il realismo a tutti i costi! Le relazioni d’amore sono opere delicate, a cui però non è detto che la presenza, l’assiduità, il voto della perpetua presenza conferiscano chissà quale vantaggio. Può essere così, ma è molto raro. Meno raro invece che le persone si seguano lungo la via, con curiosità e disponibilità, qualunque cosa accada, dovunque vadano, sapendo che li lega l’ascolto, a fine giornata, delle avventure occorse a entrambi. Un ascolto vero, che sia stato tutto condiviso, fisicamente oppure no, basato sulla consapevolezza che l’altro sta facendo un suo sentiero, interessante, o per lo meno credibile, onesto, e che lo si vuole conoscere, ascoltare, seguire e poi s’intende partecipare delle sue avventure il più possibile” (Simone Perotti, scrittore). Una relazione sentimentale deve essere basata su valori condivisi in prospettiva di una vita coniugale che sia, poi, secondo l’art. 144 cod. civ. “Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia” dando davvero senso alle previsioni legislative, soprattutto nell’interesse dei figli. “Si ha rispetto reciproco quando gli individui si attribuiscono reciprocamente un valore personale equivalente e non si limitano a valorizzare questa o quella azione particolare” (Jean Piaget). Rispetto e reciprocità dovrebbero caratterizzare le relazioni interpersonali, a cominciare da quelle familiari. Di reciprocità si parla nell’art. 143 cod. civ. “Diritti e doveri reciproci dei coniugi”, come modificato dalla riforma del diritto di famiglia del 1975; di rispetto si parla nell’art. 147 cod. civ. “Doveri verso i figli”, come novellato dal decreto legislativo 154/2013 sulla filiazione.
“Prima di tutto mai dire al proprio figlio “fai questo, fai quello, studia”. Impariamo, piuttosto, ad ascoltarlo. Troviamo un momento, con tutta la famiglia, per ascoltarci. La famiglia non è un’invenzione dei preti o dei cattolici. È un’esigenza vitale della società. Rimettiamo al centro i ragazzi. Abbiamo bisogno di una società in cui i giovani valgano più dello spread, del costo della benzina, delle pensioni ai dirigenti. Torniamo a fare i padri senza paura” (don Antonio Mazzi, autore di “Stop ai bulli. La violenza giovanile e le responsabilità dei padri”). Mettere al centro i ragazzi significa considerare il loro vero interesse (“che sta in mezzo”), di cui all’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. I figli non devono essere considerati l’obiettivo della propria vita, non sono da adulare, ma da porre tra la famiglia e la società, proprio come si ricava dal Preambolo della Convenzione in cui dopo aver parlato della famiglia si aggiunge che “occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società”.
La famiglia è anche “femmina” (dalla stessa radice di “fecundus”, fecondo) e ha bisogno delle qualità della femminilità (quell’essenziale funzione familiare di cui si parla nell’art. 37 Costituzione). “Nessuno sembra pensare che a una donna possa far piacere, ossia che possa essere per lei fonte di felicità, crescere il suo bambino, preparare da mangiare per la famiglia, accudire i suoi cari, insomma. Magari persino assistere i vecchi genitori. Una donna che desideri farlo, che esprima gioia in queste attività di cura, viene disprezzata, considerata vittima del patriarcato e non quello che è, cioè una donna libera di vivere la sua maternità in una vita dedicata alla sua famiglia” (Lucetta Scaraffia, storica). Il lavoro casalingo è stato valorizzato dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 che lo ha disciplinato nell’art. 143 comma 3 del codice civile. Numerosi sono i costi, oggi, di quelle famiglie in cui la donna svolge il proprio lavoro prevalentemente fuori casa. I primi a risentirne sono i bambini in cui stanno aumentando, tra l’altro, i disturbi del linguaggio (mutismo selettivo o elettivo, parlatore tardivo e altro) proprio perché a casa non vi è una stabile e coerente figura adulta di riferimento con cui vivere “relazioni significative”.
“Il primo ambiente in cui un essere umano sperimenta di essere accettato e impara che, allora, può accettare anche lui se stesso e gli altri, è la famiglia. È qui che egli conosce l’amore di una madre e di un padre che gli donano, senza contraccambio, non solo quanto gli serve per sopravvivere fisicamente, ma anche e soprattutto la sicurezza della loro protezione e la tenerezza del loro affetto. È qui che impara a riconoscere le proprie peculiarità, rispetto ai fratelli e alle sorelle, scoprendo l’unicità del proprio volto, con i suoi pregi e i suoi difetti. Nella famiglia i figli acquistano la loro identità di uomo e donna attraverso riferimenti incrociati ai genitori. Le figure maschili e femminili della coppia sono i punti di riferimento che aiutano il maschio a diventare uomo e la femmina a diventare donna” (l’esperto di educazione Giuseppe Savagnone). Il fanciullo ha diritto a conoscere i propri genitori ed essere da essi accudito (art. 7 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), a conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari (art. 8 Convenzione).
“Se volete imparare la crescita e il progresso personale e la dignità, per incominciare non c’è un posto migliore della vostra famiglia” (lo scrittore salesiano Bruno Ferrero). “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto a essere protetta dalla società e dallo Stato” (art. 16 par. 3 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani). La famiglia ha il diritto a essere protetta altresì dai membri della famiglia stessa, per il “ben-essere” di ogni persona e in special modo dei bambini. Sostenere la famiglia tradizionale non significa essere contrari a qualsiasi forma d’amore tra adulti. È bene ribadire che i figli non devono essere oggetto di egoismo delle coppie sia eterosessuali sia omosessuali. I figli sono soggetti della loro vita e hanno diritto ad avere tutte le opportunità sin dal concepimento e in questo sono inclusi un padre-maschio e una madre-femmina. L’etologia insegna, anche se c’è chi sostiene che la famiglia naturale non esiste, come la sociologa Chiara Saraceno. “Tradizionale” deriva da “trasmettere” e una famiglia trasmette soprattutto vita e valori non relativi (il vero patrimonio familiare, la vera eredità familiare) e deve fare in modo che un bambino crescendo non si senta disorientato o leso nella sua personalità e nelle sue opportunità, perché da adulto si potrebbe ritrovare con tanti genitori, tanti nonni, due mamme o due papà nella “famiglia caleidoscopio”, come la definisce la sociologa Saraceno. Le scelte, le esperienze sentimentali e gli orientamenti sessuali degli adulti non devono riverberarsi su chi non sa parlare (è questo il significato etimologico tanto di “bambino” quanto di “infanzia”) e manifestare il proprio pensiero.
“Ogni famiglia italiana è un tribunale di buongustai” (uno slogan pubblicitario del 1958); impegniamoci tutti affinché non diventi: “Ogni famiglia italiana è un tribunale di guai”. La famiglia perfetta è quella in cui regnano l’amore e il rispetto, nonostante tutto e tutti.
“Ogni tentativo di operare generalizzazioni riguardo alla famiglia italiana è impresa azzardata. Non esiste la famiglia italiana, bensì tante famiglie differenti, ciascuna con una propria storia e una propria parabola, con i suoi segreti, le sue aspirazioni e delusioni, i suoi conflitti e le sue passioni” (lo storico Paul Ginsborg). Ciò che conta è che esista la famiglia e che continui ad esistere!

J.-C. Rufin, Il collare rosso

Rufin, non più guerre

di Antonio Stanca

rufinIl francese Jean-Christophe Rufin è un medico di sessantatré anni, è nato a Bourges nel 1952, è cresciuto con i nonni in un paese di provincia, ha studiato a Parigi, ha preso parte a missioni umanitarie nei paesi sottosviluppati, è stato consulente del Segretario di Stato Francese per i diritti umani, ha fondato il movimento “Medici senza Frontiere”, è membro dell’Académie Française, è stato ambasciatore in Senegal, è l’autore del “Rapporto Rufin”, un’analisi dettagliata circa il fenomeno dell’antisemitismo in Francia, ed è anche un giornalista, un saggista ed uno scrittore. Il suo primo libro, La trappola umanitaria, è un saggio che risale al 1986, il primo romanzo, L’Abissino, è del 1997, quando aveva quarantacinque anni, e nel 2001 col romanzo Rosso Brasile vinse il Premio Goncourt. Altri riconoscimenti ha ottenuto Rufin per la sua attività in ambito sociale e per quella in ambito letterario. Tra le due non c’è differenza perché animate sono dagli stessi principi, mosse dalle stesse aspirazioni, quelle di operare per il bene comune, d’intervenire in situazioni difficili, di lottare in nome della giustizia, della libertà dell’individuo e dei popoli, di compiere azioni che servano ad aiutare e che valgano come esempio. Questo ha fatto finora Rufin e di questo ha pure scritto. Servizi umanitari ha reso e valori umani ha perseguito nelle sue opere letterarie. Eroi sono i protagonisti dei suoi romanzi, per gli altri si sacrificano, l’amore, il bene, la pace vogliono per tutti, le distanze, le differenze, le barriere, le guerre vogliono che finiscano. Moderni, attuali sono per questa loro volontà di cambiare il mondo, di renderlo migliore pur essendo a volte le loro vicende ambientate nel passato.

Anche nel romanzo più recente, Il collare rosso, pubblicato nel 2014 in Francia dalle Éditions Gallimard di Parigi e in Italia dalle Edizioni E/O di Roma, il protagonista, Jacques Morlac, è un eroe. Egli ha partecipato alla Prima Guerra Mondiale, è stato sul fronte orientale con gli alleati russi e contro i nemici bulgari. Nonostante la situazione ha cercato di avviare un rapporto di scambio, di comunicazione anche con gli avversari, ha pensato di estenderlo a tutti i soldati presenti sul fronte. Ha operato, si è impegnato perché finissero di scontrarsi, di uccidersi, abbandonassero le armi e si unissero, formassero un corpo unico all’insegna della fratellanza, dell’amore, della pace. Il progetto non riuscirà a causa di un imprevisto e di questo Morlac si farà una colpa tale da giungere ad offendere, durante una manifestazione pubblica, gli alti rappresentanti della nazione francese venuti nel suo paese a guerra finita. Li accuserà di essere, insieme a quelli delle altre nazioni, i veri responsabili delle guerre, delle morti di migliaia di persone, di alimentare con le guerre le proprie ambizioni di potenza, di ricchezza, di ostacolare ogni iniziativa che potrebbe portare alla fine degli scontri armati. Sarà imprigionato ma non rinuncerà mai ai suoi ideali anche se questo lo farebbe assolvere, anche se il giudice glielo consiglia. Fedele rimarrà ad essi come fedele gli è rimasto il suo cane dal “collare rosso”. Fuori dalla prigione ha abbaiato in continuazione, giorno e notte, fino a finire stremato.

Un’altra vicenda commovente, poetica che coinvolge il lettore già dall’inizio, che diventa un lungo, interminabile dialogo tra l’imputato e il giudice, che sorprende con le sue continue rivelazioni, che si risolve in nome di una fedeltà ancora maggiore, ha costruito Rufin. Un altro eroe ha creato, un altro interprete di quei principi, di quei valori altamente umani, profondamente morali che sono pure suoi, che egli persegue. Tramite i personaggi ai quali li fa impersonare nei romanzi Rufin vuole diffonderli, vuole farli giungere ovunque e ci sta riuscendo se si tiene conto che Il collare rosso è un romanzo che in Francia sta ai primi posti nella classifica delle opere più lette.

Materie seconda Prova scritta Esami di Stato 2015

Con CM 1/15 e DM 39/15, del 29 gennaio 2015, il MIUR indica le materie e le modalità di svolgimento della seconda prova scritta degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado, nonché le materie affidate ai commissari esterni

Maturità 2015, Giannini sceglie le materie della seconda prova
Latino al Classico, Matematica allo Scientifico, Tecniche della Danza al Coreutico e più attenzione alle lingue
Debuttano all’Esame gli indirizzi della riforma

Latino al Classico, Matematica allo Scientifico, Economia Aziendale negli Istituti tecnici ad indirizzo Amministrazione, Finanza e Marketing, Scienza e Cultura dell’Alimentazione nei Professionali dove si studiano Servizi per l’Enogastronomia e l’Ospitalità alberghiera, Tecniche della danza al Liceo Coreutico e Teoria, analisi e composizione al Musicale. Sono alcune delle materie scelte per la seconda prova della Maturità 2015 che vedrà debuttare gli indirizzi della riforma delle superiori avviata nell’anno scolastico 2010/2011.
Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini ha firmato l’apposito decreto che definisce anche le tre discipline affidate ai commissari esterni, con una particolare attenzione alle lingue. Le prove scritte della Maturità 2015 avranno inizio il prossimo 17 giugno, con italiano. Il 18 sarà la volta della prova scritta nella materia caratterizzante ciascun indirizzo. Il Miur sta inviando alle scuole anche la circolare che specifica le modalità di svolgimento e le tipologie del secondo scritto.
I Licei
Al Classico viene rispettata la tradizionale alternanza fra le lingue classiche: quest’anno è la volta della versione di Latino. Continuità anche allo Scientifico: Matematica è materia di seconda prova nell’indirizzo tradizionale e anche in quello delle Scienze Applicate. Le Scienze Umane (Antropologia, Pedagogia, Psicologia e Sociologia) saranno proposte nella seconda prova dell’omonimo indirizzo liceale (sezioni tradizionali): sono previsti la trattazione di un argomento relativo a questi ambiti disciplinari, più alcuni quesiti di approfondimento. Per le Scienze Umane ad indirizzo Economico-Sociale, la seconda prova verterà su Diritto ed Economia politica: potrà essere proposta sia la trattazione di problemi o temi disciplinari sia, in alternativa, l’analisi di casi o situazioni socio-politiche, giuridiche ed economiche.
Per il Linguistico, cambia la modalità di scelta della lingua: fino ad oggi, lo studente selezionava il giorno dello scritto quella su cui cimentarsi, potendo optare fra tutte le lingue studiate nel quinquennio. Quest’anno, la scelta è spettata al Ministro che ha indicato come materia della seconda prova la prima lingua, quella studiata in modo più approfondito nel corso dei cinque anni e che potrà essere diversa a seconda dell’offerta formativa individuata dalle singole scuole. La prova al Linguistico si articola in due parti che prevedono l’analisi e comprensione testuale e l’elaborazione di un testo narrativo, descrittivo o argomentativo. Molto ricca la rosa di materie degli Artistici che contano diversi indirizzi e prevedono discipline che vanno dal Design, alla Scenografia, alle Discipline pittoriche. La prova dell’Artistico consisterà nell’elaborazione di un progetto e potrà essere articolata su più giorni. Debutto per i Licei coreutico e musicale: sono materia di seconda prova Teoria, analisi e composizione al Musicale e Tecniche della danza al Coreutico. Nei Musicali la prova si svolgerà in due parti e in due giorni: la prima parte può riguardare l’analisi di una composizione o la composizione di un brano, la realizzazione e descrizione di un percorso digitale del suono o la progettazione di un’applicazione musicale. La seconda parte, il giorno successivo, consiste nella prova di strumento. Anche al Coreutico ci saranno due giorni di prove: la prima parte prevede l’esibizione collettiva, su un tema specifico riferito agli ambiti della sezione classica e contemporanea e una relazione accompagnatoria. La seconda parte, il giorno successivo, consiste nella prova di esecuzione individuale.
Gli Istituti tecnici
Fra le materie scelte per i Tecnici ci sono Economia aziendale nell’indirizzo Amministrazione, finanza e marketing; Lingua Inglese nell’indirizzo legato al Turismo; Disegno, progettazione e organizzazione industriale per chi studia Meccanica, Meccatronica e Energia; Struttura, costruzione, sistemi e impianti del mezzo per l’indirizzo Trasporti e Logistica; Progettazione Multimediale per chi studia Grafica e Comunicazioni. Nei Tecnici la prova avrà durata di un giorno per 6 ore e può consistere nell’analisi di testi, casi e nella realizzazione di progetti.
Istituti professionali
Fra le materie scelte per gli Istituti professionali ci sono Psicologia generale e applicata per l’indirizzo Servizi Socio-sanitari; Scienza e cultura dell’alimentazione per l’indirizzo Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera; Tecniche professionali dei servizi commerciali per i Servizi Commerciali; Tecniche di produzione e organizzazione per Produzioni industriali e artigianali. Anche nei Professionali la prova avrà durata di un giorno per 6 ore e darà maggiore peso alla risoluzione di casi pratici.

Quest’anno sono 149 gli istituti coinvolti nel progetto Esabac, per il rilascio del doppio diploma italiano e francese.