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Lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute

Lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute

di Margherita Marzario

 

Abstract: L’Autrice offre un breve commento della legge n. 189 del 2012 rimarcando i molteplici valori insiti nel bene comune “salute”

 

Quello che colpisce nella legge 8 novembre 2012 n. 189, legge di conversione con modificazioni, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, è la rubrica “recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”. Il concetto di sviluppo evoca la locuzione “pieno sviluppo della persona umana” dell’art. 3 comma 2 Costituzione e lo sviluppo del bambino, più volte richiamato nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, e rimarca la concezione maturata da tempo secondo cui la salute non è un fine ma un mezzo. “Una buona salute è una risorsa significativa per lo sviluppo sociale, economico e personale ed è una dimensione importante della qualità della vita. Fattori politici, economici, sociali, culturali, ambientali, comportamentali e biologici possono favorire la salute, ma possono anche danneggiarla. L’azione della promozione della salute punta a rendere favorevoli queste condizioni tramite il sostegno alla causa della salute” (dalla Carta di Ottawa per la promozione della salute del 1986).

La legge di conversione, in linea anche con gli obiettivi fissati a livello europeo nel Documento di carattere politico-tecnico “Salute 21 – Salute per tutti nel 21° secolo” (marzo 1999), conferma tutti i principi elaborati in questi ultimi anni cui deve ispirarsi la sanità: organizzazione; territorializzazione (di cui è espressione il patto della salute); multiprofessionalità (e non iperspecializzazione); valutazione (di cui uno degli strumenti è l’audit); efficacia, sicurezza e ottimizzazione dei servizi sanitari; formazione e informazione. L’audit, che comincia col prefisso “au”, dal latino “auris”, orecchio, rileva la necessità di porgere l’orecchio alle vere esigenze dei cittadini. Solo così si ha una verifica dei servizi per renderli, poi, più congruenti.

Il riferimento continuo alle “cure primarie” non sottolinea solo la necessità di somministrare le cure di base, ma la necessità di somministrare cura che risponda alle esigenze primarie del paziente, tra cui ascolto e accoglienza.

Opinabile, invece, la scelta di sostituire in alcune disposizioni legislative l’espressione “giovani” con “minori”; sarebbe stato preferibile sostituire, perché più adeguata, con “persone minori di età”.

Encomiabile la disposizione: “Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca segnala agli istituti di istruzione primaria e secondaria la valenza educativa del tema del gioco responsabile affinché gli istituti, nell’ambito della propria autonomia, possano predisporre iniziative didattiche volte a rappresentare agli studenti il senso autentico del gioco e i potenziali rischi connessi all’abuso o all’errata percezione del medesimo”. Significativa la locuzione “senso autentico del gioco”: con un approccio ludico e ludiforme alla vita, la scuola riacquisterebbe il suo significato etimologico di “riposo da fatica corporea, il quale dà opportunità di ricreazione mentale” arginando problemi giovanili quali bullismo, dipendenze, disturbi del comportamento alimentare. La scuola quale fucina di cultura diviene fonte di crescita e benessere (ben-essere), di sviluppo culturale e spirituale, per cui bisognerebbe investire di più nelle scuole per investire di meno in ospedali, centri di recupero e comunità. Bisogna rivitalizzare la scuola come culla di una nuova cultura dei diritti, di nuova cultura della persona: è questa la principale forma di prevenzione. Funzione di prevenzione come nel disegno costituzionale in cui la disciplina della scuola (artt. 33-34 Cost.) segue all’articolo 32 relativo alla salute e precede la disciplina dell’ambiente lavorativo (artt. 35 e ss. Cost.). Nuova cultura dei diritti come nell’intento del Progetto UNICEF Italia e MIUR “Verso una scuola amica”.

Apprezzabile anche la previsione, pur non priva di ipocrisia perché senza copertura finanziaria: “Presso l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e, a  seguito  della sua incorporazione, presso l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, è istituito, senza nuovi o maggiori oneri a  carico  della finanza pubblica, un osservatorio di cui fanno parte, oltre  ad esperti individuati dai Ministeri della salute, dell’istruzione, dell’università e della ricerca, dello sviluppo   economico e dell’economia e delle finanze, anche esponenti delle associazioni rappresentative delle famiglie e dei giovani, nonché rappresentanti dei comuni, per valutare le misure più efficaci per contrastare la diffusione del gioco d’azzardo e il fenomeno della dipendenza grave. Ai componenti dell’osservatorio non è corrisposto alcun emolumento, compenso o rimborso di spese”.

Questa legge, oltre alla razionalizzazione dei servizi sanitari, mira anche a rivitalizzarne la costituzionalizzazione, in altre parole a ripristinare i valori costituzionali nella sanità pubblica ove, spesso, dovendo fare i conti con i tagli alle spese pubbliche e ad altri disservizi, spesso sono trascurati. Non solo l’art. 32 Costituzione, relativo alla salute, ma anche l’art. 2 perché un miglior funzionamento dei servizi sanitari contribuisce a garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, e adempie ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Si contribuisce alla promozione dell’uguaglianza e alla rimozione degli ostacoli, ai sensi dell’art. 3 Costituzione, e al progresso materiale o spirituale della società, ai sensi dell’art. 4 Costituzione. Con una nuova cultura sanitaria si promuove anche lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica (art. 9 comma 1 Cost.).

In tal modo si concretizzano tutti i significati di salute e sanità e dell’ecologia umana (lo studio delle relazioni fra gli esseri umani e il loro ambiente e la sostenibilità dello sviluppo): “Il mondo è tenuto in piedi da quella parte di umanità che lavora, ama, solidarizza con i piccoli ed i più deboli, rispetta l’ambiente. Gente che fa sempre la sua parte, che non grida e non dà sempre la colpa agli altri. Persone generose, umili, che vivono, lavorano e fanno del bene con discrezione, che amano la vita. Nonostante tutto. Persone che già oggi rendono migliore il mondo. E che non smettono di sognare un mondo migliore per tutti” (l’autore brasiliano Agostino Degas).

Le difficoltà della… difficile scommessa di Raffaele Laporta!

Le difficoltà della… difficile scommessa di Raffaele Laporta!
Attualità della proposta avanzata da Raffaele Laporta 42 anni fa!*

di Maurizio Tiriticco

“Esiste una diffusa pratica di ‘educatori’ che non hanno rispetto per la libertà dei loro educandi; anzi, si può affermare che una gran parte della riflessione sull’educazione abbia all’origine proprio constatazioni relative ai danni prodotti da un tale tipo di pratica”
Raffaele Laporta, “L’assoluto pedagogico”, p. 257

La temperie del dopoguerra e degli anni Cinquanta

Nell’immediato dopoguerra, in un Paese distrutto e con una grande ansia di tornare alla normalità e di ricostruire, si hanno più spinte per quanto riguarda la scuola e l’occupazione. Le più significative sono le seguenti:
– dopo il ventennio della dittatura fascista si avverte il problema di una scuola che deve istruire più che… “educare” agli ideali fascisti! Nel nuovo scenario democratico il Ministero dell’Educazione Nazionale, istituto nel 1929, torna ad essere il Ministero della Pubblica Istruzione, come era stato istituito fin dal 1861, con l’avvio dell’Unità nazionale;
– dai Paesi più avanzati del nostro si propongono i primi suggerimenti relativi a promuovere un’istruzione aperta a tutti e per più anni di età: sono i prodromi di quella che poi si chiamerà l’Educazione Permanente, “dalla culla alla tomba”
– ha inizio l’esperienza di Scuola-Città Pestalozzi di Firenze, fondata nel 1945, scuola statale sperimentale, primaria e secondaria di primo grado, di norma “di differenziazione didattica”, di fatto un crogiolo di sperimentazioni di avanguardia. La dirige Ernesto Codignola; il suo motto è “Festina lente”: procedere con fermezza ma con i tempi necessari;
– si avverte l’esigenza di riavviare una ricerca pedagogica interrotta con il fascismo e l’attualismo di Gentile; si ritorna per certi versi all’attivismo laico, per altri allo spiritualismo cattolico;
– nel 1945 si varano i primi programmi della scuola elementare. Si avverte l’influenza di Charleton Washburne e della “scuola di Winnetka”; i programmi sono chiaramente laici e, di fatto, sono in larga misura osteggiati dai cattolici.

La situazione culturale nel nostro Paese è estremamente arretrata. Sono ancora larghe le fasce degli analfabeti e la ricerca educativa di fatto non esiste. Con il fascismo e con il razzismo di Stato il fondamento dell’educazione era la mistica del fascismo! Con l’esaltazione patriottarda e dell’“imperialismo straccione”! E la galera e il confino per gli oppositori!

Il da fare è enorme e non solo per la scuola dei piccoli.

Nel 1947 un gruppo di studiosi fonda l’UNLA, Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo. Ne è presidente Francesco Saverio Nitti; altri nomi illustri sono: Arangio Ruiz, Salvatore Valitutti, Anna Lorenzetto, Saverio Avveduto.

E nel 1949 il largo pubblico conosce per la prima volta Dewey, ovviamente volutamente misconosciuto dal fascismo e dall’etica gentiliana. Enzo Enriquez Agnoletti e Paolo Paduano (con la sovrintendenza di Lamberto Borghi) traducono per La Nuova Italia di Firenze “Democrazia e Educazione”, che aveva visto la luce a New York nel lontano 1916.

Negli anni Cinquanta, dopo la Ricostruzione, esplode un vero e proprio boom economico. Nel 1955 la Fiat lancia la Seicento, l’automobile che sarà prodotta fino al 1969 e sarà acquistata da tutti gli Italiani. In quegli anni le lotte dei contadini e degli operai saranno molto forti e segnano una forte tensione finalizzata al definitivo riscatto sociale e culturale della popolazione.
Le classi meno abbienti chiedono cultura per i loro figli: il trinomio classico della seconda metà dell’Ottocento “leggere, scrivere e far di conto” è garanzia di un riscatto culturale, di un diploma e di un lavoro dignitoso e – per certi versi – “intellettuale”. Quel contadino del Sud, soprattutto, che ai tempi della prima scuola dell’obbligo (leggi Casati e poi Coppino: seconda metà dell’Ottocento) non voleva mandare i figli a scuola per non perdere le loro “braccia” nel lavoro dei campi, negli anni Cinquanta del Novecento, invece, esige la scuola per i suoi figli, e la sua grande ambizione è quella di “avere il figlio professore”.
Vengono “scoperti” gli appunti e gli scritti a cui Antonio Gramsci aveva atteso nella sua lunga prigionia. E i “Quaderni del carcere” cominciano a vedere la luce a partire dal 1948: peculiare fu l’edizione critica che ne fece Valentino Gerratana. I Quaderni, oltre alle riflessioni sulla nostra storia, civiltà e costumi, costituiscono anche un alto esempio di educazione laica.
È in tale temperie che nel 1955 sono varati i nuovi Programmi Ermini della scuola elementare: si ha una sorta di riscossa congiunta dello spiritualismo di Maritain e del pensiero pedagogico cattolico. La riflessione sui problemi dell’educazione ha il suo avvio. Nei nuovi programmi si sostiene la tesi del “fanciullo tutto intuizione, fantasia e sentimento”; e “la religione cattolica costituisce il coronamento e il fondamento della formazione scolastica”.
Raffaele Laporta, già attivo nell’attività educativa e nella ricerca pedagogica, nel 1957 è chiamato a dirigere la Scuola-Città Pestalozzi.

Il CONTESTO IN CUI NASCE LA DIFFICILE SCOMMESSA DI RAFFAELE LAPORTA

Gli anni Sessanta

Negli anni del boom socioeconomico e dell’impennata della domanda di istruzione si ha una forte iniziativa della politica nei confronti della scuola.
Con la legge 1859 del 1962 l’obbligo di istruzione, che fino a quell’anno riguardava la sola scuola elementare, viene innalzato di tre anni, fino ai 14 anni di età.
Nasce la cosiddetta “scuola media unificata”. In effetti, la vecchia scuola media triennale, istituita dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (la riforma fascista avviata con la cosiddetta “Carta della Scuola” del 1939) viene unificata con le scuole di avviamento al lavoro, a suo tempo cancellato dalla riforma Bottai e “restaurato” nell’immediato dopoguerra per rispondere alle nuove necessità di quel lavoro manuale richiesto dalle attività della Ricostruzione.

Si comincia a discutere su quali siano le finalità della scuola in una società democratica e bisognosa di conoscenze e di cultura. In effetti nella nuova scuola media unificata si boccia, in quanto in essa non è stata attuata alcuna iniziativa finalizzata a un rinnovamento dei metodi di insegnamento e di studio. L’unica innovazione, per altro non significativa sotto il profilo metodologico, è quella dell’abolizione dello studio del latino, considerato una sorta di strumento di selezione culturale e sociale.
Si segnala il “maestro” Bruno Ciari, con un libro profondamente innovativo: “Le nuove tecniche didattiche”, del 1961.
E nel 1963 un giovane studioso, Tullio De Mauro, pubblica per Laterza la “Storia linguistica dell’Italia unita”.

Per la prima volta gli strumenti dell’analisi linguistica strutturale sono utilizzati per studiare l’evolversi della nostra lingua e della nostra cultura, considerate nel loro insieme e nel loro uso da parte delle diverse classi sociali. Un’opera che i cosiddetti benpensanti non capirono, ma che fu di estrema utilità nella ricerca, da parte di tanti insegnanti motivati, soprattutto nella scuola dell’obbligo, di come operare concretamente per “insegnare l’italiano” o meglio per fare apprendere la nostra lingua.

Negli stessi anni il Comune di Reggio Emilia organizza una rete di servizi educativi con cui si aprono i primi asili per bambini dai 3 ai 6 anni. Ne è animatore Loris Malaguzzi. Nasce così quella scuola per l’infanzia emiliana che tutto il mondo ci ha invidiato.

In quel periodo Raffaele Laporta riflette sulla natura di classe della scuola e avverte come questa debba costituire, invece, un appannaggio dell’intera comunità sociale. Nel 1963 pubblica, per La Nuova Italia, “La comunità scolastica”: una temperie di ricerca e di spunti fortemente innovativi, di riflessioni e di studi. Un crogiolo di idee che ha permesso alla nostra ricerca pedagogica e alla nostra attività educativa poderosi balzi in avanti!

La nuova scuola media parte con l’anno scolastico 1963/64, ma… fioccano le “bocciature”. La nuova scuola, nonostante le grandi attese, boccia invece di promuovere!
Perché?
Perché nessuna innovazione metodologica era stata apportata e fare accedere “nuove” leve di adolescenti provenienti da comparti sociali che da secoli non avevano “masticato” quella cultura borghese esclusiva e discriminante, significava soltanto umiliarli ed escluderli. Eppure esiste una cultura popolare degna di tutto rispetto, che ovviamente quella ufficiale aveva sempre misconosciuto.

È opportuno ricordare che proprio nel 1962 Carlo Salinari pubblica la “Storia popolare della letteratura italiana”: una ricerca attenta sul valore “colto” di tanta produzione “popolare” che una tradizione cosiddetta colta non ha mai voluto considerare! Di fronte alla bocciature della scuola media, i “reazionari” esultano. In effetti sono stati sempre contrari a una scuola aperta a tutti! E sostenevano che, se mandiamo a scuola tutti, creeremo soltanto una generazione di ignoranti, perché la scuola e lo studio non sono per tutti.

Possiamo ricordare che anche Pio IX aveva reagito pesantemente contro la scuola obbligatoria, avviata dalla Legge Casati del 1861, allora di soli due anni. E aveva scritto così al Re d’Italia:
“Maestà, non ho dato corso alla prima lettera qui unita, e che ho diretto a Vostra Maestà, perché il Sig. Ministro del Portogallo mi assicurò di aver scritto in proposito, ma non vedendo riscontro, invio a V.M. la stessa lettera. Vi unisco poi la presente per pregarLa a fare tutto quello che può affine di allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice relativa alla Istruzione Obbligatoria. Questa legge parmi ordinata ad abbattere totalmente le scuole cattoliche, soprattutto i seminari. Oh quanto è fiera la guerra che si fa alla religione di Gesù Cristo! Spero dunque che la V. M. farà si che, in questa parte almeno, la Chiesa sia risparmiata. Faccia quello che può, Maestà, e vedrà che Iddio avrà pietà di Lei. Lo abbraccio nel Signore” [Pio IX, Lettera a Vittorio Emanuele II, 3 gennaio 1870].

Occorre, invece ricordare e con forza che con la legge 1859/62 si attuavano i principi fondanti della nuova Carta costituzionale, varata alla fine del 1947, di cui agli articoli 2 e 3, che è opportuno ricordare:
Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Va ribadito che la nostra Costituzione repubblicana è quella di un Paese moderno, avanzato, colto soprattutto, e che non ha nulla a che vedere con lo Statuto albertino del 1848, che è ancora tipico di un Paese, anzi di un Regno, non di cittadini, ma di sudditi e di “regnicoli”, abitanti di un regno, profondamente diviso in classi sociali.

È in questo clima di profonda disillusione che interviene la ricerca pedagogica – dopo la sottovalutazione di cui aveva sofferto nel periodo fascista, contrassegnato dalla cultura e dall’idealismo gentiliani – a dare i primi suggerimenti per sostenere lo sforzo che si fa nelle scuole per “non bocciare”.

La pedagogia stessa comincia a riflettere su se stessa, sulla sua natura e sui suoi fini. In primo luogo si vuole riscattare dalla filosofia, nella cui area era stata confinata dalla cultura gentiliana, e si vuole porre come una nuova scienza a tutto tondo. Questo è anche il pensiero di Laporta! E di altri ricercatori di avanguardia! Si introduce il concetto di Scienza o di Scienze dell’educazione e Aldo Visalberghi ne individua oltre venti: tutte le psicologie, la sociologia, l’antropologia, la docimologia… ecc.

Sono anche gli anni in cui nasce la contestazione studentesca contro la “scuola dei padroni” e l’autoritarismo dei baroni. Contro una scuola che impone invece di proporre, che tende a estendere la cultura dominante invece di sollecitare la ricerca di una cultura nuova. Le lotte studentesche vanno da Berkley a Pechino, da Parigi a Roma. E interessano i giovani di tutto il mondo avanzato. È quel movimento che, com’è noto, culmina con le vicende del biennio 68/69!

Si avverte sempre più largamente la necessità che la società intervenga a sostenere la scuola nei suoi sforzi. Si comincia a parlare di scuola aperta al sociale (si va verso i decreti delegati del ’74), alla comunità, al territorio. Si accusa la scuola di non essere in grado di promuovere cultura, ma di essere capace solo di bocciare.

È in questa temperie di forti polemiche che esce la “Lettera a una Professoressa” di Don MIlani, del 1967. La scuola dell’obbligo è sotto attacco! Obbliga i bambini ad andare a scuola, ma poi non fa nulla per promuoverli. Ne offende cultura e intelligenza! Non li comprende. È ancora una scuola fatta solo per i figli dei borghesi e non per i figli degli operai e dei contadini. E li discrimina non appena aprono bocca.
Dice Don Lorenzo: “Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: Non si dice lalla, si dice aradio. Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. ‘Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua’. L’ha detto la Costituzione”.

La fiera invettiva di Don Milani e dei suoi ragazzi viene sostenuta da ricerche sociologiche di tutto rispetto e puntualmente fondate nelle analisi che vengono condotte. Marzio Barbagli e Marcello Dei pubblicano “Le Vestali della classe media”, Il Mulino, 1969. Le vestali sono le professoresse, e i professori, della classe media piccolo-borghese, preoccupati più a difendere e a promuovere la loro cultura di classe che a intercettare le culture nuove di cui sono portatori i nuovi alunni obbligati.

Il clima lungo tutti gli anni Sessanta è molto teso: la cultura dominante è quella borghese. Così affermano il movimento studentesco e un congruo drappello del movimento insegnanti. La domanda di fondo è: che fare? Abbattere una certa cultura? Ma in nome di che? Avviare una nuova cultura, ma come e in quale direzione? E la scuola? Va cambiata? È possibile cambiarla? Va distrutta? Oppure occorre che dell’istruzione si faccia carico la società nel suo insieme, la comunità, o meglio l’insieme delle comunità delle città e delle campagne?
E poi c’è il problema del Sud del Paese, con la sua secolare arretratezza.

Nel 1965, con la legge 717, nasce la Cassa del Mezzogiorno e, con essa, nascono in tutte le Regioni del Sud, in Calabria soprattutto, i Centri di servizi culturali. Nel Meridione si segnala il Movimento di Collaborazione Civica, di cui Raffaele Laporta è uno dei responsabili. Il Movimento è diretto da Ebe Flamini; ne fanno parte lo scrittore Augusto Frassineti, l’educatore Cecrope Barilli, già attivo nei Cemea, Centri d’Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva.
In quegli anni, tra le citate azioni in favore del Meridione, nasce anche l’Università della Calabria (1972), con sede ad Arcavacata di Rende, Cosenza. Ne è convinto animatore Raffaele Laporta.
Nella temperie di pubblicazioni sull’istruzione e sulla scuola va ricordata la pubblicazione nel 1968 de “La pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire, pedagogista brasiliano: viene proposta la cosiddetta teologia della liberazione, ovvero l’educazione come strumento di liberazione.

È importante ricordare come in quegli anni si fronteggiassero due tesi diametralmente opposte, anche se le sfumature, ovviamente, non mancavano. Da un lato vi era il movimento studentesco che sosteneva che quella scuola, quella università fossero irriformabili e dovessero essere distrutte in quanto portatrici per natura e vocazione della cultura dominante, per se stessa di classe e repressiva. Dall’altra altri movimenti sostenevano, invece, che la cultura e l’istruzione potessero diventare strumenti di liberazione e di emancipazione sociale.

Ma se questa tesi era da sostenere, a quali condizioni la scuola poteva diventare strumento di liberazione?
Solo se l’istruzione e la cultura fossero proposte non da istituzioni a ciò dedicate, ma dall’intera comunità sociale del territorio. E si tratta della tesi a cui Laporta prima si avvicina e che poi sostiene con convinzione profonda. Pur sapendo però che non sarà affatto cosa facile restituire la scuola alle comunità. In effetti si tratterà… di una scommessa… molto molto difficile!

Gli Anni Settanta

Gli Anni Settanta non sono affatto da meno per quanto riguarda la discussione sulla scuola e sul suo valore o disvalore sociale e culturale.

Nel 1970 viene pubblicato in Italia il saggio di Louis Althusser, “Ideologia e apparati ideologici di Stato”: l’autore sostiene che la scuola non libera affatto i suoi alunni, ma li omologa ai valori della cultura dominante. La scuola ha di per sé una natura solamente classista! È un perfetto strumento di conservazione sociale.

Da altre parti, però, si sostiene che i nuovi nati non possono non essere “educati”. Ma si tratta di un compito che la società nel suo insieme, nelle sue diverse istituzioni e strutture, deve assumere. In effetti, non è la scuola, ma la società stessa che può e deve essere educante!
Un primo passo è quello di creare una scuola a tempo pieno. E questa nasce nel nostro Paese con la legge 820 del 1971. Ma sarà sufficiente una scuola a tempo pieno? Non sarà necessario attivare anche una scuola a spazio aperto? Una scuola aperta sul sociale e sulle sue problematiche?

Si avverte largamente la necessità di dar vita a una scuola “aperta” anche e soprattutto sotto il profilo ideologico e culturale. E che, ovviamente, non perda le sua caratteristiche fondanti di prima istituzione inculturante e acculturante. E una scuola essenzialmente lontana da qualsiasi manipolazione ideologica, palese o nascosta.
Di qui le posizioni fortemente critiche nei confronti dell’insegnamento obbligatorio della religione cattolica, anche in considerazione del fatto che i Patti Lateranensi sono entrati di diritto – anche se dopo accesissime discussioni all’interno dell’Assemblea Costituente – nella nostra Carta Costituzionale. Due concetti forti costituiscono motivi di interessanti e vivaci dibattiti: la Laicità e la Pubblicità della scuola.

In questo clima convulso, ma ricco di stimolanti dibattiti, Raffaele Laporta pubblica “Educazione sociale”, nel 1970. Sono i prodromi di un successivo volume, quello che farà storia, “La difficile scommessa”.

In tale scenario così ricco di idee, non possiamo non ricordare le posizioni dei cosiddetti “descolarizzatori”, Paul Goodman, Everett Reimer e Ivan Illich, che con “Descolarizzare la società”, del 1972, vanno oltre una scuola aperta. Sostengono che la scuola come istituzione non solo non ha più senso, ma non può neanche rispondere ai nuovi bisogni di conoscenza, di educazione, di cultura. Essi affermano con estrema chiarezza: chiudiamo le scuole e affidiamo i processi di insegnamento e apprendimento al sociale e alle sue istituzioni.

E motivo discriminante per la selezione sociale che da sempre divide uomini e gruppi è la lingua, lo strumento di discriminazione più potente. E allora come insegnare la lingua? Con la grammatica di sempre?

Una risposta coraggiosa viene data. A questo proposito non possiamo dimenticare l’interessante e dirompente contributo per l’insegnamento linguistico nella scuola per l’infanzia e per quella elementare che viene offerto dalla “Grammatica della fantasia, introduzione all’arte di inventare storie”, di Gianni Rodari, edito per Einaudi nel 1973. La lingua si apprende parlando! E, quando si è piccoli, l’invenzione è sovrana, e costruire storie è il modo migliore per costruire linguaggio. Questo l’insegnamento di Rodari, arricchito da pagine suggestive, tutte tese a suggerire le infinite tecniche dell’invenzione. Quindi, prima e dopo la grammatica delle regole, c’è la grammatica della fantasia! Una grammatica costruita più che appresa!

Chiudiamo queste note con due opere, assolutamente agli antipodi, ma che ci danno il senso di quel vivace dibattito che caratterizza tutto il decennio del 1970. Da un lato la ricerca di due sociologi francesi, Pierre Bourdieu e Jean Claude Passeron, “La Riproduzione del sistema scolastico ovvero della conservazione dell’ordine culturale”, del 1972.
Gli autori non nutrono alcuna speranza: la scuola ha un solo fine, quello di riprodurre ideologie, valori e credenze della società che la esprime e che l’ha istituzionalizzata. La scuola è solo uno strumento di conservazione e di riproduzione sociale. Dall’altro lato, invece, Edgar Faure pubblica nel 1972, per conto dell’Unesco, un rapporto all’insegna del più fiducioso ottimismo, più noto come Rapporto Faure, intitolato “Apprendere ad essere”. La visione ottimistica e forse un po’ ingenua di un Paulo Freire trova corpo in un documento di politica dell’educazione che lancia una sfida ai governi di tutti i Paesi del mondo.
Nel Rapporto la visione catastrofistica delle finalità della scuola e dell’istruzione vengono a cadere in ordine a un approccio diverso che viene condotto non tanto sulla scuola, ma sui fini generali dell’educazione. I rischi che si corrono non sono nella scuola in sé, ma nel fatto che l’evoluzione delle tecnologie – che in quegli anni stavano compiendo il loro primo balzo – se condotta senza la considerazione e lo sviluppo di un solido retroterra culturale e civile, rischierebbe di mettere in ombra quello sviluppo civile che è il cardine della nostra civiltà. Pertanto, l’educazione deve assumere il suo ruolo per consentire a ciascun cittadino di affrontare e risolvere i problemi personali e del suo gruppo e di assumere quelle decisioni che siano garanti di uno sviluppo che sia nel contempo scientifico, tecnico e civile.
Il Rapporto ebbe un lusinghiero successo, in quanto permise di ricollocare in un’ottica corretta e produttiva il problema dell’educazione e della scuola al termine del Secondo Millennio.

L’azione e il pensiero di Raffaele Laporta: Scuola sì! Scuola no! Scuola come!

Una scuola che provenga dal sociale e appartenga al sociale, ma… come? Si tratta in verità di una scommessa, anzi di una “Difficile Scommessa”! È il saggio più significativo di quegli anni nel nostro panorama pedagogico. Esce nel 1971 per La Nuova Italia ed è dedicato alla memoria di Bruno Ciari, scomparso l’anno precedente.

Laporta scrive nel pieno della contestazione studentesca. Ne coglie il significato profondo e lo comprende, ma… ritiene che rifiutare la “scuola dei padroni” e l’“università dei baroni” – per noi suoi allievi lui era il “barone rosso” – non significa e non deve significare un rifiuto tout court dell’istruzione e dell’educazione.
La questione è un’altra!
La scuola, o meglio l’istruzione e i suoi processi vanno sottratti all’istituzione, qualunque essa sia – nel caso italiano, a un ministero – e consegnati alla società nel suo insieme. Ma come? È qui il nodo della scommessa: è la società stessa e nel suo tessuto di istituzioni e organizzazioni che può insegnare ed educare, ma vanno ricercate insieme – dal basso e dall’alto – le nuove fonti e le nuove responsabilità che siano in grado di orientare e governare i processi formativi.
In effetti i descolarizzatori sono più incisivi nella loro proposta. Ma Laporta non è un descolarizzatore, anzi è uno scolarizzatore a tutto campo, ma… quale proposta concreta si può avanzare in merito? Laporta non lo dice, riconosce però che è una sfida, una scommessa, e di un’estrema difficoltà. È qui la grandezza e il limite del pensiero laportiano agli inizi degli anni Settanta.
Ma il suo pensiero non è isolato! In effetti interpreta una esigenza che in quegli anni prende sempre più corpo, giorno dopo giorno, in vasti settori della popolazione, soprattutto di quella parte che è rimasta esclusa dai processi di educazione, istruzione e formazione. Basta fare un rapido calcolo: la scuola media obbligatoria è partita dall’anno scolastico 1963/64 e i primi esami terminali si sono effettuati nella tornata del 1967. E le bocciature erano fioccate numerose. E non a caso è dello stesso ’67 la “Lettera a una professoressa” di Don Milani. Un gran numero di quattordicenni dal ’67 in poi erano stati esclusi da quell’istruzione obbligatoria che invece la stessa Carta costituzionale auspicava. E non fu un caso che proprio agli inizi degli anni Settanta maturò nella classe operaia e nella sua parte più avanzata l’esigenza che la “scuola” venisse “riaperta” per tutti coloro che ne erano stati esclusi.

Ma procediamo con ordine seguendo lo sviluppo del pensiero di Laporta.

Egli avverte la problematicità della situazione. Va considerato che la società è quella che è, che lo stesso “autoritarismo della scuola corrisponde all’autoritarismo della società” (p. 4). “Il problema del controllo dei rapporti interpersonali è sempre in ogni caso un problema di educazione… I rapporti interpersonali consistono nella maggior parte dei casi in ciò che un individuo fa all’altro ancor prima che in ciò che pensa e gli dice” (p. 5). “L’educazione è dunque assicurare che nel rapporto interpersonale ogni persona venga protetta. Il rapporto educativo è al centro dell’educazione quando questa diviene intenzionale. In essa chi insegna ha poteri che chi deve imparare non ha ancora, ma vuole e deve conseguire. Il rapporto educativo è un tipico rapporto fra disuguali che devono divenire uguali: dunque deve essere una pratica costante della uguaglianza. Insegnare intellettualmente l’uguaglianza attraverso messaggi verbali è inutile! Occorre farla vivere” (p. 7).

Ma non basta! L’educazione ha un grande nemico! “L’educazione ha avversaria implacabile l’ideologia… L’educazione non può fare a meno di sentirsi e di farsi scienza! L’educazione come scienza!… La politica è l’esito, non il presupposto di una scienza dell’educazione” (p. 36). Ne consegue questo indiscutibile assunto: “La libertà di insegnamento come strumento professionale e politico” (p. 49).

È l’intuizione laportiana che si collega alla domanda che sta emergendo da una gran parte del mondo di chi lavora e che avverte di non avere gli strumenti di lettura e di interpretazione di una società che per certi versi utilizza e sfrutta la sua parte più debole: la classe operaia.
Ne consegue che solo il conseguimento e il superamento della Scuola dell’obbligo costituiscono la base di una educazione ulteriore, quella che gli studiosi cominciano a chiamare educazione permanente, educazione per tutta la vita, “dalla culla alla tomba”.

E Laporta fa i suoi appunti anche agli insegnanti, o meglio a quegli insegnanti della tradizione, che sono funzionali a un certo tipo di scuola e a un certo tipo di società. “L’insegnante pretende dall’allievo comportamenti verbali e in qualche caso intellettuali imitativi dei propri, ripetitivi, conformi. I comportamenti emotivi, morali, sociali, estetico-critici e creativi, economici, gli sfuggono quasi sempre totalmente” (p. 217). “L’obbligare l’allievo a prestazioni intellettuali e soprattutto verbali ripetitive, l’impedirgli di acquisire condotte impegnative dell’intera personalità sono forme di violenza indipendenti da ogni altra violenza” (p. 218).

Sono gli anni in cui l’eco e i richiami di Mc Luhan sono molto forti (ricordiamo la sua famosa espressione: “il mezzo è il messaggio”): la pervasività dei mezzi di comunicazione di massa.
Sono anche gli anni in cui una certa cultura “di classe” rischia di produrre un uomo non libero, etero diretto.
In questa direzione si muove “L’uomo a una dimensione”, il famoso e prezioso volumetto di Herbert Marcuse che Einaudi aveva pubblicato nel 1964. Pertanto “le comunicazioni di massa costituiscono oggi uno dei problemi più complessi dal punto di vista educativo” (p. 214). E Laporta sottolinea anche una certa ambivalenza delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, che da un lato possono sollecitare educazione, dall’altro, però, assuefazione e violenza: “La violenza in educazione come condizionamento economico e intellettuale” (p. 234).

Il mondo del lavoro reclama cultura e non solo salari più alti, perché la conoscenza è strumento non solo di promozione professionale, ma anche di riscatto sociale. Ma sarebbe rischioso coniugare direttamente la cultura con la lotta sociale. Perché a volte la vera cultura poco o nulla ha a che fare con le lotte operaie e contadine.
E Laporta fa proprio un pensiero di Adler che “sostiene che in una società classista l’educazione neutra non esiste” (p. 284). Egli è per “una società che non contiene la scuola come una sua parte, ma la esercita direttamente, a tutto raggio pedagogico, su se stessa e per se stessa, come educazione permanente” (p. 331). E, in polemica con “L’Erba Voglio”, di Elvio Fachinelli, edito da Einaudi nel 1970, un autore fortemente schierato contro l’“autoritarismo” degli insegnanti, Laporta spezza una lancia a loro favore purché sia chiaro l’alto livello di professionalità che debbono raggiungere: “Se ci vogliono dieci anni per un aspirante medico per capire come funziona un corpo fisico, quanti ce ne vorrebbero per capire come funziona un essere umano intero?” (p. 333).

E giungiamo alla stagione delle 150 ore!
Nel 1973 viene sottoscritto il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici. Il valore della scuola e dello studio era già stato riaffermato da Luciano Lama, grande segretario della Cgil dal 1970 al 1986. Con quel contratto per la prima volta nella storia sindacale viene introdotto per i lavoratori dipendenti un nuovo diritto a permessi che prevedono la sospensione dell’orario di lavoro fino a un massimo annuale di 150 ore per poter accedere a corsi di studio.
Il recupero degli anni perduti nella scuola “che boccia” viene così avviato in una nuova scuola, fatta su misura per chi dalla scuola è stato escluso e che ha bisogno di studiare con modi e criteri assolutamente nuovi e diversi da quelli noti nelle scuole di sempre.
L’insegnamento di Laporta si mostra come risorsa ineludibile per da vita a corsi di questo tipo. Concetti e strumenti della “programmazione educativa e didattica” e della “valutazione formativa” – per accennare ai fattori clou dell’innovazione – entrano a pieno titolo nei corsi serali delle 150 ore e provocano serie e produttive ricadute sui corsi mattutini della scuola di sempre. Strategie e strumenti nuovi per sollecitare e promuovere apprendimenti significativi sono largamente “inventati” e adottati nei corsi delle 150 ore che in quegli anni fecero storia.

La scommessa di insegnare e apprendere in una scuola diversa e nuova sembra non essere più tanto difficile.
I suggerimenti di Laporta e l’impegno anche dei suoi “alunni”, o meglio dei numerosi allievi della sua cattedra romana, hanno partita vinta!
La scuola del mattino comprende che ha molto da imparare dalla scuola della sera. E non è un caso che nel ’73 si giunge a quella legge delega n. 477, da cui discendono l’anno successivo quei famosi “decreti delegati” con cui si dà l’avvio al processo di democratizzazione della scuola.
Nascono quegli organi collegiali partecipati che ancora oggi sono vigenti nelle nostre istituzioni scolastiche autonome.
Si afferma quel principio che è l’intera comunità territoriale, con le sue istituzioni rappresentate nelle singole scuole, che deve concorrere a quelle complesse attività di educare, istruire e formare.

La lezione laportiana ha toccato il suo acme. Il resto è storia nota. La democratizzazione della scuola ha conosciuto fasi alterne, ora di grandi entusiasmi e attese, ora di profonde disillusioni. Ma qui si aprirebbe un altro discorso, che andrebbe oltre le intuizioni e le intenzioni di Laporta e della sua Difficile scommessa!

La riflessione sulla scuola e sulle sue finalità imbocca ormai nuove strade, quella soprattutto della società educante, che va oltre i nostri confini nazionali, che vede altri pensatori, altre organizzazioni, a livello europeo e internazionale. Ed è proprio al Congresso internazionale di Napoli, del 1974, “Verso un nuovo alfabeto: la società educante”, che Laporta presenta la sua relazione, ricca di nuove suggestioni e di nuove prospettive.

Ma qui sui aprirebbe un’altra storia! Oltre la scommessa, che ancora oggi non è stata vinta! Nonostante Laporta, il suo insegnamento, la sua scuola!

Altre pubblicazioni significative di Raffaele Laporta:
• “La via filosofica alla pedagogia”, 1975
• “L’autoeducazione delle comunità”, 1979
• “Educazione e scienza empirica”, 1980
• “L’assoluto pedagogico”, 2000

Organizzazioni e ambiti di ricerca, oltre le facoltà accademiche, in cui Raffaele Laporta è stato attivo:
• La Fnism, la Federazione nazionale italiana degli insegnanti medi
• I Cemea, i Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, con Cecrope Barilli
• Il Movimento di Cooperazione Educativa, nato nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Célestin ed Elise Freinet. Ne hanno fatto parte ricercatori illustri, tra cui Giuseppe Tamagnini, Ernesto Codignola, detto Pippo, Bruno Ciari, Mario Lodi
• Il Movimento di Collaborazione Civica con Ebe Flamini, Augusto Frassineti
• L’Adespi, l’Associazione per la difesa della scuola pubblica
• L’iniziativa per una ricerca antropopedagogica – un coraggioso neologismo – con il contributo di Vittorio Lanternari
• L’autoeducazione delle comunità – gli influssi di “La pedagogia degli oppressi” del brasiliano Paulo Freire
• Le riviste: “Scuola e Città”, “ Riforma della Scuola”, Orientamenti pedagogici”
• Il mosaico laportiano: i grandi valori; la storia e la politica; la sociologia e l’antropologia; l’epistemologia; le pratiche concrete (l’attivismo); la responsabilità della comunità

E per finire sul ruolo che Laporta ha avuto nella nostra storia educativa, si riportano queste riflessioni di Franco Cambi, redatte poco tempo prima della scomparsa del Maestro.
La riconferma del suo ruolo “l’ho ricevuta assai di recente (settembre 2000) durante un colloquio avuto con Laporta a Firenze, dove – tra altre cose – abbiamo parlato anche delle sue ricerche in corso, tra le quali mi ha indicato un nodo problematico della formazione (e dell’esistenza) posto al punto di incrocio tra coscienza, tempo e noia e rivolto a cogliere la specificità della ‘coscienza umana’ posta – col linguaggio – come il luogo del salto dal mondo animale a quello propriamente umano. La coscienza umana è coscienza, in particolare, del tempo (presente più passato più futuro), ha una struttura che fa interagire memoria e intenzionalità, che si incardina sulla continuità dell’esperienza temporale e sulla sua trascendenza rispetto al ‘tempo vissuto’. La noia, poi, leopardianamente, si pone proprio come l’atto di riflessione/interpretazione del senso/valore di questa temporalità, come ‘dispositivo’ metariflessivo e che, pertanto, si pone come apice della coscienza temporale”.
Da “Studi sulla formazione”, anno III, 2000, n. 2.

* La relazione di Maurizio Tiriticco in occasione del Convegno, del 17 maggio scorso, per l’intitolazione dell’Istituto Comprensivo Alto Orvietano di Fabro a Raffaele Laporta.
da education 2.0

Occorre un curricolo verticale…

Occorre un curricolo verticale
per consentire ai giovani di conseguire le competenze di cittadinanza *

 di Maurizio Tiriticco

Com’è noto, l’obbligo di istruzione decennale è stato istituito nel nostro Paese solo alla fine del 2006, in seguito a una scelta del governo di centro-sinistra, con la legge finanziaria relativa al 2007. Il decreto applicativo è del medesimo anno (dm 139/07) e il modello di certificazione, estremamente necessario per dare gambe e corpo all’innovazione, è stato varato ben tre anni dopo (dm 9/10), con il governo di centro-destra. Va, comunque, ricordato che, in effetti, l’obbligo non termina a 16 anni in quanto, a norma di quanto sancito dall’articolo 2, comma 2 della legge 53/03 (alias “riforma Moratti”, governo di centro-destra), “è assicurato a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al compimento di una qualifica entro il 18° anno di età”. Come spesso avviene nel nostro Paese, l’eccesso della norma non corrisponde poi alla normalità dei fatti, per cui possiamo dire che, per quanto riguarda l’adempimento dell’obbligo di istruzione, la prevista certificazione delle competenze in moltissimi casi è solo un’operazione formale e, per quanto riguarda il diritto/dovere all’istruzione, è noto che sono migliaia i giovani che non posseggono alcun titolo di studio oltre il diploma di licenza media che, com’è noto, dopo l’innalzamento dell’obbligo, di fatto non ha più alcun valore formale.

Va anche detto che il Parlamento europeo e il Consiglio hanno provveduto, con una Raccomandazione del 23 aprile 2008, a definire un Quadro Europeo delle Qualifiche – EQF, European Qualifications Framework – scandite in otto livelli, e ciascun Paese membro avrebbe dovuto dichiarare a quali livelli corrispondessero i propri titoli di studio. Il che avrebbe reso più facile la circolazione dei titoli, e ovviamente degli studenti e dei lavoratori, all’interno dell’UE. Il nostro Governo ha assunto le sue decisioni in merito all’EQF con notevole ritardo, con un provvedimento del 20 dicembre 2012. Si veda al proposito l’“Accordo sulla referenziazione del sistema italiano delle qualificazioni al Quadro Europeo delle Qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF), di cui alla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008”. Da tale accordo risulta che il titolo della nostra scuola media corrisponde al primo livello europeo e la certificazione dell’obbligo decennale al secondo.

Va anche considerato che ormai in ambito europeo la conclusione di ogni ciclo di studio è scandita in conoscenze, abilità e competenze.

Per quanto riguarda la conclusione del primo ciclo italiano, gli esiti di apprendimento indicati dall’Unione europea sono i seguenti: conoscenze generali di base; abilità di base necessarie per svolgere mansioni o compiti semplici; competenze, lavorare o studiare sotto supervisione diretta in un contesto strutturato. Ovviamente l’attività lavorativa non interessa il nostro quattordicenne, in quanto la norma prescrive che l’accesso al mondo del lavoro è possibile solo dopo aver assolto l’obbligo di istruzione, dopo i 16 anni di età, o dopo i 15, se si accede all’apprendistato di primo livello.

Per quanto riguarda il conseguimento dell’obbligo di istruzione decennale, gli esiti di apprendimento indicati dall’Unione europea sono i seguenti: conoscenze pratiche di base in un ambito di lavoro e di studio; abilità cognitive e pratiche di base necessarie per utilizzare le informazioni rilevanti al fine di svolgere compiti e risolvere problemi di routine, utilizzando regole e strumenti semplici; competenze, lavorare o studiare sotto supervisione diretta con una certa autonomia.

Da quanto detto, emerge che nella nostra scuola la progettazione di un curricolo verticale decennale che proceda dal primo ciclo (se non dalla stessa scuola per l’infanzia) alla conclusione del biennio obbligatorio non è sempre agevole, almeno per due motivi: a) la cesura tra il primo e il secondo ciclo è sottolineata da un esame di Stato di dubbia legittimità; non ha senso un esame che non conclude un percorso di studi effettivo e che resta in vita solo perché l’articolo 33 della Costituzione prevede che al termine di ciascun ciclo di studi vi sia un esame di Stato; occorre anche considerare che l’effettivo primo ciclo oggi è decennale; b) una certificazione dell’obbligo decennale è in larga misura vanificata, almeno per due motivi: 1) il biennio non è mai percepito come “unitario” e conclusivo di un percorso, come prevede il dm 139/07, ma come “propedeutico” a un successivo e specifico triennio; 2) le competenze di cittadinanza funzionali all’apprendimento permanente, di cui al citato EQF, sono di fatto ignorate dal dm 139/07, istitutivo dell’obbligo di istruzione decennale (figurano in parentesi come un ingombrante accessorio!!!), per cedere il posto a quattro assi culturali pluridisciplinari, pur necessari, ovviamente.

Da quanto detto, ci si attende che in un prossimo futuro venga adottato un provvedimento che si muova in verticale e in orizzontale, se si può dire così: a) in verticale, perché si decida che un percorso obbligatorio decennale non può non avere una sua continuità didattica, pur nel pieno rispetto dei diversi livelli di maturazione che vanno dall’infanzia alla preadolescenza e all’adolescenza (ma queste sono questioni pedagogico-didattiche, non ordinamentali!); b) in orizzontale perché nell’ultimo biennio obbligatorio “l’equivalenza formativa di tutti i percorsi” – come si legge all’articolo 2 del dm 139/07 – sia effettivamente garantita.

A queste condizioni, un effettivo curricolo verticale, continuo e progressivo sarebbe quindi possibile, anche perché permetterebbe ai nostri giovani “obbligati” di conseguire competenze di cittadinanza finalizzate anche e soprattutto a un apprendimento permanente da condurre in un concorso civile e culturale con i giovani europei. Il che permetterebbe al nostro Sistema di istruzione di compiere quel necessario salto di qualità che è nell’auspicio di tutti.

 

* pubblicato su ItaliaOggi il 18 giugno 2013

I più e i meno

I più e i meno

 di Claudia Fanti

Quello che scriverò è molto triste ma semplicemente vero e la verità non deve avvilire. Anzi, dovrebbe far rialzare la testa e pretendere risposte dal ministero.

Allora, dove eravamo rimasti?

Non ricordo ormai neanche più dove è finita la “mia” scuola elementare. Non c’è più. Ce l’hanno sottratta, volutamente bruciata.

Cova sotto le ceneri però. Eccome. Noi ci incontriamo, noi parliamo di “loro”, dei ministri degli anni ’90 e 2000! di quelli che non ci hanno impiegato nemmeno un minuto a portarcela via.

Svuotata per mezzo di tagli e taglietti, tipo certe torture che non si possono raccontare tanto fanno male, piccole torture centellinate, ma inesorabili.

Ogni anno assistiamo impotenti al calo dell’organico: una di noi se ne va, ma al suo posto nessuna entra più. E noi ci arrabattiamo per conservare una parvenza di collegialità sulle classi. Testardamente, riesumando dai nostri geni di maestre di moduli e tempo pieno d’epoca, facciamo di tutto per condividere spezzatini di attimi, ma ci rendiamo conto di essere diventate dei reperti da museo.

E per “coprire” i buchi dell’organico, svanite le compresenze per recuperi e attività di arricchimento formativo, via ai prestiti di ore su classi diverse dalla propria: un’ora entra una, l’altra fa il suo ingresso appena la prima esce dall’aula, una era esperta e aggiornata in qualcosa e vorrebbe mettere a disposizione come un tempo il suo sapere e vorrebbe confrontarsi con qualcun’altra, ma piano piano la routine del “maestro unico”, di quello che fa tutto da solo prende il sopravvento, costretto a farlo per non soccombere a orari antipedagogici, frammentati contro natura…

La scuola degli addestramenti è sempre più vicina: meno ore, meno compresenze, meno rientri pomeridiani, meno aggiornamenti…il segno meno abita qui. Ma c’è anche il segno più: più verifiche, più test, più voti, più fotocopie (proprio quelle che il buon Zavalloni odiava), più fretta, più materie e contenuti da insegnare, più ignoranza distribuita a pioggia! Essa infatti fa pendant con i meno! Ricomincio la serie dei meno: meno insegnanti, meno spazi, meno approfondimenti, meno conversazioni, meno scambi di vedute con le colleghe, meno riunioni con le famiglie, meno entusiasmo nella ricerca metodologica perché sopraffatta dai più: più alunni per classe, più giudizi standardizzati con gli odiati voti accanto, più scartoffie, elettroniche o meno non importa: sono sempre di più e sempre più zeppe di sigle e siglette che fanno tanto chic!

E di ciclo in ciclo ad affiancarsi ai meno ci sono dei più e dei meno che ci impegnano in una lotta sempre più solitaria contro la dispersione iniziale: più famiglie in difficoltà, meno operatori territoriali, più bambini difficili, meno risorse umane, meno materiali, meno soldi da investire sugli alunni e attorno a loro…

Quest’anno poi nel ricominciare l’ennesimo ciclo, negli incontri con le maestre di scuole dell’infanzia abbiamo ben compreso che anche a loro è stato imposto il segno meno degli aiuti economici: meno materiali strutturati, meno uscite, meno rinnovo di locali e giochi con più alunni, un numero esponenziale di bambini e bambine sezione per sezione…Maestre formidabili con la schiena dritta e lo sguardo deciso a far fronte ai meno, ritte sui piedi chiusi nelle scarpe da ginnastica, con le gambe gonfie coperte da jeans comodi e camicioni lunghi e informi, capelli raccolti che non disturbino la vista. Piccole grandi donne che sostengono il Paese e i suoi bambini sempre più problematici e senza un soldo bucato alle spalle, piccole spalle sempre più fragili e meno sicure di sé, a causa della lotta che i genitori fanno per trovare lavoro, per ritagliarsi uno squarcetto di tempo sereno da condividere coi figli.

2013, anno che da ragazzina non avrei neppure pensato di raggiungere e che sognavo essere più colorato e più giusto, più attento ai diritti dell’infanzia e delle maestre che la devono proteggere educare, istruire…

Siamo tutte a lavorare cercando di infondere fiducia e di mantenerla nonostante tutto, perché il nostro dovrebbe essere il lavoro della speranza, delle basi da cui partire, della preparzione a un futuro costituzionalmente inteso: scuola di tutti e per tutti, scuola che non fa differenze, che non fa parti uguali fra diseguali…

2013, un futuro raggiunto con tante illusioni e speranze per la crescita culturale, per un aumento di opportunità lavorative per tutti, per una scuola inclusiva, nella quale disabilità, diversità e aspirazioni di ogni bambino/a potessero trovare risposte serene e condivise…

Invece è stato compiuto un tale salto indietro da lasciare senza fiato, esterrefatti!

La meschinità delle scelte politiche degli ultimi governi sulla scuola ci ha prostrati. Certo come individui, singolarmente considerati, potremo anche resistere e farci il nostro nido da qualche parte, però la voglia dello stare insieme a lavorare per il bene comune ha ricevuto in questi ultimi vent’anni un colpo formidabile…e così sempre più le aule delle riunioni assomigliano a una somma di insegnanti che si guardano con diffidenza pensando a difendere il proprio spazio, la propria vita, sì la propria vita: nulla come la scuola può distruggere la vita professionale quando decreti e leggi stimolano l’individualismo invece che la collaborazione e l’abbattimento della competizione, la quale si manifesta tristemente nella corsa all’accaparramento di ore, materie, spazi fisici nei quali portare gli alunni per realizzare il desiderio di qualche laboratorio amato…E molti di noi si scontrano con il vicino, collega, in questa corsa all’accaparramento della miseria che abbiamo: guerra tra poveri ridotti a funzionari che dispensano test, voti, che non hanno voce in capitolo per portare avanti sperimentazioni sulla valutazione, sull’insegnamento della Storia, sui programmi da svolgere…insegnanti sospinti verso la mansione di piccoli funzionari che campano tra ostacoli creati ad arte da leggi e circolari che complicano e sottraggono piuttosto che risolvere e far riprendere fiato a una professione delicatissima e preziosa per tutta la società civile.

La storia è maestra di vita

La fattibilità del programma del ministro Carrozza

La storia è maestra di vita

Enrico Maranzana

Il ministro M.C. Carrozza ha presentato il suo programma di governo e ha elencato gli aspetti che qualificheranno la sua azione. Il suo successo in campo formativo- educativo-dell’istruzione dipenderà dalla ricerca, dall’identificazione e dalla rimozione delle cause che hanno sterilizzato le innovazioni elaborate e introdotte negli ultimi decenni, tra cui

  • l’esame di maturità del 1969      [CFR – Nuova secondaria 6/1999 “Tra elusioni e omissioni”];
  • i decreti delegati del 1974             [CFR in rete “Coraggio! Organizziamo le scuole”];
  • i programmi della scuola media del 1979 [CFR in rete “Riformare la scuola media: perché”].

E’ metodologicamente sbagliato ricondurre l’origine dei fallimenti delle citate riforme a incongruenze ideative: un errore commesso da tutti, indistintamente.

Il male che infetta nel profondo il servizio scolastico ha snaturato anche le procedure per la certificazione della qualità     [CFR in rete “Voti, valutazione, insufficienze: parole che offuscano il problema educativo”].

 

La battaglia da vincere ha natura culturale

Gli obiettivi sono:

  • infrangere la fissità della scuola;
  • aiutarla a percepire l’unitarietà dei processi educativi;
  • promuovere la coralità, l’interdipendenza, la sinergia degli insegnamenti, caratteri postulati da decenni dal sistema di regole in cui vive.

Le scuole, in questi giorni, hanno certificato le competenze di fine biennio degli studenti della secondaria superiore [D.M. 9/2010]; adempimento che mostra il loro perseverare nell’errore di sempre: i Piani dell’Offerta Formativa non formulano ipotesi, non sviluppano strategie unitarie per la loro promozione [legge 53/2003].

La certificazione è un atto meramente formale, ininfluente rispetto alla “progettazione e realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana” [DPR 275/99].

I documenti di programmazione dell’attività delle scuole prefigurano situazioni parcellizzate, saldamente ancorate alla trasmissione delle conoscenze delle singole discipline: il paragrafo “valutazione” dei POF, che enuncia i criteri adottati per rilevare gli  scostamenti tra obiettivi programmati e risultati conseguiti, non lascia spazi interpretativi.

Se ne trascrivono alcuni, rappresentativi dell’universo delle scuole italiane:

Liceo classico statale Umberto I° – Palermo

I seguenti criteri di valutazione vengono assunti dai singoli consigli di classe e dai docenti perché procedano in modo obiettivo ed uniforme alla valutazione dell’allievo.

Essi fanno riferimento orientativo alle coordinate delle seguenti categorie cognitive:

1) conoscere;

2) comprendere;

3) analizzare;

4) fare inferenze;

5) sintetizzare;

6) valutare.

Inglobano anche aspetti del comportamento acquisiti in forma stabile, come:

1) l’acquisizione di un ruolo consapevole;

2) la partecipazione al dialogo educativo;

3) la frequenza;

4) la produzione di lavori autonomi.

 

Liceo scientifico statale Nomentano – Roma

1. in presenza di carenze più o meno gravi in più di tre discipline, verrà dichiarata l’impossibilità che l’alunno frequenti la classe successiva con profitto e la decisione di non ammissione;

2. in caso di valutazioni di insufficienza da una a tre discipline, il Consiglio di classe per deliberare l’eventuale “sospensione di giudizio” nello scrutinio di giugno, offrendo allo studente la possibilità di recuperare durante la pausa estiva grazie alle attività di sostegno offerte dalla scuola e allo studio individuale, dovrà considerare:

a)  l’entità e la diffusione delle carenze nella preparazione

b)  se l’alunno possieda le necessarie capacità di recupero e la volontà di impegnarsi

c)  se sia avvenuto il recupero di eventuali lacune pregresse

d) che la disciplina insufficiente non sia stata portata a sufficienza tramite voto di Consiglio di classe nello scrutinio finale dell’anno precedente

La prova di verifica finale e l’analisi dell’intero percorso curricolare dell’anno scolastico consentirà, come previsto dalla normativa, al Consiglio di classe di chiudere lo scrutinio, valutando definitivamente la preparazione dello studente, con ammissione o non ammissione all’anno successivo.

Se nello scrutinio finale (giugno e/o settembre) il Consiglio di classe decide di aiutare lo studente (max. in 1 disciplina a giugno e in 1 disciplina a settembre) portando a sufficienza una valutazione di non piena sufficienza

 

Istituto Tecnico Industriale Satale “C. GRASSI” – Torino

LINEE DI AZIONE PER LA VALUTAZIONE DELL’APPRENDIMENTO DEGLI ALUNNI

I criteri di valutazione da adottare per le valutazioni dell’apprendimento degli alunni in sede di scrutinio finale sono definiti dal Collegio Docenti con la delibera che segue:

“ Nella valutazione finale è necessario tenere conto :

– del livello di apprendimento dei contenuti ( con particolare attenzione agli obiettivi minimi prefissati)

– del percorso di apprendimento e quindi se si è avuto nel corso dell’anno un miglioramento, oppure un rendimento statico o, peggio, decrescente

– del livello di impegno personale nello studio a casa.

La valutazione complessiva del Consiglio di Classe non deve essere una semplice valutazione sommativa, ma deve tener conto di tutte le informazioni che possono contribuire alla formulazione di un giudizio sullo studente; in particolare è opportuno valutare:

– il giudizio acquisito nelle diverse discipline, sulla base dei criteri di cui prima

– il livello di partecipazione ad eventuali corsi di recupero e/o sostegno in termini di risultati finali e di comportamento durante il corso

– la presenza nell’allievo di particolari attitudini verso un’area culturale o una disciplina

– l’atteggiamento complessivo dello studente nei confronti sia dei compagni, sia del personale tutto della scuola, ai fini della valutazione della condotta.

ITCS Rosa Luxemburg – Bologna

VALUTAZIONE DISCIPLINARE

Voto1-2: l’allievo non ha offerto la possibilità di valutazione, non ci sono elementi valutabili e non fornisce informazioni sull’argomento proposto (es. consegna il compito in bianco)

Voto 3:  l’allievo non coglie il significato delle richieste e non le pone in relazione con le conoscenze che dovrebbe aver acquisito

Voto 4: l’allievo ha lacune nei contenuti disciplinari, l’applicazione è confusa, frammentaria e le competenze linguistiche risultano limitate

Voto 5 l’allievo applica le conoscenze in modo parziale e non del tutto corretto. Organizza con incertezza i contenuti solo se guidato

Voto 6: l’allievo sa cogliere le richieste essenziali, le risposte fornite sono poco approfondite, ma coerenti facendo anche affidamento alle proprie capacità mnemoniche

Voto 7: l’allievo dimostra conoscenze chiare e corrette, approfondite solo per situazioni già note, acquisite anche con lo studio personale

Voto 8: l’allievo possiede conoscenze chiare e sostanzialmente complete dei contenuti disciplinari che applica in maniera coerente alle richieste

Voto 9-10: l’allievo possiede una conoscenza precisa e articolata dei contenuti che sa rielaborare in maniera autonoma.

VALUTAZIONE FINALE

Ogni proposta di voto deve tener conto:

1  .Esiti di un congruo numero di prove

2.  Impegno, interesse, partecipazione e progressione degli apprendimenti

3.  Valutazioni espresse in sede di scrutinio intermedio

4. Esiti delle verifiche relative alle attività di sostegno e/o recupero, che, se migliorative,  sostituiscono il p.3

Istituto Professionale “S. de Sandrinelli” – Trieste

Il Consiglio di Classe dovrà tenere conto:

  1. della possibilità dell’alunno di raggiungere gli obiettivi formativi e di contenuto proprie delle discipline interessate, nell’anno scolastico successivo;
  2. della possibilità di seguire proficuamente il programma di studi di detto anno scolastico. in particolare tali alunni sono valutati sulla base delle attitudini ad organizzare il proprio studio in maniera autonoma o guidata, ma coerente con le linee di programmazione indicate dai docenti.
  3. per gli studenti di tutte le classi, ai fini della valutazione finale di ciascuno studente, è richiesta la frequenza di almeno i tre quarti dell’orario annuale. il mancato conseguimento del limite minimo di frequenza può comportare l’esclusione dallo scrutinio finale e la non ammissione all’esame di stato.

Il Consiglio di Classe – in coerenza con gli obiettivi didattici e formativi stabiliti in sede di programmazione – prima dell’approvazione dei voti, considererà i seguenti parametri valutativi per l’ammissione alla classe successiva degli studenti con una o più insufficienze:

a)    il miglioramento conseguito, rilevando e valutando la differenza tra il livello di partenza e il livello finale;

b) i risultati conseguiti nelle attività di recupero disciplinare organizzate dalla scuola

c) il curriculum scolastico, con particolare riferimento ai debiti formativi; infatti, il mancato recupero del debito formativo, inciderà negativamente sulla valutazione complessiva dello studente;

d) l’impegno e la partecipazione nello studio, l’attività svolta in sede di stage aziendale e nell’area di progetto – dove prevista – la frequenza e il comportamento.

 

Dare concretezza al programma di governo

Le intenzionalità del ministro potranno essere realizzate solo se gli operatori scolastici disporranno di un lessico condiviso e se ci saranno chiari e univoci indirizzi per la progettazione di percorsi atti a promuovere le competenze degli studenti.

Il mondo della scuola riempie di significato le “parole chiave” scegliendo arbitrariamente il contesto di  riferimento. Le teorie pedagogiche o il parlato familiare ne sono un esempio.

Qual è il contenuto di “educazione”?

Anche i regolamenti di riordino, elaborati dal Miur nel 2010, sono viziati dallo stesso errore: hanno come riferimento dichiarato le raccomandazioni del Parlamento Europeo.

La legge dello Stato è l’ambito di definizione dei termini/concetti dell’Istituzione Scuola: dall’analisi dei testo deve derivare il loro significato      [CFR in rete “On. Ministro Maria Chiara Carrozza, non dimentichi d’esser donna di scienza”].

La seconda condizione per il successo del programma del ministro Carrozza è legata sia al superamento dalla confusione organizzativa:

  • Il sistema informativo è labirintico sia per la struttura, sia per la ridondanza dei messaggi. Si pensi ad esempio all’Invalsi, tipico organo di staff del Miur [consulenza] che è stato collocato in linea [sovraordinato alle scuole]   [CFR in rete “Coraggio! Organizziamo le scuole”];
  • La funzione del dirigente scolastico è configurata in dispregio della legge    [CFR in rete “Quale formazione per il dirigente scolastico?”]

sia  all’assunzione della progettualità come architrave del servizio:

  • Le indicazione ministeriali dei regolamenti di riordino sono astratte, generali e poco vincolanti: non hanno capitalizzato le esperienze giacenti negli archivi del Miur  [CFR in rete “La promozione delle competenze”];
  • La funzione docente non contempla il lavoro d’équipe  [CFR in rete “La professionalità dei docenti: un campo inesplorato”];
  • Le metodologie di sviluppo dei progetti non sono praticate    [CFR in rete “Insegnare matematica dopo il riordino”].

 

Liberiamo la scuola

Liberiamo la scuola

di Gian Carlo Sacchi

Ancora una volta Andrea Ichino, non nuovo a questo tipo di proposte, butta il classico sasso in piccionaia, ma forse si sa già che dopo un movimento d’aria dettato dal battito delle ali tutto tornerà come prima, come è accaduto da quarant’anni a questa parte e per numerose iniziative di questo genere.

Con “liberiamo la scuola” un ebook dei Corsivi del Corriere della Sera il mondo accademico, che magari farebbe bene a dirci se vogliamo liberare l’università prima che venga abbandonata dai figli della crisi, ci suggerisce un doppio canale nel governo del sistema scolastico: quello solito ed uno fatto di scuole autonome che vogliono uscire da questo immobilismo eterodiretto, per mettersi sul mercato, ponendo in relazione le iscrizioni con i risultati degli apprendimenti, passando attraverso la valutazione ed un’assoluta flessibilità nella gestione del personale.

Prima di entrare nel merito delle diverse indicazioni, corre l’obbligo di soffermarci sul valore che deve essere dato alla parola autonomia, leit motiv di oltre un quarantennio, evocata in tutti i provvedimenti, perfino nella revisione della Costituzione e poi affossata immancabilmente nella loro applicazione: com’è noto già si parla di rivedere nuovamente la carta costituzionale, quanto il più recente titolo quinto, convalidato da un referendum popolare, giace e nessuno degli interessati muove un passo concreto, al di là di ricorrenti documenti di intenti, per la sua applicazione. Ma qui si potrebbe andare alla riforma della pubblica amministrazione, degli enti locali, alla Conferenza Nazionale sulla Scuola e su su fino ai decreti delegati, ai distretti scolastici, che potevano essere definiti gli antesignani di quello che poi si sarebbe  chiamato federalismo.

Insomma prima di arrivare ad Ichino ci sarebbe da mettere a posto il quadro di riferimento, cioè le garanzie costituzionali per tutti i cittadini, che oggi si potrebbero chiamare “livelli essenziali delle prestazioni”, sui quali poi innestare quella che è la vera riforma della scuola, cioè quella della governance, alla quale chiaramente anche Ichino fa riferimento, ma che in sostanza nessuno vuole: non l’apparato statale che vuole mantenere la gestione diretta del sistema, non i sindacati che così mantengono un potere contrattuale nei confronti del governo centrale, nemmeno le regioni che temono che il federalismo venga fatto a loro spese, come dimostra l’annuale e annosa trattativa sulla ripartizione del fondo per la sanità.

Dell’autonomia questa rubrica ha registrato anche i sospiri in questi ultimi anni, cerando di cogliere gli auspici delle diverse parti politiche, che poi anche per effetto del loro alternarsi al governo non sono mai stati pienamente realizzati. Cosa ci riservano le larghe intese ? Per ora nulla: questo ministro è nelle stesse ristrettezze di quello precedente, create da quello ancora precedente, che oggi è di nuovo al potere e chiede maggiori risorse per la scuola. Potrebbero essere questi “corsivi” a consigliare il ministro Carrozza ? In fondo Ichino non chiede tanti soldi, ma pone degli obiettivi già noti e mai condivisi in passato in modo tale da arrivare ad una maggioranza.

L’ultimo test lo si è avuto con l’approvazione alla Camera, in modo bipartisan, del disegno di legge sulla governance degli istituti scolastici, che tutti ritengono indispensabile, proprio a sostegno dell’autonomia, ma che nessuno voleva a quel modo. Alla destra è stata sottratta la scuola “fondazione” ed alla sinistra la  rappresentanza sociale, alla ricerca di un’autonomia di “sistema” ma più efficiente ed efficace.

Insomma in Italia abbiamo sempre voluto tenere un sistema a due velocità, che non mettesse mai in pericolo completamente il centralismo burocratico-sindacale, e che cercasse comunque di non lasciarsi sfuggire gli stimoli del cambiamento, soprattutto per ciò che riguarda le ricadute sul sistema scolastico e formativo del mutare delle condizioni socio-economico-culturali.

Ed anche questa nuova proposta vuole liberare la scuola, ma non del tutto, solo una parte, attraverso una sperimentazione pluriennale, che potrebbe anche concludersi con un ritorno all’antico. Sperimentare dunque, in corpore vili, del resto è l’unica strada per innovare di fronte ad un totale immobilismo politico; è la sperimentazione la norma più azzeccata del nostro ordinamento, che consente a chi vuole andare avanti di farlo per un po’ e a chi vuole tornare indietro di considerare gli sperimentatori visionari, revocando le autorizzazioni. Si perché per sperimentare un sistema che deve garantire il valore legale del titolo di studio richiede un provvedimento ministeriale. E chissà perché nella storia della sperimentazione in Italia non se ne sono avute di quelle legate appunto alla governance ?

Qui vorremmo riprendere le indicazioni di Ichino quando parla di un “sistema di scuole autonome”. Perché il problema non sono le fughe in avanti, ma le condizioni generali, quelle indicate dal nuovo art. 117 della Costituzione; del sistema dove tutte le scuole possono essere autonome ed avere adeguata rappresentanza negli organismi politici nazionali, regionali e locali.  Un tale sistema non va riempito solo di burocrazia ministeriale o sindacale, ma prima di tutto di cultura dell’autonomia, quindi si tratta di far avanzare contemporaneamente sia il versante organizzativo, sia quello pedagogico.

E’ il file rouge dell’autonomia che passa dall’istituzionale al curricolare ed al professionale: responsabilità ai docenti nelle scelte didattiche, curricoli più flessibili e personalizzati per gli allievi. Mentre è dunque indispensabile l’organico funzionale di istituto, è proprio utile mettere sulle spalle delle scuole l’assunzione del personale, quando i requisiti grosso modo sono gli stessi? Avendo sotto gli occhi certe conclamate inadeguatezze si crede davvero che il decentramento del reclutamento vi possa ovviare, stante la preparazione fornita da queste università ? O  forse non sarebbe meglio dare luogo a tirocini che possono trasformarsi in contratti a tempo indeterminato ?

Ancora è con l’autonomia che si può arrivare ai risultati, da valutare, confrontare, sui quali riflettere ed  intervenire per migliorare. Interessante la partenza del progetto VALES, anche se nel suo procedere lo si vede sempre più ristretto sul versante burocratico che non aperto su quello del bilancio sociale.

Si è sperimentato che “una scuola uguale per tutti non è equa”, ma qui bisogna intendersi: non è con una scuola del minimo, di cui si parla nel testo, ed una del più che si migliora la situazione. Il minimo riguarderà semmai le competenze generali che tutti gli alunni della Repubblica dovrebbero raggiungere; da qui nasce il di più che prima che al mercato è legato al territorio: la scuola deve poter pensare globalmente ed agire localmente. Ed è ancora nella governance che si annida la mancanza di equità e che poi si esprime in termini di successo formativo. E qui arriva il problema del finanziamento, che deve essere messo in relazione al federalismo fiscale, in un’ottica di multilivello. Le scuole a loro volta hanno autonomia finanziaria e si può potenziare la defiscalizzazione della contribuzione privata. Forse sarà meglio porre in relazione le risorse economiche ai suddetti livelli essenziali piuttosto che ai risultati: è fondato ritenere infatti che finanziando il diritto si incida anche sul raggiungimento del risultato.

Sarà ben difficile che il nostro “corsivo”, agendo a valle di un sistema che non vuole cambiare nella testa, possa produrre qualche risultato, ma i problemi della governance hanno bisogno di urgente attenzione, altrimenti la scuola continua nella sua spirale recessiva. I modelli ai quali Ichino si riferisce non hanno una visione ideologica dell’autonomia, diversamente da noi dove ricompaiono sempre i fantasmi delle così dette scuole di tendenza, una sussidiarietà che fa il pari con privatizzazione, fino ad arrivare al recente referendum bolognese, ignaro di una ormai diffusa concezione post-ideologica.

A proposito di sano riformismo si vorrebbe consigliare la lettura del volumetto “idee ricostruttive per la scuola” redatto al termine dei lavori del forum per le politiche dell’istruzione del Partito Democratico. E’ un altro esempio di grida manzoniana, che pur essendo stato prodotto più vicino alle stanze del potere rischia di andare ad abbellire gli scaffali della storia della scuola italiana.

I due volumi, che si occupano principalmente di governance appunto, potranno tornare a dialogare solo se la politica si vorrà assumere il compito di indirizzo superando i condizionamenti del circolo vizioso burocratico-sindacale pronto ad entrare in azione con qualunque maggioranza, figuriamoci quella che non c’è.

M. Veladiano, Il tempo è un dio breve

Tra Dio e gli uomini

 di Antonio Stanca

veladianoMariapia Veladiano, preside a Rovereto dopo aver insegnato in un liceo di Vicenza, ha pubblicato presso la casa editrice Einaudi di Torino, nella collana “Stile Libero Big”, il romanzo Il tempo è un dio breve, pp. 225, € 17,00. E’ la sua terza opera narrativa. La seconda, La vita accanto, era stata del 2011 ed era rientrata tra le finaliste del Premio Strega di quell’anno. Si era trattato del rifacimento del precedente manoscritto del 2010, Memorie mancate, al quale era stato assegnato il Premio Italo Calvino. Successo di pubblico e di critica ha riportato la Veladiano fin dal suo apparire come scrittrice e seguiti sono pure i suoi interventi su “la Repubblica”, “Il Regno”, “Avvenire” ed altri giornali. E’ nata a Vicenza nel 1960, è laureata in Filosofia, ha la licenza in Teologia Fondamentale, ha cominciato a scrivere di narrativa a cinquant’anni ed ora a cinquantatre ha scritto Il tempo è un dio breve. Qui ritornano i motivi spirituali, religiosi delle altre opere ma con maggiore evidenza poiché legati a circostanze che li fanno risaltare. La formazione, la cultura religiosa, il cattolicesimo della Veladiano diventano lo sfondo sul quale vengono proiettate le diverse vicende di questa ampia narrazione e soprattutto quelle vissute dalla protagonista Ildegarda che ne costituiscono il tema centrale. Intorno a lei si muovono le altre figure dell’opera ma da lei, dal suo spirito vengono riflesse, tutto diventa suo, dei suoi pensieri, dei suoi dubbi, dei suoi dolori, della sua fede. Una serie di sventure è la vita della donna da quando lascia la sua modesta famiglia di agricoltori per diventare la moglie di un bel giovane della ricca aristocrazia lombarda, Pierre, e la madre del piccolo Tommaso. Entrambi, marito e moglie, lavorano presso giornali ma a niente serve che siano intellettuali, non è un motivo utile ad avvicinarli, a tenerli uniti. Pierre ha avuto un’infanzia ed un’adolescenza prive di qualunque attenzione, è cresciuto senza affetti né quello della giovane e bella moglie riesce a colmare una mancanza così grave. Non riesce nemmeno la nascita del figlio anzi aggrava lo stato di apprensione, timore, paura che gli era provenuto dalla sua condizione e lo muove ad andare lontano, a fuggire. Si stabilisce a Londra e sola con un bambino affetto da crisi convulsive si troverà Ildegarda a vivere e lavorare. Anche lei sarà assalita da paure al pensiero di quella che sarebbe potuta essere la vita del figlio, ossessioni diventeranno questi pensieri e nessun rimedio sembrerà derivare dai rapporti con gli altri, famigliari compresi, da esperienze nuove, viaggi e altro.      Soltanto la fede religiosa molto sentita, molto vissuta potrà aiutarla. Dio pregato, invocato, discusso, sarà presente nella mente della protagonista a testimonianza della sua educazione religiosa e della sua ricerca di un riferimento sicuro. Ma neanche quando crederà di aver scoperto nell’amore per Dieter e nel suo amore la fine di tante pene potrà sentirsi sollevata giacché tra breve saprà di essere affetta da una grave malattia e di avere poco tempo da vivere. Fallivano ancora una volta le sue speranze di formare una famiglia, di avere un compagno, di essere aiutata, protetta, di assicurare un padre a Tommaso e Dio diventava per lei, per il figlio, per il luterano Dieter, per il direttore del giornale, per tutti il riferimento più importante. In nome di Dio si conclude il romanzo a conferma di quanto è valso il suo pensiero per Ildegarda e di quanto è contata per la Veladiano di quest’opera la sua formazione teologica.

Sembra di assistere ad una narrazione di altri tempi tanto importante è la funzione esercitata dalla religione, tanto frequenti sono i richiami al Vecchio e al Nuovo Testamento, le citazioni delle loro scritture. Ma gli ambienti, i problemi fanno diventare moderna l’opera, ne fanno un esempio di quella letteratura dei nostri tempi così impegnata a dire di difficoltà, impossibilità nei rapporti, negli scambi, nella comunicazione. Antico e nuovo stanno insieme nel romanzo della Veladiano, in esso la vita a volte sembra un destino inevitabile, a volte un percorso da conoscere, scegliere, stabilire, compiere. Sospesi si è, con la scrittrice, tra cielo e terra, Dio e gli uomini. E’ la condizione che farà di Ildegarda una donna disposta ad accogliere tutte le sventure, rassegnarsi ad esse, vivere per esse, considerarle un segno di Dio.

Sorprende un’opera simile ma pure attrae, affascina dal momento che riporta a quanto oggi sembra perduto per sempre, ripropone situazioni ormai scomparse, recupera valori considerati finiti.

La fede acquisita da bambina e sempre coltivata riduce la gravità delle circostanze nelle quali Ildegarda precipita, le evita di finire in uno stato di disperazione senza vie d’uscita e le fa intravedere la possibilità di una salvezza se non in questo in un altro mondo. Difficile, quasi impossibile è diventato pensare, dire questo ai nostri giorni e che la Veladiano l’abbia fatto le procura un posto particolare nel contesto della narrativa contemporanea, le assicura un modo per distinguersi.

P. D’Acunto, Temi platonici ed educazione estetica

dacuntoPietro D’Acunto, Temi platonici ed educazione estetica, Salerno, Edisud, 1993

a cura di Umberto Tenuta

 

L’ex Ispettore tecnico del Ministero della PI, Prof. Pietro D’Acunto, già collaboratore della Cattedra di Pedagogia dell’Università di Salerno ed autore, oltre che di vari saggi, del volume Espressione e comunicazione visiva, Morano Editore, Napoli, 1991, ha pubblicato anche un altro importante volume dal titolo: Pietro D’Acunto Temi platonici ed educazione estetica, Salerno, Edisud, 1993.

La digitalizzazione del volume da parte dell’UNIVERSITà DELLA VIRGINIA induce a riconsiderare l’opera, dopo l’ampia ed approfondita recensione che ne è stata fatta nel numero 4/1994 della RIVISTA DELL’ISTRUZIONE, Maggioli Editore, Rimini.

Come si legge nella Quarta di copertina del predetto volume, Pietro D’Acunto  <<tenta di esaminare il ruolo della dimensione estetica nella formazione dell’uomo, in un momento in cui le forme e i canali di comuni­cazione si sono ampliati e i messaggi provengono per molteplici vie. La parte storica serve ad illuminare taluni nodi centrali dell’estetica contemporanea, risa­lendo ed investigando nel pensiero antico e moderno, in primo luogo in quello di Platone. L’ampiezza dei temi esaminati si presta a feconde riflessioni sulla funzione for­mativa del bello e dell’arte>>.

Il valore scientifico dell’opera era stato riconosciuto anche dal Prof. Aniello Montano, il quale così scriveva all’Autore:

<<Gentilissimo Ispettore,

ho ricevuto il suo bel libro su Temi platonici ed educazione estetica. Desidero ringraziarla del dono e, soprattutto, desidero complimentarmi con Lei per la qualità del Suo lavoro. Sono rimasto letteralmente affascinato dalla eleganza con la quale è riuscito a dar conto di alcune estetiche antiche a partire da temi e problemi delle estetiche contemporanee e a meglio illuminare alcune spinose questioni relative a queste ultime e al ruolo da esse svolto nella educazione e formazione dell’uomo con ampi, precisi e calzanti riferimenti ad estetiche antiche e moderne. Un uso così naturale e sciolto di autori e testi antichi in un tessuto ricostruttivo e argomentativo tutto sotto il segno della modernità è chiaro indice di una sicura padronanza dei testi citati e della fruttuosa possibilità di un loro riutilizzo nel presente.

Nel Suo discorso, inoltre, si lascia molto apprezzare lo sforzo inteso a fornire una fondazione storica e teoretica a questioni, anche tecniche, della pedagogia contemporanea. Si nota con piacere che la pedagogia di ispirazione filosofica ha ancora buoni cultori e appassionati indagatori. Una pedagogia sganciata dai presupposti filosofici rischierebbe di ridursi ad una sorta di tecnicismo non so quanto produttivo per la formazione di uomini consapevoli e creativi.

Complimenti, dunque, per il Suo lavoro e per il modo in cui alimenta la Sua professionalità di Ispettore che si propone a Presidi e ad insegnanti quale guida intelligente e colta e non semplicemente come un tecnico, specialista nella lettura, nel commento e nella applicazione dei contenuti di leggi e circolari.

Ancora grazie per la gentilezza usatami e auguri di vero cuore.

Con la più viva cordialità del Suo Aniello Montano>>.

 

Pietro D’acunto, con questi due volumi e con gli altri saggi pubblicati, offre ai lettori preziose ed approfondite considerazione sulla educazione estetica, che si offrono quali validi contributi agli studiosi ed anche ai docenti di ogni ordine e grado di scuola.

Il TAR Lazio riconosce il diritto alla cittadinanza italiana delle persone con disabilità intellettiva

Il TAR Lazio riconosce il diritto alla cittadinanza italiana delle persone con disabilità intellettiva (TAR Lazio 5568/13)

di Salvatore Nocera

Dopo il caso di una persona con sindrome di Down nata Italia da madre straniera cui era stato negato il diritto alla cittadinanza, poi risolto politicamente grazie all’intervento dell’AIPD, nello stesso giugno 2013 è stata depositata l’importante sentenza del TAR Lazio n° 5568/13 con la quale viene annullato per difetto di istruttoria il Decreto del Ministero dell’Interno che negava il diritto alla cittadinanza Italiana di una persona con disabilità intellettiva nata in Italia da genitori stranieri.

 

Il caso è assai interessante perché complesso. Infatti la persona interessata aveva l’amministratore di sostegno, il quale ha personalmente presentato la richiesta di cittadinanza.

Il TAR ha rigettato le obiezioni del Ministero circa la necessità che le istanze debbano essere personalmente sottoscritte dai richiedenti. Il TAR, basandosi sulla L. n° 6/06 sull’amministrazione di sostegno, ha ritenuto che l’amministratore di sostegno avesse il potere di sottoscrivere per l’interessato, il quale comunque non aveva perduto la capacità di agire a differenza dell’ipotesi in cui fosse stato interdetto.

 

Superato il primo scoglio il TAR ha affrontato nel merito il divieto posto dal Ministero dell’Interno alla concessione di cittadinanza Italiana, secondo il quale l’impossibilità di esprimersi verbalmente costituisce impedimento alla concessione della stessa poichè la normativa prevede che l’interessato debba dimostrare di conoscere la lingua Italiana e debba esprimere personalmente a voce il giuramento di fedeltà alla Repubblica.

 

Sul primo aspetto così si esprime il TAR:

“Ritiene il collegio che la carenza del linguaggio verbale non può essere motivo per ritenere una persona incapace di manifestare la propria volontà né per sostenere che essa non possa in altro modo dimostrare di quanto meno comprendere la lingua italiana.

Infatti, la capacità della XXXXXXXX di comprendere la lingua italiana, pur senza sapersi esprimere, può – con le opportune cautele e gli adeguati strumenti – essere valutata, con l’ausilio di personale specializzato, ad esempio rivolgendole semplici ordini e verificando se essi vengono eseguiti, o comunque osservando le sue reazioni alle frasi che si pronunciano in lingua italiana.”

 

E così il TAR si esprime sul secondo aspetto:

“Più arduo è invece certamente il procedimento di accertamento della volontà della disabile di diventare cittadina italiana alla luce delle sue limitazioni espressive e cognitive. Anche in questo caso, tuttavia, prima di giungere alla conclusione della impossibilità per la disabile di manifestare una tale volontà, l’amministrazione avrebbe dovuto valutare in concreto, all’esito di un accertamento approfondito e condotto con l’ausilio di personale specializzato, se una tale impossibilità effettivamente sussista, pur non essendo stata la disabile privata giuridicamente della capacità di agire. Nell’ambito di tali accertamenti potranno, eventualmente, essere presi in esame anche elementi indiziari, quali la permanenza in Italia, la comprensione della lingua e della cultura italiana, lo stile di vita, ecc.

Non risulta, invece, che tale istruttoria sia stata effettuata in quanto l’amministrazione – come si è detto – si è limitata al dato della impossibilità della disabile di sottoscrivere l’istanza e di esprimersi nella lingua italiana.”

 

 

OSSERVAZIONI

 

La Sentenza si fonda sul rispetto della Dichiarazione ONU dei diritti delle persone con ritardo mentale del 1971, la Dichiarazione ONU dei diritti delle persone con disabilità del 1975, gli art. 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di Nizza resa vincolante dal Trattato di Lisbona del 2009, la L. n° 67/06 sulla non discriminazione delle persone con disabilità, nonché  l’art. 18 della Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006, ratificata dall’Italia con la L. n° 18/09 secondo il quale:

“1. Gli Stati Parti riconoscono alle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, il diritto alla libertà di movimento, alla libertà di scelta della propria residenza e il diritto alla cittadinanza, anche assicurando che le persone con disabilità:

(a) abbiano il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non siano private della cittadinanza arbitrariamente o a causa della loro disabilità”.

 

La Sentenza costituisce un’importante precedente, non solo per le successive pronunce della magistratura, ma anche per orientare la prassi del Ministero dell’Interno e delle Questure.

Si dà atto allo Studio Amoroso-Cardona  per l’importante risultato innovativo ottenuto.

Il dibattito sui BES

RECENTE NORMATIVA SUI BES: ECCESSIVA VISIONE CATASTROFICA E SOLUZIONI PALINGENETICHE

DI SALVATORE NOCERA Vicepresidente nazionale della F I S H

            Ho letto l’articolo pubblicato da Carlo Scataglini il 3 giugno su L N, nel quale facendo il punto sull’ampio dibattito in atto sulla recente normativa sui BES, schematicamente e lucidamente formula in tre punti un’analisi positiva, che condivido; in tre punti un’analisi negativa ed una serie di proposte  molte delle quali mi lasciano assai perplesso.

Veniamo subito alle tre critiche :

1-L’A. si diffonde lungamente per dimostrare come, a seguito di tale normativa, verrà negato il sostegno agli alunni meno gravi ai quali non verrà più riconosciuto la qualifica di alunni con disabilità ai sensi dell’art 3 comma 1 l.n. 104/92, poiché il limite interno tra quelli certificabili e quelli non certificabili è talmente infinitesimo che quasi tutti verranno scartati finendo nel gruppo degli altri BES, per i quali non è prevista risorsa alcuna.

MI chiedo però perché mai questa separazione dovrebbe essere stata determinata dalla recente normativa sui BES; nessuno ha impedito sino ad oggi, se era così facile separare, di  effettuarla, tanto più che  le ragioni finanziarie che oggi premono sono già presenti in Italia da  molti anni ed in modo pressante da almeno 3 anni.Eppure questi tagli al sostegno non ci sono stati a livello nazionale, se è vero che sono aumentate le certificazioni sino ad oltre duecentomila alunni ed i posti di sostegno ad oltre centomila alunni.

Comunque ritengo che i professionisti delle ASL debbano adottare certi codici previsti dalle classificazioni  ICD10 dell’OMS e non possano agevolmente  infischiarsene, pena la delegittimazione della loro professionalità ed un incremento esponenziale dei ricorsi al TAR, al quale ormai le famiglie sono abituate da anni con costanti esiti positivi.

2-si insiste sul fatto che mancando il numero necessario dei docenti di sostegno, a causa dei tagli al loro

Numero, ci sarebbe solo una consulenza esterna effettuata da gruppi di docenti specializzati itineranti.

A me pare che la recente normativa non dica  ciò; questo è un aspetto significativo della ipotesi di lavoro della ricerca della Fondazione Agnelli, che però non è stata sposata dal MIUR.

Se si immagina che ci sarà un taglio dei docenti per il sostegno per gli alunni con disabilità lieve, si può anche immaginare che il MIUR abbia sposato l’ipotesi della Fondazione Agnelli; ma ciò non mi pare sia la realtà attuale dei fatti.

3-    L’A. sostiene che  l’introduzione del termine BES, aumenta le etichette nelle quali incasellare e stigmatizzare gli alunni con difficoltà diapprendimento.

In vero la Direttiva del 27 Dicembre si dilunga a spiegare che BES non è un’ulteriore etichetta, ma anzi è il termine riassuntivo di tutti i casi di alunni con difficoltà di apprendimento.

Che nella prassi, così come si sono volgarmente classificati gli alunni con disabilità come prima categoria di BES , quelli con DSA come seconda catwegoria ed i nuovi BES come svantaggio e disagio ed altri casi come terza categoria, non può addebitarsi a questa recente normativa, perché allora occorrerebbe risalire alla  legge-quadro n. 104/92 e forse ancor prima. .

Certo il rischio c’è , ma non per causa della recente normativa, ma del modo di semplificare le cose complesse.

Quanto alle proposte:

a)     – bloccare l’applicazione immediata della Direttiva e della Circolare sui BES, per aprire un ampio dibattito nelle scuole col concorso di tutti gli interessati operatori della scuola, degli Enti locali e delle ASL nonché delle famiglie.

Mentre si condivide la proposta di discuterne anche nelle scuole, cosa che in vero sta avvenendo da Marzo in moltissime scuole, ed associazioni, non si vede l’utilità di sospenderne l’applicazione da subito. Ciò impedirebbe agli alunni con DSA e con  altri BES  , individuati dai consigli di classe, di avvalersi dei benefici che la recente normativa ha posto a loro disposizione, quali le diagnosi provvisorie di DSA in attesa di quella definitiva dell’ASL e l’utilizzo di strumenti compensativi e dispensativi riconosciuti  dai Consigli di classe anche agli altri BES in particolari casi.

Inoltre non verrebbe formulato il PAI, piano delle attività inclusive , da effettuarsi entro Giugno, che costringe tutte le scuole a cominciare a ragionare  sui punti di forza e di debolezza delle loro capacità inclusive anche per richiedere al Governo una migliore distribuzione delle scarse risorse disponibili.

B)- spalmare le attuali risortse disponibili, cioè  il numero dei docenti per il sostegno a favore di tutti i casi di BES( la qualcosa comunque richiederebbe pur sempre l’individuazione anche di questi nuovi BES ).

Per questa decisione però, a mio avviso, occorrerebbe un’ampia discussione nel Paese che comporterebbe come conclusione la modifica della normativa  legislativa vigente, confermata e rafforzata dalla Giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale il sostegno va assegnato esclusivamente agli alunni con disabilità certificata ed a nessun altro.Non è quindi cosa che può farsi immediatamente.

C)- Realizzare immediatamente la formazione di tutti  i docenti sulla didattica inclusiva. E’ questa una proposta che già da tempo formuliamo come F I S H, ma occorre una norma che avvii la formazione iniziale in tal senso per tutti i futuri docenti ed una obbligatoria in servizio ; ma ciò non può farsi immediatamente, perché occorre una proposta di legge per la formazione iniziale ed accordi sindacali per quella obbligatoria in servizio. Comunque se c’è la convergenza delle associazioni e dei docenti , la cosa ha molte più probabuilità di essere realizzata nel prossimo futuro.D ) creare un nuovo profilo dei docenti per il sostegno che sappiano operare con tutti i casi di BES. Questa proposta  necessita lo scioglimento del problema se i docenti specializzati debbano occuparsi di tutti o solo degli alunni con disabilità. E, data la denuncia dell’A. circa i tagli ai posti di sostegno, la proposta mi sembra contraddittoria, perché ridurrebbe invece che aumentare le ore di sostegno disponibili per gli alunni certificati con disabilità, come attualmente avviene.

E ) – creare un’apposita classe di concorso per il sostegno in modo da realizzare una vera e stabile scelta professionale.

Anche questa è una proposta della F I S H che risale a molti anni fa e che adesso stiamo concretizzando in una proposta di legge ad hoc.

In conclusione, alcune proposte, a mio avviso, sono condivisibili; ma altre , specie se supportate da ipotetiche denunce di tagli al sostegno, non mi paiono condivisibili.

Comunque la democrazia èè bella perché nel dibattito di idee diverse e talora contrapposte, si può pervenire a delle soluzioni maggiormente ragionate

E non frettolose.

Per questo non condivido e non sottoscriverò né farò propaganda per ciò, la petizione per l’immediata disapplicazione di questa recente normativa, che ha , se non altro, il merito di aver riacceso il dibattito culturale sull’inclusione in Italia che langue da  quasi 13 anni.

Cero la recente normativa non è perfetta; anche noi della F I S H chiediamo delle correzioni , specie per la parte concernente l’organizzazione ed il raccordo dei nuovi organismi ( CTI, CTS) coi precedenti ( CTI, GLIP ).

Però l’analisi di Scataglini mi sembra troppo catastrofica e le soluzioni palingenetiche, mentre occorre gradualità , ovviamente purchè non sia gattopardesca.

 

Funzionamento Inclusivo Limite. Una proposta/ Il dibattito sui BES

Scritto da Carlo Scataglini 03 Giugno 2013. Categoria: Scuola e università

Il dibattito e i sorrisi

Bene, il dibattito è ripartito! Forse qualcuno pensava che la partita fosse già chiusa, ma non è così.

Leggendo gli interventi, le risposte e i commenti al mio articolo Le scatole e le etichette. Sull’Invalsi e i BES nella scuola pubblica pubblicato dal sito www.laletteraturaenoi.it, mi viene subito da precisare una cosa: la mia non vuole essere e non è una rivendicazione sindacale, né una difesa ad oltranza della mia categoria, quella degli insegnanti di sostegno.

Sorrido però di fronte alla tenacia con la quale si cerca di negare l’evidenza, affermando che non ci saranno tagli di posti di sostegno e che a nessun alunno sarà tolto il diritto a ricevere un sostegno specializzato. Sorrido perché a chi lavora a scuola da qualche decennio e da una decina di anni è nel gruppo tecnico provinciale che studia le certificazioni e le singole situazioni degli istituti scolastici per stilare gli organici provinciali del sostegno, non può sfuggire un particolare che in maniera maldestra si cerca di tenere celato. I cosiddetti FIL, gli alunni con funzionamento intellettivo limite o Borderline cognitivo, sono la chiave di volta, il punto di snodo, il vero gioco di prestigio di tutta la strategia dei tagli al sostegno.

Il dibattito e la verità

Mi spiego, spero in maniera chiara, spero per l’ultima volta.

Il giorno 8 maggio 2013, presso il Ministero si è svolto un seminario – conferenza di servizio sui BES. In quell’occasione è stato consegnato agli uffici scolastici regionali un modello di Piano Annuale dell’Inclusività. In esso vengono chiaramente definite tre fasce diverse di BES:

  • le disabilità certificate (Legge 104/92 art.3, commi 1 e 3);
  • i disturbi evolutivi specifici (DSA, ADHD, DOP, FIL, altro);
  • lo svantaggio (socio – economico, linguistico – culturale, comportamentale – relazionale).

Nella prima fascia, quindi, ci sono i disabili (gravi e non gravi) che hanno un certificato, hanno il sostegno specializzato e beneficiano di un Piano Educativo Individualizzato (PEI).

Nella seconda ci sono coloro che, pur avendo un certificato, non avranno alcun sostegno specializzato e saranno seguiti dagli insegnanti di classe secondo un Piano Didattico Personalizzato (PDP) stilato e attuato dagli stessi insegnanti di classe.

Nella terza fascia sono compresi gli svantaggiati, che non hanno certificato, non beneficeranno di alcun sostegno specializzato, verranno individuati dagli insegnanti di classe in base a svantaggi socio – economici (!), linguistico – culturali e comportamentale – relazionali, e beneficeranno di un Piano Didattico Personalizzato (PDP) stilato e attuato dagli stessi insegnanti di classe.

Ha ragione chi dice che da nessuna parte e in nessuna norma sta scritto che il sostegno specializzato sarà assegnato solo nei casi di disabilità grave. Il punto è un altro. Chi sono gli alunni di prima fascia, cioè i disabili, che non hanno la situazione di gravità? Da molto tempo, come dicevo prima, collaboro alla realizzazione degli organici di sostegno della mia provincia come docente esperto e posso rispondere al volo: la maggior parte delle certificazioni di disabilità (senza situazione di gravità) riguarda gli alunni FIL – funzionamento intellettivo limite. Praticamente, ora, i FIL vengono sistemati contemporaneamente in due fasce diverse, una che prevede il sostegno e una che invece lo esclude.

Il dibattito e le domande evase

Quindi, mi chiedo:

  • I FIL saranno da sostegno o semplici BES da PDP?
  • Chi deciderà l’una o l’altra possibilità?
  • È possibile prevedere che chi aveva già il sostegno continuerà ad averlo mentre le nuove certificazioni di FIL no? Oppure saranno rivisitate immediatamente le vecchie certificazioni (che per lo più recitano testualmente: “Alunno con funzionamento intellettivo limite, necessita di intervento di sostegno scolastico”) per far transitare subito questi alunni dalla prima alla seconda fascia?
  • Sarà stabilito un limite di FIL (praticamente un funzionamento intellettivo sopra il limite o sotto il limite!) al di là del quale si darà il sostegno e al di sotto del quale basterà l’insegnante di classe con il PDP? E chi effettuerà tali millimetriche misurazioni di limite?
  • Verrà prospettata ai genitori una scelta discrezionale del tipo: “Più intervento individualizzato o meno impatto sociale? Sostegno o PDP?”?
  • Sarà lasciata totale discrezionalità all’équipe multidisciplinare della ASL?
  • Conteranno qualcosa le valutazioni sulle reali esigenze didattiche degli alunni fatte dai consigli di classe, dalle scuole e dai GLI?

Allo stato attuale non è possibile rispondere, perché queste domande vengono evase. Nelle more qualcuno sfida i timorosi: “vedremo!”, dice e alla luce dei fatti agiremo.

Intanto però è inutile negare che vi saranno tagli ai posti di sostegno, poiché si potranno far “scivolare” i FIL da un piano ad un altro, da una condizione ad un’altra. I tagli ci saranno, quindi, forse non domani mattina o dal prossimo anno scolastico, ma certamente nel giro di due o tre anni.

Il dibattito e la realtà

I nostri discorsi pieni di strane sigle, di percentuali, di stime occupazionali, di valutazioni entusiastiche o apocalittiche, di considerazioni di “pancia” o “politiche”, di punti di vista interni o molto lontani dalla quotidiana vita delle classi, spesso dimenticano proprio i due attori principali della questione, vale a dire l’alunno con funzionamento intellettivo limite (insieme, ovviamente, alla sua famiglia) e l’insegnante disciplinare.

L’alunno FIL e il suo insegnante di inglese, per esempio. Quale sarà uno scenario plausibile in una futura ora di inglese? Classe di ventinove, tra cui, poniamo, il FIL di cui sopra, un DSA, due stranieri e uno svantaggio socio-economico. Bene, dice qualcuno, questi alunni c’erano anche prima, non è colpa della circolare sui BES. Certo, ma prima in classe i ventinove alunni e il loro prof. d’inglese potevano contare sull’intervento specializzato di un insegnante specializzato nominato e in servizio per un alunno (il FIL) ma che, per norma e per operatività, era un insegnante di tutta la classe. Di sostegno all’alunno FIL, di sostegno a tutta la classe, di sostegno al prof. d’Inglese.

In che modo di sostegno? Attraverso metodologie inclusive e strategie didattiche di cerniera, attraverso un sostegno diretto in classe, attraverso una gestione in presenza e collaborativa della didattica.A tal proposito va pure detto; non fa onore a chi argomenta contro l’attuale assetto didattico fa leva sul luogo comune dell’insegnante di sostegno che si isola o viene isolato, dell’insegnante di classe che delega ed esclude. Poiché di luogo comune davvero si tratta. Qui sì che dobbiamo veramente applicare le norme che già ci sono. L’insegnante disciplinare delega? Bene, intervenga il dirigente scolastico. L’insegnante di sostegno non si prepara, non collabora e si imbosca? Basta l’intervento il dirigente scolastico. Non serve smantellare la scuola per riequilibrarne l’eventuale cattivo funzionamento.

Aspetti positivi, aspetti negativi

Chiarite le posizioni e le diverse ragioni che le ispirano, a mio avviso, è necessario trovare una soluzione operativa al caos che l’imposizione della circolare sui BES rischia di originare. Mi spiego. Non è completamente negativo l’approccio ai Bes previsto dalla circolare di marzo. Ci sono degli aspetti positivi, accanto ad altri che invece destano più di una perplessità. Proviamo dunque a conciliare critiche e proposte. Volendo schematizzare, a mio parere, è possibile individuare tre punti di forza e tre evidenti criticità della nuova normativa sui BES. Li indico di seguito.

Aspetti positivi

  1. I bisogni educativi speciali esistono per davvero! Non sempre le nostre scuole hanno dedicato e dedicano la giusta attenzione a tali bisogni. Il dibattito, in alcuni casi mosso anche da perplessità, paure e senso di inadeguatezza, che si è scatenato nelle nostre scuole, nelle sale professori, nelle dirigenze scolastiche e nelle segreterie studenti, è una importante novità. È un bene che ci siano tale attenzione e tale dibattito. Occorre però che le domande operative che ne scaturiscono non ricevano risposte ambigue o lontane dalla realtà. Ai docenti disciplinari, giustamente preoccupati, occorrerà che qualcuno spieghi ufficialmente che riceveranno consulenza a distanza da parte di una decina di gruppi di lavoro, ma che in classe poi dovranno vedersela da soli.
  2. La circolare prevede che le scuole stilino un Piano Annuale dell’Inclusività e che sia il Collegio dei Docenti a prenderlo in carico. Finalmente si pensa di organizzare in modo funzionale tutte le risorse della scuola. Per anni ho provato a insistere personalmente su questo punto, scrivendo o intervenendo nei gruppi istituzionali di cui ho fatto parte. Mi pareva assurdo il fatto che il Ministero e gli Enti Locali, che forniscono rispettivamente insegnanti e assistenti, non si parlassero per assegnare le risorse, per capire veramente di cosa c’era bisogno. Il paradosso, però, è che oggi che si richiede alle scuole di stilare un piano annuale che comprenda tutte le risorse necessarie, tali risorse vadano incontro a tagli sempre più pesanti. Il rischio è che si vada verso una richiesta finalmente centrata sull’organizzazione e su quello che serve per farla funzionare proprio nel momento in cui quello che serve non sarà più possibile ottenerlo.
  3. L’attuale approccio ai bisogni educativi speciali prevede una formazione specifica di tutti gli insegnanti disciplinari e di quelli di sostegno. È una esigenza inderogabile nella nostra scuola pubblica. Formazione specifica, prima di tutto sulle situazioni di gravità che richiedono competenze, professionalità e tecniche che non si possono improvvisare e sulle quali anche noi insegnanti di sostegno dobbiamo prepararci in maniera sicuramente più adeguata. Formazione sulle metodologie inclusive e sulle strategie didattiche di cerniera. Formazione sui disturbi specifici di apprendimento, sulle modalità di conduzione della classe, sull’attivazione di attività laboratoriali e cooperative. Formazione sulla gestione collaborativa della lezione tra più docenti, sulle modalità di programmazione personalizzata e sulla verifica e valutazione dei risultati. Occorre però che ai buoni propositi (formazione per tutti!) faccia seguito la volontà di dedicare a questo progetto risorse finanziarie importanti e di individuare con molta attenzione le agenzie che saranno chiamate a formare i docenti. Occorre che vengano utilizzate in maniera massiccia le risorse di formazione interne alle scuole, che venga finalmente attivata una vera circolarità di risorse anche attraverso la diffusione di buone prassi di integrazione. Occorre, insomma, che alle parole e agli intenti seguano gli strumenti necessari per dare una risposta concreta alla urgente necessità di formazione della nostra scuola.

Aspetti negativi

  1. Si è deciso di circoscrivere una competenza specifica e specializzata, come quella dei docenti di sostegno, all’interno di un ambito preciso, quello della disabilità grave, rinunciando a tale competenza per tutti gli altri bisogni educativi speciali.
  2. Si intende spostare il concetto stesso di sostegno dalla didattica operativa, fatta di strategie specifiche in presenza, a una sorta di consulenza a distanza che non può incidere operativamente sull’inclusione di tutti gli alunni nei percorsi comuni. Tale spostamento ha queste conseguenze: a) finisce col rendere impossibile il compito degli insegnanti disciplinari, di fatto unici responsabili e attuatori della didattica personalizzata; b) penalizza fortemente gli alunni con difficoltà (in particolare quelli con funzionamento intellettivo limite) che vengono privati di un piano educativo individualizzato e della possibilità di ricevere un sostegno didattico specializzato.
  3. Si genera una molteplicità di categorie e sottocategorie di alunni con bisogni educativi speciali, assegnando etichette, con o senza certificato, che producono frammentazione, divisione ed esclusione, più che favorire una vera inclusione.

Il dibattito e una proposta

E allora? Quale può essere la soluzione? Cosa bisogna fare per evitare il rischio che un tema così importante, come quello dei bisogni educativi speciali, possa mandare in tilt il sistema organizzativo scolastico a danno principalmente degli stessi alunni?

Secondo me è indispensabile:

  • bloccare immediatamente gli effetti organizzativi sul prossimo anno scolastico della direttiva e della circolare sui BES;
  • realizzare, nel prossimo anno scolastico, un dibattito costruttivo e condiviso, che parta dalla base – dalle scuole – dagli insegnanti – dai genitori – dalle associazioni – dal mondo della sanità – e che costruisca un modello organizzativo funzionale per la personalizzazione dei percorsi degli alunni con bisogni educativi speciali nelle scuole di ogni ordine e grado;
  • prevedere e destinare le risorse di personale specializzato e le risorse finanziarie necessarie per un modello organizzativo che preveda un intervento personalizzato per tutti gli alunni con bisogni educativi speciali, uscendo dalla consueta logica del “Voi intanto partite con le innovazioni che per le risorse vi faremo sapere poi …”;
  • attivare immediatamente la formazione specifica sui BES per i docenti disciplinari, per quelli di sostegno e anche per i dirigenti scolastici;
  • creare un nuovo profilo degli insegnanti specializzati per il sostegno, ampliandone i compiti e le competenze, sia nell’ottica dei bisogni educativi speciali e del PDP, sia in quella delle situazioni di gravità che vanno affrontate con una competenza tecnica e specifica reale ed adeguata;
  • creare una classe di concorso specifica per gli insegnanti di sostegno specializzati, in modo da richiedere una scelta professionale che in nessun modo possa essere dettata da esigenze di organici (sistemazione di docenti soprannumerari) o di opportunismo personale.

In definitiva, ritengo sia indispensabile prendere una decisione coraggiosa, adesso e prima di settembre. La decisione di bloccare gli effetti di un cambiamento di cui probabilmente sono stati sottovalutati gli effetti negativi. Credo valga la pena discuterne ancora, coinvolgendo le comunità scolastiche nella discussione, prima di mettere a rischio ciò che è stato costruito in oltre trent’anni di integrazione nella nostra scuola pubblica.

NOTA

Chi è d’’accordo con le posizioni espresse in questo intervento può firmare la petizione ““Referendum sui BES – Fermiamo la CM 8 e costruiamo il cambiamento””. L’’obiettivo della petizione è di raggiungere cinquantamilaeuno firmatari, che simbolicamente corrispondono al numero della metà più uno dei docenti specializzati che insegnano nelle nostre scuole. L’obiettivo concreto è di dare voce a tutti gli insegnanti, agli stessi studenti e alle loro famiglie, alle associazioni e a tutti coloro che a qualsiasi titolo hanno a cuore l’’integrazione scolastica.

 

Petizione contro i Bes, Nocera (Fish): ”Ho invitato a non firmare”
Per il vicepresidente della Federazione la circolare ministeriale sui Bisogni educativi speciali non minaccia il sostegno per i disabili lievi. Ciambrone (Miur): ”Quest’anno 6.000 posti in più per il sostegno”

ROMA  – E’ online una petizione per bloccare ”gli effetti organizzativi sul prossimo anno scolastico” della direttiva e della circolare sui Bisogni educativi speciali, ”Referendum BES. Fermiamo la CM 8 e costruiamo il cambiamento”. L’iniziativa è promossa da Carlo Scataglini, insegnate di sostegno e docente a contratto presso l’Università de L’Aquila. La preoccupazione è che dal prossimo anno scolastico non verrà concesso il sostegno agli alunni con disabilità lieve e che ci saranno tagli al sostegno, “forse non domani mattina o dal prossimo anno scolastico, ma certamente nel giro di due o tre anni”. La petizione mira a raggiungere cinquantunmila firme, che “simbolicamente corrispondono al numero della metà più uno dei docenti specializzati”.

Per Salvatore Nocera, vicepresidente della Fish, le premesse che spingono ad affermare con certezza che agli alunni con disabilità non grave non verrà dato il sostegno ”sono infondate”. ”Ho invitato – sottolinea – a non sottoscrivere quella petizione, perché se passasse verrebbero bloccati tutti gli effetti positivi che la circolare ministeriale contiene”. In un articolo di risposta a Scataglini, pubblicato sul www.laletteraturaenoi.it lo scorso 26 maggio, il vicepresidente della Fish sottolinea come da nessun documento ufficiale, né da dichiarazioni del ministero per l’Istruzione risulti questa volontà. ”…non incrementiamo dicerie prive di fondamento, – scrive Nocera – impegniamoci invece sempre di più a pretendere che si avvii la formazione iniziale ed obbligatoria in servizio di tutti i docenti curricolari, in modo da poter prendersi in carico in prima persona il progetto di inclusione scolastica, come era quando cominciammo il processo inclusivo alla fine degli anni Sessanta, sostenuti dai colleghi specializzati per il sostegno”.

A far ulteriore chiarezza le dichiarazioni di Raffaele Ciambrone, dirigente Miur (Ufficio disabilità) che in una intervista sulla situazione degli alunni con bisogni educativi speciali riafferma tutto l’impegno nei confronti degli alunni disabili. “Abbiamo voluto assicurare maggior tutela ad alunni e studenti che non rientravano nei casi previsti dalle leggi 104/92 e 170/2010, nella prospettiva di una scuola sempre più accogliente e inclusiva. Rimane confermato e rafforzato il nostro impegno per gli alunni con disabilità per i quali, quest’anno, sono stati assegnati ulteriori 6.000 posti in più per il sostegno”. (cch)

Fand critico sulla petizione contro i Bes: “Su circolare Miur giudizio positivo”
Il presidente Pagano sottolinea ”lo scrupolo con cui si è giunti alla emanazione della circolare ministeriale n. 8 e gli sforzi profusi dal ministero per mettere in campo maggiori risorse da destinare al sostegno”

ROMA – La Fand, Federazione tra le associazioni nazionali delle persone con disabilità, non condivide il giudizio negativo espresso dai promotori di una petizione on line in merito alla circolare ministeriale del Miur n. 8/2013 riguardante i Bes, ovvero i bisogni educativi speciali. Lo afferma l’organizzazione in una nota appena diffusa. “Gli organizzatori di tale petizione rimarcano la preoccupazione che in un prossimo futuro non verrà concesso il sostegno agli alunni con disabilità lieve e che il sostegno sarà oggetto di tagli con gravi conseguenze, soprattutto per le famiglie – scrive il presidente della Federazione Giovanni Pagano -. Noi invece evidenziamo che negli incontri avuti con il Miur, soprattutto in sede di Osservatorio per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, non sono emerse siffatte preoccupazioni né si è avuto sentore di tentativi in tal senso”. Pagano sottolinea invece “lo scrupolo con cui si è giunti alla emanazione della circolare ministeriale n. 8,  il proficuo lavoro svolto tra il Miur e la Fand, unitamente alla Fish, e anche l’impegno e gli sforzi profusi dal ministero per mettere in campo maggiori risorse da destinare al sostegno”.

Signoriii… in Carrozza!!!

Signoriii… in Carrozza!!!
o meglio, verso un programma credibile

di Maurizio Tiriticco

Quando ancora non c’erano le Frecce e si viaggiava con le locomotive a vapore – quanto fumo, quanto fracasso! – e non c’erano né display né altoparlanti, con quel reiterato appello il capotreno sollecitava i viaggiatori a salire in vettura! Fuor di metafora, sono anni che improvvisati ministri dell’istruzione non riescono a far salire nessuno su treni fatiscenti che non si sa dove portano, anzi… finora hanno sempre portato la nostra povera scuola su binari morti!

Dopo anni ho avuto la fortuna di leggere una dichiarazione di intenti, un programma articolato, serio, prudente e che a largo raggio tocca tutti i problemi del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione”, da quelli strutturali a quelli ordinamentali e istituzionali. Si va dalla sicurezza e dall’edilizia scolastica alle finalità dell’Istruzione e della Formazione professionale e al ruolo chiave che, in un processo di effettivo riordino e in una prospettiva di rinnovamento, spetta agli insegnanti. Alludo alle linee programmatiche che il Ministro Carrozza ha recentemente illustrate alle Commissioni del Senato e della Camera.

Finalmente, dopo che per anni ci hanno detto che con la cultura non si mangia e che, quindi, sulla scuola non conviene investire, si afferma invece che “il livello di formazione (e quindi di istruzione) ha un legame diretto con il tasso di sviluppo economico di una certa popolazione e di un certo Paese in un dato momento storico”. E che “l’impatto del capitale umano sulla crescita economica passa anche per il suo effetto sulla disuguaglianza economica e sociale. Un Paese con alte disuguaglianze di partenza e mercati del credito poco efficienti deprimono l’investimento in capitale umano nella parte più povera del Paese e rafforzano tali disuguaglianze di partenza, riducendo al contempo la mobilità sociale e la percezione di vivere in un contesto fruttuoso di pari opportunità”. Pertanto, “partendo dal sistema scolastico, ritengo che le nostre politiche dovranno essere in assoluta coerenza con un unico irrinunciabile obiettivo: garantire ai nostri ragazzi luoghi di apprendimento sicuri e un percorso scolastico che possa incidere positivamente nella realizzazione del loro progetto di vita e sul loro futuro, permettendo a tutti i meritevoli, ancorché privi di mezzi, di raggiungere i più alti gradi dello studio secondo il dettato della nostra Costituzione”

E ancora. E’ necessario “sviluppare: l’inclusività del sistema formativo e la qualità degli apprendimenti. Sotto il profilo dell’inclusività, occorre spezzare il persistente circolo vizioso tra povertà economica e povertà di istruzione. Va favorito ogni sforzo teso al consolidamento precoce delle conoscenze e competenze irrinunciabili. Per questo il Governo intende proseguire ed estendere le azioni mirate a prevenire e contrastare la dispersione scolastica che, nonostante una continua diminuzione negli ultimi venti anni, riguarda ancora il 18% della popolazione giovanile, dando piena attuazione all’Agenda di Lisbona dell’UE e conseguendo l’obiettivo di portare il tasso di dispersione sotto il 10% entro il 2020”. Occorre quindi “salvaguardare il principio di inclusione e di solidarietà su cui la nostra scuola si fonda per dare attuazione concreta all’articolo 3 della nostra Costituzione. Ciò richiede un forte presidio sugli apprendimenti nella scuola di base”. Inclusione e solidarietà sono fattori caratterizzanti dei percorsi e delle finalità di un sistema di istruzione che investa veramente tutti i cittadini, anche in chiave di apprendimento permanente. Dopo anni in cui siamo stati frastornati dal concetto di “merito” fine a se stesso e che, come tale, presume e istituzionalizza il “demerito” riservato ad aeternum ai più deboli, è importante sentire un ministro dell’istruzione che fa dell’inclusione l’obiettivo primario del nostro Sistema di Istruzione e Formazione.

Il ministro sottolinea anche che “è fondamentale potenziare l’istruzione tecnico-professionale, raccordare i sistemi di istruzione, formazione e lavoro, e, soprattutto, rafforzare gli Istituti Tecnici Superiori in una dimensione multi-regionale”. E ancora: “In particolare, le misure di semplificazione e promozione dell’istruzione tecnico-professionale contenute nella Legge 35/2012 vanno accompagnate con misure di rafforzamento dell’istruzione tecnico professionale, anche a livello terziario e con l’aumento dei percorsi di alternanza studio/lavoro, a sostegno dell’occupazione dei giovani, colmando progressivamente il divario ancora esistente tra domanda e offerta di lavoro per le professioni tecniche, e di crescita delle filiere produttive nei settori strategici dell’economia nazionale, anche ai fini della loro internazionalizzazione”. Che sia veramente venuta l’ora del superamento del primato degli studi liceali? E dell’attualismo gentiliano? In forza del fatto che, con il continuo sviluppo scientifico e tecnologico siamo sempre più tenuti a “pensare con le mani e a fare con il cervello”.

Per quanto riguarda gli insegnanti, il ministro ritiene che, “se vogliamo garantire la qualità degli apprendimenti, dobbiamo anche dare un segnale di valorizzazione e di riconoscimento al prezioso lavoro del docente” E sottolinea quanto “sia necessario avere come priorità la valorizzazione della professione docente e del personale scolastico tutto. Vanno introdotte nuove modalità di sviluppo di carriera dei docenti, con l’avvio di un sistema di valutazione delle prestazioni professionali collegato ad una progressione di carriera, svincolata dalla mera anzianità di servizio”. A tal fine il ministro ricorda quanto sia necessaria la diffusione nella scuola di una cultura della valutazione che, a mio avviso, deve investire, in un sistema di istruzione avanzato, tutti i fattori che vi operano, quelli strutturali e organizzativi e quelli umani.

A mio avviso, la valutazione degli insegnamenti – non degli insegnanti tout court – non può prescindere da una politica attiva di formazione in servizio, e la valutazione degli apprendimenti non può prescindere dal superamento del sistema della valutazione decimale. Il ritorno ai voti nel primo ciclo di istruzione ha significato soltanto sferrare un duro colpo a decenni di ricerca valutativa. Si tratta di condizioni che il ministro non ha affrontato, ma che a mio avviso sono ineludibili se si vuole andare – come lo stesso ministro auspica – verso “un miglioramento complessivo del sistema scuola, anche mediante un approfondimento concreto del rapporto tra qualità degli apprendimenti e sviluppo della qualità dell’insegnamento”. Nello scenario che si apre, il ruolo dell’Invalsi può essere prezioso, a condizione però che nel contempo maturi una cultura e una pratica della valutazione coerente con quanto la ricerca educativa e quella docimologica ci indicano ma che a tutt’oggi non sono ancora patrimonio attivo delle nostre istituzioni scolastiche. E, a mio avviso, è anche su questo terreno che potremo misurare l’iniziativa del nuovo ministro a cui va – come penso – l’augurio di tutta la scuola militante.

I paradossi del referendum bolognese

I paradossi del referendum bolognese

di Giancarlo Cerini [1]

 

Se la somma continua a fare “zero”

Gli esiti del referendum bolognese sui finanziamenti pubblici (comunali) alle scuole dell’infanzia paritarie lascia le cose (quasi) come prima. E’ probabile che il Comune di Bologna mantenga il proprio (modesto) sostegno alle scuole private (1 milione di euro, rispetto ai 36 investiti nelle proprie strutture pubbliche), che “pesa” meno del 10% del costo pro-capite di un alunno della scuola paritaria). E’ possibile che restino le liste d’attesa dei bambini che chiedono invano un servizio statale o comunale (paradosso di una regione che già oltre 30 anni fa aveva raggiunto la piena scolarizzazione per la fascia di età tra i 3 e i 6 anni). Infatti è quasi certo – a meno di svolte negli indirizzi politici nazionali – che lo Stato non interverrà per “sanare” un deficit di offerta di servizi educativi statali.

I referendari potranno gioire pensando di aver vinto una battaglia (almeno) di principio, ed è certo così; ma lo schieramento “avverso” potrà dire che il 28% dei votanti non è tale da poter sconvolgere una linea politica e pedagogica (quella del sistema integrato pubblico-privato) che trova ampio consenso di opinione pubblica e consente di garantire elevati standard di qualità, assicurando comunque la centralità del servizio pubblico, che a Bologna veleggia sul 77% di copertura, rispetto al 68% nazionale, proprio in virtù dello storico intervento del Comune.

Eppure qualche scricchiolio si avverte nel sistema locale e nazionale della scuola dell’infanzia. I vincoli di bilancio non consentono di far fronte alla domanda crescente di scuole per i piccoli. I costi, anche per gli utenti, si stanno elevando ed allontanano famiglie e bambini da un servizio che ormai consideravamo un diritto universale…

 

La scuola materna statale: “vorrei ma non posso”

Lo Stato da alcuni anni non ha più un proprio piano di sviluppo di nuove istituzioni (ed il caso è clamoroso anche a Bologna) e quando estende il servizio assegna solo metà del personale necessario per far funzionare a pieno tempo una sezione: sono centinaia le sezioni a turno antimeridiano in Emilia-Romagna, Toscana, Marche, che riducono l’ampiezza del servizio e costringono ad organizzazioni stiracchiate anche ricorrendo ad apporti esterni (finanziamenti locali, cooperative, ecc.). Manca una regia nazionale della scuola dell’infanzia statale, dopo la stagione gloriosa del “Servizio scuola materna” operante presso il MIUR nel trentennio 1970-2000; langue la formazione del personale docente e non è detto che le pur meritevoli Indicazioni per il curricolo/2012 siano capaci di accendere la scintilla di un rilancio pedagogico della scuola dell’infanzia statale.

Tab. 1 – Scuole dell’infanzia e alunni per tipo di gestione. A.s. 2009-2010

  Totale Scuole

statali

% Scuole paritarie pubbliche % Scuole

paritarie

private

%
Scuole      24.221   13.553 56,0     1.841     7,6     8.094    33,4
Alunni 1.680.987 993.226 59,1 153.031     9,1 501.668    29,8

Fonte: MIUR, La scuola in cifre 2009-2010, Sistan, Miur, 2010.

 

Le antiche virtù della scuola comunale

Per i Comuni gli scenari non sono migliori. La legge non considera le specificità del settore educativo, per cui il personale docente soggiace ai vincoli di bilancio ed alle ferree regole del patto di stabilità (che, ad esempio, impediscono di sostituire i dipendenti in pensione e di stabilizzare il personale precario). E’ però evidente che la scuola non è equiparabile ad un mero servizio amministrativo e questo vincolo (se non rimosso) potrebbe costringere molti Enti Locali a dismettere la gestione diretta delle scuole, considerandole un onere improprio e non la testimonianza di un patrimonio storico-pedagogico di inestimabile valore, come dimostra -ad esempio – l’esperienza di Reggio Emilia.

Occorrono decisioni legislative conseguenti, per evitare che i Comuni siano piegati obtorto collo verso soluzioni e istituzionali (come il passaggio dalla gestione diretta municipale a quella tramite “istituzioni” o “aziende di pubblico servizio”, che lasciano l’amaro in bocca e a molti appaiono  l’anticamera della privatizzazione, con la possibile trasformazione degli enti gestori in Fondazioni o addirittura in Società per Azioni.

La presenza di un segmento comunale (che oggi è pari a circa il 9,1% del settore con 1.841 scuole) è indice di pluralismo e di vitalità, anche per mantenere aperte interessanti orientamenti pedagogici, come quelli legati alla prospettiva “0-6 anni” di forte attenzione ai temi della cura educativa, della relazione, dell’identità, della gradualità e “lentezza” dei processi di crescita. Bene hanno dunque fatto alcuni Comuni, come quello di Napoli, che hanno forzato al massimo l’interpretazione della norma per consolidare i  propri servizi educativi e stabilizzare il personale.[2]

 

Il privato “sociale” per l’infanzia

Il settore privato ha un suo posizionamento storico, esprime una presenza valoriale legata a comunità parrocchiali o ordini religiosi, e mantiene – nel settore dell’infanzia (e primaria) – una forte caratterizzazione sociale e popolare, diversamente da altri comparti del settore paritario che esibiscono un più marcato carattere elitario quando non spiccatamente mercantile. La legge sulla parità, la n. 62/2000 (cd. Berlinguer), ha imposto l’esigenza di garantire alcuni standard di funzionamento, pari a quelli previsti dallo Stato (ad esempio in materia di organico del personale, di numero massimo di allievi, di forme di sostegno e di coordinamento pedagogico). La quota finanziaria che lo Stato eroga alle scuole paritarie, non è dovuto, ma rappresenta il riconoscimento del contributo del sistema paritario all’ampliamento dell’offerta formativa di scuole dell’infanzia (e primarie). Tuttavia, i gestori  delle scuole paritarie vorrebbero che dal riconoscimento della parità, ne venisse anche una sorta di copertura finanziaria integrale al funzionamento della scuola privata.

 

Pubblico e privato nell’immaginario giuridico e “mediatico”

Quella del finanziamento dello Stato ai privati non era la questione in gioco a Bologna (il quesito referendario verteva su un modesto e supplementare finanziamento comunale alla scuola paritaria privata), ma vale la pena sintetizzare alcune considerazioni[3]:

a) il sistema paritario non è tout court pubblico, perché – come afferma la legge 62/2000 – esso si articola in scuole paritarie pubbliche (come ad esempio quelle degli enti locali) e scuole paritarie private (come ad esempio quelle degli ordini religiosi e delle comunità parrocchiali);

b) il sistema è sì integrato, ma la legge lo denomina “sistema nazionale di istruzione”, non pubblico; anche se riconosce alle scuole paritarie lo svolgimento di una funzione pubblica, qualora rispetti determinati requisiti (soggetti a controllo da parte dello Stato). La parità attrae il privato nella sfera pubblica, ma non fino ad annullarne le differenze;

c) c’è dunque una differenza pubblico-privato che non può essere sottaciuta, ad esempio nella facoltà concessa ai gestori di “testimoniare” senza remore la propria identità e ispirazione spirituale (infatti le scuole paritarie devono dotarsi di un proprio PEI – progetto educativo di istituto – formula ricompresa invece, per le scuole statali, nel concetto di POF previsto dal regolamento sull’autonomia scolastica);

d) lo strumento della convenzione pubblico-privato è importante per ampliare le opportunità, tuttavia se ad un genitore che chiede la scuola statale o comunale, si offre come equivalente la scuola privata (anche se a prezzi calmierati) si compie una forzatura (e questo certamente potrebbe avvenire a Bologna per smaltire le liste d’attesa). Insomma, educare non è come sottoporsi ad una radiografia…

 

A Bologna, dopo A e B, occorre C

Ecco perché il referendum bolognese lascia le cose invariate: riconferma le posizioni di principio (pubblico è diverso da privato, e la gente è affezionata a tale distinzione), richiede di aprire sezioni statali e comunali, ma se tutto ciò si fa a somma zero (cioè togliendo i pochi fondi al sistema paritario), si finisce con il danneggiare un’altra parte dell’utenza che dovrà pagare rette più elevate, soprattutto l’utenza più popolare, come ricorda l’economista della sussidiarietà Stefano Zamagni.

Insomma, al di là  di A e B (cioè si o no ai finanziamenti pubblici) che incrociano inutilmente i ferri, servirebbe una ipotesi C, come ho scritto altrove[4], cioè un consistente aumento delle risorse a disposizione dell’intero sistema educativo prescolastico. In tal modo si potrebbe rispettare il principio della libertà di scelta dei genitori, tenendo conto della previsione costituzionale per cui la Repubblica ha l’obbligo di istituire scuole statali per “ogni ordine e grado” dell’istruzione.

 

Ce lo chiede l’Europa…

Occorre dunque riprendere il filo delle politiche pubbliche verso l’educazione dell’infanzia, come ci prescrivono ormai da molti anni l’Unione Europea e l’OCSE. Nei documenti internazionali si osserva un processo di avvicinamento dei segmenti 0-3 e 3-6, sotto la comune dicitura di ECEC (cioè educazione e cura per l’infanzia) per rimarcare il nesso inscindibile tra crescita, benessere, sviluppo sociale e apprendimento.

L’Europa ha indicato, in ET 2020, il benchmark strategico del 95% di scolarizzazione per i bambini dai 4 anni fino all’accesso all’istruzione primaria (obiettivo già raggiunto dall’Italia, ma che ora è messo a rischio) ed il 33% di copertura del servizio educativo per i bambini da 0 a 3 anni (e qui siamo lontanissimi, addirittura al di sotto del 50% dal traguardo). Nella Direttiva 66/2011 della Commissione Europea si ricorda che l’investimento nell’educazione della prima infanzia è garanzia di coesione sociale e democratica e di pari opportunità [COM (2011) 66 del 17-2-2011 – “Educazione e cura della prima infanzia: consentire a tutti i bambini di affacciarsi al mondo di domani nelle condizioni migliori”]. La direttiva impegna i paesi membri ad adottare politiche conseguenti, inserendole nella prospettiva del contrasto alla dispersione, da ridurre al di sotto del 10% (attualmente in Italia al 18%), e della emancipazione dalle condizioni di povertà. Il documento europeo presta particolare attenzione anche alla questione dei costi (più elevati se i servizi sono privati) e dell’efficacia dei finanziamenti, auspicando un “giusto equilibrio tra investimento pubblico e privato”, mentre sul modello pedagogico raccomanda un profilo educativo capace di “soddisfare il complesso delle esigenze dei bambini (cognitive, affettive, sociali e fisiche)”, anche grazie alla collaborazione interistituzionale, al coinvolgimento dei genitori e, soprattutto, alla qualificazione del personale.

 

..e l’OCSE ci ricorda che…

Di tenore simile sono le previsioni contenute nei Report dell’OCSE pubblicati negli ultimi anni, con una serie di documenti – denominati “Starting Strong” (“Partire alla grande”) – dedicati in maniera specifica proprio alle politiche educative per l’infanzia. Policy è un termine intraducibile in lingua italiana perché non si riferisce ad un generico impegno politico, ma ad azioni puntuali che si traducono in regolamentazioni, direttive, risorse dedicate, verifiche dei risultati. In Italia abbiamo poche policies (azioni politiche) e molta politica (e oggi tanta anti-politica) proprio per questa carenza nelle azioni concrete che danno un seguito alle idealità e ai progetti[5]. Disponiamo in genere buone leggi, ma ci manca poi la capacità di darvi attuazione, con impatti differenziati da regione a regione (e questo è ancora più vero per la scuola dell’infanzia e gli asili nido).

Il più recente paper dell’OCSE, Starting Strong III,[6] raccomanda ai paesi membri di:

– mettere al centro degli impegni la qualità degli obiettivi e delle regolamentazioni;

– definire e sviluppare standard educativi e curricolari;

– migliorare la qualificazione, la formazione e le condizioni di lavoro del personale;

– coinvolgere maggiormente le famiglie e le comunità locali.

Visti dall’osservatorio italiano questi punti dovrebbero convincere a riprendere la felice stagione degli investimenti sui servizi educativi, attraverso politiche espansive più efficaci. Altre ricerche OCSE attestano che i paesi che sono stati capaci di dedicare maggiori risorse all’educazione dell’infanzia ne hanno tratto un beneficio diretto, ad esempio nei migliori livelli di apprendimento registrati a 15anni (una “buona” scuola dell’infanzia vale +53 punti Pisa, dieci anni dopo)[7].

 

Una volta tanto, se ce lo chiede l’Europa (ma anche la comunità internazionale), facciamolo!



[1]    Giancarlo Cerini è direttore di “Rivista dell’istruzione”, il bimestrale edito da Maggioli dedicato ai temi dell’istruzione e della governance del sistema educativo. Nel numero 4/2013 (luglio-agosto 2013) verrà dedicato ampio spazio a dati, commenti e orientamenti in materia di servizi educativi per l’infanzia, con interventi di G.Cerini, L.Campioni, F.Cremaschi, G.Zunino, S.Benedetti, L.Lega e altri.

[2]    La Corte dei Conti ha riconosciuto la correttezza del comportamento del Comune di Napoli nell’assunzione di 300 docenti a tempo determinato, per poter garantire la continuità del servizio educativo. Tra le (dure) ragioni della spending review (patto di stabilità) e il diritto all’educazione da salvaguardare, così come previsto dalla Costituzione, ha scelto quest’ultimo principio (da una comunicazione di Anna Maria Palmieri, Assessore all’istruzione del Comune di Napoli).

[3]    Un’analisi del profilo giuridico delle scuole non statali è riportata nella voce “parità” (curata da G.Cerini) in S.Auriemma (a cura di), Repertorio 2013. Dizionario normativo della scuola, Tecnodid, Napoli, 2013.

[4]    G.Cerini, Referendum a Bologna, i finanziamenti alle scuola tra proposta A e opzione B,  in www.leggioggi.it (24-5-2013).

[5]    Una rigorosa analisi dei miti e dei riti della politica scolastica italiana è compiuta da M.G.Dutto, Acqua alle funi. Per una ripartenza della scuola italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2013.

[6]    Starting Strong III: A Quality Toolbox for Early Childhood Education and Care, 2012, Executive Summary.

[7]    OECD (2012), Education Today 2013: The OECD Perspective, OECD Publishing

Piano personalizzato di sostegno

PER L’APPLICAZIONE DELL’ART. 14 L. 328/2000 E DELLA L.162/98 PER L’ATTUAZIONE DEI PIANI PERSONALIZZATI DI SOSTEGNO ALLE PERSONE CON DISABILITA’ GRAVE

Il Progetto Individuale (previsto dall’art. 14 della L. 328/00) rappresenta la definizione organica degli interventi e servizi che dovrebbero costituire la risposta complessiva ed unitaria che la rete dei servizi – a livello assistenziale, riabilitativo, scolastico e lavorativo – deve garantire alle persone con disabilità per il raggiungimento del loro progetto di vita.

Il Progetto Individuale, nella sua definizione e realizzazione, è un processo dinamico che deve sapersi adattare alle necessità delle persone che mutano nelle diverse fasi della vita.

Deve, quindi, garantire continuità nei processi, soprattutto in occasione di quelle fasi di passaggio avvertite come particolarmente critiche e spesso di abbandono.

Una presa in carico globale richiede un approccio multidimensionale e, quindi, è necessaria un’équipe multi-professionale  che sia integrata da figure professionali specifiche, relativamente agli ambiti di vita della persona con disabilità.

Gli interventi ed i servizi previsti vengono raccolti in un Dossier Unico, curato dall’assistente sociale di riferimento, nel ruolo di case manager. Prerequisito per l’attivazione del percorso di presa in carico è l’accertamento della condizione di disabilità, attualmente disciplinato dalla Legge n. 104/1992.

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