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Tipologie di insegnanti

Tipologie di insegnanti

di Laura Bertocchi e Mario Maviglia

Questo contributo intende analizzare le forme attraverso cui, nella concreta prassi scolastica, si manifestano le varie “maschere” del docente in relazione ai differenti modi di interpretare il proprio ruolo. In senso generale possiamo affermare che esistono tante tipologie di insegnanti quanti sono gli insegnanti stessi, in quanto ognuno ha un suo modo peculiare di agire sul palcoscenico scolastico. Sotto questo profilo, ogni tentativo di categorizzazione potrebbe apparire artificioso oaccademico; in realtà, pur nelle variabilità individuali, ricorrono alcuni aggregati comportamentali e di atteggiamento comuni, che ci consentono di individuare differenti profili di insegnanti. Le diverse tipologie sono state da noi identificate sulla base della nostra esperienza maturata a scuola, a vari livelli e con gradi diversi di funzioni e responsabilità; l’analisi non è supportata da dati empirici o statistici, ma vuole proporsi come un contributoper una discussione sul ruolo docente concretamente agito. Siamo consapevoli che ogni forma di categorizzazione tende, per sua natura, a tracciare confini netti allo scopo di meglio definire e individuare i modelli proposti, anche se la realtà può apparire più indefinita e “meticcia”. In altre parole, il singolo docente può condividere alcuni aspetti di una determinata tipologia e altri di un’altra; in ogni caso, è plausibile che, almeno tendenzialmente, il comportamento di ogni insegnante possa essere letto alla luce dell’una o dell’altra “maschera”. Anche il numero delle tipologie può essere più o meno ampio a seconda della varietà che si vuole cogliere, ma occorre ricordare che la mappa non sarà mai il territorio.

Presentiamo dunque le tipologie da noi individuate, avvertendo il lettore che l’analisi che tentiamo di fare è di carattere tecnico, non morale. Non è scopo di questo contributo indicare comportamenti virtuosi o da sanzionare, ma – per quanto possibile – descrivere la realtà, almeno per la percezione che ne abbiamo noi, lasciando al lettore ogni ulteriore valutazione.

a. Demotivati.

Probabilmente questa è oggi una delle categorie che accoglie un numero significativo di docenti, soprattutto tra quelli di più lunga esperienza. Si tratta di un gruppo composito in quanto la demotivazione può nascere da cause molto diverse e possono riguardare gli aspetti sociali della professione, il prestigio attribuito e la considerazione pubblica, unitamente agli aspetti retributivi, non certo esaltanti. Sotto questo profilo i docenti italiani hanno poche ragioni per sentirsi motivati, soprattutto nel confronto con i colleghi europei. Altre ragioni possono riguardare una certa delusione per come nel tempo è cambiata la professione, sempre più burocratizzata e fin troppo preoccupata degli aspetti formali più che di quelli legati alla qualità della didattica. “Ormai è chiaro: la burocrazia  pervade massicciamente la vita di una scuola che rischia di rimanerne soffocata e, soprattutto, di dedicare tempo ed energie non tanto al perseguimento degli obiettivi istituzionali ma a questi adempimenti burocratici”, afferma una sigla sindacale. C’è la sensazione che si perda troppo tempo in riunioni, compilazione di documenti, varie incombenze inutili. Le attività extra-aula sembrano avere il sopravvento rispetto a quelle d’aula. Non si ha tempo per curare adeguatamente i processi di apprendimento. Questo complesso di fattori determina la perdita di entusiasmo verso l’insegnamento, tanto che per i docenti meno giovani la meta della pensione viene vista come una sorta di liberazione, una fuga da un ambiente diventato viepiù faticoso (e non solo per il peso degli anni).

Ovviamente è possibile, almeno teoricamente, invertire questa tendenza e innestare elementi di motivazione, ma è un’operazione non semplice e implica la mobilitazione di vari fattori. Un ruolo di primo piano viene giocato dal clima complessivo che si vive all’interno del contesto scolastico e dall’attenzione che viene riservata al personale che vi opera, e dunque da quel “benessere organizzativo” ampiamente studiato in campo psicosociale, ossia la “capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione.”Ma, più in generale, si tratta, come sottolineano Avallone e Bonaretti, di governare tre importanti sfide: a) rendere attrattiva la scuola per i migliori talenti in modo da attirare i candidati più competenti, rivedendo le forme di reclutamento e selezione, garantendo adeguate condizioni di lavoro e (aggiungiamo noi) assicurando livelli retributivi più gratificanti; b) sviluppare un maggior senso di appartenenza all’organizzazione da parte dei singoli, attraverso pratiche di ascolto e coinvolgimento, e valorizzando le professionalità; c) investire nella formazione e in percorsi di apprendimento capaci di sviluppare nuove competenze, ponendo una particolare attenzione alla gestione delle relazioni. 

Come si vede si tratta di aspetti che chiamano in causa scelte di carattere generale alcune delle quali sfuggono alle possibilità delle singole istituzioni scolastiche, mentre altre afferiscono proprio agli interventi che ogni singola scuola può intraprendere al proprio interno per rendere più soddisfacente il lavoro dei docenti.

b. Attivi-entusiasti. 

Per quanto possa apparire paradossale, questa categoria di docenti è sicuramente quella più numerosa all’interno del panorama scolastico. In effetti, se l’intero sistema educativo regge lo si deve alle migliaia di docenti che ogni giorno, malgrado i tanti problemi che la scuola si trova ad affrontare, portano avanti l’impresa educativa in modo dignitoso e con risultati apprezzabili, anche se lontani dai riflettori. Per un fatto di cronaca negativo che riguarda il mondo della scuola, ve ne sono almeno migliaia di positivi che, ovviamente, non fanno notizia, in ossequio alle ferree leggi di una comunicazione diventata sempre più sensazionalistica. I docenti che definiamo “attivi-entusiasti” sono quelli che prendono parte attiva alla vita della scuola, portando il loro contributo di idee non tirandosi indietro davanti a sfide sostenibili. Possono costituire, ça va sans dire, la tipologia di docenti più apprezzata da parte dei dirigenti scolastici, se questi riescono a creare le condizioni affinché la partecipazione e il coinvolgimento vengano liberati da tutte le incrostazioni burocratiche che oggi opprimono la scuola in modo sempre più aggressivo, come abbiamo detto sopra. Gli insegnanti che intendono “spendersi” all’interno della loro scuola, infatti, di solito non temono l’impegno che questo può comportare; ciò che li frena è piuttosto il carico burocratico che di solito fa da corollario alle varie scelte o decisioni. Come sottolinea l’economista Cottarelli, “risulta che tra gli adempimenti burocratici a carico degli insegnanti ci siano verbali delle riunioni, direzione e stesura dei progetti didattici, dati e monitoraggio degli stessi progetti, tutoraggio e monitoraggio dei PCTO, cioè l’ex alternanza scuola-lavoro, programmazione del lavoro per classe e spesso per alunno nei casi di disabilità, predisposizione di verifiche diversificate, predisposizione per gli allievi DSA di una scheda con strumenti compensativi e dispensativi diversificati, compilazione del registro elettronico, compilazione di schede, griglie e tabelle, di valutazione degli alunni, compilazione di tutta la modulistica relativa alle prove INVALSI, compilazione del RAV, rapporto di autovalutazione, riunioni di dipartimento, riunioni di gruppi di lavoro per l’inclusione. La domanda è: servono effettivamente tutte queste attività? Scrivere relazioni, rapporti, serve poi se qualcuno li legge e poi, di conseguenza, assume decisioni; ma l’impressione è che tutto ciò, invece, finisca in un cassetto. Ci troviamo, quindi, di fronte alla forma peggiore di burocrazia.”

È possibile per la scuola sfuggire a questa morsa burocratica e liberare le energie dei docenti verso attività più squisitamente professionali? Probabilmente sì, se ogni singola scuola adotta un comportamento di contenimento e semplificazione rispetto alla produzione burocratica, selezionando ciò che è strettamente necessario da ciò che appare superfluo, ma anche semplificando gli stessi documenti necessari. Probabilmente in questo modo potrebbero aumentare ancor più i docenti “attivi-entusiasti”.

c. Ipercritici-Antagonisti

È fisiologico che all’interno di un gruppo composito (e spesso alquanto numeroso) come quello di un collegio dei docenti vi sia un certo numero di insegnanti che in modo più o meno sistematico si opponga alle decisioni della maggioranza (o del dirigente scolastico). Anzi, “un certo livello di conflittualità all’interno del Collegio docenti [è] addirittura positivo perché costringe i proponenti a motivare meglio le proposte avanzate.”Per quanto possa essere difficile e talvolta defatigante sostenere un confronto dialettico, “siamo convinti che esso possa far bene alla scuola (…), perché costringe a considerare il medesimo problema sotto un punto di vista diverso e magari a trovare soluzioni nuove. Addirittura se non ci fosse un docente ‘rompiscatole’ nella scuola occorrerebbe crearlo, perché ci costringe a non dare nulla per scontato e a considerare in modo diverso e variegato la realtà e soprattutto a non innamorarci troppo delle nostre proposte.”Dunque, anche se è oggettivamente sfiancante sostenere situazioni di questo tipo, esse appaiono funzionali a garantire la vitalità del sistema e a tener presente che vi sono sempre almeno due possibili letture (e soluzioni) riguardo al medesimo problema. L’onere più gravoso in questa dinamica ricade ovviamente sul dirigente scolastico che è chiamato a decodificare le prese di posizioni critiche e, soprattutto, a non lasciarsi risucchiare in un vissuto di ferite narcisistiche davanti a opinioni o concezioni diverse dalle sue, ma ricondurre il tutto all’interno di una fisiologica dinamica partecipativa che comporta anche la contrapposizione di punti di vista diversi.

Le cose possono essere un po’ più complicate quando queste contrapposizioni non hanno una motivazione ideale o operativa reale, ma vengono assunte “per partito preso”, in una sorta di conflitto permanente “a prescindere”. Ma anche in questi casi si può tentare – per quanto possibile – di riportare all’interno di una dimensione fisiologica questi comportamenti. Nella citata opera, abbiamo offerto alcuni “consigli” al dirigente scolastico in merito alla gestione di queste situazioni: “Riguardo ai docenti ‘rompiscatole’ c’è un modo per disinnescare la loro carica negativa (ma questo vale anche per i genitori ‘rompiscatole’) e consiste nel cercare di coinvolgerli nelle fasi propedeutiche all’attività decisionale (…). Ad esempio, se vuoi sapere [riferito al DS] che impatto può avere una certa tua proposta nel corpo docente, parlane preventivamente con chi sai che sarà assolutamente contrario alla proposta stessa e cerca di capire più in profondità le ragioni del dissenso per apportare (perché no?) eventuali modifiche che possono migliorarla. Spesso ci attorcigliamo intorno ai problemi di natura interpersonale perdendo di vista l’obiettivo che vogliamo raggiungere, per cui evitiamo persone che ci stanno “antipatiche” anche se potrebbero darci un contributo critico notevole nel nostro lavoro. In fondo anche Nietzsche consigliava: ‘Ama i tuoi nemici perché essi tirano fuori il meglio di te.’ Non ti si chiede di far diventare amici i tuoi nemici, ma di inserire anche questi rapporti all’interno di una cornice istituzionale al fine di perseguire gli obiettivi previsti.”

Certo è che i continui disaccordi con i colleghi (con possibili ripercussioni sullo svolgimento ordinato dei compiti previsti) o le contrapposizioni nei confronti dei vari interlocutori creano spesso intorno a questa tipologia di docenti un clima di insofferenza e di intolleranza.  

d. Frenetici

Difficile oggi sottrarsi al “fascino” ingombrante della frenesia che caratterizza la vita di tutti noi. Ovviamente anche la scuola ne subisce le conseguenze con caratterizzazioni peculiari. In particolare, la tendenza a promuovere tanti progetti ha trasformato molte scuole in “progettifici”, ossia “una sorta di bulimia dei docenti che li spinge ad aderire a progetti che talvolta didatticamente «non si parlano fra loro» e, soprattutto, spesso sono poco coerenti rispetto alle scelte educativo-didattiche del consiglio di classe.” Vi sono varie ragioni che hanno determinato questa situazione: da una parte l’implicita (ma spesso anche esplicita) sollecitazione sociale a far sì che le scuole entrino in concorrenza tra loro nella convinzione che ciò possa favorire l’incremento della qualità del servizio reso; la ricchezza dell’offerta formativa spesso viene vista come un segnale di vitalità ed efficienza della scuola, oltre che di opportunità formative per gli studenti; dall’altra l’adesione ad alcuni bandi (con relativa progettazione educativo-didattica specifica) consente alle scuole di intercettare possibili finanziamenti straordinari.

È all’interno di questo contesto generale che va considerata la categoria dei docenti frenetici, anche se probabilmente questi insegnanti ci mettono del loro in questa corsa al fare e al proporre, assecondati e sostenuti in questo da dirigenti scolastici molto sensibili alle sirene della “produzione”. 

Almeno due aspetti vanno considerati criticamente per cogliere fino in fondo gli effetti di questo modus operandi: a) il costante impegno che questo comportamento richiede tende inevitabilmente a creare una frattura tra i (relativamente) pochi docenti frenetici e il resto dei colleghi (meno inclini a lasciarsi coinvolgere in modo così continuo e ossessivo), con la prevedibile creazione di una sorta di élite professionale, vicina alla dirigenza,ma lontana dalla base dei colleghi; b) il significativo numero di iniziative o progetti portati avanti lascia supporre che si tende a privilegiare il fare a scapito del pensare, con il rischio di mettere in atto interventi di superficie, che non intaccano i tradizionali modelli di trasmissione della conoscenza. Va inoltre sottolineato che in questo modo sembra che la preoccupazione maggiore dei docenti sia rivolta verso la categoria della quantità piuttosto che verso quella della qualità o dell’approfondimento. Ma questo appare una cifra complessiva dei curricula scolastici italiani, forse ancora troppo “pieni” di contenuti.

e. Accomodanti.

Questa categoria conta molti adepti tra i docenti. Di solito si tratta di persone che, per vari motivi, si adeguano allo status quo e, generalmente, seguono le decisioni della maggioranza, non necessariamente per intima adesione o convinzione, ma per il quieto vivere o per concludere gli impegni in tempi sostenibili e compatibili con i tempi personali e familiari. Spesso l’adesione degli accomodanti alle varie proposte è strettamente legata al livello di coinvolgimento effettivo che viene loro richiesto nella realizzazione delle varie iniziative. Infatti questi docenti non hanno alcuna difficoltà ad approvare progetti che vengono realizzati dai colleghi; se però il progetto richiede un loro coinvolgimento attivo, allora l’espressione che meglio sintetizza il loro atteggiamento è not in my back yard (non nel mio cortile), ossia “va bene realizzare l’opera, ma senza che io ne sia coinvolto”.

Gli accomodanti di solito rifuggono dalle dispute ideologiche o dottrinarie, non è nel loro carattere sostenere fino in fondo determinate idee, preferendo il compromesso, o comunque una linea di condotta che superi le contrapposizioni. A seconda dell’accentuazione che assume questo comportamento si possono avere modalità di relazione tra loro molto diverse, se non addirittura contrapposte. Così, ad esempio, se essere accomodanti si traduce in essere compiacenti, ossia mettere in atto posture ritenute accettabili dagli altri, è evidente che il comportamento ne risulta artefatto o inautentico e in ogni caso la compiacenza è il prezzo che si paga per essere accettati dagli altri. E d’altro canto, un eccesso di accomodamento può portare al conformismo e ad un annebbiamento del proprio spirito critico. Nel loro studio sul comportamento di un individuo nelle situazioni di conflitto, Kenneth W. Thomas e Ralph H. Kilmann (autori del metodo TKI, ossia Thomas-Kilmann Conflict Mode Instrument), definiscono l’accomodante come “poco assertivo e collaborativo, l’esatto contrario della competizione. Quando adotta un comportamento accomodante, l’individuo trascura i propri interessi per soddisfare quelli dell’altro; in questa modalità c’è un aspetto di abnegazione. L’accomodamento può assumere la forma di generosità o altruismo, di obbedienza alle richieste di un’altra persona anche quando si preferirebbe non farlo, oppure l’arrendersi al punto di vista dell’altro.” Non è raro, peraltro, che il docente accomodante nutra sentimenti di rabbia o frustrazione proprio per l’opera di coartazione che si autoimpone per aderire alle aspettative degli altri.

f. Minimalisti

Non è difficile individuare i docenti minimalisti: si tratta di coloro che fanno il minimo indispensabile e che non si lasciano coinvolgere in attività che richiedono un carico elaborativo o realizzativo oltre l’ordinario. A ben vedere, questo atteggiamento non dovrebbe essere visto in senso necessariamente negativo: in fondo un’organizzazione fisiologicamente in salute e matura non ha bisogno di richiedere ai propri addetti prestazioni straordinarie, se non in particolari momenti dell’anno scolastico e per motivi specifici e circoscritti (e in ogni caso potendo sempre disporre di strumenti contrattuali in grado di “premiare” o comunque riconoscere in modo adeguato gli impegni straordinari). La scuola, sotto questo profilo, è una realtà alquanto anomala poiché, troppo spesso, fa riferimento alle disponibilità volontaristiche dei suoi operatori per realizzare i propri progetti. Non mancano i riconoscimenti, a dire il vero, ma questi appaiono più simbolici che reali, se si considera il carico di lavoro richiesto. Prendiamo l’esempio dell’adesione ai vari progetti nazionali o internazionali che consentono alla scuola di accedere a significativifinanziamenti o a esperienze di interscambio professionale con altre scuole anche straniere; o, più banalmente, si pensi all’impegno e alla responsabilità richiesti ai docenti nell’organizzazione e gestione delle visite di istruzione. Se si considerano i tempi necessari che vengono dedicati alla progettazione e realizzazione di queste iniziative ci si può facilmente rendere conto che i “ritorni” (economici o sociali) per i docenti coinvolti sono alquanto insignificanti. Se nella scuola dovesse venire meno l’adesione volontaristica dei docenti gran parte dell’attività non ordinaria sicuramente non si svolgerebbe.Forse non si è mai riflettuto abbastanza su quanto lavoro volontario viene svolto da chi lavora a scuola; i docenti minimalisti, loro malgrado, testimoniano questa situazione, facendo vedere la realtà più prosaica della scuola, che fa i conti con le condizioni materiali della professione.

Conclusioni.

Come già detto prima, l’elenco delle tipologie di docente può essere ampliato ulteriormente o modificato profondamente. Ciò che ci appare interessante è il tentativo di tracciare un quadro delle varie modalità in cui si esprime il ruolo docente, al di là di quanto previsto dalle indicazioni normative ufficiali. Questo sforzo può contribuire ad innalzare il livello di consapevolezza su come viene svolta la funzione docente, migliorandone la professionalità e contribuendo ad assumere decisioni più coerenti e adeguate in relazione agli obiettivi che si intendono perseguire.

Il diritto dei bambini alla lettura

Il diritto dei bambini alla lettura

di Margherita Marzario

Quanto sia importante ed efficace la lettura precoce, sia per stimolare lo sviluppo cognitivo e lessicale dei bambini sia per costruire e cementare le relazioni familiari (la memoria familiare), ormai è un dato acquisito (anche grazie al fondamentale lavoro culturale realizzato in questi anni dal programma Nati per leggere).

Secondo l’esperto Federico Batini: “La lettura ad alta voce gioca un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda lo sviluppo dell’empatia fin dall’età prescolare, ricoprendo un ruolo determinante nel promuovere un positivo sviluppo psicosociale, fondamentale per la messa in atto di comportamenti empatici. Comprendere le intenzioni, le emozioni ed entrare in empatia con il personaggio di un racconto può essere di aiuto al bambino per il corretto sviluppo e la decodifica del mondo reale e dunque facilitargli le relazioni. Entrare in relazione ed empatizzare con un personaggio non implica solo la comprensione del suo stato emotivo, ma anche la capacità di provare le sue emozioni”. Generalmente non piace leggere perché la lettura viene posta come un dovere e non come un piacere e ancora meno come la possibilità di leggere in se stessi e in mondi inesplorati.

Batini aggiunge: “Un’altra indicazione molto importante riguarda la gratuità: la lettura ad alta voce non deve essere collegata a attività altre, si tratta di una didattica in sé conclusa e di un importante gesto di attenzione e stimolo che non chiede qualcosa in cambio. La didattica della lettura ad alta voce si completa con la fase della socializzazione: un momento in cui i bambini e le bambine possono esprimere il proprio punto di vista. E questo si può facilitare attraverso domande stimolo, domande aperte: “Secondo voi come andrà a finire? Quale personaggio vi è piaciuto di più perché? E voi al posto di quel personaggio che cosa avreste fatto?” Ogni intervento deve essere valorizzato: da questo scambio i bambini e le bambine imparano moltissimo dai contributi degli altri”. La lettura, ancor di più quella ad alta voce, è multifunzionale: è un atto di libertà, educazione alla libertà, donazione di tempo, proposta di una chiave di lettura del mondo interiore e quello esteriore. 

Ancora Batini suggerisce: “Bisogna fare la lettura ad alta voce, in modo quotidiano, e servirsi pure delle varie metodologie, tra cui il Kamishibai, ma non teatralizzare la lettura che, altrimenti, non è più lettura” (in un webinar del 18-10-2023). Quel che conta è che l’insegnante sia lettore, un buon lettore, appassionato e appassionante, convinto e coerente con il suo stile educativo. Non è necessario che si specializzi come “promotore della lettura”. 

Anche l’esperta Barbara Dragoni afferma: “Nelle prime settimane di scuola, è estremamente importante instaurare un’educazione alla lettura corretta e funzionale, che rappresenta una priorità didattica fondamentale per le discipline umanistiche (e non solo). Leggere insieme libri o parti di essi, di diversi generi e formati, e condividere opinioni e interpretazioni, consente di riflettere, discutere, conoscersi reciprocamente, iniziare ad empatizzare e, in definitiva, gettare le basi per creare uno spirito di autentica comunità. La lettura di libri permette anche di suscitare curiosità e interesse verso la lettura stessa e può fin da subito far scoprire che leggere può diventare un vero e proprio piacere”. Leggere ai bambini è stimolare la loro autonomia di pensiero, favorire il benessere e prendersi cura di loro nell’interezza della persona, in conformità della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e delle Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei (2021).

Bisogna educare alla lettura delle immagini senza però “bombardare” i bambini, soprattutto in tenera età, con ogni sorta di immagine (sovraccarico di cartelloni, dipinti sui vetri, LIM) dato già l’“inquinamento visivo” dilagante in ogni ambiente. La scuola deve fornire gli strumenti per far imparare ad “osservare” le immagini, saperle distinguere, vedere oltre, e sviluppare così l’immaginazione che, invece, risulta spesso frenata. Basti leggere i suggerimenti contenuti nella Carta dei diritti dei bambini all’arte ed alla cultura (Bologna, 2011). Andrea Sola, promotore della pedagogia libertaria, spiega: “L’utilizzo delle immagini come forma autonoma di linguaggio è spesso trascurato nei percorsi scolastici, ma in realtà, ogni esperienza di vita, ogni ricordo autobiografico e ogni nuovo apprendimento possono essere descritti anche attraverso le immagini, non solo con il linguaggio discorsivo. È quindi utile sviluppare un’alternativa pedagogica che sappia utilizzare gli strumenti espressivi di natura estetica, compresi quelli digitali, per un loro uso formativo”. 

Mediante l’arte e la cultura si forniscono ai bambini strumenti imperituri e proficui con cui leggere e interpretare la realtà superando la limitatezza e la caducità delle cose materiali. “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). Lo scrittore Alessandro D’Avenia puntualizza: “Alla liquidità del mondo di oggi si risponde con la profondità della propria identità; solo chi ha un’anima antisismica può resistere ai terremoti contemporanei, perché solo quando l’anima è pronta allora sono pronte anche le cose e non viceversa”. Attraverso la lettura si fanno vivere storie ed esperienze di ogni sorta per cui si contribuisce alla costruzione di “un’anima antisismica”.

Anche la scrittrice Michela Murgia conviene: “[…] noi non abitiamo solo gli indirizzi dove ci arriva la posta: abitiamo anche nelle storie che ci sono state raccontate sin da quando eravamo bambini. Meno ne abbiamo a disposizione, più angusta e cupa è la casa mentale in cui ci svegliamo ogni mattina”. È importante narrare, raccontare, raccontarsi, leggere e inventare storie con i bambini perché si forniscono vari linguaggi e si stimolano le intelligenze, si contribuisce alla formazione della loro identità che è fatta di elementi che sono propri di quel singolo e di elementi che sono “identici” agli altri. 

A scuola si dovrebbero non fare le domande agli alunni ma suscitarle e ascoltarle. Leggere non è solo leggere libri ma leggere in sé e leggere la realtà, intus legere e inter legere (quello che è il significato etimologico di “intelligenza”). “Spesso le domande dei bambini ci lasciano spiazzati e di solito non rispondiamo cercando di sviare o ingarbugliare il discorso o rimandare a quando saranno più grandi e potranno capire. Forse perché gli adulti non sono all’altezza delle domande serie e vere dei bambini (…). Si incontra poi la scuola dove spesso si attribuisce più importanza al saper recitare risposte che al fare domande. E poco a poco si smette anche di sperimentare il mondo, di cercare soluzioni autonome alle proprie domande; le scienze si studiano sul libro, magari leggendo inizialmente il capitolo sul metodo sperimentale” (Enrica Giordano, esperta di didattica della fisica). La lettura a scuola dovrebbe essere preceduta e continuata in famiglia. “La famiglia va sostenuta, aiutata, ma va anche raccontata. In un mondo di crescenti solitudini, ma con un bisogno intatto di affettività e di calore familiare […] c’è bisogno di un cambiamento culturale. Essere genitori deve tornare ad essere socialmente premiante, non un ostacolo alla realizzazione personale in particolare delle donne. Solo con un clima accogliente, nella concretezza dell’organizzazione sociale e nella percezione di un sistema favorevole, la famiglia tornerà ad essere centrale e la discesa demografica potrà essere fermata. E […] partendo da un rapporto – quello tra la famiglia e il libro – che è inscindibile da secoli: ogni romanzo racconta in qualche modo di una famiglia, ogni storia è una storia di famiglia” (Eugenia Roccella, ministro per la famiglia). In famiglia si deve leggere, raccontare, narrare, perché si contribuisce alla costruzione dell’identità (anche la cosiddetta identità narrativa), al benessere di ciascun membro e dell’intera famiglia e tutto ciò si riflette all’esterno. A questo si aggiunge quanto la lettura in casa sia rilevante anche per il coinvolgimento dei padri. 

Leggere (ad alta voce) è fornire ai bambini strumenti per l’esercizio dei propri diritti, contribuisce a impartire al fanciullo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la Convenzione (parafrasando l’art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Il ministro, gli influencer e l’autonomia scolastica

Il ministro, gli influencer e l’autonomia scolastica

di Nicola Puttilli

Alcuni giorni fa un’insegnante della scuola che dirigevo a Nichelino, realtà allora particolarmente problematica dell’hinterland torinese, mi ricordava con un messaggio che più di una ventina di anni fa istituimmo nella scuola elementare un laboratorio di educazione all’affettività e alla sessualità, osservando, con una punta di ironia, come già allora fossimo all’avanguardia, anche senza il supporto degli influencer.  Influencer o meno l’avvio del laboratorio fu reso possibile grazie a quel poco di organico funzionale e di risorse aggiuntive (L 440/97) che accompagnò la prima attuazione dell’autonomia scolastica, voluta dall’allora ministro dell’istruzione, recentemente scomparso, Luigi Berlinguer. Il laboratorio, così come lo stesso tentativo di dare vita a una vera, per quanto iniziale, autonomia, ebbe breve vita. Il ministro che, come non bastasse l’autonomia, si era messo in testa di riformare anche gli ordinamenti scolastici,sostanzialmente risalenti alla riforma Gentile, fu presto trafitto dal fuoco amico e costretto alle dimissioni.

Dal 2001, ministro Letizia Moratti, cominciarono gli anni delle vacche magre: tagli indiscriminati, di finanziaria in finanziaria, fino a praticamente dimezzare in poco più di un ventennio la quota di PIL destinata all’istruzione. Operazione, quest’ultima, in cui si distinse per accanimento e perseveranza la ministra Gelmini.

L’autonomia scolastica si tradusse presto nello scarico verso le scuole di tutte le procedure burocratiche e amministrative che prima facevano capo ai provveditorati agli studi. Gli organici funzionali furono rapidamente dimenticati e nella scuola primaria tagliate drasticamente le compresenze sul tempo pieno, rendendo sempre più difficili quelle preziose esperienze laboratoriali che ne avevano caratterizzato la nascita negli anni’70. Negli altri ordini di scuola è costantemente lievitato il numero di alunni per classe e per converso drasticamente diminuito il numero di autonomie scolastiche(istituzioni oggi per lo più sovradimensionate, cariche di compiti amministrativi, con il dirigente scolastico sempre più lontano dai temi educativi e didattici che dovrebbero invece maggiormente caratterizzarne la dimensione professionale).

Gli esiti di questa fallimentare politica scolastica purtroppo li conosciamo bene: risultatidi apprendimento insoddisfacenti, deficit relazionali e comportamentali, dilagante analfabetismo di ritorno, tassi di abbandono e dispersione tra i più alti d’Europa e con fortissimi squilibri regionali e territoriali.

Con l’eccezione della L 107/15, anch’essa peraltro declinata burocraticamente, dopo Berlinguer i governi e i ministri che si sono succeduti hanno praticamente rinunciato a occuparsi di scuola, considerandola una riserva di caccia per le leggi finanziarie e limitandosi a interventi di piccolo cabotaggio (chi ricorda il “cacciavite” di Fioroni?) o, peggio, tesi a lasciare una qualche traccia purchessia della propria presenza (per onor del vero c’è stato anche il caso del ministro Fioramonti che si è dimesso perché gli investimenti promessi non erano stati confermati, o almeno così ha dichiarato, caso unico per quel che riguarda le dimissioni, regola confermata per i mancati investimenti).

Si sono così ripetute, a seconda degli echi di cronaca del momento, le misure, più o meno andate a segno, tese ad imporre dall’alto ore aggiuntive praticamente su tutto. Dall’educazione stradale in caso di incidenti gravi, all’educazione motoria cara al ministro già insegnante di educazione fisica, nella primaria. Dall’orientamento quandola pubblica opinione discute del disallineamento tra offerta formativa delle scuole ed esigenze del mondo imprenditoriale, all’educazione civica se il tema del giorno è quello del bullismo, fino all’ educazione alle relazioni e ai sentimenti (per la sessualità si può sempre aspettare) in caso di femminicidio, senza dimenticare le ore di religione cattolica già presenti dal 1984. 

Nella mente dei nostri ministri continua a prevalere l’idea dei vasi da riempire, come se i comportamenti derivassero più dalla quantità dei contenuti appresi che dalla qualità degli stessi e, soprattutto, dalla qualità degli approcci metodologici e delle relazioni che gli insegnanti sono in grado di impostare fin dalla scuola dell’infanzia e a prescinderedalla specifica disciplina di insegnamento, in ogni istante del loro rapporto con gli studenti.

I problemi della scuola italiana sono enormi e strutturali, a poco servono interventi-immagine e ore aggiuntive distribuite qua e là. Anche se le riforme di sistema, nella scuola in particolare, non hanno mai pagato politicamente, sarebbe forse ora di assumersi la responsabilità di ritornare a una visione generale, a un progetto di grande respiro in grado di dare speranza alla nostra scuola. Le vie individuate da Luigi Berlinguer più di venti anni fa possono ancora  essere un importante punto di riferimento: sia la riforma dei cicli utile a contrastare la selezione precoce e la successiva dispersione scolastica sia, e soprattutto, una vera autonomia scolastica.

Più di vent’anni fa a Nichelino IV circolo eravamo stati in grado di intercettare le esigenze del territorio e di fornire risposte significative, senza imbeccate ministeriali e tanto meno interventi di influencer o simili dell’epoca. La scuola italiana ha bisogno di investimenti importanti, dalla sicurezza delle scuole alla qualità degli ambienti di apprendimento, fino alla formazione del personale- Non sarebbe male cominciare con il rispedire agli uffici ministeriali territoriali scartoffie e pratiche burocratiche varie e dare fiducia e mezzi, in termini di organici funzionali e di risorse, ai nostri insegnanti e ai nostri dirigenti scolastici, riprendendo, là dove l’avevamo lasciata, la strada di una vera autonomia scolastica.

Educazione alle relazioni, percorsi progettuali per le scuole

Educazione alle relazioni, percorsi progettuali per le scuole. Stato dell’arte.

Dario Angelo TUMMINELLI, Carmelo Salvatore BENFANTE PICOGNA, Zaira MATERA

Educare alle relazioni è un progetto sperimentale ed innovativo introdotto dal Ministero dell’Istruzione e del Merito che mira a promuovere la formazione affettiva e relazionale delle nuove generazioni attraverso una formazione specifica rivolta agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, al fine di contrastare la violenza di genere e favorire il rispetto dell’altro.

Con la Direttiva 24 novembre 2023, AOODPPR 83 “Educazione alle relazioni” – Percorsi progetuali per le scuole, il dicastero dell’istruzione rafforza, dunque, il suo impegno verso un’azione educativa mirata alla cultura del rispetto, all’educazione alle relazioni e al contrasto della violenza di genere.

Approfondimento Il tema del femmicidio è attualmente oggetto di ampio dibattito pubblico, sociale e politico ed è sotto l’attenzione dell’attuale governo. Non da ultimo la recente emanazione della Legge del 24 novembre 2023, n. 168 pubblicata in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 275 del 24 novembre 2023 intitolata “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica” che entrerà in vigore il prossimo 09 dicembre.

La direttiva in parola, in corso di registrazione alla Corte dei Conti, è stata fortemente voluta dall’attuale Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara a seguito dei recenti fatti di cronaca di violenza fisica e sessuale che hanno interessato e coinvolto minori (studenti) a Caivano e a Palermo e anche dopo una attenta valutazione dei dati ufficiali registrati e comunicati dal Ministero dell’Interno, nei quali si evidenzia la preoccupante tendenza all’aumento negli ultimi anni (trend sempre più in crescita) del fenomeno noto come “femminicidio”.

La violenza contro le donne è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse e devastanti, una negazione quotidiana della dignità della persona, che è il valore cardine della nostra società” è quanto dichiarato dal Ministro nel videomessaggio pubblicato sul sito e sui canali social del Ministero, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, celebrata ogni 25 novembre consultabile dal link: https://www.miur.gov.it/web/guest/-/25-novembre-il-videomessaggio-del-ministro-valditara-la-violenza-contro-le-donne-e-negazione-dei-diritti-umani-la-scuola-costituzionale-in-prima-linea

In questa iniziativa progettuale rientrano in sinergia e in un più ampio contesto di sensibilizzazione al tema, i Ministeri per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità e il Ministero della Cultura, attraverso la condivisione di un protocollo d’intensa siglato con il Ministero dell’Istruzione sulla “Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica – iniziative rivolte al mondo della scuola”.

Il protocollo ha una durata biennale, a decorrere dalla data della sottoscrizione, e potrà essere rinnovato e prorogato, previo accordo fra i dicasteri interessati e dalla sua attuazione non potranno comunque derivare nuovi o maggiori oneri a carico delle istituzioni scolastiche aderenti.

L’intento del Ministero, con l’emanazione della direttiva e la firma del protocollo, è di porre rimedio a questo triste fenomeno, con la prioritaria necessità di promuovere, attraverso percorsi mirati, progettati autonomamente dalle Istituzioni scolastiche, l’educazione alle relazioni.

Invero, il progetto ricalca il solco tracciato da precedenti interventi normativi riprendendo gli orientamenti e le Linee guida del 27 ottobre 2017 intitolate “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione”, predisposte dallo stesso ministero in attuazione dell’articolo 1 comma 16 della Legge 13 luglio 2015, n. 107 “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” e della nota MIUR prot. n. AOODGSIP.5515 del 27 ottobre 2017 “Piano nazionale MIUR di educazione al rispetto”, derivante dalla sopra citata legge.

Come previsto dall’art. 1 della citata direttiva, i percorsi educativi saranno iniziative progettuali “extra-curriculari”, con attività pluridisciplinari e metodologie laboratoriali e con un impegno annuo di 30 ore.

I progetti sono destinati, in particolare, agli studenti frequentanti le istituzioni scolastiche secondarie di II grado del sistema nazionale di istruzione.

I discenti saranno coinvolti attivamente nei progetti attraverso gruppi di discussione e autoconsapevolezza, preferibilmente composti da 6 a 12 studenti di età omogenea, che si incontreranno una volta ogni due settimane per un’ora o due, coordinati dai docenti referenti, per realizzare un processo di continua maturazione cognitiva, educativa e culturale, diffondere i valori del rispetto reciproco e della parità di genere, ridurre atteggiamenti discriminatori e violenti e far acquisire e cogliere gli strumenti necessari per riconoscere, anche precocemente, i primi segnali di discriminazione e di violenza contro le donne.

Le attività didattiche e laboratoriali, basate sul metodo “Balint” (lavoro di gruppo),saranno espletate nelle ore pomeridiane per non sovrapporsi (ma integrarsi) con le ore di Educazione civica, disciplina trasversale introdotta recentemente (settembre 2020). Il focus centrale dei temi sarà una base comune tra costruzione di relazioni affettive, la percezione di genere, gli stereotipi e il rispetto dell’altro.

Nell’art. 2 sono previste le modalità attuative dei progetti che dovranno seguire un percorso prestabilito approvato dagli organi collegiali (collegio dei docenti e consiglio di istituto) cosi come articolato:

  1. indicazione di un docente referente per ogni istituzione scolastica coinvolta;
  2. costituzione di gruppi di discussione – focus group – aventi come unità funzionale di riferimento la classe.
  3. individuazione, per ogni gruppo-classe, di un docente che possa fungere da animatore-moderatore;
  4. svolgimento di un’adeguata formazione di ciascun docente-moderatore, secondo un programma che il Ministero dell’istruzione e del merito predispone anche con il supporto di organismi scientifici e professionali.

Un aspetto molto qualificante dell’iniziativa è rappresentato dal coinvolgimento delle associazioni delle famiglie – FONAGS (Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola) incardinato presso la Direzione generale per lo studente, l’inclusione e l’orientamento scolastico, per l’attuazione dei progetti. Le linee guida del progetto saranno dunque condivise con il FONAGS che potrà formulare eventuali osservazioni e suggerimenti.

L’articolo 3 della direttiva prevede il finanziamento delle attività e il reperimento delle risorse necessarie per la realizzazione delle iniziative progettuali coerenti. Sono stati stanziati 15 milioni di Euro, somme a valere sui fondi europei PON (Programma Operativo Nazionale) “Per la Scuola – competenze e ambienti per l’apprendimento” e del PN “Scuole e competenze” 2021-2027.

Le istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado del sistema nazionale di istruzione potranno liberamente aderire o meno, nell’ambito delle risorse disponibili, attraverso la propria candidatura mediante un apposito avviso pubblico che sarà successivamente emanato e pubblicato. La partecipazione delle istituzioni scolastiche sarà dunque facoltativa così come è facoltativa l’adesione degli studenti previo il consenso da parte dei genitori o gli esercenti la responsabilità genitoriale.

L’art. 4 della direttiva prevede le azioni di accompagnamento e di formazione del corpo docente coinvolto nelle iniziative e nelle attività progettuali. Il MIM, avvalendosi dell’INDIRE (Istituto nazionale di documentazione innovazione e ricerca educativa), garantirà l’erogazione di specifici percorsi di formazione a favore degli insegnanti coinvolti e l’accompagnamento puntuale delle istituzioni scolastiche con un attivo supporto nella realizzazione delle attività progettuali previste anche mediante la collaborazione dell’Ordine degli psicologi e/o di altri organismi scientifici e professionali qualificati (a titolo di esempio la consulenza di giuristi e pedagogisti ed esperti del settore).

Le figure coinvolte nei progetti, sia interni (docenti) che esterni (esperti), saranno opportunamente incentivate tramite compensi extra per le ore aggiuntive espletate, rispettando i termini dei contratti collettivi nazionali.

In conclusione il progetto “Educare alle relazioni” ha suscitato diverse reazioni e accesi dibattiti, sia favorevoli che contrarie, da parte di politici, esperti del mondo della scuola, tra i media e l’opinione pubblica. A parere di chi scrive si ritiene apprezzabile l’iniziativa sperimentale, utile e necessaria oggi più che mai, per prevenire e contrastare la violenza di genere e per educare le giovani generazioni ad una cultura del rispetto e della responsabilità.

Bibliografia

  • COSTITUZIONE ITALIANA, artt. 2, 3 e 13
  • CARTA dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2000/C 364/01), art. 21
  • CONVENZIONE Europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali Roma, 4 novembre 1950
  • DICHIARAZIONE sull’eliminazione della violenza contro le donne approvata dall’ONU nel 1993
  • RISOLUZIONE n. 54/134 del 17 dicembre 1999 “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne e il femminicidio
  • LEGGE 27 giugno 2013, n. 77 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica
  • LEGGE 13 luglio 2015, n. 107 “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” art. 1 comma 16
  • LEGGE 24 novembre 2023, n. 168 “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica
  • LINEE Guida Nazionali del 27 ottobre 2017 “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione
  • NOTA MIUR prot. n. AOODGSIP.5515 del 27 ottobre 2017 “Piano nazionale per l’educazione al rispetto, Linee Guida Nazionali (art. 1 comma 16 L. 107/2015) e Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo nelle scuole (art. 4 L. 71/2017)
  • DECRETO 12 aprile 2022 “Costituzione dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica
  • DIRETTIVA prot. n. 83 del 24 novembre 2023 percorsi progettuali per le scuole in tema di “Educazione alle relazioni
  • PROTOCOLLO DI INTENSA “Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica – iniziative rivolte al mondo della scuola

Sitografia

  • MINISTERO DELL’ISTRUZIONE

https://www.miur.gov.it/web/guest/-/direttiva-n-83-del-24-novembre-2023

  • MINISTERO DELL’ISTRUZIONE

https://www.miur.gov.it/web/guest/-/25-novembre-il-videomessaggio-del-ministro-valditara-la-violenza-contro-le-donne-e-negazione-dei-diritti-umani-la-scuola-costituzionale-in-prima-linea

Il format dello scrutinio finale

Il format dello scrutinio finale

di Francesco Scoppetta

Il Festival di Sanremo ha avuto 73 edizioni e le ultime 3 le ha condotte Amadeus. Ma è evidente che il suo format cambia ogni anno. Il format televisivo è il modello di un programma televisivo, è un apparato di regole che determinano lo svolgersi del programma stesso. Lo stesso format genera innumerevoli varianti per cui è difficile dire che sia sempre lo stesso prodotto. E’ come una casa la cui facciata rimane la stessa ma all’interno viene ristrutturata secondo i desideri di chi la abita. Già a Sanremo se modifichi il peso delle componenti che votano (la bilancia si sposta dagli esperti al pubblico o viceversa) cambia il risultato, come succede con i vari sistemi elettorali della politica, dal proporzionale al maggioritario e tutte le combinazioni intermedie.

Senza inoltrarci nei rituali, laici o religiosi (funerale, messa, memorial) prendiamo il format “intervista televisiva”. E’ chiaro che il format condotto da Vespa è diverso da quello di Biagi, o di Fazio o di Floris o di Minoli o della Fagnani. Potremmo continuare ad esaminare tantissimi format, il “convegno culturale”, la “commemorazione”, “la presentazione di un evento culturale o sportivo”, la “conferenza stampa degli inquirenti dopo gli arresti”, il “messaggio augurale di fine anno” di un’autorità, la riunione di condominio, e arriveremo alla stessa conclusione: il format è quello ma è soggetto a tantissime variazioni che lo rendono speciale. Il contenitore è unico ma cambia il contenuto.

Se ogni format si basa su una formula (idea) o è una organizzazione di dati, soffermiamoci adesso su un altro format, ce ne sono in ogni angolo della vita associata, lo scrutinio finale in una scuola. Nonostante regole ormai codificate (quelle scolastiche risalgono al 1925) non si può certo dire che in tutte le scuole italiane gli scrutini vengano svolti allo stesso modo. O meglio, formalmente è così, ma sono le variazioni pratiche quelle che personalizzano ogni scrutinio all’interno della penisola e anche all’interno di ogni scuola. Fissiamo innanzitutto la norma (ripresa dall’OM 92/2007 e dal Dpr 122/2009).

art. 79 del R.D. 4/5/1925 n. 653

Il voto di profitto nei primi due trimestri si assegna separatamente per ogni prova nelle materie a più prove e per ogni singolo insegnamento nelle materie comprendenti più insegnamenti.
Nello scrutinio dell’ultimo periodo delle lezioni il voto è unico per ciascuna delle materie di cui alla tabella A.

I voti si assegnano, su proposta dei singoli professori, in base ad un giudizio brevemente motivato desunto da un congruo numero di interrogazioni e di esercizi scritti, grafici o pratici fatti in casa o a scuola, corretti e classificati durante il trimestre o durante l’ultimo periodo delle lezioni.

Se non siavi dissenso, i voti in tal modo proposti s’intendono approvati; altrimenti le deliberazioni sono adottate a maggioranza, e, in caso di parità, prevale il voto del presidente.

Le norme giuridiche sono soggette ad interpretazione. Il modo in cui interpretiamo i testi si evolve nel tempo a causa del cambiamento dei costumi sociali e dell’etica. Una semplice interpretazione letterale dell’art. 79 (senza inoltrarci nelle decine di interpretazioni possibili, logica, teleologica, analogica, sistematica…) ci fa scoprire i buchi presenti.

Essi sono: 1) non è esplicitato il numero di insufficienze che giustificano la bocciatura; 2) non è esplicitato se la proposta di voto del docente possa essere modificata. Tali buchi (incertezze) vengono riempiti o dal preside (con una sua interpretazione formalizzata in un regolamento) o dalla prassi dei singoli consigli di classe o della scuola intera. Ma ancora più giù, essendoci la libertà di insegnamento, dal singolo docente che resta quindi la pedina incontrollabile e ingovernabile del meccanismo.

Per farmi capire, vorrei spiegare come in un secolo ogni scrutinio scolastico si sia modificato grazie ad alcune interpretazioni evolutive della scuola militante. Le tre più decisive sono state:

1) posto che nella scala decimale ci sono due cinquine e quella positiva comincia dal 6, l’utilità marginale del voto 5 (cd mediocre) è stata via via considerata più vicina alla sufficienza che all’insufficienza;

2) di conseguenza, per evitare che tutti i 5 diventassero in automatico 6, si è inventata l’attribuzione del cd “voto consiglio” (come se tutti i voti di uno scrutinio non fossero deliberati dal consiglio);

3) infine si è deciso che la bocciatura potesse esserci solo in presenza di più insufficienze e non di una sola.

Grazie a tali invenzioni (e ad altre) è stato reso possibile che ogni consiglio di classe diventasse una monade e si costruisse il suo format preferito. Credete forse che lo scrutinio della classe IA e della classe IB nel liceo di Pincopallo, pur presieduto dallo stesso preside, riproducano lo stesso format? Nella sostanza no. Come i festival di Amadeus, lui ne ha organizzati e presentati tre, ma ha usato 3 format diversi.

“Il collegio dei docenti definisce modalita’ e criteri per assicurare omogeneita’, equita’ e trasparenza della valutazione, nel rispetto del principio della liberta’ di insegnamento” (Dpr n.122/209, art.1 c.5).

Ipotizziamo che in un liceo si sia stabilito che un alunno venga non promosso in presenza di tre insufficienze gravi e che soltanto due mediocrità (5) vengano, con voto consiglio, alzate a 6. Applicando tali regole in tutti i consigli svolti sotto la direzione del preside, credete forse che si sia ottenuta l’uniformità di trattamento degli allievi in tutte le sezioni? Certo che no e lo spiego con l’esempio dell’alunno Mario promosso con due soli debiti formativi (insufficienze da riparare a settembre). Vediamo come Mario sia arrivato alla promozione. Egli, senza che il preside lo sapesse, aveva in realtà il giorno prima dello scrutinio una situazione fallimentare: aveva ben sei 5 e due 4. Cioè ben 8 insufficienze su 11/12 materie. Cominciato lo scrutinio, le mediocrità sono scese a tre perchè autonomamente prima della riunione tre docenti le hanno alzate a 6 (si chiama arrotondamento); ne sono rimaste altre tre. Visti i numeri allora il preside applica i criteri comuni, con voto consiglio due mediocrità le alza a sei e infine promuove Mario con sospensione del giudizio per i debiti formativi nelle materie in cui aveva insufficienza grave (4). L’ultimo cinque rimasto sul tavolo si chiede al docente di alzarlo lui perchè la regola è bocciare con 3 insufficienze gravi e qui ne abbiamo solo due.

Moltiplicate questo caso vero per le migliaia di situazioni che si affrontano negli scrutini finali di tutte le scuole italiane e si può capire che il format “scrutinio finale” è come il festival di Sanremo, è cangiante e quanto di più imprevedibile ci possa essere. Se in pratica si può promuovere con 8 insufficienze, il format “scrutinio” si svolge ormai senza più alcuna certezza giuridica. Sono anche sempre più frequenti gli interventi della magistratura per vizi di forma della valutazione, pur insindacabile nel merito. Vediamo allora brevemente di rammentare cosa dice questa normativa che (formalmente) non è mai stata cambiata in poco

meno di un secolo perchè ritenuta dal Ministero una sorta di stella polare, un faro per condurre in porto senza far naufragio la barca degli scrutini.

Ogni insegnante si presenta allo scrutinio, presieduto dal dirigente scolastico (o, in sua assenza, da un docente della classe da lui designato) con la proposta di voto, già fatta pervenire al dirigente, in modo che egli possa avere il quadro completo della situazione di ciascun alunno. Se la proposta di voto per ogni singolo alunno non viene condivisa da uno o più componenti del consiglio di classe e non si raggiunge un accordo, si ricorre alla votazione, che è obbligatoria e non consente, quindi, astensione da parte di nessun componente. Nel caso di parità di voti prevale la proposta a cui il Presidente ha dato il voto, rimanendo fermo il numero dei voti dato a ogni proposta ( DLgs 297/94, art. 37, comma 3).

Come si vede, la normativa è abbastanza semplice e non parla di insufficienze con relativo numero nè di debiti formativi. Prefigura uno scenario in cui allo scrutinio di una classe il prof Rossi presenta la sua proposta di voto per l’alunno Tizio (per esempio 4) e i suoi colleghi possono approvarla o non approvarla. Se l’approvano tutti, lo scrutinio è finito perchè con un solo 4 Tizio è bocciato. Se non l’approvano, all’unanimità o a maggioranza, si apre una lacuna interpretativa perchè la normativa nulla dice su cosa fare dopo che il voto proposto è stato rigettato.

Col passare degli anni (le interpretazioni evolutive delle norme servono a questo) dell’art. 79 è stato rigettato dai docenti il mondo in bianco e nero che sembra prefigurare, la sua logica binaria, dove non esistono nè i mezzi voti (di cui parleremo tra poco) nè il voto mediocre (il 5 come voto vicino alla sufficienza). Se i colleghi dissentono dal voto 4 dato all’alunno dal prof Rossi, quel voto passa automaticamente a 6? E se i colleghi invece approvano quel voto 4, è possibile poi trovare il modo di non bocciare l’alunno? Su queste domande come dicevo le singole scuole hanno sviluppato le loro prassi a cominciare dal primo strappo alla procedura che hanno voluto operare per ridurre i tempi: non si discute, come la norma interpretata alla lettera vorrebbe che si facesse, ogni singola proposta di voto, ma si opera uno sguardo d’insieme: messe sul tavolo tutte le proposte di voto che concernono l’alunno Tizio, si tenta di fare sintesi o mediazione. Se tutti i voti sono positivi è promosso, se le insufficienze (che sono i voti dal 5 in giù) sono molte è non promosso. Tolte dal tavolo le situazioni di questi studenti con valutazione chiara o scura, si passa infine alla zona grigia con le proposte di voto degli alunni in bilico.

La normativa del 1925 su un punto, qualsiasi sia l’interpretazione a cui la si voglia sottoporre, è chiara: le proposte di voto o si accettano oppure vengono messe ai voti. Ogni proposta è definitiva, e solo il consiglio la può modificare, dunque non sono contemplati ed ammessi tutti quegli scrutini-mercato dove ogni insegnante, fatta una proposta iniziale, può cambiarla a proprio piacimento durante lo svolgimento dello scrutinio. Insomma, la normativa prefigura uno scenario che, come dicevo, è binario, se lo studente Tizio ha 4 insufficienze (voti dal 5 in giù in italiano, storia, matematica e scienze) si discutono le singole insufficienze e se non vengono approvate (non c’è alcun riferimento alle motivazioni: è quella domanda di Eduardo al figlio Nennillo, te piace ‘o presepe?) si deve votare.

Si comincia a discutere il voto in italiano, si decide, all’unanimità oppure a maggioranza di approvarlo, poi via via si passa alle altre tre materie e se una sola insufficienza (compreso il 5) viene confermata (fatta propria) dal consiglio, l’alunno è respinto. Questo è il format previsto dalla normativa per lo “scrutinio finale”.

Ogni docente di ciascuna scuola italiana può capire quanto (poco o molto) sia distante dalle prassi abituali adottate negli anni. Insomma, ogni scuola ha le sue abitudini storiche circa gli scrutini, le replica in automatico e il format viene fatto proprio dai consigli di classe di quella scuola. Questo è lo scenario migliore, perchè quello peggiore è consentire il format inventato da ciascun consiglio di classe (una volta si usava l’espressione “il consiglio di classe è sovrano“) con la conseguenza che in una scuola si riconoscono le sezioni facili e quelle difficili, qualora il dirigente non sia in grado (o non intenda) costruire un format di scuola.

Per concludere, il format “scrutinio finale” è molto semplice se si osserva la normativa vigente. Tutte le varianti che l’ingegno italico ha in quasi cento anni escogitato non hanno senso e ragione di esistere, così come i mezzi voti attribuiti nella pratica quotidiana agli allievi, dal momento che la scala da utilizzare è quella decimale con voti interi. I mezzi voti (il 4,5) sono un espediente per aumentare i voti a disposizione del docente per la misurazione (la valutazione è successiva), con il pretesto di una maggiore precisione, la quale spesso deriva dalla pratica irragionevole di fare la media tra due misurazioni: se in due elaborati l’allievo ha preso 6 e poi 5, la somma 11 fornisce la media 5,5. Un esempio dimostra (a chi vuol intendere) le conseguenze illogiche dell’uso dei mezzi voti. Si pensi a quattro prove nelle quali l’allievo prende prima 4, poi 5, poi 6 e infine 7. Il docente che usa la media lo porta allo scrutinio con 5,5 ( 22:4=5,5). Invece di vedere il trend

positivo di miglioramento dell’allievo, lo si inchioda, con una operazione matematica discutibile, alla insufficienza. Siamo dalle parti dei sofisti con le loro argomentazioni speciose, in apparenza valide ma in realtà ingannevoli. E inoltre così facendo si dimostra di non aver capito affatto la differenza tra misurazione e valutazione.

Quelle che ho chiamato varianti non sono altro che abitudini che ogni comunità (il collegio dei docenti) acquisisce, per cui un prof cambiando scuola deve cambiare abitudini. Capire perchè nella scuola X ci siano certe abitudini e non altre, per es. l’abitudine nello scrutinio finale di arrotondare a 6 tre mediocrità con “voto consiglio”, è difficile, almeno quanto capire perchè nel tennis si è stabilito di usare il punteggio “15” – “30” – “40”. Ad oggi, infatti sembra impossibile appurare la verità ma esistono solamente ricostruzioni, più o meno attendibili. Insomma, le abitudini, buone o cattive, non si sa bene come e quando siano nate ma una cosa resta sul tappeto senza che possa essere smentita:

Se lo scrutinio finale è assimilabile ad un format contenitore, il contenuto di tutte le variabili utilizzate in pratica ha complicato sino a contraddire le regole stabilite dall’art. 79 del R.D. 4/5/1925 n. 653.

Sistema di formazione iniziale degli insegnanti

Sistema di formazione iniziale degli insegnanti: riforma del reclutamento. Stato dell’arte

di Carmelo Salvatore BENFANTE PICOGNA, Dario Angelo TUMMINELLI, Zaira MATERA

La formazione iniziale degli insegnanti è ed è sempre stata un nodo cruciale per tutti i governi, di qualsiasi colore politico, oggetto di continue riforme, ideate e pensate per preparare gli insegnanti, futuri educatori, a svolgere efficacemente il loro delicato ruolo nel campo dell’istruzione.

La formazione iniziale varia da paese a paese. A titolo di esempio, è molto frequente nei paesi europei che i futuri insegnanti conseguano dopo la laurea un “Master in Educazione” per approfondire ulteriormente le loro conoscenze pedagogiche.

Nel contesto Europeo, in genere, la base comune dei programmi e dei saperi variano notevolmente in base al paese, al livello di istruzione nel quale si vorrà insegnare e al tipo di scuola dove si svolgerà il servizio. Saperi e programmi risultano dalla combinazione delle varie discipline, tra queste sono sempre essenziali le teorie pedagogiche, metodologiche, la gestione della classe, nonché le pratiche di valutazione.

Presupposto comune, dunque, è che il docente conosca approfonditamente la materia e padroneggi i contenuti della disciplina (saperi) e le metodologie didattiche atte ad insegnarla.

Con il Decreto-Legge 30 aprile 2022, n. 36 rubricato in “Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)” testo coordinato dalla Legge di conversione 29 giugno 2022, n. 79, in concreto si dà atto con l’art. 44 ad un nuovo sistema reclutamento, ridefinendo e modificando il testo originario (Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 59) con dei nuovi percorsi abilitanti (universitari e accademici) di formazione iniziale per i docenti della scuola secondaria di primo e secondo grado.

La riforma, difatti, segue il solco scavato, o meglio il percorso delineato dal Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 59 Riordino, adeguamento e semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria per renderlo funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione” fortemente voluto dall’allora Governo Renzi, attutivo della cosiddetta  “Buona Scuola, ai sensi dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera b), della Legge 13 luglio 2015, n. 107.

Il testo normativo di recente pubblicazione contiene dunque le nuove regole per la formazione iniziale o d’ingresso e continua (in service training). Definisce le modalità di formazione iniziale, l’abilitazione e l’accesso all’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado per i posti comuni. Esso è articolato in tre precisi “step” come di seguito elencati:

  1. Percorso universitario o accademico abilitante di formazione iniziale, corrispondente ad almeno 60 CFU/CFA (crediti formativi universitari/crediti formativi accademici), comprendenti attività di tirocinio diretto e indiretto in misura non inferiore a 20 CFU/CFA, con prova finale (verifica scritta) tesa ad accertare le competenze metodologiche e didattiche acquisite. Nella prova conclusiva è compresa anche una lezione simulata, per verificare, oltre alla conoscenza dei contenuti e saperi disciplinari, la capacità di insegnamento. La lezione simulata in genere richiede la capacita di progettazione, anche mediante tecnologie digitali multimediali, di un’attività didattica, anche innovativa, comprensiva dell’illustrazione delle scelte contenutistiche, didattiche e metodologiche compiute in riferimento al percorso di formazione iniziale relativo alla specifica classe di concorso.
  2. Concorso pubblico nazionale, con cadenza annuale, indetto su base regionale e/o interregionale, a cui accedono i docenti abilitati come riportato nel punto precedente.
  3. Periodo di formazione e prova in servizio, di non meno di un anno, con test finale e valutazione conclusiva, con la successiva conferma in ruolo.

A seguito della citata legge n. 79/2022 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 25 settembre 2023 – serie generale n. 224, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 agosto 2023 rubricato in “Definizione del percorso universitario e accademico di formazione iniziale dei docenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, ai fini del rispetto degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza” emanato secondo quanto previsto dal Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 59.

Al decreto del 4 agosto sono annessi cinque allegati enumerati dal n. 1 al n. 5 e altri due allegati elencati con le lettere A e B come si riportano a seguire:

  • Allegato A: profilo conclusivo del docente abilitato, competenze professionali e standard professionali minimi
  • Allegato B: linee guida per il riconoscimento dei crediti

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in buona sostanza autorizza gli Atenei e le  Istituzioni AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica), statali e privati (solo a seguito dell’accreditamento del relativo percorso formativo con decreto del MUR, su parere conforme dell’ANVUR), ad organizzare, erogare e gestire autonomamente i percorsi di formazione abilitanti, universitari e accademici, in attuazione degli articoli 2-bis e 2-ter, dell’art. 13 e dell’art. 18-bis del Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 59 e regolamenta inoltre i criteri e i contenuti dell’offerta formativa, le modalità organizzative, i costi massimi ammissibili a carico dei candidati interessati, ed infine i criteri e le modalità di svolgimento della prova finale.

I percorsi, che presumibilmente partiranno nel 2024, avranno un costo massimo di 2500,00 Euro (per il percorso da 60 CFU), diminuito o comune ridotto a 2000,00 Euro nei casi previsti dal decreto, mentre i requisiti di accesso sono stati definiti all’art. 7. Tali percorsi sono a frequenza obbligatoria e potranno essere svolti, ad esclusione delle attività di tirocinio e di laboratorio, anche con modalità telematiche a distanza. Come previsto dall’art. 7 comma 7 del DPCM del 4 agosto 2023 per accedere alla prova finale sarà necessario una percentuale minima di presenza alle attività formative, stabilita non inferiore al 70% per ogni attività formative.

In buona sostanza il decreto in parola costituisce il primo passo dei tre “step” previsti dalla riforma per divenire docenti a tempo indeterminato. I summenzionati percorsi possono essere catalogati nelle seguenti principali tipologie

  • Corsi abilitanti da 60 CFU/CFA (All. 1):

ad accesso libero (aperto a tutti). Accedonocoloro che sono in possesso di una laurea magistrale a ciclo unico o specialistica (biennale) o ancora vecchio ordinamento, che intendono insegnare una disciplina specifica nella scuola secondaria di primo o secondo grado. È tuttavia richiesto perentoriamente che il piano di studio sia completo dei crediti universitari previsti dall’art. 5 del Decreto Ministeriale n. 259 del 9 maggio 2017 “Decreto di revisione e aggiornamento delle classi di concorso” e relative tabelle annesse, decreto correttivo e integrativo del Decreto del Presidente della Repubblica del 14 febbraio 2016, n. 19. Gli studenti che intendono diventare docenti devono verificare fin dall’inizio del proprio percorso formativo quali crediti formativi sono obbligatori nei settori disciplinari per accedere alle diverse classi di concorso. Pertanto, nel caso in cui il piano di studi dovesse risultare carente di alcune materie/discipline, sarà necessaria l’acquisizione di crediti formativi obbligatori (esami integrativi) necessari per accedere alle diverse classi di concorso nel percorso abilitante scelto.

Accedono ai corsi abilitanti da 60 CFU/CFA anche coloro che sono in possesso del diploma conseguito negli istituti tecnici e professionali – cosiddetti ITP (insegnanti tecnico pratici) con le limitazioni temporali indicate nella normativa. Tali percorsi abilitanti sono finalizzati a sviluppare ed accertare, nei futuri docenti, le competenze culturali, disciplinari, pedagogiche, psico-pedagogiche, didattiche e metodologiche proprie della professione docente e la capacità di progettare percorsi didattici.

  • Percorso di 30 CFU/CFA (All. 2 – 4)

Accedono i vincitori di concorso che non hanno l’abilitazione (vedi concorso “straordinario bis”); i docenti abilitati su altro grado/classe di concorso o ancora i docenti specializzati abilitati sulle attività didattiche di sostegno che intendono conseguire una ulteriore abilitazione all’insegnamento su posto comune; i docenti con trentasei mesi di servizio maturato;

  • Corsi abilitanti da 36 CFU/CFA (All. 5):

Questi percorsi sono riservati a coloro che hanno acquisto, nel previgente ordinamento e comunque entro e non oltre il 31 ottobre 2022, i 24 CFU nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e in metodologie e tecnologie didattiche, ai sensi del Decreto Legislativo n. 59/2017, in conformità all’Allegato 5 e Allegato B, lettera f) del DPCM del 4 agosto 2023 “Linee Guida per il riconoscimento dei crediti”. Il candidato aspirante dovrà presentare la certificazione unica ai sensi del Decreto Ministeriale n. 616 del 10 agosto 2017 e allegati, attestante l’acquisizione dei crediti.

Per ogni singola classe di abilitazione per i percorsi da 60 e 36 CFU/CFA, il numero dei posti è prestabilito sulla base del fabbisogno comunicato dal Ministero dell’Istruzione e del potenziale formativo che può sostenere ogni singolo Ateneo. Pertanto è prevista una selezione iniziale se, per singole classi di abilitazione, il numero delle domande di ammissione eccede il numero di posti messi a disposizione.

Altri punti qualificanti della riforma contenuta nel DPCM sono:

  • l’implementazione di un rigoroso sistema di accreditamento affidato all’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) che definirà tali percorsi, le procedure di monitoraggio sul livello qualitativo della formazione e la valutazione finale degli aspiranti docenti. (fonte MIM)
  • Inoltre i percorsi formativi saranno oggetto di un’attenta valutazione periodica “ex post” (effettuata sempre dall’ANVUR) per assicurare l’omogeneità della qualità dell’offerta formativa universitaria. La valutazione inoltre terrà conto del “tasso di successo” dei nuovi abilitati con le nuove procedure di reclutamento per la scuola. (fonte MIM)

Bibliografia

  • LEGGE 13 luglio 2015, n. 107 “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti
  • LEGGE 29 giugno 2022, n. 79 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, recante ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)”
  • DECRETO-LEGGE 30 aprile 2022, n. 36 rubricato in “Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)”
  • DECRETO LEGISLATIVO 13 aprile 2017, n. 59 “Riordino, adeguamento e semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria per renderlo funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera b), della legge 13 luglio 2015, n. 107
  • DECRETO del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 agosto 2023 “Definizione del percorso universitario e accademico di formazione iniziale dei docenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, ai fini del rispetto degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza
  • DECRETO MINISTERIALE n. 259 del 9 maggio 2017 “Decreto di revisione e aggiornamento delle classi di concorso
  • DECRETO del Presidente della Repubblica del 14 febbraio 2016, n. 19 “Regolamento recante disposizioni per la razionalizzazione ed accorpamento delle classi di concorso a cattedre e a posti di insegnamento, a norma dell’articolo 64, comma 4, lettera a), del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133
  • DECRETO MINISTERIALE n. 616 del 10 agosto 2017 “Modalità acquisizione dei crediti formativi universitari e accademici di cui all’art. 5 del decreto legislativo 13 aprile 2017 n. 59
  • NOTA MUR. 06 novembre 2023, prot. n. 21328 “Indicazioni operative sulle procedure di accreditamento iniziale e periodico dei percorsi di formazione insegnanti a.a. 2023/2024
  • NOTA MIM del 17 ottobre 2023, prot. n. 19087
  • LINEE GUIDA ANVUR per la valutazione dei requisiti di accreditamento iniziale dei percorsi di formazione per insegnanti per gli anni accademici 2023/24 e 2024/2025 approvate dal Consiglio Direttivo con delibera n. 231 del 26 settembre 2023

Sitografia

  • MINISTERO DELL’ISTRUZIONE

https://www.miur.gov.it/-/scuola-firmato-il-dpcm-sulla-formazione-dei-docenti-della-secondaria-di-i-e-ii-grado

  • MINISTERO DELL’ISTRUZIONE

https://www.miur.gov.it/-/scuola-via-libera-alla-legge-di-riforma-della-formazione-e-del-reclutamento-dei-docenti

Merito e relazione l’ossimoro scolastico

Merito e relazione l’ossimoro scolastico

di Giovanni Fioravanti

Non si chiamano materie, neppure discipline, tanto meno aree disciplinari, anche se a volte rivendicano una non ben precisata interdisciplinarità o transdisciplinarità.

Sono le “Educazioni”. Educazione civica, educazione stradale, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione alla salute e potremmo proseguire.

Non hanno vita facile, neppure hanno l’imprimatur dei Programmi o delle Indicazioni nazionali  come le loro antenate Educazione domestica e Educazione fisica, tanto da non meritare né una cattedra né un orario, così col tempo finiscono per infrattarsi in qualche ripostiglio scolastico, salvo che non giunga un PTOF a rispolverarle.

È questo il modo in cui a scuola, luogo di apprendimento delle conoscenze e della cultura della propria specie, si esercita l’educabilità, cioè quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità.

Il teorico dell’educazione umanistica, il francese Louis Meylan, definisce l’educazione “come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.

Meylan, che scriveva nella prima metà del Novecento, doveva però essere consapevole della crisi che già allora attraversava l’educazione, se un secolo prima l’abate Lambruschini dalla sua tenuta di San Cerbone in Toscana avvertiva: “Ma quel che più merita di essere notato […] è la mancanza di principi direttivi, l’incertezza nella quale gli educatori ondeggiano sopra un tenore ben ordinato e costante di condotta verso i fanciulli […]. Un naturale un poco ribelle, un caso straordinario li coglie alla sprovvista;[…] e s’abbandonano a quel partito che un propizio, ma ceco, buon senso suggerisce loro; o a quello che consiglia loro l’insipienza, la noia, l’amor proprio ferito. L’indocilità invece della sottomissione, la scioperataggine e la mala grazia invece della applicatezza e delle composte maniere. […] Cosicché si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.

Al di là dello stile e del lessico pare scritto oggi, da questo punto di vista i social sono rivelatori. Prendo da un post di insegnanti a caso: “La riprovazione no, perché altrimenti ci sono i sensi di colpa e guai a sentirsi in colpa quando si sbaglia. E per evitare i traumi, abbiamo smesso di educare, abbiamo avuto paura di educare, di dire no, di dire che quel comportamento non va bene, di dire che quella cosa non la puoi fare perché non è giusto farla. Abbiamo paura, non ne abbiamo voglia, la coerenza costa energia, fatica, impegno. […] Poi, quando succedono le tragedie, tutti ad interrogarsi, a fare la disamina del disagio psicologico giovanile, a dare la colpa alla malattia mentale.

Ora il ministro dell’Istruzione e del Merito decide che è giunto il momento, spinto dallo sgomento che l’assassinio di Giulia Cecchettin ha prodotto nel paese, di sperimentare nelle secondarie di secondo grado una nuova educazione: l’Educazione alle relazioni.

Alla notizia mi è venuto d’istinto pensare che una mela sana posta insieme a mele guaste finisce anche lei per marcire.

Semplicemente perché a scuola le relazioni sono malate e non è che si curano con interventi estemporanei rivolti agli studenti, semplicemente per il fatto che il problema di sapersi relazionare non è questione che riguarda solo i giovani, ma prima di tutto gli adulti a partire da quelli con cui i giovani trattengono rapporti ogni giorno a scuola. E se gli insegnanti sono quelli che scrivono post del tipo di quello sopra riportato non si fa che seminare in un terreno arido.

Quando il primo febbraio del 2023 una ragazza lascia un biglietto: “ho fallito negli studi” e si suicida, lo scalpore non è stato lo stesso che proviamo oggi per la sorte di Giulia e il tema della relazione a partire dalle aule scolastiche non ha sfiorato la mente di nessuno.

Anzi si è ciechi circa cosa può voler dire e può produrre per dei giovani adolescenti quel “Merito” che gli adulti di questo governo hanno voluto aggiungere all’Istruzione.

L’ha spiegato Albert Ellis con la sua RET, la terapia razionale-emotiva per liberarsi dei propri irrational beliefs, convinzioni rigide e irrazionali, come il bisogno dell’approvazione di chi si stima per sentire di valere, che occorre avere successo diversamente si è dei falliti, che la mancanza di rispetto degli altri e l’ostilità del mondo sono orribili e insopportabili.

All’indomani del suicidio della ragazza del biglietto, un’altra ragazza scrive a la Repubblica: “La scuola italiana insegna che valiamo quanto un numero tracciato con la penna rossa. La scuola insegna la competizione, la demonizzazione di ogni sentimento. Se invece che darci un bonus da spendere ci regalaste professori che hanno una formazione, che amano quello che insegnano…

Allora viene da pensare che il problema vero non sia nella relazione con gli altri, ma nella relazione con se stessi a partire dagli adulti.

Quando si oltrepassa il confine dell’inviolabilità della vita propria o  dell’altro ritengo che si entri in un territorio che va ben oltre l’educazione alle relazioni, all’affettività e alla sessualità.

Ma sono convinto che servirebbe una campagna a tappeto, come si è fatto con la pandemia da Covid, di vaccinazione con la la RET, per liberare adulti e giovani dai costrutti mentali che condizionano i nostri comportamenti.

Qui ritornano le parole con cui Freud chiude la sua lettera di risposta a Einstein che lo interroga sulla guerra: “La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. […] E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.

“La dittatura della ragione”, ma la nostra scuola è uno dei mulini di Freud.

Educazione alle relazioni e all’affettività

Educazione alle relazioni e all’affettività. Se bastasse un progettino…

di Mario Maviglia

 

Non so se anche voi avete questa impressione: ogni qualvolta succede qualcosa di grave nel Paese, viene invocata / auspicata / reclamata la funzione educativa che la scuola dovrebbe esercitare in quella particolare materia. C’è un grave incidente stradale che coinvolge dei giovani? La scuola deve occuparsi di educazione stradale. Un incendio distrugge una scuola? I docenti devono insegnare con maggiore attenzione la sicurezza. Una ragazzina viene uccisa dal suo sedicente fidanzato? La scuola deve educare alle relazioni e all’affettività. E si potrebbe continuare.Difficilmente si sfugge a questo schema. E la soluzione qual è? Semplice: un bel progettino, magari proposto dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, per incanalare le scuole lungo itinerari di approfondimento e di soluzione del problema. Raramente sorge il dubbio che la scuola nulla può se nel contempo, su problemi così complessi, non vi siano interventi a più ampio raggio che, ovviamente, coinvolgano anche la scuola, ma pure altre agenzie esterne alla scuola, in primo luogo le famiglie degli studenti. Peraltro, questa funzione quasi catartica che viene assegnata alla scuola si scontra, ipocritamente, con lo stato in cui la stessa scuola è lasciata proprio da quei governanti così solerti e attivi nel sollecitare l’attivismo della scuola. Basti considerare (se mai ce ne fosse bisogno) gli stipendi pressoché offensivi che percepiscono i docenti italiani rispetto ai loro colleghi UE, o lo stato in cui versano non pochi edifici la cui aggettivazione “scolastici” è un insulto all’intelligenza umana. Ci si ricorda della scuola quando si tratta di sbrogliare qualche matassa che altri soggetti istituzionali o sociali non sono in grado di gestire, o non lo vogliono fare.

Che dire dell’abitudine di riempire la scuola di progetti e di relativi referenti? Il fenomeno, ovviamente, non è nuovo, ed anzi nel tempo sembra si sia ampliato. Ma nel caso specifico del recente progetto annunciato dal MIM, che prevede 12 incontri di educazione alle relazioni nell’arco di un trimestre, c’è davvero qualcuno così ingenuo da pensare che ciò possa cambiare qualcosa all’interno della scuola o nei ragazzi? E c’è qualcuno disposto a pensare che l’utilizzo di influencer in questi progetti possa innalzare la qualità degli interventi formativi? Nella migliore delle ipotesi significa emulare modelli da Grande Fratello, culturalmente vuoti nella loro vacuità. E infatti da un punto di vista squisitamente formativo questi progetti tendono di solito a proporre un modello che la scuola deve adottare in vista di determinati risultati. Ci si dimentica, nel caso di specie, che la scuola ha già un suo modello (esplicito o meno, nel bene e nel male) e la prima azione formativa che si può fare, a partire proprio dai docenti, è quello di disvelarlo e renderlo consapevole ai vari protagonisti dell’azione educativa. Si vuole fare un ragionamentosull’educazione alle relazioni e all’affettività? Bene, il punto di partenza è: quali relazioni ci sono all’interno della nostra scuola e delle nostre classi? Come si caratterizzano? Quanta affettività circola tra noi docenti? Come viene manifestata? Come viene “amministrata”? Secondo quali codici? O si pensa che le relazioni e l’affettività siano un “problema” che riguardi i ragazzi e le ragazze? I veri influencer a scuola sono i docenti (qualcuno dovrebbe segnalarlo a viale Trastevere…) che attraverso il loro modo di fare scuola mobilitano anche energie psichiche e affettive nei confronti degli studenti, e non solo quelle cognitive e trasmissive.

Peraltro il dibattito in atto tende a dicotomizzare il problema: da una parte ci sono le emozioni, l’affettiva, l’empatia; dall’altra ci sono le discipline, come se la matematica (o le scienze o qualsiasi altra disciplina) non avesse una sua carica affettiva per come viene organizzata, per come viene presentata, per la mediazione didattica che mette in campo, per la mediazione comunicativa e relazionale di cui si avvale attraverso l’azione del docente. Se così non fosse, basterebbe dotare le scuole di macchine per insegnare che, almeno sul piano della precisione dei contenuti e della loro organizzazione gerarchica, sono sicuramente più precise dell’uomo-docente. L’intelligenza artificiale, sotto questo profilo, insidia il primato dell’insegnante.

Se non si parte da questi aspetti si rischia di fare un discorso sui ragazzi senza mai analizzare il proprio mondo interiore. Così, ad esempio, uno dei tratti comuni della violenza contro le donne (ma, in generale, della violenza dell’uno sull’altro) è l’incapacità di gestire l’aggressività che alberga dentro ognuno di noi (e anche dentro i docenti), ossia il non riuscire a fare i conti con la nostra parte “cattiva” per trovare forme di mediazione e di compromesso che ci consentano di vivere relazioni sociali non distruttive. Prendere contatto con le parti cattive interne è un’operazione quanto mai complessa e difficile, anche perché di solito si tende a sottacere o a reprimere moralisticamente queste parti. Ma in una dimensione formativa e di crescita il problema è esattamente opposto, ossia quello di riconoscersi queste parti, di dare loro un nome. E questo vale tanto per gli adulti quanto per i minori. Ad esempio, siamo veramente convinti che un docente tratti tutti gli studenti allo stesso modo? Che non ci siano dentro la classe soggetti che volentieri manderebbe a quel paese? Che non vi siano altri che invece godono della sua simpatia? Il problema non è nascondere ipocritamente questi sentimenti, vissuti come negativi, ma di disvelarseli, di portarli alla propria coscienza e magari di farne oggetto di confronto e di approfondimento con i colleghi (i quali a loro volta vivranno le medesime situazioni). E d’altro canto, se i docenti non seguono questo training personale, come possono aiutare i ragazzi e le ragazze a riconoscere a loro volta le loro parti “cattive” e a conviverci in modo via via più evoluto?

I “progettini” rischiano di spostare l’attenzione su un altro piano, lasciando inalterate le dinamiche psico-sociali all’interno della classe e, come si diceva in apertura, non dando un contributo significativo ad affrontare il problema. Un’ultima annotazione: anche se la scuola dovesse riuscire a condurre con efficacia il lavoro descritto sopra, non è detto che i risultati, in senso generale, siano soddisfacenti e permanenti perché rimane l’enigma del buco nero rappresentato dalle famiglie e dal contesto sociale su cui la scuola poco può fare. Ma su questo versante non sono previsti “progettini”.

Didattiche della violenza ed educazione all’amare

Didattiche della violenza ed educazione all’amare

di Gabriele Boselli

Materie prime della violenza

I fenomeni della violenza sulle donne, sui bambini e sugli anziani, in genere su soggetti inermi accadono per il combinarsi di vocazioni “naturali”, didattiche subculturali di violenza e defcit di deterrenti credibili. Si originano da molti fattori di ordine famigliare, culturale, economico, sociale, politico; si riscontrano in genere in contrazioni dell’esistere conseguenti alla dispersione e alla perdizione (droga, percezione della scuola e della vita sociale come non-senso) e vengono dalla eradicazione dalla capacità del soggetto di un’autocentrazione positiva onde costituire un mondo, pervenire nell’autenticità a una coscienza d’altro e di qui a uno stato veramente desiderabile e ulteriore. Esplodono con l’abbandono o l’abbandonarsi dei soggetti personali, istituzionali o fisici alla loro inerte gravità individuale, senza coscienza delle relazioni che comunque li costituiscono e in ogni caso ne condizionano il percorso, talvolta tanto debolmente da far ritenere scomparsi ogni relazione o rapporto.

Millenni di teologia e di pedagogia come scienza filosofica si sono confrontati con il perenne problema del Male, dell’Atto che da puro decade a impuro, della mutazione degenerativa del Bene (G.Gentile). Hanno indicato come i detonatori della violenza, quando non glorifcata come violenza di Stato (guerra), vadano individuati primariamente nell’incultura, nella scarsa fducia in se stessi e la conseguente paura degli altri. Tu sei migliore di me e allora ti distruggo e, specularmente, la nazione X o l’etnia Y valgono nulla e allora le posso concellare dalla faccia della terra. Molte donne vengono uccise da uomini che nel profondo si sentono inadeguati ma un numero ancor maggiore viene quotidianamente pestato dal compagno, ricavandone lesioni psichiche e fisiche permanenti. Un numero ancor maggiore rimane con il proprio compagno anche se non lo stima e non lo ama più temendo che -come talvolta succede- questi si vendichi dell’abbandono maltrattando o uccidendo i bambini.

Completezza di argomentazione vuole che -seppur più raramente e con violenza meno lesiva per limiti fisici- anche le donne attuino violenze morali e talvolta perfino fisiche sui “propri” uomini. Ma gli uomini tacciono, temendo di essere derisi per la propria incapacità di difendersi.

Fingere di far qualcosa

Le prove di un nuovo compromesso storico italiano sono forse cominciate e il terreno delle prime grandi manovre comuni è la risposta vagamente bipartisan di alcuni protagonisti del sistema politico alla violenza sulle donne. Quando i supremi decisori non hanno idee, possono comunque far finta di averne e darsi da fare per farlo credere cooptando chi ne ha meno di loro. Nell’attuale sistema politico e’ tutta questione di comunicazione e la comunicazione può sostituire il nulla, almeno dal punto di vista e di potere del decisore.

Certo in materia di contrasto alla violenza la situazione è proibitiva e operano le macchine didattiche della violenza: evanescenza della famiglia, internet, comunicazione telefonica vanno creando un soggetto tanto integrato nel deep-system, dunque tanto isolato come persona, da aver perso una autentica (non prodotto del sistema informativo globale) coscienza di sé. Il soggetto manifestamente o celatamente violento è perso rispetto a ogni valore, incapace di amare; è perso agli altri e a se stesso e a rischio di dipendenze anomale di tipo psichico o chimico che portano a cercare rimedio al proprio fallimento, alla muta disperazione propria con la violenza sull’altro.

Nella scuola, oltre all’anomia degli alunni, c’é anche quella dei genitori, degli insegnanti, dei dirigenti. Questi ultimi non bastonano fisicamente ma a volte possono far piangere. La violenza nella scuola e nella società è assai difcile da combattere ma invocare una nuova attività di studio, una nuova disciplina signifca solo “fare ammuina” dare ad intendere che si fa “qualcosa”. Magari trenta ore di chiacchiere per alcuni mesi con uno psicologo, come se la violenza fosse solo questione di malfunzionamento psichico individuale e non una ipercomplessa questione culturale e sociale da afrontare semmai sotto un ampio proflo multidisciplinare.

Fare qualcosa di utile

La scuola è come sempre chiamata a soccorrere ai limiti della famiglia e della società. Una risposta potrebbe essere cercata (nessuno la possiede) non in nuove discipline scolastiche o nella creazione di nuove clientele per gli psicologi ma entro un quadro teorico complesso comprendente tutte le scienze giuridiche e dello spirito e, più semplicemente, con l’essere ciascuno di noi una persona che appaia plausibile come riferimento. Nella scuola si contrasta la violenza con l’insegnare bene la propria disciplina. Italiano, matematica, scienze, tutte le discipline sono intrinsecamente i linguaggi della non violenza, della salvezza e dell’amore.

Mi sembra evidente che l’educazione affettiva non possa essere affidata a un solo docente, se non altro per non porre il tutto sulle spalle di un solo soggetto che magari in proposito ha qualche problema pure lui. E’ argomento interdisciplinare in cui ogni disciplina può offrire indicazioni preziose, coerenti con la tradizione pedagogica di continuità/discontinuità, di lavoro/gioco armonico con l’epoca. Dobbiamo allora servircene per guardare alla sua luce la storia di ogni soggetto, la presenza o meno in lui di stelle di riferimento. Molti ragazzi e adulti mai cresciuti esprimono una sorta di dolore per la mancanza di un punto ove dirigersi o cui tornare o su cui orientarsi per il cammino ulteriore, in altre parole di un senso, di una direzione intenzionale originaria e di fondo.

Serve non una nuova disciplina ma scenari di un orientamento non autoritario ma autorevole per qualità umane, culturali e professionali dei suoi attori, gente aperta ad agire e a farsi agire nella relazione entro un quadro culturale non meramente psicologistico, poiché la violenza non comincia e non fnisce a livello individuale. Occorrono delle fgure ricche di fantasia, “forti” per le doti e attraenti nello stile relazionale.

La scuola -tutta, fin dalla scuola dell’infanzia- è luogo di orientamento all’Intero attraverso i saperi; si tratta di aiutar a pervenire a visioni/interpretazioni originali ma non caotiche o deintenzionalizzate, aiutare a protendersi nel reale e nell’immaginario, sapendo il più possibile distinguere tali proiezioni. Si tratta di cercar di educare non solo all’affettività ma all’amore orientando culturalmente l’umano “buono” che è in ciascuno di noi alla vita nonché al mondo come luogo dell’accadere dell’humanitas.


– Giovanni Gentile Genesi e struttura della società, Mondadori

– Piero Bertolini L’esistere pedagogico, La Nuova Italia

– Bertolini/Caronia Per una pedagogia del ragazzo difficile, La Nuova Italia

– Italo Mancini L’Ethos dell’Occidente e Tornino i volti, Marietti

L’educazione secondo alcuni esperti di oggi

L’educazione secondo alcuni esperti di oggi

di Margherita Marzario

Lo psicoanalista Carl Gustav Jung scriveva: “Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremmo prima vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi” (da “L’integrazione della personalità”). I bambini non sono da cambiare ma da allevare (“levare a, verso”) – uno dei verbi usati nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a cominciare dal Preambolo -, che è più difficile di cambiare. I bambini sono innanzitutto da educare e l’educazione è una relazione in cui ci si avvolge e coinvolge, così avviene il reciproco cambiamento tra educatore e educando, cambiamento che è la vita stessa e quello che essa pone e richiede.

Nel 1959, in “Per una filosofia dell’educazione”, il filosofo francese Jacques Maritain metteva in guardia da sette errori dell’educazione contemporanea, tra cui il sociologismo, ovvero identificare l’educazione con le attese della società e propugnava, tra l’altro, l’arte che rimane comunque una forma di conoscenza pratica e ha una funzione educativa: quella di appassionare ai valori mediante la bellezza che essi esercitano sullo spirito. Quel binomio arte e cultura di cui i bambini hanno bisogno e diritto per crescere come persone e come cittadini della loro vita, come espresso nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (pubblicata a Bologna nel 2011).

Il pedagogista Marco Dallari precisa: “Portare il bello e il vero in educazione non significa insegnare ciò che è bello e ciò che è vero, ma fornire strumenti per la co-costruzione di esempi e repertori di verità e bellezza, scoprendo come spesso le due idee convivano o addirittura coincidano. Significa allenare e valorizzare la curiosità per la conoscenza e la sensibilità emozionale”. Nell’art. 3 della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura si legge: “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze”. I bambini sono già portatori del bello e del vero della vita: bisogna dare loro strumenti, mezzi, opportunità affinché li custodiscano, li esprimano, li condividano.

Secondo il saggista Goffredo Fofi: “Non si può essere educatore, e per estensione adulto, se non si è anche ottimisti. Con la volontà. È una sfida antica, questa […] e che in ogni generazione si ripete, ma oggi, credo, con più urgenza che mai”. L’educazione stessa è ottimismo (che non significa faciloneria) e non può essere diversamente, come si ricava anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare laddove si parla di “spirito” nel Preambolo e nell’art. 29 lettera d.

Allo “spirito” si riferisce pure Carlo Mario Fedeli, storico della pedagogia e dell’educazione: “Dall’intelligenza e dallo spirito con cui i problemi dell’educazione si affrontano dipende il futuro degli uomini e delle donne”. Perché educare è dare futuro, progettare il futuro, preparare al futuro, mentre arrendersi, mollare dinanzi ai problemi dell’educazione è privare bambini e ragazzi di possibilità e scelte e abbandonarli nel limbo del limitato presente e di un’apparente libertà.

“Il sogno [sull’educazione] crede, oggi più che mai, che un’educazione di qualità per tutti possa fare la differenza nella vita delle persone e trasformare il mondo, preparando un futuro di speranza e un’umanità nuova, capace di abitare con più sobrietà e solidarietà la nostra casa comune. Un’educazione così non potrà che generare una scuola-laboratorio che con la sua didattica interattiva prova a tradurre in pratica questi grandi orizzonti, mettendo davvero al centro la persona e la sua avventura nel mondo” (Vitangelo Carlo Maria Denora, gesuita esperto di educazione e formazione). La qualità dell’educazione (variamente denominata) è menzionata in tutte le fonti normative internazionali, tra cui il Pilastro europeo dei diritti sociali del 17 novembre 2017 il cui Principio I recita: “Ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro”.

“La consapevolezza negli adulti della dignità del minore e il riconoscimento dei suoi bisogni e diritti costituisce una possibilità di crescita anche per gli adulti stessi, che possono così trovare nel minore un interlocutore, un portatore di entusiasmo, meraviglia e coraggio. Il saper rendere il bambino e l’adolescente responsabili della propria crescita umana sarà quindi il miglior successo di ogni attività educativa” (esperti vari in “Diritti per l’educazione. Contesti e orientamenti pedagogici”, 2020). L’educazione comporta fatica ma, al tempo stesso, è una relazione tra educatore e educando, per cui condividendo la fatica si ottengono risultati migliori. L’educazione è come una cordata in cui l’educatore è il capocordata che infonde fiducia a chi lo segue e insieme potranno gioire sulla vetta della montagna per la vista di cui solo lassù si può godere.  “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società e allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), ovvero farlo ascendere, a maggior ragione se con disabilità o altro problema (cui si è soliti mettere le etichette).

Nell’educazione secondo l’educatore catalano Jordi Mateu, promotore della cosiddetta “educazione viva”: “Ci sono tre bisogni fondamentali: sentirsi protetti, sentirsi connessi e riconosciuti, e sentire di avere abbastanza autonomia per mostrare i propri desideri interiori, la propria curiosità. Se non mi sento al sicuro con te, se non mi guardi con affetto o non mi consideri valido, perdo la voglia di imparare”. L’educatore (genitore o insegnante) deve essere meno autoreferenziale ed essere come un direttore d’orchestra: conoscere ogni singolo musicista, valorizzare ogni strumento (dal primo violino al triangolo), avere occhi per tutti e ciascuno, osservare ogni singolo movimento e ascoltare ogni vibrazione d’animo. La sintonia con gli educandi rende la relazione educativa una sinfonia. 

Don Antonio Mazzi afferma: “L’educazione va succhiata col latte”. Come è fondamentale il latte materno che, tra l’altro, rafforza il sistema immunitario del bambino così è essenziale l’educazione genitoriale per rinforzare il sistema immunitario per la vita (basti vedere quanto accade nei casi di ineducazione). L’educazione in famiglia è e rimane il pilastro, le altre figure educative sono mattoni che si aggiungono.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati spiega: “L’educazione non è un braccio di ferro […]. Un insulto del padre o della madre è come un laser, lascia segni, cicatrici, invece gli insulti dei figli non lasciano nessun segno” (nella lectio magistralis del 15/02/2020 a Matera). L’educazione è la dimensione relazionale della famiglia ed è basata sul rispetto dei genitori e dei figli e tra genitori e figli e, purtroppo, la perdita o l’incertezza di questa dimensione ha determinato uno smarrimento educativo generalizzato.

“[…] curare le relazioni. Se si sono rovinate, per trascuratezza, noia, fretta, è il momento di riparare, come facciamo con tutte le cose a cui teniamo di più. Le persone si riparano, non si buttano via” (lo scrittore Alessandro D’Avenia). “I prerequisiti per la salute sono la pace, una casa, l’istruzione, la sicurezza sociale, le relazioni sociali, il cibo, un reddito, l’attribuzione di maggiori poteri alle donne, un ecosistema stabile, un uso sostenibile delle risorse, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e l’equità” (dalla Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della salute nel 21° secolo, 1997). Ogni persona nasce da una relazione, cresce in relazione, è fatta di relazioni. L’educazione è una delle relazioni prioritarie per cui è superfluo parlare di educazione relazionale o altrimenti aggettivata.

Ciò che è col cuore arriva prima al cuore e rimane per sempre nel cuore. I bambini hanno bisogno di autenticità. “Per noi che ci occupiamo di educazione credo sia importante alimentare la dimensione dell’essere, più che del fare e del possedere, dell’avere. E nel momento in cui noi alimentiamo la dimensione dell’essere, del cuore, della presenza, allora possiamo nutrire le nostre relazioni in maniera autentica perché ciascuno porta quello che è, quello che può, nel modo in cui può e fino a dove può e noi siamo disponibili ad accogliere questo. E allora questo genera sicurezza, perché genera questa possibilità di esserci con l’altro per quello che possiamo con molta apertura, nutrendoci l’uno dell’altro in quello che ciascuno può donare all’interno della relazione. In maniera veramente autentica, con tutta la vulnerabilità, la fragilità e la nostra dimensione dell’errore, dell’inciampo, del limite, del difetto e quant’altro. Proprio perché a quel punto io ti aspetto, aspetto te per quello che sei, indipendentemente dal risultato e dal prodotto di cui sei portatore, perché non è questo che interessa. È un po’ come traslare tutto il nostro tema del prodotto versus processo”(da “Le aspettative nella relazione educativa” delle formatrici Silvia Iaccarino e Simona Vigoni).

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “I casi di bambini a cui vengono diagnosticati disturbi neuropsichiatrici sono in aumento esponenziale. E se invece di aumentare le certificazioni, sostenessimo maggiormente genitori e insegnanti nelle loro funzioni educative?”. L’educazione è dare sostegno ma ha anche bisogno di sostegno, è una forma di solidarietà generazionale e intergenerazionale (art. 2 Cost.).

Per esempio nelle politiche antidroga non si parla di perquisizioni o controlli, ma piuttosto di dialogo, informazione e approccio educativo. Infatti, l’educazione ha una forte funzione di prevenzione e recupero e consente la cura e la protezione necessarie a bambini e ragazzi (art. 3 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) se caratterizzata e cadenzata da esempio, emozioni, entusiasmo, empatia, esercizio, energia. L’educazione è condivisione e preparazione.

Educare comporta trasmettere regole e limiti per il rispetto di sé e degli altri, ma non deve significare né castrare né incastrare, bensì cesellare e incastonare il gioiello della vita (anche se, poi, le cose possono andare diversamente). Molti genitori si fanno assorbire dai figli quando sono piccoli e si fanno asservire da loro quando sono cresciuti. L’educazione non è edulcorazione, emulazione, ma edificazione della vita, edizione di quella singola vita.

Genitori (e altri educatori) dovrebbero essere, nella vita dei bambini, “trasparenti” e “leggeri” come libellule: passare nella vita dei bambini ma senza fare danni. Bambini: bisogna continuare a sperare per loro, con loro, come loro. Possa crescere la loro speranza e possano crescere sempre più nella speranza! 

Collaborazione e compresenza in ambito scolastico

Collaborazione e compresenza in ambito scolastico

di Gino Lelli e Andrea Sorcinelli [1]

Lavorare insieme a scuola

Nell’ambito scuola ci sono varie tipologie di collaborazioni per la realizzazione di obiettivi inerenti all’attività didattica e alla delega di particolari responsabilità, che implicano la cooperazione tra:

  • insegnanti di una o più classi,
  • insegnanti e direzione,
  • insegnanti ed educatori,
  • educatori e direzione,
  • insegnanti, educatori e direzione.

Il lavorare insieme può essere saltuario o continuativo, durevole o di breve durata, poco o molto impegnativo. Nell’arco dell’anno scolastico, ciascun insegnante procede autonomamente con la propria programmazione didattica per poi incontrare i colleghi nel momento degli scrutini o degli esami. Sono presenti, inoltre, attività collettive inerenti alla programmazione, alla verifica della stessa, di aggiornamento e il lavoro didattico viene organizzato e coordinato insieme per quanto concerne i progetti la cui realizzazione necessita del concorso di varie discipline.

Lavorare all’interno di un gruppo conduce gli insegnanti a nuove consapevolezze e atteggiamenti, al superamento della tendenza all’individualismo, nonché a superare i timori di intrusione. La piena circolazione delle informazioni, l’utilizzo al meglio delle competenze dei singoli, la verifica dei risultati intermedi, sono elementi che favoriscono il conseguimento dell’obiettivo che si è posto il gruppo di lavoro.

Lo scambio delle informazioni

Lo scambio di informazioni tra insegnanti può riguardare vari argomenti quali la struttura sociometrica del gruppo classe:

  • studenti “popolari”, che hanno una forte influenza sugli altri e che potrebbero dunque essere di aiuto agli insegnanti, se questi riescono a ottenere la loro fiducia e la loro collaborazione,
  • studenti che appaiono isolati rispetto agli altri compagni, non hanno amici, non interagiscono,
  • studenti rifiutati dagli altri per ragioni varie, quali aspetti particolari del carattere o del modo di comportarsi.

Può concernere, inoltre:

  • studenti particolarmente dotati in determinate discipline,
  • studenti che hanno qualche disabilità motoria, sensoriale o mentale,
  • studenti che presentano aspetti caratteriali difficili e/o con situazioni familiari complesse,
  • tematiche sensibili per gli studenti che potrebbero essere trattate e diventare oggetto di discussioni di gruppo,
  • informazioni su tecniche e metodologie didattiche,
  • argomenti trattati dall’insegnante che tramite i colleghi gli ritornano come

feedback di gradimento degli allievi (entusiasmo, coinvolgimento e così via).

Aggiustamenti alla programmazione e condivisione

La programmazione iniziale deve essere sottoposta periodicamente a verifica sia personale, sia collegiale, allo scopo di scoprire presto eventuali inadeguatezze e di poter così introdurre i necessari correttivi.

Ad esempio, un insegnante si può accorgere che l’arco temporale previsto per la spiegazione di alcuni argomenti o di talune attività è troppo breve in rapporto alle capacità effettive degli allievi e che occorre distribuire meglio nel tempo quanto è stato programmato, rinunciando talora anche ad alcuni contenuti ritenuti non essenziali per lasciare più spazio agli altri.

Può, inoltre, rendersi conto che:

  • sono state trascurate fasi intermedie sulle quali ci si dovrebbe invece soffermare adeguatamente,
  • alcune condizioni giudicate necessarie per una sperimentazione non sono attuabili,
  • tematiche che si pensava potessero riscuotere interesse negli alunni non sono risultate affatto coinvolgenti e che vanno omesse,
  • un certo progetto, al momento dell’attuazione, si è rivelato di fatto non realizzabile,
  • un determinato argomento complesso può essere arricchito con nuovi “perché”, nuove possibilità di excursus, nuove attività di ricerca che non erano state immaginate nella programmazione iniziale.

La valutazione ha sicuramente momenti individuali dove un insegnante riflette autonomamente su quanto ha realizzato in classe, su quanto ha dovuto trattare velocemente, rinviare o accantonare determinati argomenti. Tali valutazioni possono essere condivise negli incontri collegiali con i colleghi, possono avvenire confronti di esperienze tra insegnanti sia sui ritmi di apprendimento della classe, sia sulle modalità didattiche e metodologiche. In tali incontri, inoltre, vengono comunicati i risultati di sondaggi compiuti (attraverso discussioni di gruppo o tramite questionari) per studiare le risposte degli allievi relative ai diversi aspetti della vita di classe, oppure raccogliere le loro valutazioni a proposito del grado di interesse per le varie attività didattiche in cui sono stati coinvolti, della comprensibilità e della rilevanza (nel loro mondo psicologico) delle conoscenze che stanno acquisendo, dell’adeguatezza dei metodi utilizzati.

La compresenza

La possibilità di lavorare insieme nell’attuazione di quanto è stato programmato non prende soltanto la forma del riunirsi periodicamente con i colleghi per verificare ed eventualmente aggiornare la programmazione, scambiarsi le impressioni e le informazioni, omogeneizzare gli atteggiamenti e i comportamenti, ma può prendere anche la forma di una concreta compresenza in una classe.

Ciò può accadere frequentemente nella scuola dell’infanzia, quando, ad esempio un maestro si prende cura dei bambini più piccoli e un altro di quelli di età maggiore, anche se in questo caso si tratta prevalentemente di una compresenza di tipo puramente fisico, dato che ognuno dei due gruppi viene impegnato in attività diverse.

Possono verificarsi situazioni di interazione educativa, sia quando le diverse attività dei sottogruppi sono le componenti di un progetto complessivo che le vede più tardi unificate (ad esempio la preparazione di una festa della scuola), sia quando l’attività proposta all’intero gruppo viene svolta in collaborazione da due o più insegnanti (per esempio uno legge una filastrocca mentre l’altro contemporaneamente la rappresenta mimicamente; oppure uno dirige il coro e l’altro suona il pianoforte).

Nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, vi può essere la compresenza di più insegnanti nelle fasi dell’esecuzione di un progetto, quelle in cui occorre mettere insieme le varie risorse o nella fase iniziale e intermedia dell’elaborazione di qualche unità tematica complessa, quando i vari “perché” possono trovare una risposta in campi disciplinari diversi.

Questa compresenza può verificarsi anche nella scuola secondaria di secondo grado, quando sono trattate tematiche e/o discussioni di gruppo su argomenti generali che presentano una pluralità di aspetti.

La compresenza può verificarsi anche in forme diverse da quelle di trovarsi contemporaneamente nella stessa aula, può cioè essere attuata in momenti successivi nella stessa area disciplinare, ad esempio dividendo il programma in moduli che sono trattati da diversi insegnanti.

Un esempio può essere l’esperienza attuata da alcuni insegnanti di discipline diverse in una scuola secondaria di primo grado dell’Emilia Romagna che si è svolta nella seguente modalità: uno dei libri di narrativa adottati in una classe è stato letto ad alta voce, a turno, nella classe, via via da tutti gli insegnanti, ognuno di loro ha letto e commentato con gli allievi almeno un capitolo del libro.

Così facendo, agli occhi degli alunni, l’immagine di ogni docente si è arricchita di nuovi aspetti, inoltre, alcuni insegnanti, percepiti come scostanti o antipatici, sono stati poi visti in un’ottica diversa e più positiva.

Le compresenze di più docenti, sia della stessa area disciplinare, sia di aree disciplinari diverse, possono essere realizzate inoltre con due o più classi riunite e, in certi casi, anche con tutte le classi dell’istituto scolastico.

Un esempio può essere l’incontro di due o più classi con qualche esperto, quale uno psicologo (che affronta argomenti rilevanti per preadolescenti o adolescenti, come lo sviluppo sessuale, i rapporti di amicizia con i coetanei, i rapporti con gli adulti, le tossicodipendenze, e così via), oppure con un testimone privilegiato di un’epoca, di un evento importante, di una certa professione.

In tali casi, nella fase di preparazione dell’incontro, durante il suo svolgimento e dopo la sua conclusione, insegnanti di varie discipline e di classi diverse collaborano proficuamente fra loro.

Conclusioni

Nell’intervento educativo lo scambio di informazioni e le varie collaborazioni sono importanti.Nel corso di tali esperienze la conoscenza reciproca si approfondisce, si verifica un arricchimento di informazioni e culturale nonché l’opportunità di riflettere sul proprio operato e di confrontarlo con quello dei colleghi, così da poterlo eventualmente migliorare. Vengono, inoltre, messe a fuoco le diverse componenti della professionalità di un insegnante, lacune incluse.

Lo scambio di informazioni consente, poi:

– di ricevere suggerimenti utili,

– una maggiore conoscenza delle caratteristiche degli allievi, di come questi vivono l’esperienza didattica,

– di migliorare la performance personale e di essere più consapevoli.

La consapevolezza può riguardare la necessità di realizzare un maggiore equilibrio tra:

–   attività che mettono in gioco la razionalità e altre che sollecitano la fantasia,

– attività che sollecitano una convergenza, portano cioè alla formazione di un’opinione condivisa da tutti e altre che favoriscono invece la divergenza, ovvero l’emergere di valutazioni individuali diverse che rivelano la presenza di capacità creative e la graduale formazione di uno stile personale,

–   attività individuali e attività svolte in gruppo,

–   lezioni classiche e discussioni o dibattiti,

–   l’adottare modalità didattiche diverse e più proficue,

–   l’adottare atteggiamenti diversi e più ottimali con gli alunni.

La gestione del gruppo classe da parte dell’insegnante deve essere di ascolto verso gli allievi e di guida consapevole e autorevole.

Bibliografia

·      Bresciano P., “Progettare e strutturare l’unità di apprendimento: Elaborare l’UDA per le prove dei concorsi scuola”, Varisco, Brescia, 2022

·      D’Alonzo L., “Come fare per gestire la classe nella pratica didattica. Metodi e strategie, unità di lavoro guidate e schede di autoformazione”, Giunti Edu, Firenze, 2017

·      Selleri P., “In classe. Costruire e gestire il benessere a scuola”, Carocci, Roma, 2019

·      Triani P., “La collaborazione educativa”, Morcelliana, Brescia, 2018

·      Tuffanelli L., Ianes D., “La gestione della classe. Autorappresentazione, autocontrollo, comunicazione e progettualità”, Erickson, Trento, 2011


[1] Gino Lelli, Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino. Andrea Sorcinelli, Sociologo.

Empatia, voce del verbo insegnare

Empatia, voce del verbo insegnare

di Laura Bertocchi

L’empatia è, dizionario alla mano, “la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. In altre parole possiamo definirla come la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di sperimentare i sentimenti degli altri e di parteciparvi da un punto di vista emotivo-affettivo.

Questa dote, che ai profani può apparire trascurabile in ambito educativo, è in realtà fondamentale per stabile e mantenere un rapporto con gli studenti, in quanto aiuta a comprenderne gli stati d’animo, a prevederne le reazioni e, infine, a gestire adeguatamente anche le situazioni più difficili. La rilevanza educativa dell’empatia consiste nel fatto che “fa superare all’educatore ogni forma di rapporto con l’educando di tipo astratto, oggettivistico, di conseguenza pericolosamente autoritario.”

Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento, Maslow, psicologo comportamentista statunitense, ha sviluppato una teoria dei bisogni di ogni essere umano e, attraverso la sua famosa piramide,li ha classificati secondo differenti livelli, dai bisogni di base, la cui mancata soddisfazione può compromettere la vita, a bisogni progressivamente più complessi. E tra questi troviamo la necessità di dare un senso alle nostre azioni e trovare una ragione in ciò che facciamo . 

È evidente che sentirsi costretti a fare qualcosa senza vederne lo scopo costituisce un forte ostacolo alla motivazione e all’impegno. È compito del docente aiutare i propri studenti a trovare la ragione dell’alzarsi ogni mattina per recarsi in un’aula ad ascoltare per -mediamente – trenta ore la settimana degli insegnanti che spiegano, talvolta argomenti che toccano e coinvolgono i ragazzi ma, più spesso, temi che non suscitano il loro interesse.  

Per gli studenti delle scuole secondarie, le indagini più recentimettono in evidenza la necessità di trattare durante le lezioni questioni legate all’attualità e tematiche più concrete – questioni legate al genere, al rispetto delle minoranze, ai temi di Educazione Civica, solo per citare alcuni esempi – che abbiano dunque un riscontro nella vita di tutti i giorni, con conoscenze ancorate al quotidiano. 

Se dare un senso al proprio agire è indispensabile per gli studenti più grandi, per gli alunni delle scuole dell’infanzia e della primaria può essere più complesso. Per loro è indispensabiletrovare modalità e strategie che rendano più piacevole l’apprendimento, anche e soprattutto quando questo rischia di essere vissuto come costrizione. 

Dismettere i panni del docente e indossare quelli dei propri allievi può dunque rivelarsi essenziale per comprenderne gli stati d’animo, prevederne le reazioni, intercettare i segnali che potrebbero innescare una crisi. Infatti “l’empatia va considerata come un fattore importante nello sviluppo delle capacità di porsi in relazione con gli altri per le sue evidenti relazioni con lo sviluppo dei comportamenti prosociali o altruistici, con la comprensione delle emozioni, con il prospective taking, cioè con la capacità (…) di assumere la prospettiva di un’altra persona”, tutte capacità che assumono un’importanza fondamentale nel lavoro di chi si prende cura degli altri, come i docenti che si prendono cura dei processi di apprendimento e di socializzazione degli studenti.

Ma quali sono gli atteggiamenti – le posture diciamo oggi – che i docenti assumono e che gli studenti leggono come segnali di apertura, interesse, empatia – appunto – nei loro confronti? Non solo ciò che l’insegnante dice, ma il “come” lo dice è altrettanto importante, se non addirittura più importante, perché è risaputo che siamo prima visti e poi ascoltati e siamo più visti che ascoltati. Il paraverbale dunque assume un ruolo essenziale nell’approccio empatico verso lo studente.

Il primo assioma della comunicazione, secondo Watzlawick, è che non si può non comunicare. La non comunicazione è impossibile, perché qualsiasi comportamento comunica qualcosa ed è impossibile avere un non-comportamento. Comunichiamo continuamente dunque, più o meno consapevolmente, e per raggiungere scopi diversi, spiega Jakobson, teorizzando sei funzioni. Quelle riferibili all’empatia che il docente può mostrare nei confronti del discente riguardano i due interlocutori:

a. La funzione emotiva è riferita all’emittente ed è quella nella quale si esprimono gli stati d’animo, anche attraverso la modulazione della voce, che può rendere più vivido il sentimento provato;

b. La funzione conativa, riferita al destinatario, ha l’intento diinfluire sul proprio interlocutore, suscitando in lui emozioni che lo persuadano ad agire o pensare in un determinato modo. Questa funzione può anche essere attuata senza che l’attore ne abbia davvero consapevolezza. 

Costitutiva della relazione empatica è dunque la dimensione relazionale della comunicazione, area del dialogo e dello scambio interattivo con l’altro. In questo incontro non vengono scambiate solo parole, ma anche emozioni, gesti e sentimenti. Le funzioni del docente in questa relazione sono positive e fungono da facilitatori nell’instaurarsi di una relazione di ascolto e comprensione. Il docente, dunque, non dispone né moralizza, ma chiarisce, dimostra, stimola, apprezza, offre supporto ed aiuto, loda, mostra sollecitudine, interpreta e riconosce un proprio errore. 

Il comportamento verbale del docente è evidentemente di apertura nei confronti dello studente, di ascolto e comprensione.

Come è noto però non si comunica solo con la voce, ma con l’intero corpo; è dunque importante mostrare coerenza e corrispondenza tra gli atteggiamenti e gli intenti comunicativi. 

Fondamentale è l’aspetto paraverbale, cioè il modo con cui qualcosa viene detto. 

Le principali qualità vocali che caratterizzano il tono di un discorso sono l’altezza (acuta o grave); il timbro (che può essere, a titolo esemplificativo, squillante, graffiante, freddo, penetrante…); la velocità di eloquio; il ritmo (che riguarda l’alternanza delle velocità in un discorso) e l’intensità (che permette di distinguere i suoni deboli da quelli forti). 

L’altezza e il timbro ci appartengono per natura e sono difficilmente modificabili. Nell’interlocutore possono suscitare sentimenti, talvolta fastidio ma, generalmente, non esprimono le emozioni e gli atteggiamenti di chi parla. Queste peculiarità consentono piuttosto di distinguere e riconoscere una voce tra mille altre. 

Le caratteristiche note, invece, con il nome di “colore”, oltre a suscitare la reazione dell’interlocutore, sono riconosciute come rivelatrici di sentimenti ed emozioni di colui che parla. Pensiamo al ritmo: la velocità di elocuzione è certamente influenzata dalle inclinazioni, dalla storia personale e dal contesto culturale. Generalmente noi italiani abbiamo un comportamento “logorroico”, poiché abbiamo orrore del silenzio, che cerchiamo di riempire in ogni modo. Al di là di queste considerazioni interculturali, comunque, lo stato emotivo gioca qui un termine fondamentale. Parlare troppo rapidamente è abitualmente indice di apprensione, ansia, imbarazzo… tutte sensazioni che mal si sposano con l’intento di mostrare ascolto e comprensione nei confronti di uno studente. Viceversa, una parlata lenta può suscitare calma, tranquillità, predisporre all’ascolto e al confronto. 

Adattare il ritmo al discorso è quindi molto importante e modularne l’andamento consente di far passare intenzioni diverse, catturare e mantenere l’attenzione dell’altro. Le pause, inoltre, consentono all’interlocutore di inserirsi nel discorso che, in questo modo, diventa collaborazione, co-costruzione, comprensione. 

Altrettanto importante nella comunicazione è l’intensità della voce, intesa anche come volume, che si deve adattare al contesto e alle circostanze. Se in un’aula una voce forte richiama l’attenzione, incita e esorta, in un dialogo a due può diventare prevaricatrice e aggressiva. D’altro canto, il volume utilizzato per una confidenza non è adeguato alla gestione di una lezione in un’aula piena. Una voce troppo bassa rischia di perdersi e mostra indifferenza alle esigenze di studenti che necessitano di sentire con chiarezza quanto viene detto dal docente. 

Se poi analizziamo il non verbale sono numerosi gli atteggiamenti che meritano una riflessione.

Innanzitutto, il contatto fisico. È una delle forme più comuni di comunicazione e l’interpretazione che si dà varia molto a seconda delle circostanze, dell’età e del genere degli attori, della cultura di appartenenza. Ci sono situazioni nelle quali il contatto fisico può favorire l’avvicinamento tra le persone e trasmettere vicinanzaemotiva, solidarietà, comprensione. D’altro canto, può essere percepito anche come violenza e intrusione nel proprio spazio personale. La sensibilità nel leggere le evidenze e ciò che si cela tra le righe è essenziale per capire l’opportunità o meno di un contatto fisico. Ciò vale naturalmente anche per la prossimità, cioè la distanza tra i due interlocutori. Entrare nello spazio dell’altro, quando dall’altro siamo accolti, favorisce l’instaurarsi di una certa sintonia. 

Guardarsi poi ha un enorme significato a livello emotivo: “l’incontro tra due paia di occhi rappresenta la modalità primaria fondamentale che favorisce l’incontro interpersonale”. Lo sguardo non è indagatorio, accusatorio o di sfida, ma è uno sguardo intenso, sincero, aperto e mai sfuggente. Il sorriso, aperto o appena accennato, a seconda delle circostanze, è un invio ad aprirsi e a fidarsi. 

È tutto il corpo, dunque, a comunicare la nostra disponibilità all’ascolto. La postura – in una dimensione empatica – non rimanda messaggi di chiusura, come le braccia conserte o la testa ripiegata, non si mostra prevaricatrice, ma è rilassata, protesa verso l’altro, pur nel rispetto dei suoi tempi e dei suoi spazi. I gesti devono essere coerenti con questa apertura. 

Naturalmente il controllo costante e completo dei nostri atteggiamenti è praticamente impossibile. È molto importante però essere consapevoli che determinate posture comunicano chiusura e posizioni rigide, di scarso ascolto nei confronti dell’altro, in questo caso dello studente. Affinché gli studenti comprendano la disponibilità al dialogo da parte dei docenti, non è sufficiente che questa venga esplicitata, ma è necessario che traspaia dalle parole e dai modi dell’insegnante, coerenti con le intenzioni dichiarate. 

Il dialogo educativo è complesso, non sempre facile o lineare. Ècostituito da tappe, da passi in avanti e rapidi passi indietro,perché è dialogo intergenerazionale, tra ruoli diversi e in circostanze in continua mutazione. Naturalmente non è la singola postura a trasmettere scarsa disponibilità, ma l’insieme dei diversi atteggiamenti. Ciò che è imprescindibile è il sincero interesse del docente nei confronti dello studente, la vera disponibilità ad ascoltare, che è molto di più del sentire. 

L’empatia, la disponibilità ad aprirsi all’altro è impegnativa, richiede costanza e fatica, perché chiede di mettere in discussione i propri pregiudizi, i propri preconcetti e, talvolta, anche i propri valori. D’altro canto, può essere fonte di grandi scoperte, perché l’altro ha sempre le sue ragioni, sebbene possano essere diverse dalle nostre e talvolta incomprensibili. 

“Il bambino e il maestro” è un corto nel quale si vede un docente di scuola elementare punire un bambino perché arriva sempre in ritardo. Una mattina, recandosi a scuola, il maestro vede il suo alunno accompagnare il fratello sulla sedia a rotelle in un’altra scuola e poi correre per arrivare nella sua aula e, come ogni giorno, arrivare in ritardo. A quel punto il maestro chiede perdono e stringe a sé l’alunno. 

Dietro ad ogni comportamento ci sono ragioni che chiedono di essere viste e ascoltate. Talvolta possiamo non capirle o non condividerle, ma è indispensabile conoscerle per darci, e dare all’altro, la possibilità di accettarle.

L’importanza delle discipline STEM

L’importanza delle discipline STEM… nuove competenze e nuovi linguaggi

di Cettina Calì

Con il Decreto Ministeriale n. 184 del 15 settembre 2023, il MIM ha adottato le Linee guida per le discipline STEM, finalizzate ad introdurre, appunto, nel PTOF delle scuole di ogni ordine e grado e nei servizi educativi per l’infanzia, azioni dedicate a rafforzare nei curricoli lo sviluppo delle competenze matematico-scientifico-tecnologiche e digitali, legate sia agli specifici campi di esperienza sia all’apprendimento delle discipline.

Con nota n. 4588 del 24 ottobre il Ministero ha comunicato a dirigenti scolastici, docenti e studenti gli obiettivi dell’adozione delle Linee guida, che vogliono essere una prima, incisiva risposta per superare le difficoltà nell’apprendimento in matematica evidenziate dagli esiti delle prove Invalsi svolte negli ultimi anni.

“A decorrere dall’anno scolastico 2023/2024 le istituzioni scolastiche dell’infanzia, del primo e del secondo ciclo di istruzione statali e paritarie aggiornano il piano triennale dell’offerta formativa e il curricolo di istituto prevedendo, sulla base delle Linee guida di cui al comma 1, azioni dedicate a rafforzare lo sviluppo delle competenze matematico-scientifico-tecnologiche, digitali e di innovazione legate agli specifici campi di esperienza e l’apprendimento delle discipline STEM. (D.M. n° 184 del 15 settembre 2023, al comma 2 e 3)  

L’Acronimo inglese STEM é  riferito a diverse discipline – Science, Technology, Engineeringe Mathematics (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) –  e indica l’insieme delle materie scientifiche-tecnologiche-ingegneristiche, ritenute necessarie allo sviluppo di conoscenze e competenze scientifico-tecnologiche, richieste prevalentemente dal mondo economico e lavorativo. 

L’esigenza di rafforzare gli insegnamenti STEM scaturisce dagli esiti di ricerche internazionali sul livello di preparazione degli studenti (PISA3, TIMSS4, INVALSI) che hanno messo in evidenza la presenza di alte percentuali di studenti che hanno scarse competenze nelle discipline scientifiche, causando ciò ripercussioni anche sul mondo del lavoro. 

In questa prospettiva si pone anche il Piano d’azione per l’istruzione digitale 2021-2027 – “Ripensare l’istruzione e la formazione per l’era digitale secondo il quale “l’approccio STEAM per l’apprendimento e l’insegnamento collega lediscipline STEM e altri settori di studio”. 

Con il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), i progetti PON finanziati con i fondi strutturali europei e, più recentemente ilPiano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), nell’ambito delquale è stato anche adottato il Piano “Scuola 4.0”, si è incentivata la diffusione di metodologie didattiche innovative basate sul problem solving, sulla risoluzione di problemi reali, sulla interconnessione dei contenuti per lo sviluppo di competenze matematico-scientifico- tecnologiche. 

Il PNRR ha previsto, infatti, una specifica linea di investimento – “Nuove competenze e nuovi linguaggi” (Missione 4, Componente 1, Investimento 3.1) – a cui è stata correlata l’adozione di specifiche norme, introdotte dall’articolo 1, commi 552-553, della legge n. 197 del 2022. La misura promuove l’integrazione, all’interno dei curricula di tutti i cicli scolastici, di attività, metodologie e contenuti volti a sviluppare le competenze STEM, digitali e di innovazione, secondo un approccio di piena interdisciplinarità. Per il PNRR “l’intervento sulle discipline STEM – comprensive anche dell’introduzione alle neuroscienze – agisce su un nuovo paradigma educativo trasversale di carattere metodologico”.

I documenti programmatici relativi alla scuola dell’infanzia, alprimo e al secondo ciclo di istruzione offrono molti spunti di riflessione per un approccio integrato all’insegnamento delle discipline STEM, pur non trattandole unitariamente.
In detti documenti si ravvisa la consapevolezza della necessità della collaborazione tra i diversi saperi, la contaminazione tra la formazione scientifica e quella umanistica. Il fulcro dell’insegnamento delle discipline STEM è un approccio inter e multi disciplinare, che si sviluppa tra teoria e pratica.

Le Linee guida suggeriscono alle istituzioni scolastiche di utilizzare tutte le possibilità offerte dalla flessibilità loro riconosciuta dall’autonomia nell’organizzazione degli spazi, dei tempi e dei gruppi, nella predisposizione e nell’utilizzo di efficaci ambienti di apprendimento, nella gestione dell’organico dell’autonomia. Le metodologie ritenute efficaci sono, comunque, molteplici:

1- Laboratorialità e learning by doing che favorisce il coinvolgimento in attività pratiche e progetti degli studenti e consente di porre gli stessi al centro del processo di apprendimento, incentivando un approccio collaborativo per la risoluzione di problemi concreti.

2- Problem solving e metodo induttivo che permette agli i studenti di identificare un problema, di pianificare possibili soluzioni e valutare le stesse. Tale metodologia sviluppa una comprensione approfondita dei concetti e delle abilità coinvolte.

3- Attivazione dell’intelligenza sintetica e creativa, dove attraverso la scomposizione e ricomposizione dei dati e delle informazioni viene stimolata la ricerca di soluzioni innovative a problemi reali

4- Organizzazione di gruppi di lavoro per l’apprendimento cooperativo in cui ogni alunno assume un ruolo specifico, con compiti e responsabilità ben delineate. Tale approccio consente di valorizzare le capacità comunicative e favorisce l’autonomia e l’interdipendenza nel prendere decisioni, individuando possibili scenari e ipotizzando soluzioni univoche o alternative,

5- Promozione del pensiero critico nella società digitale al fine di incentivare gli studenti a sviluppare il pensiero critico per diventare futuri cittadini digitali consapevoli.

6- Adozione di metodologie didattiche innovative mediante una didattica attiva che pone ogni studente in una situazioni reale al fine di apprendere, operare, cogliere i cambiamenti, correggere i propri errori e supportare le proprie argomentazioni.

Già dalla scuola dell’infanzia occorre fare leva sull’innatointeresse del bambino verso  il mondo che lo circonda, al fine di esplorarlo e scoprirlo, predisponendo ambienti stimolanti e incoraggianti.
L’esplorazione deve essere vissuta in modo olistico, coinvolgendo diversi canali sensoriali, permettendo la scoperta graduale, mediante la costruzione e la ricostruzione, utilizzando latecnologia in modo critico e creativo, promuovendo la creatività e la curiosità, favorendo la didattica inclusiva e sviluppando  l’autonomia degli alunni durante le attività proposte. 

L’insegnamento STEM consente ai bambini, già dalla scuola dell’infanzia, di mettere immediatamente in pratica ciò che apprendono. 

La valutazione delle competenze STEM non può che essere formativa, ricorrendo a compiti di realtà (prove autentiche, prove esperte) e ad osservazioni sistematiche. 

Le istituzioni scolastiche, al fine di garantire una formazione diffusa tra i docenti i servizio, hanno, la possibilità, utilizzando le risorse PNRR per la formazione dei docenti, di organizzare percorsi formativi sull’utilizzo delle metodologie didattiche innovative per l’apprendimento delle STEM, in linea con le scelteoperate all’interno del piano triennale per l’offerta formativa e delproprio curricolo, anche basate su percorsi “immersivi”, centrati su simulazioni in spazi laboratoriali innovativi.

La lezione frontale dentro e fuori della scuola

La lezione frontale dentro e fuori della scuola

di Francesco Scoppetta

Quando facevo il liceo negli anni sessanta chiesi al professore: -Lei ci ha spiegato finora la poetica di Leopardi, potrei vedere una sua foto per capire com’era? – Avevo infatti letto “In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso” (F. De Sanctis, La giovinezza, Torino 1971) ed ero curioso. Nella scuola italiana, che è astratta, le foto dei poeti e degli scrittori non erano contemplati allora, mentre uno come me che ha una memoria visiva Carducci se lo sarebbe ricordato se avesse visto il suo faccione barbuto, o Pascoli per i suoi baffi. No, la scuola italiana (anzi la società italiana) da sempre è convinta del seguente dogma: “io spiego e loro capiscono”. Insomma, è basata sulle parole e concepita per chi ha una memoria uditiva. Uno parla, ma chi ascolta non sempre capisce, non sempre ricorda. Certamente uno ricorda di più quello che ha fatto.

Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa; ogni mattina tante scolaresche italiane escono dalla scuola e vanno a sentire una conferenza. “Quanto siamo ripetitivi”, come il titolo di un saggio di Remo Bassetti. E’ Il giorno della marmotta o è cieca fiducia nella prevedibilità? Una volta c’erano i programmi scolastici, adesso ci sono le indicazioni nazionali per i traguardi di sviluppo degli apprendimenti, e così tanti contenuti “extra” vengono sviluppati attraverso esperti esterni o politici che parlano agli studenti. Ogni giorno appaiono sui media (corredate da foto indispensabili a testimoniare l’evento) notizie di convegni predisposti su svariate tematiche e destinati a scolaresche di ogni età.

Fuori della scuola le lezioni frontali continuano dunque ad opera di esperti che trattano argomenti “culturali”. Viene chiamata educazione non formale. Ovidio ci aveva avvertiti: “Verum velle parum est” (Di buone volontà è pieno l’inferno). E’ l’educazione civica diffusa sul territorio, per cui sin da bambini gli scolari capiscono che dovranno abituarsi (sembra il loro destino) ad ascoltare i “maestri”, gli adulti, dentro e fuori della scuola. A casa poi devono studiare e fare i compiti. A casa ci si esercita in privato; i compiti, non si è mai capito perchè, non si possono fare a scuola. Il cd merito comincia da qui, chi fa i compiti a casa è bravo, chi non li fa è asino. Magari chi li fa è assistito dai genitori, ma questo è un altro discorso.

L’immutabile scuola fatta di tante lezioni frontali continua (con o senza Avanguardie educative), come se il tempo si fosse fermato, nonostante il web e l’informatica e i social e l’AI. Perchè avviene questo? E’ facile capirlo, questa modalità di insegnamento adoperata ancora in Italia in modo prevalente si basa su un semplice immutabile convincimento: chi ascolta, impara.

Pertanto è buona per tutti gli usi e per tutti gli scopi, che nella scuola sono chiamate educazioni: educazione ai valori, all’affettività, alla salute, all’ambiente, alle differenze. Alle relazioni, alla sessualità, finanziaria, scientifica. Vogliamo educare i giovani sulle droghe e le dipendenze più diffuse, sui pericoli del bullismo o del cyberbullismo, sui rischi dei social network? Propiniamo loro un bel discorso di un esperto e il gioco è fatto. Le finalità sono innumerevoli, ma il mezzo resta uno solo. Ascoltato un lungo discorso, gli studenti si pensa che abbiano appreso cose che prima non conoscevano. Sono stati avvertiti, allarmati, formati. Troppo semplice per esser vero. E’ l’ottimismo di chi crede che alla lunga la goccia d’acqua spaccherà la pietra.

Certo, ogni conferenziere ormai è sgamato, sa usare il power point, la lavagna luminosa, filmati accattivanti e musiche, utilizza la lezione sincrona o la videoconferenza. Ma, più o meno sgamato e aggiornato, è convinto come tutti dell’efficacia della parola lanciata verso il canestro di una platea attenta e silenziosa.

Solo nello sport si apprende facendo, infatti nessun maestro di sci o di tennis o di calcio si sogna di svolgere conferenze teoriche introduttive, passa subito alle lezioni pratiche. Dal momento che l’attenzione è sia una funzione cognitiva che uno stato psicofisico è chiaro poi che star seduti su una sedia comoda o in una bella sala aiuta, al contrario non aiuta il caldo o la folla o il brusio.

Quello che è ormai senso comune, ovvero che per mantenere alta l’attenzione degli studenti a scuola è buona abitudine alternare attività più complesse con pause rigeneranti, fuori della scuola è scoperta ancora non pervenuta, basti pensare ai convegni con molti relatori (si chiamano passerelle) dove gli studenti servono più ad esaurire i posti in platea che a prestar attenzione ai contenuti proposti.

Tutti sappiamo, nel 2023, che se io parlo ed espongo 10 pensieri, chi mi ascolta si ricorderà i primi 3, il resto magari lo sente ma lo dimenticherà, per cui tanto varrebbe decidere quali siano le prime 3 cose importanti da dire e farla finita. In un’ora di lezione, sono essenziali, dopo i saluti, i primi dieci minuti, essendo l’attenzione destinata ad affievolirsi sino a scemare del tutto. Tutti abbiamo queste consapevolezze ma nella miriade di seminari di alto livello a cui ho partecipato gli esperti che li hanno messi in pratica sono stati pochissimi. Come mai? Umberto Eco la sua Bustina sull’Espresso la scriveva in modo molto semplice mentre il linguaggio specialistico lo adoperava nei suoi trattati di semiologia. Il filosofo Massimo Cacciari parla sempre in modo adeguato al pubblico che si trova davanti, quando appare in tv non usa la stessa terminologia iniziatica e oscura che adopera nei suoi seminari o quando presenta un suo libro. Cacciari è una eccezione, perchè molti docenti universitari o intellettuali in genere ritengono che l’uomo di cultura non debba adeguare il suo linguaggio al pubblico che ha davanti (Battiato cantava: C’è chi si mette degli occhiali da sole/ Per avere più carisma e sintomatico mistero).

Questi conferenzieri del sintomatico mistero possono essere spiegati attraverso un paragone con i libri di testo scolastici. Tutti i libri adottati nelle scuole sono ponderosi e pesanti. Come la maggior parte dei conferenzieri oscuri. Sono costruiti sul presupposto logico che dentro ci va messo tutto (l’intero menù) e sarà poi ogni docente a selezionare il 20%, decidere quali pagine (argomenti) insegnare e quali trascurare, l’80%.

Il conferenziere per studenti si muove con la stessa logica, io devo dire tutto quello che posso (e infatti i tempi debordano), senza trascurare nulla, poi ciascun studente porterà a casa o immagazzinerà in testa quello che vi entra. Tutto, si pensa, dipende allora da quanto sia grande il cervello di ciascun ascoltatore, e la conferenza-lezione consiste nell’operazione “neutra” di immettere nel contenitore tutte le nozioni che il cervello possa contenere. Siccome ci saranno cervelli che contengono 10 e altri che contengono 1, il conferenziere deve trattare tutte e 10 le nozioni. Il fatto è che non sa quanti siano i cervelli grandi e quanti quelli piccoli, pertanto espone tutto il campionario anche se, talvolta, è visibile che solo 1 ascolta e tutti gli altri fanno altro. Si capovolge come in un gioco di prestigio il procedimento, facendolo dipendere dunque dalla testa capiente degli ascoltatori, non dalla bravura del conferenziere.
Su questo versante, che è quello della cultura non solo frammentata in parti staccate ma anche spezzata in due blocchi (scientifica e umanistica), ha già detto tutto Edgar Morin partendo da Montaigne: “E’ meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”. (v. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Cortina Editore, 2000)
L’importanza della cultura e dell’educazione non risiede secondo il filosofo francese nella mera accumulazione quantitativa dei saperi, ma nel determinare un’attitudine generale a porre e trattare i problemi, nel saperli collegare e organizzare.
Fatta questa premessa, la riflessione principale che vorrei fare riguarda le nostre convinzioni culturali generali (o credenze) perchè è chiaro che se la “lezione frontale” la si adopera nella scuola ma anche fuori per comunicare con i giovani significa che la società, sia quella politica che quella civile, dà per scontato quello che non lo è più. Costruisce su fondamenta ormai sbriciolate, ripete di continuo un rituale che spesso (non sempre) non ha più senso. Quelle cose che si fanno perchè si è sempre fatto così, senza chiedersi perchè. L’uomo che parla ai giovani e affronta (anche per un tempo limitato) argomenti altissimi, nobili, profondi (si pensi a tutte le occasioni in cui si svolge una celebrazione, per es. si intitola una strada o si commemora qualcuno) dà per scontato che le sue parole abbiano un effetto, come una freccia che colpisce il centro del bersaglio.

La lezione frontale funziona in pochi casi (con un abile conferenziere) dentro e fuori della scuola perchè è risaputo come il trascorrere del tempo rende qualsiasi operazione umana “antiquata”, “superata”. Cosa diremmo di un contadino che oggi volesse coltivare i terreni con gli attrezzi dell’ottocento, o di un medico che volesse curare i pazienti come si faceva nel buon tempo antico? Ecco perchè Morin ha inteso affrontare il legame tra vita e educazione e proposto anche una riforma del pensiero. Perchè il tema della testa ben fatta piuttosto che piena è sicuramente interessante ma controverso soprattutto quando pensiamo alla sua fase realizzativa. Pertanto non sto proponendo di cancellare i convegni e le conferenze, tutti sappiamo che il risultato dipende dalla qualità del conferenziere, ma soltanto di non sviluppare la sindrome del karaoke. Il karaoke consente a tutti di cantare su una base musicale, imitando l’originale, e molti sono convinti di poterlo fare anche meglio del cantante famoso.

In fondo gli insegnanti con la lezione frontale non fanno altro che, senza accorgersene, tentare di imitare un loro vecchio professore universitario che è rimasto loro impresso. Ma con tutta la buona volontà non tutti gli insegnanti sono in grado di ottenere efficacia e qualità (si tratta solo di capire i propri limiti, o di migliorarsi, tutto qui) per cui sarebbe più utile proporre agli studenti di “fare” qualcosa invece di imporre l’ascolto in silenzio (anche scrivere o leggere è preferibile all’ascoltare). Insomma, invece di entrare in classe pensando “cosa gli dico oggi?”, il docente dovrebbe chiedersi “cosa gli faccio fare oggi?”. Il mondo cambia, e quindi se sono diminuiti quelli che vanno al cinema a vedersi un film di 120 minuti e aumentano quelli che a casa preferiscono vederselo a spezzoni (streaming), magari andando indietro o avanti a piacimento, perchè la scuola insiste nel solito rituale delle docce mattutine che si susseguono ogni ora della settimana (italiano, matematica, scienze e così via)? Certo che ci sono quelli disposti a star seduti per due, tre ore a vedere in silenzio il teatro o il balletto o l’opera, così come quelli disposti a sentire una conferenza, ma per l’appunto tutti concordiamo che si tratta di un pubblico di “appassionati“. Fanno questo perchè sono cultori di teatro o danza, o sono curiosi, disposti ad ascoltare un poeta, uno scrittore, un giornalista, un regista. Ma per quale motivo fingiamo, attraverso quel processo mentale ben conosciuto come wishful thinking, che le scolaresche siano composte da appassionati di argomenti importanti? E’ vero il contrario, proprio perchè non lo sono si deve trovare il modo migliore di incuriosirli, di interessarli. Di accendere la loro passione. La precettazione, condurli fuori dalla scuola per seguire una conferenza, può produrre l’effetto contrario, così come l’annosa cura de “I promessi sposi” di Manzoni, da leggere e ripetere all’interrogazione, ha allontanato molti dalla lettura e dalla letteratura in età adulta piuttosto che incentivarle. Forse.

Chi studia i sistemi scolastici internazionali sa bene che quello italiano ha una peculiarità: durante le lezioni gli insegnanti sono abituati a parlare troppo e pretendono che gli studenti restino passivi in silenzio. Nella scuola di de Amicis il maestro poteva avere questa convinzione, ma averla oggi quando Vongola72 ha preso la parola e vuol dire la sua sui social su qualsiasi argomento sbeffeggiando gli specialisti, forse pecca d’ingenuità. Non a caso quando parliamo di gentilezza, di buona educazione, di rispetto, amicizia, virtù, gratitudine, insomma di buoni sentimenti, la definiamo “una scuola da libro Cuore”. Possiamo averne nostalgia ma quel che è passato non ritorna.

L’esplorazione in Matematica: analisi di un’esperienza didattica

Il seguente lavoro racchiude un’esperienza didattica che è stata svolta in un Istituto Comprensivo durante la stesura di una tesi di Laurea Magistrale. L’argomento si colloca nell’alveo della Didattica della Matematica, con particolare riferimento alla metodologia didattica incentrata sul gioco. Attraverso l’interpretazione dei questionari che hanno completato i piccoli studenti, si è potuto comprendere come un approccio ludico abbia aiutato gli scolari a raggiungere gli obiettivi posti dall’insegnante in un clima disteso ed empatico.

di Annalisa F. Cento