Disabilità: “Deleghe restano alla Presidenza del Consiglio”

Redattore Sociale del 09.09.2019

Disabilita’, l’annuncio di Conte: “Deleghe restano alla Presidenza del Consiglio” 

Erano state proprio le Federazioni delle persone con disabilità, FISH e FAND, a chiederlo. “Dobbiamo coltivare il progetto del codice unico della disabilità promuovendo politiche non meramente assistenziali, ma orientate all’inclusione”.

ROMA. “Massima attenzione sarà riservata al tema, particolarmente sensibile, della disabilità, un tema a me caro”. Lo assicura il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel suo discorso oggi alla Camera, per chiedere la fiducia sul nuovo esecutivo giallorosso. Secondo il premier “occorre realizzare una razionale riunificazione normativa della disciplina in materia di sostegno alla disabilità e alla non autosufficienza”. “Dobbiamo coltivare il progetto del codice unico della disabilità, promuovendo politiche non meramente assistenziali, ma orientate all’inclusione sociale dei cittadini con disabilità e al pieno esercizio di una cittadinanza attiva” sottolinea Conte. Intervenendo in aula Conte ha informato il Parlamento “che le deleghe sulla disabilità saranno in capo direttamente alla Presidenza del Consiglio”. Erano state proprio le Federazioni delle persone con disabilità a chiedere che questo accadesse in assenza di un ministero specifico sulla disabilità come nel precedente governo. 

La settimana scorsa, infatti, il presidente del Consiglio aveva incontrato FISH e FAND, per una consultazione ufficiale. Le federazioni gli hanno presentato le principali istanze ed emergenze, che non hanno ancora ottenuto adeguate e complessive risposte. “Al professor Conte abbiamo riportato come l’esperienza di questi anni ci porti ad affermare che per giungere alla reale attuazione della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità siano necessari da un lato una forte volontà politica e dall’altro un assetto strategico e istituzionale chiaro, senza dimenticare la necessità di un intervento di coordinamento e innovazione della normativa vigente e di adeguate risorse – spiega Vincenzo Falabella, presidente della FISH – Una regia, in sintesi, che va ricondotta alla presidenza del Consiglio. Spetta al nuovo esecutivo – prosegue – valutare se debba essere un dipartimento specifico o un’altra struttura ad occuparsi, in modo non ancillare, di disabilità. Di certo riteniamo che questo attore, oltre ad essere incardinato nelle più elevate competenze istituzionali, debba disporre di deleghe ampie, forti, chiare e di adeguate risorse per poter operare al meglio. In questo scenario il movimento delle persone con disabilità non mancherà di esprimere con responsabilità e determinazione il ruolo cui è eticamente chiamato. Da parte sua, il presidente incaricato ha confermato ed evidenziato che l’ufficialità della consultazione deriva dalla volontà di includere con priorità nell’agenda di governo i temi della disabilità per elaborare e realizzare politiche inclusive che garantiscano dignità e diritti ai Cittadini con disabilità e ai loro familiari, impegni che presuppongono, come sottolineato da Conte, un confronto diretto con i diretti interessati e chi li rappresenta”. (ec)

confrontiamoci sulla Finlandia…

USB Scuola: Caro Ministro, confrontiamoci sulla Finlandia…

Il nuovo ministro Fioramonti ha iniziato il suo mandato con dichiarazioni di un certo peso sulla necessità di innovare il sistema scolastico italiano e il modo di insegnare. Non è una novità. L’identikit del Ministro dell’Istruzione “innovativo” negli ultimi anni segue uno schema fisso con piccole varianti: dalla promessa di mirabolanti e più o meno condivisibili trasformazioni della scuola pubblica, al riferimento, quasi scontato, al modello finlandese (uno dei migliori al mondo, anche se in calo da alcuni anni nelle performance dei test OCSE PISA), per giungere alla proposta della riduzione d’orario e del dissolvimento delle discipline – strada scelta dai governo finlandese secondo il ministro – come panacea dei mali della scuola italiana.

Non possiamo in questa sede approfondire le critiche già in passato rivolte al sistema internazionale di valutazione PISA, sia in relazione alla sua capacità di testare realmente gli apprendimenti, sia per il modello statistico RASH cui è ispirato, che è stato oggetto di critiche da parte di accademici internazionali – 80 di loro hanno chiesto all’OCSE di sospendere i test, vista la contestabilità del modello che hanno alla base – sia per il suo collegamento con gli interessi delle multinazionali, sia naturalmente perché è davvero dubbio che si possano valutare sulla base di un unico modello sistemi scolastici imperniati su culture, numeri di studenti e contesti così diversi tra loro. Ma anche scegliendo di prendere per buone le graduatorie stabilite dagli OCSE PISA, rimane una questione di fondo, ovvero se quanto affermato sul modello finlandese corrisponda a realtà e se esso sia confrontabile con il nostro. Chi abbia avuto l’opportunità di osservare da vicino e farsi raccontare il sistema in questione dai finlandesi stessi sa che la scuola finlandese è suddivisa in modo diverso dal nostro: le superiori sono di 3 anni e iniziano a 16 anni, concludendosi tra 18 e 19. Tra i 18 e i 19, perché parliamo di una scuola che è organizzata non per anni, ma per corsi di 6/7 settimane da tenersi in un certo numero per anno scolastico e che, se non superati, vanno ripetuti. Si ridimensiona così anche l’idea che in Europa vadano tutti all’Università a 18 anni. Non è così, dipende dal loro impegno e dalla loro tenuta nello studio. Non siamo in grado di dire se abbiano ridotto il tempo scuola rispetto al passato, ma certo gli studenti finlandesi stanno a scuola fino alle due del pomeriggio o anche fino alle quattro. Vero è che ci stanno in un modo diverso, avendo a disposizione spazi grandi e accoglienti dove possono studiare, oltre che consulenti per le difficoltà nello studio e corsi di supporto. Hanno mense e caffetterie e le scuole garantiscono colazione e pranzo a prezzi davvero concorrenziali. Le scuole professionali dispongono di laboratori grandi, belli e aggiornati e, per capirci, una scuola superiore che ha circa 3000 studenti, può contare su un budget annuo di 3 milioni di euro da parte del governo. Già questo dovrebbe frenare chiunque dall’operare confronti immediati, visto e considerato che la scuola italiana soffre di una perenne carenza di risorse, non ha strutture adeguate ed è stata tagliata da ogni governo succedutosi negli ultimi decenni, peraltro in maniera lineare e sconsiderata.

Il ministro ha anche affermato che a scuola si dovrebbe lavorare su percorsi interdisciplinari, possibilmente in compresenza. Questa dichiarazione ci lascia straniti, visto e considerato che le riforme susseguitesi dagli anni duemila hanno distrutto le compresenze nelle scuole italiane: dall’infanzia alle superiori, che si trattasse di licei sperimentali o delle compresenze con gli insegnanti tecnico pratici e coi conversatori. È vero che in Finlandia si spinge verso corsi trasversali? Sì, è vero. Il nuovo curriculum, che andrà a regime nel 2021, prevede la presenza di corsi multidisciplinari, o meglio articolati per temi, che coinvolgano più insegnamenti. Sono però corsi più lunghi e complessi, dove i docenti delle discipline mantengono il loro numero di ore, che svolgono con altri o da soli (dandosi il cambio), dopo che siano stati superati i corsi base e si tratta di “almeno” un corso multidisciplinare l’anno, non della scomparsa delle discipline. Senza dimenticare che il curriculum in Finlandia viene rinnovato ogni 10 anni da circa 200 anni, con un complesso sistema di valutazione in cui i feedback di studenti e docenti sono essenziali.

Ci rendiamo conto che nelle interviste le idee e le considerazioni non possono che essere semplificate, crediamo anche però che ben altre siano le priorità che il ministro dovrà affrontare: la mancanza di risorse, un equo sistema di reclutamento dei docenti, che tenga conto degli anni di servizio, la questione dell’edilizia scolastica e della fatiscenza di molti edifici dove noi e i nostri studenti passiamo gran parte delle nostre giornate, la cronica mancanza di risorse, la garanzia della libertà di insegnamento messa in pericolo da alcuni discutibili provvedimenti del ministro precedente, la dispersione scolastica, il rinnovo del contratto, gli stipendi dei docenti e del personale ATA, che sono ridicoli rispetto a quelli dei loro colleghi europei, finlandesi compresi, il cui contratto va rinnovato al più presto. Per non parlare dei danni portati al nostro sistema scolastico dalla legge 107, a cominciare dall’odioso istituto della premialità introdotto col bonus merito. Sicuramente non è tra le priorità un ulteriore taglio del tempo scuola, già ridotto pesantemente dalla riforma Gelmini e dall’inserimento dell’Alternanza Scuola Lavoro, taglio che andrebbe peraltro a svantaggio di chi viene da contesti familiari culturalmente e socialmente più difficili.

L’attenzione verso altri modelli formativi è indice di apertura, curiosità intellettuale, ricerca di nuove modalità di trasmissione dei saperi e di crescita delle giovani generazioni. Da questo Dalla Finlandia si può imparare, come dai modelli scolastici di altre parti del mondo. Ma l’analisi comparata non può fare a meno di ragionare da una parte su numeri e risorse, e dall’altra sulle finalità. In questo senso occorrerebbe tra l’altro un’approfondita riflessione sulla didattica per competenze, principio sul quale si sono imperniate le riforme dei tecnici e dei professionali ormai quasi un decennio fa, ma anche il riordino del primo ciclo nel 2012: un approccio, quello per competenze, figlio di una concezione produttivistica del sapere, che oggi viene peraltro messo in discussione anche nel mondo anglosassone da cui ha avuto origine.

È anche di questi nodi che vorremmo discutere con il nuovo ministro, al quale chiederemo prestissimo un incontro, sperando di ricevere risposte diverse da quelle dei suoi predecessori.

Supplenze e precari: la scuola riapre in emergenza

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno e Claudio Tucci

Se non è un boom di supplenti poco ci manca. In coincidenza con la prima campanella dell’anno scolastico, che oggi suonerà in Piemonte e poi via via in tutte le altre Regioni fino alla Puglia il 18, migliaia di studenti italiani si ritroveranno a fare i conti di nuovo con l’emergenza professori. In un paese che dal 2015 a oggi ha assunto a tempo indeterminato circa 180mila docenti, con la promessa di sconfiggere la “supplentite”. Una malattia che appare ormai endemica. Complice il turn-over rafforzato dovuto a quota 100, che ha prodotto 45mila uscite nel comparto scuola di cui 33mila prof, al termine delle operazioni di assegnazione provvisoria (trasferimenti per rimanere vicino casa), avremo almeno 122mila supplenze (fonte Flc Cgil). Ma alcune stime sindacali arrivano a 170-200mila. Con un ulteriore rischio dietro l’angolo: riaprire un fronte con l’Europa sui precari con 36 mesi di servizio.

I motivi che rendono necessario, di anno in anno, il ricorso ai supplenti sono sempre gli stessi. Da un lato, l’incapacità di programmazione da parte del Miur e, dall’altro, un sistema di immissioni in ruolo degli insegnanti, che per metà prevede le assunzioni stabili dalle graduatorie a esaurimento e per il restante 50% dai concorsi. Dal 1999 si è dovuto aspettare il 2012 per il ritorno a selezioni ordinarie, e quelle annunciate più volte dal ministro uscente, Marco Bussetti, non sono mai partite. Nel frattempo alcune graduatorie da “a esaurimento” sono diventate “esaurite”.

Già nel 2017 il Miur aveva quantificato in 22mila i posti scoperti per assenza di candidati. Stime tuttora attuali. Su 53.627 cattedre che il Mef ha autorizzato a coprire a tempo indeterminato, infatti, allo scorso 27 agosto, risultavano andate a buon fine circa il 30% di nomine. Alla fine si ipotizza che tra i 23 e i 25mila posti restino vuoti per assenza di candidati. Le situazioni più critiche interessano medie e superiori; e soprattutto il Centro-Nord. Oltre a italiano e matematica, c’è carenza di docenti abilitati anche nelle lingue e in gran parte delle classi di concorso “tecnico-scientifiche”. Accanto a questi posti liberi e disponibili, coperti da precari storici e quasi sempre non abilitati, c’è poi l’organico di fatto: le cattedre legate, di anno in anno, al numero di studenti(ultimamente, in riduzione). Stiamo parlando di oltre 56mila disponibilità, in prevalenza sostegno, che con gli spezzoni orari spesso raddoppiano. L’anno scorso, ha ricordato di recente la Flc Cgil, 56mila posti dell’organico di fatto sono diventati 114mila supplenze fino al 30 giugno.

La novità di quest’anno è la corsa da parte di molti neolaureati o disoccupati, non abilitati, a presentare le «Mad», vale a dire domande di «Messa a disposizione», nel caso in cui i presidi si trovassero a corto di insegnanti (da Gae o concorsi) e dovessero chiamare per una cattedra. La circolare che il Miur ogni anno invia alle scuole stavolta invita i presidi a pubblicare le messe a disposizioni per rendere più trasparente il percorso di assegnazione del posto. Lo stesso documento ricorda poi l’abolizione del divieto di assegnare supplenze su posti vacanti e disponibili a personale che abbia già svolto tre anni in classe, vista l’abrogazione della norma contenuta nella Buona Scuola da parte del decreto dignità. Una mossa che, a detta degli esperti, «contrasta sia con le recenti pronunce della Corte costituzionale e della Cassazione sia con il diritto e la giurisprudenza Ue» – come avverte Sandro Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’università di Bologna – e che potrebbe spingere Bruxelles ad avviare una nuova procedura d’infrazione contro l’Italia.

A dire il vero una “pezza” il precedente governo aveva tentato di metterla: con un decreto legge approvato, salvo intese, lo scorso 6 agosto e che prevedeva una sorta di doppia corsia preferenziale, proprio per i precari di terza fascia con 36 mesi di servizio: Pas per acquisire abilitazione e cattedra attraverso una selezione agevolata. La caduta del governo Conte 1 ha messo in standby il provvedimento. Lorenzo Fioramonti (M5S), che nel passaggio dal governo gialloverde all’esecutivo giallorosso è stato promosso da viceministro a ministro dell’Istruzione, ha promesso di intervenire «entro il 2020». E molto probabilmente lo farà eliminando l’istituzione di percorsi abilitanti speciali (Pas) e lasciando a un maxi-concorso, con una corsia preferenziale riservata ai precari storici, il duplice compito di abilitare i prof e riempire i vuoti d’organico.


Stipendi e lotta alle classi pollaio le altre urgenze di Fioramonti

da Il Sole 24 Ore

di Redazione Scuola

Per sua stessa ammissione la prima urgenza che il neoministro Lorenzo Fioramonti dovrà esaminare riguarda il destino dei precari storici. Un plotone di 55mila docenti non abilitati che ogni anno accede alla cattedra attraverso le graduatorie di istituto e che l’anno dopo di fatto ricomincia daccapo. Ma se su questo punto, come raccontiamo nell’altro articolo in pagina, il lavoro è già partito e consisterà sostanzialmente in un upgrade del decreto legge preparato dal ministro uscente Marco Bussetti e approvato salvo intese dal Cdm del 6 agosto, su altri temi i cantieri partiranno nei prossimi giorni. A cominciare da classi pollaio e stipendi dei docenti che hanno fatto capolino nei primi interventi post nomina dell’esponente pentastellato. E che vanno inquadrati in un discorso più generale sull’aumento delle risorse destinate al mondo dell’istruzione.

Stop alle classi pollaio

In una delle interviste concesse nei giorni scorsi Fioramonti ha citato come benchmark l’esperienza della Germania, dove ha iniziato la sua carriera da docente universitario e dove i suoi due figli vanno a scuola in classi che non superano mai i 21 alunni. Qui il punto di partenza potrebbe essere la proposta di legge che la deputata Lucia Azzolina (M5S) ha depositato alla Camera e che fissa a 22 alunni per classe (elevabili a 23 con i resti) il nuovo tetto massimo per le classi iniziali di infanzia, primaria, medie e superiori (oppure 20 se ospitano studenti con disabilità). A fronte dei 26, 27 o 30 a seconda dei casi previsti oggi. A frenare il cammino parlamentare del provvedimento è stato finora l’elevato esborso necessario, che partirebbe da 338 milioni per arrivare a 2 miliardi. Ma a suggerire un possibile piano B è la stessa Azzolina, che al Sole 24 ore del Lunedì spiega: «Se non si può intervenire subito a tutti i livelli perché è troppo oneroso partiamo almeno con la prima classe delle secondarie di II grado dove ci sono i tassi più alti di dispersione scolastica permettendo invece agli alunni di ottemperare all’obbligo scolastico».

Stipendi più alti

Nell’agenda del neoministro dovrebbe trovare spazio anche il tema dell’aumento dello stipendio degli insegnanti. Non fosse altro perché è stato messo nero su bianco nell’accordo siglato a Palazzo Chigi il 24 aprile tra i sindacati della scuola e il premier Giuseppe Conte. Per assicurare agli oltre 800mila prof italiani i 111,50 euro mensili di incremento stipendiale attesi servirebbero 2,2 miliardi e in cassa il Miur, per il rinnovo del Ccnl di lavoro, ha solo 800 milioni. Per cui restano da trovare gli altri 1,4 miliardi.

Caccia alle risorse

Questi due esempi vanno inseriti in un contesto generale che dovrebbe portare il mondo della scuola e delle università a veder crescere le proprie risorse in seno alla legge di bilancio 2020. Almeno stando alle promesse messe nero su bianco nel programma di governo della coalizione giallorossa presentato nei giorni scorsi. E uno dei canali per ottenerle potrebbero essere le tasse di scopo proposte da Fioramonti in questi mesi. Ad esempio sulle merendine, sulle bibite zuccherate, sul trasporto aereo. In una riedizione riveduta, corretta e ampliata di quella “sugar tax” che aveva fatto capolino, sempre su richiesta del M5S, nella manovra 2019 e che ne era però anche uscita nel giro di 24 ore.

In 20 anni dieci ministri e troppe riforme incompiute

da Il Sole 24 Ore

di Luisa Ribolzi

Nel rivolgere delle richieste al nuovo ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, indicando delle priorità, mi trovo in difficoltà: la quasi totalità dei problemi sono rimasti irrisolti, e quindi dovrei ripetere un elenco stucchevole. Come docente universitario, il ministro Fioramonti è interessato alla ricerca e all’istruzione di terzo livello, cui ha dedicato l’11 marzo un post su Facebook, in cui elenca dieci punti che ritiene fondamentali per lo sviluppo del settore (preruolo e reclutamento dei ricercatori universitari, progressione di carriera verso il docente unico, diritto allo studio, dottorato di ricerca e anagrafe degli accademici, governance, accesso alle università, lauree abilitanti e specializzazioni di medicina, aumento di un miliardo per il finanziamento di università e ricerca, ripartizione perequativa di risorse e personale, semplificazione, trasparenza, autodisciplina e valutazione).

Il desiderio di rispettare il numero canonico di dieci ha portato forse a mettere troppa carne al fuoco, ma l’elenco è esauriente, e se su alcuni punti non si può non essere d’accordo, su altri ho delle perplessità legate ad un apparente ritorno al centralismo e a una riduzione del peso del merito. Non si può pensare di delineare una complessa opera di miglioramento nel breve spazio di un post, né si può considerare realistica la data indicata per la soluzione, la fine dell’anno, ma le intenzioni sono buone e sarebbe già molto se in questi quattro mesi il ministro individuasse delle priorità e iniziasse ad affrontarle una alla volta, senza pensare a una riforma di sistema di cui non abbiamo nessun bisogno.

La stessa raccomandazione vale per la scuola. In vent’anni abbiamo avuto dieci ministri e una serie di riforme quasi tutte incompiute, e svuotate dei contenuti innovativi per la sorda o esplicita resistenza del sistema, e se dovessi indicare al ministro tre “parole chiave”, indicherei sistema, valutazione e autonomia.

Scuole, formazione professionale, istruzione di terzo livello costituiscono un sistema strettamente interconnesso, e ogni intervento settoriale comporta una serie di ricadute che dovrebbero essere tenute presenti. Per fare un esempio, il concorso per dirigenti bandito nel 2017 e concluso nei giorni scorsi (e già questo suggerirebbe una profonda revisione dei meccanismi di reclutamento) prevede l’immissione in ruolo di 1.984 dirigenti: ma circa la metà sono stati assegnati a una sede diversa da quella della residenza e, poiché non si è modificata la retribuzione, è più che comprensibile che molti cercheranno di rientrare e non esclusivamente per motivi affettivi.

La valutazione va rafforzata non solo per introdurre meccanismi premiali per i docenti e i dirigenti più impegnati, che operano in sedi disagiate, che insegnano materie di difficile reperimento, che assolvono compiti aggiuntivi; non solo per differenziare i finanziamenti assegnandoli sia con valore premiale alle scuole migliori, sia con valore di sostegno alle scuole deboli, ma anche per capire che cosa funziona e che cosa no nei provvedimenti adottati.

Quanto all’autonomia, a vent’anni dal Dpr 275/99 siamo ancora in presenza di una autonomia incompleta, che limita la possibilità delle scuole di formulare e realizzare progetti formativi condivisi dai genitori e destinati a rispondere a bisogni formativi generali, oppure legati alla specificità degli indirizzi, al territorio, a particolari gruppi di ragazzi. Con l’autonomia deve crescere anche il controllo, ma il modello centralizzato e standardizzato ha chiaramente mostrato i suoi limiti in termini di efficacia, efficienza ed equità. In questo rientra il tema del sistema integrato, in cui le scuole paritarie, anziché essere valorizzate per i molti apporti che danno al Paese, vengono sempre più spesso penalizzate.

Resterebbe da affrontare il nodo degli insegnanti: nessuna scuola, si dice, può essere migliore degli insegnanti che ci lavorano. Eppure, mi si rafforza sempre più la convinzione che finora gran parte delle politiche educative sono state finalizzate non agli studenti, nonostante le molte affermazioni su “gli studenti al centro”, ma al personale che ci lavora. Su questo, e su quella abolizione del precariato di cui si parla da quarant’anni, sono state prese molte misure caratterizzate dall’impermanenza e dalla contraddittorietà: servirebbe un ministro capace di avere la vista lunga, e di tracciare un percorso che prenderebbe, io credo, lo spazio di molte legislature, così che non può essere capitalizzato da chi lo inizia. Che dire? Abbiamo di nuovo un universitario al Miur, dove hanno dato ottima prova ministri come Berlinguer e Profumo: mi auguro che da viale Trastevere venga ancora una reale spinta all’innovazione e al miglioramento.

Le famiglie possono pagare online il contributo. Tutte le istruzioni

da Il Sole 24 Ore

di Laura Virli

In questi giorni il Miur ha comunicato alle segreterie scolastiche che, al fine di facilitare i versamenti volontari telematici per le tasse e contributi scolastici da parte delle famiglie, sono state rilasciate sulla piattaforma Sidi nuove funzioni dedicate per “Pago In Rete”, il servizio centralizzato per i pagamenti telematici del Miur, frutto di una delle azioni (azione #11) del Piano nazionale scuola digitale, correlata al processo in atto di digitalizzazione della pubblica amministrazione.

Cos’è Pago In Rete
Con Pago In Rete le famiglie possono, infatti, eseguire pagamenti tramite Pc, tablet, smartphone. Si può scegliere di pagare online con carta di credito, bollettino postale online o addebito in conto oppure pagare direttamente presso le tabaccherie, sportelli bancari autorizzati o altri prestatori di servizi di pagamento esibendo il documento di pagamento predisposto dal sistema, che riporta il Bar-code e Qr-code.

Il sistema Pago In Rete offre numerosi vantaggi alle famiglie. Oltre all’esecuzione di pagamenti il servizio consente di visualizzare la situazione completa ed aggiornata dei pagamenti richiesti, di ricevere una notifica degli avvisi di pagamento emessi dalle scuole, di pagare contemporaneamente più avvisi, emessi anche da scuole diverse, ottenendo così un risparmio nelle eventuali commissioni di pagamento, di scaricare le ricevute dei pagamenti effettuati.

Come si usa Pago In Rete
Pago In Rete permette alle famiglie di effettuare il pagamento telematico di oneri e tasse a favore delle Scuole o del Ministero. Tra questi contributi scolastici per attività curriculari ed extracurriculari a pagamento, visite guidate, viaggi di istruzione, mensa autogestita ed altro, emessi dalle segreterie scolastiche per gli alunni frequentanti oppure a favore del Miur, come ad esempio i diritti di segreteria per la partecipazione ai concorsi.

Tasse e contributi, questi “sconosciuti”
Questo sistema permette anche di ridurre la confusione che spesso emerge tra le tasse e i contributi scolastici. Anche perché la differenza tra questi due oneri è notevole.
Le tasse scolastiche vanno versate all’erario statale solo dopo il superamento dell’obbligo scolastico (16 anni) dal terzo al quinto anno della scuola superiore, fatte salve le esenzioni per merito o per reddito. Oltre alle tasse di iscrizione e di frequenza, gli studenti del quinto anno devono pagare, per essere ammessi all’esame di Stato, la tassa di esame e, una volta promossi, quella di rilascio di diploma.

Di diversa natura sono i contributi scolastici, la cui entità viene deliberata annualmente dal consiglio di circolo/istituto. Essi rappresentano un’erogazione liberale che, ai sensi del Testo unico delle imposte sui redditi, possono essere detratti, a condizione che il versamento sia eseguito tramite banca, ufficio postale o Pago in Rete, e che riporti nella causale la dicitura contributo per l’innovazione tecnologica e l’ampliamento dell’offerta formativa.

I contributi scolastici sono formati da una quota obbligatoria che copre i costi anticipati dalla scuola per conto delle famiglie (ad esempio per i libretti Scuola- famiglia, per l’assicurazione RC e infortuni) e da una quota volontaria versata dalle famiglie, con spirito collaborativo e nella massima trasparenza, per l’ampliamento dell’offerta formativa, per l’acquisto di materiali didattici, per l’arricchimento e l’ammodernamento delle attrezzature dei laboratori. A tal riguardo si ritiene sempre utile la lettura delle note Miur 312/2012 e prot. 593/2013.

E-book ancora al palo: adottati dall’1% delle superiori

da Il Sole 24 Ore

di Eu.B.

Se il modello che il neoministro Lorenzo Fioramonti ha in testa per innovare la didattica è realmente la Finlandia, come ha dichiarato lui stesso venerdì ai microfoni di Mattino 24 su Radio 24, la strada che abbiamo davanti per adeguarci si annuncia lunga e ambiziosa. Non fosse altro che per quel 94% di scuole connesse e quel 69% di studenti che in classe usano un pc, un tablet o un notebook. Due campi in cui l’Italia è ferma, rispettivamente, al 47 e al 59 per cento. Ma un’ulteriore conferma sull’allergia della scuola italiana all’innovazione arriva anche dalle rilevazioni dell’Associazione italiana editori (Aie) sulla presenza, o per meglio dire l’assenza, degli e-book e dei contenuti digitali tra i libri di testo.

Il decreto Carrozza del 2013

È dall’anno scolastico 2014/15 che le classi italiane possono optare per il passaggio dalla carta al digitale. A consentirlo è stato il decreto Carrozza (dal nome della ministra di allora) del 2013 che stanziava anche 8 milioni in due anni per «l’acquisto, anche tra reti di scuole, di libri di testo, anche usati, di contenuti digitali integrativi e dispositivi per la lettura di materiali didattici digitali da concedere in comodato d’uso, nel rispetto dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore connessi all’utilizzo indicato», come si leggeva all’articolo 6, comma 2, del Dl 104/2013.

La scelta spettava e spetta ai collegi dei docenti che devono deliberarla entro la seconda decade di maggio. Nella consapevolezza che optare per una versione mista – libro cartaceo+ e-book+contenuti digitali integrativi – può comportare uno sconto del 10% del prezzo dei libri di testo della scuola primaria e dei tetti di spesa dell’intera dotazione libraria necessaria per ciascun anno della scuola secondaria di primo e secondo grado. Una decurtazione che sale al 30% per chi sceglie la versione totalmente digitale (e cioè e-book più aggiornamento via web) e che costituirebbe un antidoto alle polemiche sul caro-libri che accompagnano ogni inizio di anno scolastico.

I dati dell’Associazione editori

Nonostante siano passati ormai sei anni questa opzione sembra rimasta – è proprio il caso di dirlo – sulla carta. Secondo le rilevazioni dell’Associazione italiana editori (Aie), alla primaria solo lo 0,19% delle adozioni è integralmente digitale (nel 2014/15 era dello 0,27%); alle medie dello 0,95% e alle superiori dell’1,29% (contro lo 0,75% e l’1,12% registrati, rispettivamente, cinque anni fa). Laddove è aumentata la quota di scuole che sono passate alla modalità mista. Che rappresenta oggi la regola nel 98% delle elementari, nell’84% delle secondarie di I grado e nell’89,6% delle secondarie di secondo grado.

Numeri che non devono illudere più di tanto però visto che sono pochissimi i casi in cui contenuti aggiuntivi offerti dagli editori via web o tramite App vengono realmente utilizzati e scaricati. Come conferma, Giovanni Bonfanti, presidente gruppo educativo Aie, che presenterà nelle prossime settimane i numeri definitivi anche sui download di contenuti integrativi. Fermo restando che a suo giudizio il tema non è tanto la «formula mista dei libri scolastici bensì come fare a rendere la didattica realmente innovativa». Ad esempio, suggerisce, scommettendo realmente sulla formazione dei docenti. Che era e resta il vero ago della bilancia, al di là delle carenze ben note di infrastrutture nelle scuole e dei progressi più o meno lenti nella disponibilità di connessioni a banda larga e ultralarga negli edifici scolastici.

«A scuola di Opencoesione» diventa un modello per i Paesi Ue

da Il Sole 24 Ore

di Redazione Scuola

Il concorso per studenti «A scuola di Opencoesione» (Asoc) varca i confini nazionali e diventa un modello in Europa. Bulgaria, Croazia e le regioni di Alentejo (Portogallo), Catalogna (Spagna), Peloponneso, Tessaglia e le Isole Ionie (Grecia) sono state selezionate per partecipare al progetto pilota voluto dalla Commissione Ue per replicare l’iniziativa italiana in altri Paesi dell’Unione.

Asoc è un progetto nato nel 2013 che ogni anno chiede agli alunni delle scuole secondarie superiori di cimentarsi in attività di monitoraggio civico a partire dai dati sui progetti finanziati con le risorse delle politiche di coesione.

Il 2018-2019 ha visto la partecipazione di 179 classi (team), per un totale di 3mila studenti e circa 250 docenti. Per prendere parte all’edizione 2019-2020, le classi potranno inviare la
propria candidatura seguendo le istruzioni indicate sul sito ascuoladiopencoesione.it entro il 21 ottobre. In palio per i migliori lavori c’è un viaggio di due giorni a Bruxelles per visitare le istituzioni Ue.

Fioramonti: patto scuole-industrie e programmi attenti all’ambiente

da Orizzontescuola

di redazione

Patto tra industrie e scuola e rimodulazione della didattica. Così il Ministro Fioramonti al Forum Ambrosetti a Cernobbio

Patto scuola e industria

Il Ministro, come riferisce l’Ansa, ha affermato l’efficacia di un patto tra industrie e scuole: 1 euro investito oggi genera 4 euro di resa finanziaria nel medio termine

Rimodulazione programmi

Fioramonti ha poi affermato la necessità di rimodulare la didattica e rinnovare i programmi, dando maggiore attenzione al tema della salvaguardia ambientale.

“Rimoduliamo la didattica: formiamo degli economisti per dirci come si fa
economia sostenendo il pianeta salvaguardando le risorse? Ingegneri che sappiano creare infrastrutture senza consumare suolo?”

Scuola finlandese: meno ore insegnamento, piu’ tecnologia. Ma sicuri sia un buon modello?

da Orizzontescuola

di Elisabetta Tonni

Non appena passato dalla poltrona di sottosegretario a più alta di ministro, Lorenzo Fioramonti ha già rilasciato interviste per spiegare il modello di scuola a cui vorrebbe ispirarsi.

Oltre alla tassazione di merendine industriali, bibite gassate e voli aerei con lo scopo di raccogliere fondi per aumentare lo stipendio dei docenti, il neo Ministro ha detto di voler rivoluzionare la didattica ispirandosi al modello della scuola Finlandese.

Il sistema in uso nel paese più a Nord dell’Unione europea prevede una architettura scolastica decisamente diversa da quella italiana a partire dalla ripartizione del numero di anni di studio nei gradi scolastici.

Le corrispondenti delle primarie italiane, le elementari, durano nove anni e l’ingresso dei bambini in questa fase dell’obbligo scolastico avviene a sette anni e termina a sedici. Il grado successivo di istruzione è quello secondario superiore e dura tre anni. Si prosegue poi, anche in Finlandia, con l’istruzione universitaria.

Tutti coloro che vorrebbero ispirarsi alle riforme delle superiori per le scuole italiane, come per esempio il Gruppo di Firenze (come descritto nell’articolo di Repubblica), fanno riferimento al modello del secondo grado di scuola finlandese.

Pur prescindendo dalla differenza di durata dei gradi di istruzione, nonostante abbia un peso che andrebbe considerato, esistono differenze sostanziali anche nell’impostazione didattica. Infatti, come ben riassunto in questo articolo, il modello finlandese prevede in buona sostanza una riduzione orario scolastico, l’utilizzo nuove tecnologie per insegnamenti trasversali e l’uso di linguaggi semplici e accessibili per rendere più digeribili agli studenti le “aterie più ostiche”, ivi compresa la matematica, e soprattutto come formula per contrastare l’abbandono scolastico.

C’è ancor più: nel dettaglio, le superiori in Finlandia sembrano ispirate più all’organizzazione degli atenei con corsi e, in buona sostanza, la bocciatura può riguardare la materia in cui non è stata raggiunta la preparazione richiesta, senza inficiare sul rendimento delle altre materie.

L’idea di guardare al modello finlandese non è una sortita dell’ultimo minuto, ma ha il suo fondamento a un’idea che vagheggia da anni. Non a caso già nel 2011, il 21 aprile, il Foglio pubblicava un articolo a firma dello storico della scienza, Giorgio Israel (scomparso nel 2015), riportato poi sul blog dello stesso autore, dal titolo “Il bluff della matematica finlandese (e quel che si insegna sui test“. Pur entrando solo nel merito della materia, l’articolo è stato una critica severa ai limiti a cui porterebbe questo tipo di insegnamento.

Giorgio Israel condannava l’impostazione della didattica finlandese per la matematica, perché la riteneva finalizzata alla buona riuscita dei test (in particolare quelli Ocse-Pisa) e non alla capacità di valutazione dello studente. E’ come se si insegnasse a ragionare con la logica di una calcolatrice, anziché usare la calcolatrice come ausilio al ragionamento.

In un passaggio del suo articolo, Israel precisava: “Sintetizziamo rapidamente le caratteristiche dell’“oggetto didattico” detto “matematica” che queste riforme hanno man mano costruito. In primo luogo, non si fanno quasi più dimostrazioni. L’insegnante si limita a trasmettere i risultati come manuali d’istruzioni senza proporne quasi mai la prova logica. È superfluo dire che questa scelta, oltre a produrre un tipo di insegnamento nozionistico – che soltanto un estremo semplicismo rende accettabile – atrofizza le capacità logico-deduttive dello studente. Inoltre, insegnare la matematica senza dimostrazione è come pretendere di addestrare uno scultore senza mai mettergli in mano uno scalpello. In secondo luogo, la geometria è quasi sparita dall’insegnamento, il che non stupisce perché la geometria senza dimostrazioni non ha senso. Questa sparizione produce un’altra conseguenza molto negativa: l’atrofizzazione delle capacità di intuizione spaziale che sono stimolate in modo decisivo dal pensiero geometrico“.

A questa riflessione se ne aggiunge un’altra elaborata da Olli Martio dell’University of Helsinki, Marticulation Board in Finland, secondo il quale il modello di insegnamento della matematica in Finlandia potrebbe produrre effetti inattesi.

In un pdf riassume tutta una serie di cambiamenti avvenuti in Finlandia nell’insegnamento della matematica, che avrebbe portato gli studenti ad avere un calo di rendimento addirittura nelle operazioni più semplici. Nella conclusione, Olli Martio richiama l’attenzione sul fatto che: l’uso del calcolatore avviene in maniera errata con alcuni effetti che potrebbero essere disastrosi; la struttura didattica in uso in Finlandia non fa acquisire le abilità di cui si ha bisogno in futuro; il concetto del “problem solving“, cioè la capacità di saper trovare una soluzione a qualsiasi problema, è stato stressato oltremodo sin dal momento in cui non era più in grado di rispondere alle necessità della società attuale.

Anche tornando sulle questioni più generali, va considerato il contesto paese in cui si inserisce il modello di insegnamento finlandese fortemente ispirato al raggiungimento dell’uguaglianza e dell’eccellenza.

Tutto è basato su un finanziamento pubblico delle scuole degno di tale nome; esiste un monitoraggio costante degli studenti e, per i ragazzi che vivono nelle campagne, è previsto un sistema di trasporto pubblico gratuito.

Regionalizzazione, è scontro: Fontana: si farà. Bonaccini: no ai docenti regionali. De Luca: niente stipendi diversi

da La Tecnica della Scuola

Al forum di Cernobbio a parlare di scuola non è stato solo il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, esprimendo il desiderio di avviare una nuova didattica, incentrata più sulla salvaguardia dell’ambiente e di varare un patto scuola-industria. A dire il vero, hanno fatto più clamore le dichiarazioni dei governatori che continuano a rivendicare l’autonomia differenziata e quelli che la vogliono ma non come intende la Lega. Confermando che sull’autonomia differenziata esistono più modelli: “spinti”, di ispirazione puramente leghista, “intermedi”, come la vorrebbe l’Emilia Romagna, o di tipo “light”, più vicini alla posizione della Campania.

L’imperativo di Fontana

Se alla Lombardia non sarà concessa la competenza sulla scuola, la Regione è pronta a varare una sua legge, ha spiegato Attilio Fontana, presidente della regione Lombardia.

“La scuola – ha spiegato Fontana – credo non potrebbero non considerarla tenuto conto che c’è una sentenza della Corte Costituzionale che già dichiara che le Regioni possono organizzare una parte di questa materia. Se dovessero dire di no faremo una legge nel rispetto di quella sentenza della Corte Costituzionale”.

Fontana: il modello emiliano non basta

Non ottenere l’autonomia su scuola e sanità è una cosa che “la Lombardia non può accettare” ha continuato Fontana.

“La sanità – ha aggiunto – è uno degli animi in cui notiamo le maggiori difficoltà a proseguire”. “Sulla scuola non mi accontenterei del modello emiliano. Loro vogliono solo la formazione, ma dato che noi quest’anno abbiamo quasi 14 mila cattedre vuote vorremmo dare il nostro contributo per fare in modo che dall’anno venturo i nostri ragazzi non abbiano queste difficoltà”.

A Bonaccini interessa solo la continuità del personale

Decisamente più mite è l’idea di autonomia differenziata di Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna.

Il presidente ha detto che “l’Emilia Romagna ha fatto una proposta diversa in alcuni punti: ad esempio noi non chiediamo la regionalizzazione della scuola” perché “a me di avere insegnanti dipendenti della regione non me ne può fregar di meno”.

Quello che interessa al governatore emiliano è “decidere i fabbisogni del personale della scuola per evitare che continui, perché è un po’ una vergogna nazionale, che i nostri figli a inizio anno scolastico e spesso per mesi non hanno davanti un insegnante che dovrebbe accompagnarli fino alla fine dell’anno scolastico”, ha concluso.

De Luca: difendiamo le regioni del Sud

Più cauto, però, si è detto Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, il quale ha spiegato che sarebbe possibile attuare “un’intesa ragionevole” sull’autonomia, anche con le altre regioni, a patto che si facciano “cose realistiche” e “a condizione di stare con i piedi per terra”, sburocratizzando e facendo cose “utili alla comunità e alle imprese”.

L’importante è non toccare la scuola pubblica e la sanità pubblica e poi difendere le ragioni del Sud“, ha detto a margine del Forum Ambrosetti.

Sull’autonomia della scuola, chiesta dal governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, “per noi assolutamente no: la regionalizzazione della scuola non esiste e non si farà mai, non possiamo avere la scuola di seria A e di serie B“, ha chiosato De Luca.

Poi, il presidente campano ha sottolineato che rispetto al precedente governo “si volta pagina” e quindi quell’l’autonomia “deve essere rivista”, perché “dobbiamo partire dalle stesse risorse per tutte le regioni. dai livelli essenziali di prestazioni (Lep) e dal fondo di solidarietà per quelle svantaggiate. Poi tutti insieme combatteremo il parassitismo e le inefficienze”.

Alle regioni poteri ragionevoli

De Luca, poi, ha rivelato: “ho detto al mio amico Attilio Fontana che se ci imbarchiamo su un terreno che comporta modifiche costituzionali non la finiamo più”. Quello che si può fare, piuttosto, è dare “poteri ragionevoli alle regioni: facciamo cose utili alle comunità e alle imprese, così sicuramente arriviamo a un risultato”.

Il governatore campano ha quindi spiegato che “non possiamo avere docenti pagati magari un terzo di più dalle regioni con più reddito disponibile: sarebbe un delitto”.

“Il presupposto di tutto è rispondere alla domanda principale: siamo ancora convinti di dover difendere l’unita nazionale: sì o no?”, ha domandato De Luca.

Il ministro Boccia (Pd): ripartiamo dalla posizione di Conte

Nella stessa giornata, di autonomia scolastica ha parlato anche il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia a margine di Digithon, che si è conclusa a Bisceglie, in Puglia.

“Sull’autonomia – ha detto il democratico – non possiamo permetterci compromessi al ribasso o peggio ancora sbagliati quando si parla di scuola, perché è il cardine della società di oggi e merita di essere al centro delle politiche pubbliche, senza diventare ostaggio di una nuova propaganda politica”.

“L’Italia – ha continuato – si evolve e migliora grazie alla qualità della scuola e questo dev’essere un impegno collettivo senza distinzioni di parte”.

“Nel vecchio governo c’erano state evidenti contraddizioni nella discussione sull’autonomia su questo tema e credo che le posizioni comuni raggiunte dal presidente Conte e dal presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, siano un buon terreno di confronto da cui ripartire“, ha concluso Boccia.

Il Papa invoca stipendi dignitosi per i docenti: non obblighiamoli a fare altri lavori per la sussistenza quotidiana

da La Tecnica della Scuola

“Dio di giustizia, tocca il cuore di imprenditori e dirigenti: provvedano a tutto ciò che è necessario per assicurare a quanti lavorano un salario dignitoso e condizioni rispettose della loro dignità di persone umane”: a dirlo è stato Papa Francesco, domenica 8 settembre, nella “preghiera per i lavoratori” al cantiere di Mahatazana, ad Antananarivo.

Agli insegnanti stipendi adeguati

Nel condannare il lavoro minorile, il Santo Padre ha fatto riferimento anche ai docenti, che quando percepiscono stipendi troppo bassi sono costretti a svolgere altre attività.

“Sappiano le nostre famiglie che la gioia di guadagnare il pane è perfetta quando questo pane è condiviso. Che i nostri bambini non siano costretti a lavorare, possano andare a scuola e proseguire i loro studi, e i loro professori consacrino tempo a questo compito, senza aver bisogno di altre attività per la sussistenza quotidiana“.

Quello che non è chiaro è se il Papa si riferisse anche ai compensi dei docenti dei Paesi moderni. Come nella stessa Italia, dove mediamente risultano più bassi di quelli assegnati a colleghi insegnanti europei del 20-30% e in alcuni casi, come la Germania, addirittura quasi dimezzati.

Solidarietà tra colleghi

Nella preghiera, il Papa ha invocato, quindi, “tra i lavoratori uno spirito di vera solidarietà. Sappiano essere attenti gli uni agli altri, incoraggiarsi a vicenda, sostenere chi è sfinito, rialzare chi è caduto”, ha continuato.

“Il loro cuore non ceda mai all’odio, al rancore, all’amarezza davanti all’ingiustizia, ma conservino viva la speranza di vedere un mondo migliore e lavorare per esso”, ha aggiunto: “Sappiano, insieme, in modo costruttivo, far valere i loro diritti e le loro voci e il loro grido siano ascoltati”.

Il lavoro deve dare vita dignitosa alle famiglie

“Fa’ che il frutto del lavoro permetta ad essi di assicurare una vita dignitosa alle loro famiglie – ha detto ancora il Papa nella preghiera -: che trovino in esse, alla sera, calore, conforto e incoraggiamento, e che insieme, riuniti sotto il tuo sguardo, conoscano le gioie più vere”.

Nota 9 settembre 2019, AOODGOSV 18839

Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione
Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione

Ai Direttori Generali degli Uffici Scolastici Regionali
Al Sovrintendente agli Studi per la Regione autonoma della Valle d’Aosta
Al Sovrintendente Scolastico per la Provincia Autonoma di Bolzano
Al Sovrintendente Scolastico per la Provincia Autonoma di Trento
All’ Intendente Scolastico per le scuole delle località ladine di Bolzano
Ai Dirigenti Scolastici degli Istituti Tecnici e Professionali

OGGETTO: Gara Nazionale per gli alunni degli istituti professionali e per gli alunni degli istituti tecnici che hanno frequentato il IV anno di corso nell’anno scolastico 2018/2019. Risultati.

Scientix

A Firenze la conferenza nazionale di Scientix

Un incontro per promuovere le buone pratiche europee di educazione scientifica 

Indire ospita oggi (ore 14.00) e domani (ore 9.00) la Conferenza nazionale di Scientix, la comunità che dal 2009 promuove in Europa la collaborazione tra insegnanti, ricercatori e professionisti che si occupano di STEM, acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics.

L’incontro ha l’obiettivo di incentivare lo scambio e la conoscenza reciproca fra docenti di questi ambiti disciplinari e far emergere l’importanza della community Scientix per lo sviluppo professionale

Durante la conferenza vengono presentati progetti e buone pratiche che spaziano fra i vari settori delle scienze, dalla bioeconomia alla stampa 3D, dall’astronomia al meteo “fai da te”, dal coding in classe ai videogame per apprendere la scienza attraverso il gioco. Tra gli argomenti, anche le architetture scolastiche per le STEM, il ruolo dei docenti ambasciatori Scientix e le possibili strade per motivare gli studenti allo studio delle scienze. All’incontro intervengono i ricercatori di Indire Maria Guida, Serena Goracci, Jessica Niewint e Ciro Minichini che presenteranno le attività dell’Istituto legate alle STEM, oltre ad alcuni docenti che hanno realizzato e stanno già sperimentando in classe buone pratiche di educazione scientifica. 

Il progetto Scientix, coordinato da European Schoolnet, ha l’obiettivo di raccogliere e diffondere a livello internazionale pratiche didattiche innovative per l’insegnamento delle scienze e di rilanciare l’interesse dei più giovani nei confronti di un settore professionale su cui l’Unione Europea sta investendo molto. L’Indire è National Contact Point di Scientix per l’Italia e in questo ruolo si occupa di far conoscere sul territorio nazionale le risorse e le opportunità offerte dalla community (www.scientix.eu).