Istruzione. Il ritardo delle donne

da La Stampa
Linda Laura Sabbadini

Nel nostro Paese in tanti sono convinti che le donne siano molto istruite. Ma è veramente così? Purtroppo no e soprattutto se ci confrontiamo con l’Europa. Le donne residenti in Italia che hanno il diploma o la laurea sono solo il 63,8%, in Europa 15 punti di più. Voi penserete che sono le anziane che abbassano il livello, ma in realtà le anziane da questo conteggio sono escluse, stiamo parlando delle donne tra 25 e 64 anni. E’ vero lo scarto con l’Europa cresce con l’età delle donne, si passa da 12 punti tra le 35-44enni a 22 tra le 55-64enni. Ma continuiamo ad avere 8 punti di scarto anche tra le giovani. Il che vuol dire che questo problema viene da lontano, ma gli altri Paesi europei sono molto più avanti nella sua risoluzione. Peggio di noi solo Malta e Portogallo. Come noi solo la Spagna.
Quindi, anche se le donne sono più istruite degli uomini dobbiamo essere coscienti che abbiamo un problema serissimo, troppe donne con basso titolo di studio. Non si tratta semplicemente di raddrizzare la situazione in termini di scelta degli indirizzi di studio da parte delle donne, favorendo quelli di tipo scientifico, meno richiesti in ambito femminile. Il problema è più grave. Va estesa la partecipazione alla formazione.
E questo per tre motivi. Primo: in Italia i bassi tassi di occupazione femminili sono fortemente influenzati dal titolo di studio. Le donne laureate hanno tassi di occupazione più alti e si sono difese meglio durante la crisi. Secondo, avere un basso titolo di studio porta più facilmente a processi di analfabetismo di ritorno, come sottolineava egregiamente Tullio De Mauro. E l’analfabetismo di ritorno rende più vulnerabili le persone che ne sono coinvolte. Terzo, chi ha basso titolo di studio è anche maggiormente escluso dall’uso delle nuove tecnologie e avrà molte più difficoltà nel vincere le nuove sfide nel mercato del lavoro, indotte dalle innovazioni tecnologiche. Sarà quindi più esposto alla caduta in povertà.
Se consideriamo le laureate e le diplomate distintamente, l’Europa presenta più laureate che diplomate tra 25 e 34 anni (45% e 40%) e una quota pari tra 35 e 44 anni (41%), l’Italia no. Sono meno (e di molto) le laureate rispetto alle diplomate.
Su questi dati poco incoraggianti incide il peso delle donne straniere, è vero, ma anche gli altri Paesi avanzati ne hanno e in molti casi più di noi. Incide certamente anche una maggiore criticità per le donne del Sud.
Il problema è che molte donne, come molti uomini pensano che non sia importante investire sul titolo di studio, considerato spesso un “pezzo di carta”. Questa idea va combattuta, perché è falsa, soprattutto per le donne.
Sono in primis loro che devono prendere coscienza che più formazione significa più opportunità su tutti i fronti, più libertà femminile, più autonomia. La formazione è garanzia di democrazia, tutti devono avere la capacità di orientarsi nelle scelte di una società sempre più complessa che richiede a ognuno competenze che ai tempi delle nostre nonne erano impensabili. E la politica deve capire che un intervento serio non è più rimandabile. Bisogna finirla con i messaggi che svalorizzano le competenze e dire le cose come stanno: bisogna studiare di più, e più a lungo. Il riscatto delle classi sociali più basse, e anche quello delle donne parte dall’investimento in formazione e cultura. —i scelta degli

Liti, denunce e 6 scuole a testa la vita impossibile dei presidi

da Il Messaggero

Presidi tuttofare, che dirigono le scuole senza docenti di ruolo in cattedra e senza personale amministrativo in segreteria. Ma la scuola, nonostante le difficoltà, non può fermarsi: per ogni preside, infatti, ci sono 1200 studenti in classe a far lezione e altrettante famiglie a cui dare risposte. E infatti guai a chi sbaglia: ogni anno fioccano i ricorsi che trascinano in tribunale i dirigenti scolastici. Un quadro decisamente complicato, quello che emerge dal dossier La scuola che soffre/1, emergenza dirigenti scolastici di Tuttoscuola, testata da quarant’anni specializzata nell’informazione educativa e sui temi dell’istruzione. Lo studio (consultabile online) mette in luce le serie difficoltà in cui si trova la scuola, partendo proprio dal ruolo dei presidi sempre più a rischio burn out, stressati da mille responsabilità e altrettanti compiti quotidiani.

I CARICHI DI LAVORO

Il loro impegno, infatti, negli anni è cambiato notevolmente, soprattutto nei carichi di lavoro: dal 2000 ad oggi il numero degli alunni nella scuola statale è rimasto sostanzialmente invariato, così quello degli insegnanti e delle sedi scolastiche sul territorio. Ma, come emerge dal dossier, nello stesso periodo il numero di dirigenti scolastici è stato drasticamente ridotto, del 35%. La riduzione è stata parzialmente colmata dalla recenti immissioni in ruolo, dopo l’ultimo concorso. Ma ancora non è sufficiente: oggi infatti un dirigente scolastico deve occuparsi in media di 1.194 studenti, vale a dire il 55% in più rispetto ai 769 di 19 anni fa.
Ci sono poi i casi limite in cui al preside vengono chieste missioni impossibili. È il caso, ad esempio, del dirigente scolastico Vito Pecoraro, recordman italiano ma probabilmente anche europeo: da settembre 2018 è a capo dell’istituto con più studenti in Italia: l’alberghiero Pietro Piazza di Palermo con 2.840 studenti. È stato poi nominato reggente dell’istituto comprensivo Maredolce con 1.062 studenti per 55 classi. In totale, quindi, 175 classi e quasi quattromila studenti dai tre ai 18 anni. Numeri da capogiro soprattutto se paragonati alla scuola finlandese, spesso presa ad esempio come modello di istruzione efficiente: va sottolineato infatti che in Finlandia, per legge, un preside non può seguire più di 500 studenti. Non solo studenti, un preside in Italia coordina, in media, 160 dipendenti tra docenti e personale tecnico e amministrativo: si tratta di 56 persone in più rispetto a quanto avveniva 18 anni fa (oltre il 50% di aumento). Presiede 50 consigli di classe ogni anno ed è responsabile in media di più di sei sedi scolastiche dislocate anche a diversi chilometri di distanza tra loro, eppure deve essere presente fisicamente in ognuna di esse. Nel 2000 le scuole da presidiare erano 4, anche in questo caso l’aumento è stato del 50%.

LA SICUREZZA

Non deve essere solo presente nei vari plessi ma deve esserne anche responsabile della sicurezza degli edifici e, soprattutto, di tutte le persone che ogni giorno ci trascorrono molte ore come gli alunni, i docenti e il personale Ata. A proposito di responsabilità, il dirigente assume anche la rappresentanza legale dell’istituzione scolastica: che cosa significa? Che ogni anno subisce 5 o 6 azioni legali, per bocciature di studenti e vertenze sindacali. Una presenza in prima linea, a 360 gradi: Tuttoscuola ha contato infatti 129 competenze che interessano il dirigente scolastico dalla rappresentanza legale alle relazioni sindacali, dalla privacy alla responsabilità civile, contabile ed erariale, alla valutazione e al controllo.

LA RETRIBUZIONE

A fronte di tutti questi impegni, lo stipendio è adeguato? Sembra proprio di no: i dirigenti scolastici, con il nuovo contratto appena firmato, guadagnano 67 mila euro all’anno, i dirigenti amministrativi della pubblica amministrazione 100 mila, i dirigenti del settore privato in media 107 mila euro. E i quadri? Circa 54 mila euro, più o meno come i dirigenti scolastici.
Lorena Loiacono

Diplomati magistrale, arriva la sentenza di merito del Tar Lazio

da La Tecnica della Scuola

Arrivano da fonti accreditate notizie freschissime sul ricorso dei diplomati magistrali. Si apprende che dopo l’udienza del 16 luglio il Tar Lazio, in data 13 settembre ha emesso la sentenza di merito (sentenza N. 10969/2019 REG.PROV.COLL. – N. 10617/2016 REG.RIC.).

Con tale sentenza – si legge nella nota – il TAR Lazio, rigettando il ricorso, conferma l’orientamento assunto sino ad oggi.

In tali decisioni è stato infatti chiarito non soltanto che la pretesa dei diplomati magistrali con titolo conseguito entro il 2001/2002 di essere inseriti in GAE avrebbe dovuto essere fatta tempestivamente valere con presentazione di istanza di inserimento in GAE e comunque mediante impugnazione, al più tardi, del DM del 16 marzo 2007, ma che il diploma magistrale conseguito nel 2001/2002 non è da ritenersi idoneo all’insegnamento.

In conclusione, il ricorso e i successivi motivi aggiunti vanno respinti.”

Tocca adesso al Miur assumere i provvedimenti conseguenti e indicare le procedure da attuare.

Un’altra pagina da scrivere sul regionalismo

Un’altra pagina da scrivere sul regionalismo

di Gian Carlo Sacchi

Se il governo giallo-verde ha consentito che si alzasse la voce sulle autonomie differenziate, arrivando fino alla stesura di bozze di intesa con le tre regioni che per prime ne avevano fatto richiesta, e poi non se n’è ha fatto nulla, quello giallo-rosso inizia già con molto fair play. Nei punti programmatici si parla di completamento del processo di autonomia differenziata, anche se è più facile lasciar perdere quello che non si aveva nemmeno iniziato che completarlo; il nuovo ministro per gli affari regionali dopo aver ribadito il solito refrain della salvaguardia del principio di coesione nazionale e di solidarietà si è riproposto di fare il giro delle regioni richiedenti, un giro lungo stando ai movimenti che si vedono in periferia, al termine del quale forse potrà essere più facile far leva sulle contraddizioni che si evidenziano nei vari territori per arrivare a confermare il divide et impera del centralismo.
La scuola in questo Paese risponde ai principi della Costituzione, ma la sua qualità è fortemente differenziata; tale differenza tuttavia non costituisce un pericolo per i suoi fondamenti, ma rappresenta le diverse situazioni territoriali, che il livello nazionale non è in grado di amministrare con efficienza, efficacia, economicità ed oggi anche equità. Molte ricerche testimoniano quanto l’autonomia differenziata sia già in atto ed il recupero delle situazioni di criticità non possa avvenire attraverso le strutture periferiche dell’amministrazione, ma dalla collaborazione dei territori, secondo principi di sussidiarietà e solidarietà. Non si tratta infatti di aumentare il potere delle regioni in modo da farne un nuovo centralismo, ma di rendere il servizio più aderente alle esigenze dei territori specificandone delle funzioni in relazione al contesto sociale ed economico, valorizzando da parte delle amministrazioni locali l’autonomia delle scuole, pur tutelata dalla Costituzione, ma che debbono poter compiere scelte sul piano dei curricoli e della gestione delle risorse umane e finanziarie. Solo così si potrà sottoporle ad una valutazione autentica e saranno di una qualche utilità le prove standardizzate a carattere nazionale, altrimenti la compilazione di tutti i rapporti cui sono sottoposte avranno solo una funzione cosmetica e si fermeranno ad un adempimento burocratico.
Potrebbe essere l’occasione da parte del Governo di porre la questione di maggiori autonomie regionali in un processo di riforma costituzionale messa in atto dalla riduzione dei parlamentari. In tal modo si placherebbe il conflitto tra regioni, aumentando il decentramento delle competenze statali, peraltro avviato dal D.Leg.vo 112/1998 e 216/2010, quest’ultimo in relazione al federalismo fiscale. Già nel 2009 fu predisposta una bozza di accordo sull’applicazione del nuovo titolo quinto della Costituzione in questo ambito, ma naufragò per opposizione del ministero e più di recente la Conferenza delle Regioni ha dichiarato di aderire all’idea di autonomia differenziata purchè sia individuata una procedura unitaria, un’occasione che il governo poteva far propria per rendere più trasparente e facile il percorso, anziché produrre tre bozze di intesa molto complicate e che hanno alimentato la diffidenza delle altre, nonché una caotica discussione nell’opinione pubblica e in coloro che con pochi slogan hanno svolto un’azione di contrapposizione.
Certo per evitare discriminazioni occorrerebbe definire i livelli essenziali delle prestazioni, peraltro previsti dalla Costituzione, che tutti si limitano ad invocare, ma di cui nessuno si occupa; ci sono precedenti nei settori della sanità e del welfare che rimangono servizi pubblici universali, dove i ministeri competenti hanno discusso con le regioni i livelli essenziali di assistenza, mentre per l’istruzione la difesa della scuola pubblica legittima la gestione statale e quindi basta quello che decide il ministero. Le funzioni sono già state stabilite dai predetti decreti e per quanto riguarda i fabbisogni standard la spesa la si può ricavare dai dati del bilancio dello stato e dalla corte dei conti; nei servizi per l’infanzia in attesa che vada a regime il decreto 65/2017 si era iniziato ad inviare questionari ai comuni. I costi standard sono già in atto nelle università, con decreto del ministero dell’istruzione ed una precisa analisi è stata compiuta nell’ambito delle scuole paritarie, che a sua volta ha dato origine ad un’apposita proposta di legge. Tali livelli per il sistema di istruzione e formazione sono stati individuati dal D.Leg.vo 226/2005.
L’applicazione dell’art. 116 della Costituzione non è certo una fuga spericolata, è ben protetta nell’ambito della Carta fondamentale, partendo dall’art. 5 dove si proclama la Repubblica una e indivisibile che promuove le autonomie locali e le esigenze di autonomia e decentramento, all’art. 117 che definisce le competenze statali, regionali e concorrenti, ma soprattutto all’art. 119 che stabilisce per regioni ed enti locali il rispetto degli equilibri di bilancio e dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento europeo. Le fonti di finanziamento, prosegue il dettato costituzionale, devono consentire di finanziare integralmente i servizi loro attribuiti attraverso la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibile al loro territorio. Lo Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per quei territori con minore capacità fiscale per abitante.
E’ centrale coniugare il principio di differenziazione con quello di leale collaborazione e quest’ultimo comporta il rafforzamento dei meccanismi di raccordo e confronto con il governo assicurato dal sistema delle Conferenze.
Non si tratta dunque di maggior potere ma di efficientamento del servizio e per capire meglio quale sia la preoccupazione nella gestione del personale scolastico delle richiamate bozze di intesa con Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, basti vedere il documento della Conferenza delle Regioni del luglio 2019. Si tratta infatti di superare la dicotomia prodotta dal DPR 233/1998 tra la competenza regionale per la programmazione della rete scolastica e quella dell’amministrazione nell’assegnazione e distribuzione del personale. Di qui la L 128/2013 che annuncia un decreto ministeriale per definire l’ottimale dimensionamento delle istituzioni scolastiche e l’assegnazione del dirigente e del direttore dei servizi amministrativi. Le regioni chiedono di condividere la programmazione degli organici in coerenza con le esigenze dei singoli territori, per sopperire ad esempio ai disagi delle così dette “aree interne” o per far funzionare le scuole tutto il giorno e tutto l’anno, nonché i fenomeni di difficile reperimento dei docenti che costantemente ormai ritardano l’avvio dell’anno scolastico. Sono queste principalmente le richieste delle tre regioni sopra citate, con Veneto e Lombardia che vogliono il passaggio del personale e l’Emilia Romagna che ricerca un accordo con l’USR.
Il problema del personale è quello più controverso ed ha suscitato la più ostile presa di posizione, ma bisogna riflettere sul fatto che se i curricoli devono essere flessibili, almeno in parte, come prevedono le indicazioni nazionali del primo e secondo ciclo, allora anche la gestione degli organici deve poter assecondare tale tendenza, sia a livello di singolo istituto (DPR 275/1999 e percentuali di flessibilità) o regionale (L.53/2003), sia nei tanti casi di reti di scuole, prestiti di docenti, e di rapporti con realtà esterne e del mondo del lavoro. Un conto sarà la dipendenza dallo Stato: lo stato giuridico ed il contratto di lavoro nazionale, che comprende anche gli accordi sulla mobilità, ma un altro potrà essere la così detta dipendenza funzionale, già evocata in passato e poi caduta nell’oblio, dalle regioni, comprese le modalità di reclutamento, la gestione e l’incentivazione economica: il tutto ovviamente d’intesa con le autonomie scolastiche. La Corte Costituzionale nel 2004 aveva dichiarata fondata una doglianza dell’Emilia Romagna circa il mancato coinvolgimento della regione nella definizione delle dotazioni organiche e della loro distribuzione tra le scuole. La questione non ebbe seguito in quanto per dare continuità al servizio la stessa corte rilevava la mancanza di strutture regionali in grado di svolgere quella funzione. E’ chiaro che l’assegnazione del predetto personale non è “norma generale”, ma “materia concorrente” e quindi spetta alle regioni medesime di regolamentare con una propria disciplina e realizzare attraverso una propria struttura.
Un’altra questione che si potrà risolvere in termini di maggiore autonomia è quella dell’integrazione tra istruzione e formazione professionale che ancor più necessita di avvicinare i giovani alle opportunità occupazionali del territorio, assicurando il diritto effettivo degli studenti alla scelta tra i diversi sistemi, statale e regionale, magari pensando ad un unico canale, comprendendovi l’apprendistato. Il livello decentrato sarà quello più adatto a potenziare l’istruzione tecnica superiore, da porre in relazione con le autonomie universitarie del territorio, per corrispondere alla domanda sempre più diffusa di alte competenze soprattutto nel campo scientifico-tecnologico.
Diritto allo studio e edilizia scolastica potranno trovare in tale autonomia maggiori risorse con fondi dedicati in tutti i gradi della formazione.
In queste nuove intese andrà considerata l’educazione degli adulti, in quanto non si tratta soltanto di revisione dei CPIA, ma di assumere la prospettiva dell’apprendimento permanente come ce lo propone la L. 92/2012. Si costruiranno reti regionali di soggetti impegnati su diversi fronti: dal conseguimento dei titoli di studio, alla riconversione professionale, all’invecchiamento attivo, considerando non solo le competenze formali, ma anche quelle non formali ed informali per la cui identificazione e certificazione sono stati previsti anche qui i livelli essenziali delle prestazioni (D.Leg.vo 13/2013).
Autonomia, una parola che entra nel vocabolario amministrativo all’inizio degli anni novanta del secolo scorso con la riforma degli enti locali; da allora tutti gli enti di governo del territorio avrebbero dovuto costituire un “sistema” delle autonomie a livello locale. Si disse che in quell’orizzonte la scuola, pur essendo legata al sistema dell’istruzione nazionale, non era un terminale territoriale dello stato, ma il suo progetto educativo ed il curricolo di istituto dovevano garantire da un lato la crescita personale, culturale e professionale degli studenti e dall’altro il contributo allo sviluppo del territorio in cui operava e del quale era parte integrante. Ma i poteri per tutto questo si limitavano alla sola partecipazione e perlopiù delle componenti strettamente legate alla così detta comunità educante, per cui tutta la parte gestionale rimaneva fortemente condizionata dall’apparato amministrativo anche quando il contesto richiedeva un certo adattamento alla realtà e diversificazione dell’offerta.
Fin qui si è dimostrata poca sensibilità alla revisione degli organi di governo interni di una realtà veramente autonoma votata all’autodeterminazione (la stagione degli statuti è tramontata), così come a livello territoriale oltre alle reti di scopo andrebbe inserita la rappresentanza delle autonomie scolastiche all’interno dell’organizzazione regionale (delle associazioni di scuole autonome si è parlato per un po’, ma poi più nulla), fino ad arrivare ad un consiglio nazionale delle scuole autonome che le riunisca e le faccia diventare interlocutori diretti della politica senza l’intermediazione ministeriale.
Intanto che il ministro Boccia mette in calendario gli incontri con i presidenti delle tre regioni con le quali due governi precedenti avevano prefigurato un’intesa, ma altre hanno compiuto atti nella direzione di maggiore autonomia, così da arrivare ad una decina di richieste, quelle a statuto speciale si riuniscono per ribadire le loro prerogative e condividere una piattaforma comune nel confronto con lo Stato. Il giro sarà lungo, come si è detto, e speriamo che non si perda per strada, perché da deputato aveva evocato apertamente il rischio di divisione, così come il suo collega preposto ai problemi del sud, mentre Ilvo Diamanti, commentando una ricerca Demos sull’argomento, ha evidenziato che 6 elettori su 10, indipendentemente dall’appartenenza politica, considera importante concedere maggiore autonomia alle regioni, rispetto allo stato centrale verso il quale si nutre sfiducia. Il provvedimento piace molto al nord, ma anche al centro e al sud si conferma largamente positivo. Siamo pronti per scrivere una nuova pagina sul regionalismo.