Una base solida per il Debate

Una base solida per il Debate: apprendere in “Comunità di ricerca”

di Annalisa Filipponi

Il Debate è un confronto/scontro di opinioni tra due squadre che sostengono una tesi a favore e una contro un’affermazione data (definita Mozione o Topic). Le regole della competizione sono specifiche e, tra i diversi modelli quello più diffuso è il WSDC (World SchoolS Debating Championships) che è seguito anche dalle Olimpiadi nazionali di Debate che dal 2017 si svolgono anche in Italia.

Le molte esperienze di innovazione didattica che si stanno sviluppando nelle scuole, riconoscono nella tecnica del Debateuna importante opportunità  per una didattica che vuole essere più dinamica, attualizzata, attiva e motivante per allievi e docenti. 

Il lavoro di un team degli studenti, il ruolo del docente/coach coordinatore esterno all’attività; una fondata ricerca documentale;la strutturazione e l’esposizione di una linea argomentativa chiara, corretta ed espressa con disinvoltura e precisione lessicale sono solo alcuni fra i molti aspetti che riconoscono nell’introduzione del Debate a scuola, una reale opportunità per una svolta rispetto alla didattica trasmissiva che ancora oggi è prassi comune nelle nostre aule.

Eppure il Debate desta in molti docenti fondate perplessità. Infatti in questa nuova esperienza didattica può accadere che la rigorosa struttura tecnica del format si sovrapponga alla comprensione dei contenuti o che vengano riportati dagli allievi con forza espressiva degli argomenti che in realtà possono essere poco corrispondenti ad un reale processo di conoscenza e comprensione dei temi in oggetto. Il formalismo strutturale della gara correlato ad affinate tecniche di public speaking, potrebbero risultare anche stonati in rapporto ai contenuti effettivamente esposti. Tutti questi elementi di criticità potrebbero rendere fragile la portata di una reale innovazione didattica disciplinare ed interdisciplinare, introdotta con il Debate. 

Oltre il (solo) tecnicismo

E proprio riconoscendo questi elementi di criticità, riterrei importante rifondare una nuova, solida prospettiva per il Debatevisto come una reale educazione verso una cittadinanza attiva e partecipata.

Il modello attraverso il quale riterrei utile introdurre il DEBATE a scuola come reale innovazione didattica, si fonda sul riconoscimento della necessità di educare il pensiero al confronto con la complessità delle esperienze in un mondo in cui il pensiero appare sempre più a rischio di riduzioni, di banalizzazioni. Questo metodo, valorizzando contraddizioni, relazioni, complessità, tende alla formazione di un pensiero complesso, ed alla costruzione di un pensiero critico (ragionevole, diretto verso un obiettivo, valutativo). Il procedimento attraverso cui ritengo si possano raggiungere questi obiettivi è un procedimento di ricerca fondato sul dialogo, che favorisca le esperienze del pensiero attraverso l’uso del linguaggio(il riferimento teorico più diretto è relativo al socio-costruttivismo di Vygotskij, che ritiene il processo cognitivo determinato dai contesti socio-culturali di riferimento).

Interiorizzando il dialogo infatti non solo si riproducono le procedure cognitive ed i pensieri espressi dagli altri, ma si attivano meccanismi interindividuali di risposta a tali pensieri, assumendo il procedimento critico ed argomentativo che si produce a livello intersoggettivo come pensiero individuale.

Per ottenere tutto ciò la classe, organizzata con regole specifiche, finalizza il suo lavoro alla ricerca, trasformandosi in tal modo in una vera Comunità di ricerca, tesa allo sviluppo di nuovi percorsi nel ragionamento logico che sarà espresso in un evolversi dialettico di domande e risposte lontano dall’ambito della “chiacchiera”.

In questa Comunità di ricerca si attiva l’analisi dei materiali utili alla strutturazione delle linee argomentative  per il DEBATE  attraverso il dialogo peer to peer, problematizzando innanzitutto una situazione e spingendo il gruppo a trovare soluzioni.

Come già asseriva Socrate, anche la pedagogia contemporanea ritiene che non si possa apprendere attraverso la sola mnemonica  esposizione. Gli studenti  infatti imparano: proponendo problemi – discutendone – cercando soluzioni e imparando ad argomentarle.

L’obiettivo cognitivo diviene così non tanto la soluzione di problemi, quanto la loro ricerca. Nella Comunità di ricerca ognuno esprime con ordine il suo punto di vista e sta attento a quello degli altri ed attraverso la dialettica della ricerca si giunge alla costruzione di qualche cosa che è di tutti e dove ognuno riconosce il proprio contributo. Punto di partenza di questo processo didattico è la presa di coscienza della complessità del proprio io, e del riconoscimento di quello altrui. Riflettendo sul pensiero, gli studenti sono poi condotti a chiedersi il significato di alcuni processi quali: comunicare, apprendere, confrontarsi, rispettarsi.

Un ruolo diverso per l’insegnante 

Nella Comunità di ricerca così strutturata, necessariamente cambia la posizione dell’ insegnante che per conoscere ed entrare in questa metodologia deve accettare di mettersi in discussione come insegnante e deve avere un reale desiderio di farlo. La scelta dell’ insegnante verso un’esperienza di reale innovazione didattica può essere dettata da molte e diverse motivazioni, che si intrecciano con l’indirizzo che ha preso la scuola italiana o con una personale analisi della professione docente.  L’adesione alla ricerca didattica innovativa può prendere le mosse da diversi punti di vista, legati alla necessità di modificare la propria didattica, al tentativo di recuperare credibilità verso gli alunni, alla presa d’atto che la didattica trasmissiva non è più al passo con i tempi, all’avanzare di nuove e più complesse competenze di cittadinanza che non sono più attuabili con gli strumenti tradizionali della scuola. E’ necessario iniziare con una ricognizione teorica per collocare i concetti di base di una metodologia didattica innovativa nel loro specifico ambito di riferimento.

L’insegnante e la classe

A questo punto si rende necessario fermarsi ad analizzare il contesto scolastico italiano attuale. In classe l’insegnante è sempre la persona che parla di più. E su questo non ci sono dubbi. Usa il silenzio o per richiamare l’attenzione o per rimproverare: chi ha esperienza di insegnamento sa che l’insegnate sta zitto se fa eseguire dei compiti in classe oppure se c’è troppa confusione si mette in silenzio per avere un atteggiamento di rimprovero. Tipico atteggiamento dell’insegnante e della funzione insegnante così come ancora oggi viene normalmente esercitata nelle scuole italiane, è quello di porre domande di cui conosce già la risposta. Un insegnante sollecita gli allievi e fa delle domande di cui conosce sempre le risposte. Si sente sicuro per questo.

Porre delle domande di cui si sa la risposta nelle relazioni normali non accade mai, non ci sono altri contesti in cui questo succede. Interloquire in questo modo può mettere molto a disagio l’interlocutore: faccio le domande e verifico se tu sai le risposte.

E la posizione dell’alunno in questa situazione di didattica trasmissiva? 

Adattandosi al contesto, raramente egli pone domande conseguenti ad una spontanea curiosità intellettiva o domande contestualizzate che si riferiscono ad una sua precisa spontanea curiosità, questo soprattutto perché la gran parte degli argomenti trattati a scuola sono completamente avulsi rispetto ai suoi reali interessi. L’alunno è facilmente distraibile e usa il silenzio in forma cooperativa con l’insegnante. Accetta cioè la richiesta di non disturbare, ma ha sempre molta poca autonomia di azione. Chi ha esperienza di scuola sa che l’autonomia dei ragazzi è un problema dei nostri giorni: ci sono sempre meno alunni autonomi e sempre più alunni che chiedono in maniera pressante: “E adesso cosa facciamo? E adesso cosa dobbiamo fare? Cosa devo esattamente studiare e per quando?” Agli studenti raramente viene concessa la possibilità di organizzare spazi di tempo in autonomia e dunque l’adattamento al contesto scolastico evolve in parallelo con una progressiva regressione ad uno stadio fanciullesco in cui il riempimento del tempo diventa una sorta di elemento preliminare spesso slegato dal contenuto di quel riempimento. 

La principale conseguenza di queste posizioni speculari dei docenti e degli alunni è la modesta disposizione all’apprendimento come dimostrano le molte rilevazioni di organismi internazionali sui livelli degli apprendimenti nelle nostre scuole. Esiti particolarmente allarmanti per quello che concerne gli ambiti attinenti al LINGUAGGIO. Difficoltà di attenzione, modesto interesse, poca autonomia, scarsissima capacità di comprensione testuale… noi riassumiamo tutto questo dicendo che i nostri alunni stanno progressivamente “peggiorando”.

La progressiva regressione del linguaggio

I ragazzi e le ragazze del nostro tempo in alcuni settori possiedono abilità sorprendentemente più sviluppate degli adulti,  ma dal punto di vista del linguaggio dimostrano delle difficoltà in quanto non sono abituati a parlare, a conversare, a dialogare e tanto meno ad argomentare il proprio pensiero. Questo perché vivono in una società della comunicazione molto frammentata in cui si comunica prioritariamente per immagini o per slogan.

​L’uso del linguaggio attualmente è poco esercitato in particolare dai giovani e questo ha pesanti ricadute nella formazione dei processi cognitivi, perché i processi cognitivi sono sempre collegati all’utilizzo del linguaggio. Più  si impediscono il linguaggio e la capacità argomentativa, più si abbassa il livello della comunicazione cognitiva. Gli studi attuali sull’apprendimento dicono che l’approccio educativo che ottiene migliori risultati in questo momento è il costruttivismo socio-culturale, ma in generale varie scuole di pensiero anche contrapposte sono concordi nell’indicare la didattica trasmissiva come quella meno adatta a produrre apprendimenti e competenze durature. Un apprendimento significativo è andare in bicicletta o saper leggere o saper scrivere. Apprendimenti significativi sono quelli che mi danno delle competenze che  acquisisco in forma stabile e che poi posso utilizzare nel contesto in cui mi troverò anche alla fine della lunga esperienza scolastica a cui ho dedicato una parte preziosa della mia infanzia e della mia giovinezza. 

La grande responsabilità della scuola

Ritengo che l’esperienza scolastica costituisca un’occasione unica per la costruzione di un percorso di educazione e di cultura. La missione primaria del lavoro scolastico deve tendere alla costruzione di uno “stare insieme” corretto e partecipato. E’ in questo percorso di civilizzazione verso cui deve tendere il tempo scuola vissuto dagli studenti, che intendo l’inserimento dell’innovazione didattica attraverso un Debate che si fondi su solide basi di comprensione, conoscenza, trasmissione, rielaborazione, problematizzazione dei contenuti (oggetto delle gare) che struttureranno le linee argomentative PRO e CONTRO una mozione data. Scansando i rischi di un’esperienza che ricorda più un’esibizione sofistica di contenuti (né pienamente compresi, né condivisi) l’argomentazione del pensiero logico argomentativo in Comunità di ricerca vuole offrire agli studenti l’occasione di un riordino delle idee e delle conoscenze, tramite l’ordine lessicale e logico del linguaggio espositivo consapevole.

Dall’immaginazione all’intuizione al pensiero consapevole

​All’inizio della ricerca documentale e della conversazione argomentativa, i pensieri possono rivelarsi anche attraverso immagini che via via si traducono in parole fino al raggiungimento di un processo di conoscenza partecipata e rielaborata.

​Solo dopo aver acquisito, attraverso questi passaggi, la consapevolezza contenutistica, gli studenti, sempre cooperando in team, potranno strutturare l’ordine logico funzionale alla team linedi una gara di Debate vissuto, a questo punto sì, come esperienza di ludica competizione. 

​Come il Teatro ha nella recita il punto culminante di un processo esperienziale ricco, articolato e complesso, così la competizione insita nella prassi del Debate, con il contributo arricchente del dialogo in Comunità di ricerca per una rielaborazione critica dei contenuti affrontati, avrà nella gara il punto di arrivo di una vera esperienza di conoscenza.

Politiche educative per l’Infanzia

Le politiche educative per l’Infanzia tra inclusione e sviluppo

di Gian Carlo Sacchi

Le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo, una pietra miliare per la costruzione di curricoli nelle scuole così dette di base, hanno avuto (2018) un rilancio in relazione a “nuovi scenari” che si vanno presentando sempre più rapidamente nella nostra società. Le questioni fondamentali che i servizi formativi devono considerare, secondo il documento ministeriale, riguardano la interculturalità, gli interventi a favore dell’infanzia e la continuità educativa.

Una molteplicità di culture e di lingue sono entrate in tempi recenti nella nostra scuola, mutando la fisionomia delle classi, all’interno di strutture didattiche e organizzative piuttosto tradizionali. E’ un’occasione da cogliere affinchè i bambini possano crescere e maturare una propria identità nel riconoscimento reciproco. Valorizzare le diversità alla ricerca del successo scolastico per tutti è il presupposto per l’inclusione sociale e la partecipazione democratica.

Nella scuola dell’infanzia, ma l’obiettivo, sostenuto con vigore dall’UE, può essere esteso ai servizi educativi da 0 a 3 anni, si deve ampliare l’esperienza dei bambini favorendo il loro incontro con contesti culturali e pratici per costruire le loro competenze finalizzate all’autonomia, ma anche alla cittadinanza: il primo esercizio del dialogo. Il tutto attraverso un’organizzazione centrata sulla continuità: dai poli per l’infanzia (0-3) agli istituti comprensivi (3-14), in modo unitario.

Il suddetto documento offre un quadro teorico di sicuro affidamento, ma la situazione sociale con la quale si confronta presenta non poche criticità e soprattutto quali scelte politiche e investimenti sono in campo per offrire al nostro sistema formativo prospettive di sviluppo nella direzione sopraindicata ?

Save the Children ci presenta un’Italia dove l’incidenza della povertà aumenta al decrescere dell’età. Tra il 2005 e il 2015 è triplicata la percentuale delle famiglie con bambini che vivono in tale situazione. Fin da piccoli patiscono l’esclusione affettiva e sociale, dovendo rinunciare in alcuni casi ad esempio alla mensa scolastica. 

Con famiglie disoccupate o con lavori precari i livelli di povertà minorile nel nostro Paese superano quelli degli altri Paesi europei.C’è un legame stretto tra dette condizioni, il fallimento scolastico ed il disagio sociale presente in determinati territori. La debolezza del contesto dunque richiede un investimento educativo di qualità fin dai primi anni di vita. 

Non può più essere che nel nostro Paese ci siano le stesse risorse per le realtà con popolazioni disagiate che per quelle più favorite. Poiché l’apprendimento è un processo cumulativo le disparità iniziali condizionano le possibilità di riuscita dei bambini di modesta estrazione sociale. E’ compito dei servizi educativiesercitare un’azione di presidio anche verso gli adulti, i genitori in particolare, soprattutto quelli meno istruiti, per cercare di alimentare il dialogo con i propri figli e più in generale innalzare il livello di partecipazione e di cittadinanza.

L’Italia è un paese a demografia debole,  i livelli di competenza in lettura, matematica e scienze (PISA) sono tra i più bassi dei paesi OCSE, un’intera generazione rischia di essere marginalizzata perché non studia e non lavora (NEET); l’unico elemento dinamico della società italiana è la presenza degli stranieri. Il 22,4% dei minorenni residenti nel nostro Paese è figlio di immigrati, di cui il 50% è nato qui anche se non ha la cittadinanza. Più di ottomila nel 2015 erano i minori non accompagnati. 

La quota della spesa sociale destinata a famiglie e minori è 1,3%, ma sono aumentate le spese d’iniziativa dei comuni. L’accesso ad un mensa di qualità nelle scuole è uno strumento fondamentale di contrasto alla povertà minorile ed ha anche ricadute economiche nel settore sanitario. Investire nell’infanzia, raccomanda l’UE, serve a spezzare il circolo vizioso dello svantaggio sociale. Ed è proprio nella fascia 0-6 che si avvia la costruzione delle pari opportunità nello sviluppo delle persone, con l’integrazione tra sistemi formativi e territoriali. I centri per le famiglie inoltre possono svolgere un’azione di inclusione sociale e di promozione delle competenze genitoriali.

L’ultimo rapporto di Cittadinanza Attiva (2019) ci dice che non sono stati fatti i necessari passi avanti nella riduzione delle disuguaglianze. La legge finanziaria del 2007 prevedeva un piano straordinario di sviluppo dei servizi per l’infanzia con un finanziamento statale e regionale triennale. Il decreto 65/2017 ha istituito un fondo nazionale per il sistema integrato di educazione e istruzione. Nonostante questi provvedimenti le famiglie italiane sono in forte difficoltà economica e organizzativa. Ed anche se la legge di bilancio 2019 proporne la gratuità dei nidi per redditi sotto una certa soglia, l’offerta rimane insufficiente, lontana dalla copertura europea (33%) con forte differenze tra le regioni.

Tra il 2002 e il 2012, precisa ancora il rapporto, le risorse statali sono aumentate, ma nei due anni successivi c’è stata una contrazione, così per i comuni è diventato sempre più difficile far fronte alle richieste e gestire direttamente tali attività e quindi si è fatto ricorso ai contributi delle famiglie ed all’appalto verso i privati.

Il predetto decreto 65 si è posto l’obiettivo di superare definitivamente il versante assistenziale per inserire dette attività nel sistema dell’educazione-istruzione pubblica, ma sia le risorse, sia la diffusione delle strutture sui territori non consentono ancora di raggiungerlo e quindi l’impegno delle famiglie risulta oneroso e talvolta insostenibile, soprattutto in quelle regioni in cui il servizio è poco diffuso.  Anche il bonus erogato dall’INPS e la detrazione fiscale sono interventi a macchia di leopardo e quindi non tali da assicurare una copertura generalizzata del territorio.

Per gettare un ponte tra gli asili nido e le scuole materne sono entrate in funzione le così dette “sezioni primavera” (L.296/2006),esse possono accogliere bambini tra i 24 e i 36 mesi e servono ad ampliare i posti da entrambi i versanti, soprattutto al sud, sia nelle strutture pubbliche che in quelle paritarie o in convenzione. Per queste è previsto un intervento finanziario dello Stato oltre a quellidegli enti territoriali ed ai contributi delle famiglie. Aiutano a rendere più flessibile l’orario prolungandolo anche oltre le nove ore giornaliere, prevalentemente al nord, in base ai contratti con il personale che sono di natura privatistica o legati alla cooperazione. Una realtà dai costi più contenuti anche per l’assenza di servizi complementari come ad esempio la mensa, che proprio per dover fronteggiare situazioni di emergenza restanolegate ad una concezione assistenziale. Anche queste sezioni dovrebbero entrare nel sistema integrato previsto dal  suddetto decreto 65, che però non è pienamente operativo su tutto il territorio nazionale.

I posti nei nidi sono ancora solo 23 ogni 100 bambini contro i 96 della scuola dell’infanzia. I servizi 0-3 sono il 36% pubblici e il 64% privati con una copertura del 22,8%. Solo quattro regioni hanno raggiunto il 33% indicato dall’UE. Se da una parte si registra un’insufficienza di strutture di accoglienza, dall’altra assistiamo ad un calo delle iscrizioni per difficoltà economiche delle famiglie e una diminuzione dei fondi nazionali per le politiche sociali, il che fa ricadere le spese dei comuni nei vincoli del patto di stabilità. Il piano straordinario del 2007 ha ridotto le disuguaglianze territoriali, ma è in crescita il numero dei soggetti privati accreditati alla gestione dei servizi a titolarità pubblica.

L’integrazione in un unico sistema di un universo complesso ed articolato di servizi prevede un modello di governance multilivello e rientra tra le competenze concorrenti tra stato e regioni. Al ministero nazionale il ruolo di indirizzo, monitoraggio e valutazione, alle regioni la programmazione, agli enti locali la gestione diretta o convenzionata (D. Leg.vo 216/2010). Resta la questione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini, sostituiti dagli obiettivi strategici indicati dal più volte citato decreto 65, che porteranno alla definizione dei costi standard sulla base dei quali andrà ripartito il fondo di solidarietà comunale (L.42/2009) con finalità perequative in base alla differente capacità fiscale dei comuni stessi.

L’esclusione dei nidi dai servizi a domanda individuale, già prevista, come si è detto, non è attuata date le limitate risorse dei bilanci comunali in base ai quali è tuttavia possibile decidere esoneri parziali o totali dal pagamento delle rette da parte delle famiglie, nonostante lo stanziamento statale previsto dalla  legge 107/2015.

Le politiche di cura ed educazione nei primi anni di vita dei bambini sono inseparabili, un passo avanti è stato finalmente compiuto nel riconoscere a livello nazionale la piena funzione educativa dei servizi per la prima infanzia. Gli interventi educativi precoci valorizzano le prestazioni degli studenti e le pongono in relazione positiva con lo sviluppo economico del Paese. Ma la costruzione del nostro sistema rimane alquanto incerta.

PENSIONI

PENSIONI, GILDA: SI PROSPETTA SCADENZA ASSURDA
“Stando a quanto stabilito dalla bozza di circolare sulle pensioni, la scadenza per la ricognizione delle domande di riscatto e computo attraverso l’utilizzo dell’applicativo Nuova Passweb sarebbe fissata al 31 dicembre. Ci domandiamo se si tratti di uno scherzo, tra l’altro fuori stagione perché siamo in periodo natalizio e non carnevalesco, oppure se sia colpa delle sempre più scarsa conoscenza da parte del Miur dei problemi che attanagliano le scuole”. Ad affermarlo è Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, che ha inviato al Miur una richiesta di incontro urgente.  
“La circolare in questione non è ancora ufficiale, circostanza già di per sé ampiamente criticabile. A ciò – spiega Di Meglio – si aggiunge la tempistica troppo stretta, considerato anche il numero insufficiente di assistenti amministrativi in organico. Inoltre, le segreterie delle scuole non sono formate per utilizzare l’applicativo Passweb che, tra l’altro, richiede la conoscenza di dati non sempre in possesso degli istituti”.
“Non è ammissibile che i docenti siano costretti a scapicollarsi tra patronati e segreterie delle suole per presentare le domande di pensionamento entro l’assurda scadenza di San Silvestro. Chiediamo, dunque, al Miur di posticipare almeno al 10 gennaio il termine per il completamento delle operazioni”, conclude il coordinatore nazionale della Gilda. 

La sostenibilità cambia le materie degli 11 indirizzi

da Il Sole 24 Ore

di Fabrizio Proietti e Claudio Tucci

Gli istituti professionali hanno cambiato pelle un paio di anni fa; gli indirizzi di studio sono saliti da 6 a 11, con l’obiettivo di far diventare questi istituti delle vere e proprie scuole dell’innovazione.
Nelle pagine che seguono vengono illustrati i principali indirizzi, tra i quali spiccano Industria e artigianato per il Made in Italy e Manutenzione e assistenza tecnica, più legati all’industria; oppure Servizi commerciali o Enogastronomia e ospitalità alberghiera, più affini invece al terziario.
Due indirizzi nuovi di zecca, e dalle potenzialità molto ampie, sono Gestione delle acque e risanamento ambientale e Pesca commerciale e produzioni ittiche. Le acque, le coste, la produzione e la commercializzazione delle specie ittiche e il risanamento ambientale sono dallo scorso anno scolastico oggetto di apprendimento nella formazione dei futuri diplomati dell’istruzione professionale di questi indirizzi, correlati ad aree economiche e professionali, quali i Servizi di public utilities e l’aspetto manageriale nella pesca, venute alla ribalta negli ultimi tempi.
Con questi due nuovi indirizzi la scuola ha voluto operare un investimento culturale e formativo per dare concrete risposte in termini di sostenibilità ambientale, economica e sociale, a intere aree del nostro territorio, tenuto conto che la penisola italiana è circondata per l’80 % dal mare e si caratterizza per avere, con le isole, circa 7.500 Km di coste, presentando territori montani non sempre presidiati e forti fenomeni di urbanizzazione.
Gli effetti dei cambiamenti climatici e degli inquinanti, uniti alla eccessiva antropizzazione delle città e zone costiere, hanno incrementato la necessità di interventi di emergenza.
Occorrono quindi risorse umane competenti nell’utilizzo di strumenti diagnostici, di misura, di produzione, di lavorazione ed è necessario promuovere modelli di gestione innovativi. Per questo la nuova mission dell’istruzione professionale, e in particolare di questi due nuovi indirizzi, è quella di formare giovani, che intervengono nei processi produttivi e lavorativi, nell’ottica degli obiettivi (goals) contenuti nell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Dall’agricoltura alla sanità istituti più vicini al lavoro

da Il Sole 24 Ore

di Francesca Lascialfari

Gli istituti professionali sono stati innovati dal decreto legislativo 61/2017. È questa una revisione degli ordinamenti che ha inteso individuare in tale tipologia vere e proprie scuole dell’innovazione che forniscano agli studenti reali opportunità per l’ingresso nel mondo del lavoro.
Gli indirizzi di studio sono passati da 6 a 11, e oggi, infatti, spaziano dall’agricoltura all’industria e artigianato per il made in Italy; dai servizi commerciali alla manutenzione e assistenza tecnica; dai servizi per sanità e assistenza sociale alle arti ausiliari, come ottico e odontotecnico; dall’enogastronomia e ospitalità alberghiera ai servizi culturali e dello spettacolo.
Il biennio mira al raggiungimento delle competenze necessarie per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione, oltre che a creare le basi di una formazione professionale. Inoltre, una delle principali novità della riforma, in atto ormai da due anni, consiste nella messa a sistema della personalizzazione degli apprendimenti che, mediante il Progetto formativo individuale definito per ogni studente, consenta di ridurre il rischio di dispersione scolastica. Per realizzare l’intento, le scuole nella loro autonomia possono utilizzare una quota del monte orario anche per attivare, fin dal secondo anno, percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (ex alternanza scuola-lavoro) o di apprendistato.
Nei successivi tre anni, che conducono al conseguimento del diploma di istruzione professionale (Ip) valido per l’accesso all’università e all’alta formazione post-diploma, è intensificata la pratica professionale; gli studenti sono inseriti in contesti operativi (stage aziendali o impresa formativa simulata) per percorsi di alternanza con rilevante valenza orientativa e formativa. Al termine dei cinque anni, il diplomato avrà acquisito competenze tecnico-professionali e operative atte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro e delle professioni, in settori coerenti con gli studi effettuati.
Accanto ai percorsi di istruzione professionale quinquennali, lo studente ha la possibilità di scegliere percorsi di Istruzione e formazione professionale (IeFP) di competenza regionale, di durata triennale o quadriennale finalizzati al conseguimento, rispettivamente, di qualifiche e diplomi professionali.
La scelta tra Ip e IeFP (questi ultimi possono essere realizzati anche da centri di formazione professionale riconosciuti, oltre che dalle scuole) deve essere effettuata al momento dell’iscrizione, come precisato dalla circolare annuale emanata dal Miur, con la consapevolezza che tutti i percorsi sopra illustrati consentono comunque di assolvere all’obbligo di istruzione.
Dirigente scolastico liceo classico Ipsseoa Aurelio Saffi (Firenze)

Per ristorazione marketing digitale e più ore «sul campo»

da Il Sole 24 Ore

di Maura Zini*

Quello del ristoratore è un mestiere che non si improvvisa: ora più che mai è necessaria una formazione specifica visti gli elevati standard raggiunti.

Non solo i turisti stranieri ma anche gli italiani hanno affinato gusti, consapevolezze alimentari, di produzione e trasformazione dei prodotti pertanto l’aspettativa è molto alta.

Il cliente, oltre al servizio e al gusto, vuole essere condotto attraverso la narrazione a sapere cosa c’è dietro a un piatto, vuole sentire con l’emozione il senso del lavoro di una persona perché è la storia, il legame con il territorio, in sintesi è la cultura di un popolo che ci rende davvero «sazi».

Nella ristorazione e nell’accoglienza non si improvvisa. Gli istituti professionali enogastronomici in Italia offrono da sempre tutto questo attraverso tre indirizzi: Cucina, Sala e Accoglienza turistica. Ma oggi c’è di più.

Il ministero dell’Istruzione ha realizzato una riforma degli istituti professionali proprio nell’ottica di una risposta a nuovi bisogni.

La riforma prevede il consolidamento delle discipline di base, un aumento delle ore di laboratorio e fornisce strumenti concreti per l’innovazione didattica e la personalizzazione degli apprendimenti in ottica orientativa. L’obiettivo è duplice: da un lato lo sviluppo di soft skills quali la creatività, il lavoro di squadra, la leadership e le competenze digitali, dall’altro lo sviluppo di competenze professionalizzanti.

La riforma sottolinea inoltre la necessità di saper comunicare in modo efficace anche in termini digitali: il marketing attraverso un uso sapiente di internet e dei media è fondamentale. Ampio spazio è dato anche allo studio delle lingue straniere.

Le discipline fondamentali sono quelle professionalizzanti di cucina, sala e accoglienza ma l’ottica è cambiata: creare una figura completa, altamente professionale, che sappia realizzare e comunicare, anche in diverse lingue, la ricerca del meglio nell’arte del gusto, dell’accoglienza e dell’ospitalità, con l’ambizioso obiettivo di essere utili al raggiungimento dei goal dell’agenda 2030. Il turismo enogastronomico e la ricezione alberghiera sono i settori economici più importanti oggi in Italia: per questo l’indirizzo professionale dei servizi per l’enogastronomia l’ospitalità alberghiera e l’accoglienza turistica è la risposta migliore per chi vuole una formazione specifica e all’altezza della richiesta. Conoscere, sperimentare e innovarsi sono la chiave per acquisire una professionalità specifica alta e garantirsi un futuro.

* Dirigente scolastico Iis Lazzaro Spallanzani (Castelfranco Emilia – Modena)

Su Invalsi e alternanza serve più coraggio

da Il Sole 24 Ore

di Giorgio Allulli

E alla fine di molti pensamenti e ripensamenti il ministero dell’Istruzione ha dovuto prendere atto della necessità (in mancanza di una nuova normativa di pari rango) di attuare quanto previsto dal decreto legislativo del 2017, ovvero richiedere come requisito per l’ammissione agli esami di maturità la partecipazione ai test Invalsi ed all’alternanza scuola lavoro.

Scuola-lavoro
Ci sarebbe di che rallegrarsi, se non fosse che in precedenza il ministro Bussetti aveva praticamente smontato l’alternanza scuola lavoro, ridenominandola “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” e, soprattutto, dimezzando il numero di ore richieste per espletare questa attività. Ne è scaturito un segnale estremamente negativo per molte scuole, che hanno interpretato questa retromarcia come un segnale di disimpegno, tanto più grave e deprimente per docenti, presidi e studenti quanto maggiore ne era stato lo sforzo per avviare iniziative significative. Ne è derivato dunque un processo di stop and go, che non mancherà di riverberarsi sulla motivazione e, forse, sulla preparazione degli studenti che hanno certamente avvertito la discontinuità della politica e della sensibilità governativa su questo tema.

Prove Invalsi
Ancora più complessa, se possibile, la vicenda dei test Invalsi, che sono rimasti come prerequisito dell’esame di Stato nonostante le più volte manifestate perplessità dello stesso Ministro in materia. La reintroduzione dell’obbligatorietà delle prove Invalsi per l’ammissione agli esami di maturità potrebbe essere certamente un elemento positivo se fosse inserito in un sistema di valutazione che è diventato invece sempre più autoreferenziale, dati il peso crescente attribuito negli esami di Stato al curriculum precedente degli alunni e la presenza sempre meno significativa degli esaminatori esterni; tuttavia l’introduzione di queste prove viene fatta prestando la massima attenzione a “non disturbare il manovratore”, ovvero facendo bene attenzione a non farle interferire in nessun modo nel processo di valutazione condotto all’interno dell’esame di Stato; infatti i risultati delle prove saranno tenuti riservati, nella loro forma analitica, e verranno relegati, in forma descrittiva, in una specifica sezione del certificato finale di maturità, senza nessun peso (o possibile correlazione) sul voto finale. Sfuma così la possibilità di inserire in questo processo un possibile elemento di moderazione del voto, che poteva consentire agli esaminatori di formulare un giudizio tenendo presenti anche i risultati conseguiti nella prova standardizzata. Continueremo dunque a constatare la situazione paradossale che ci mostra il conseguimento di punteggi più alti nelle prove Invalsi e Ocse Pisa sostenute nelle regioni del Nord, contro il conseguimento di voti più alti nell’esame di Stato sostenuto nelle regioni meridionali.

Il (falso) favore agli studenti meridionali
Al di là dell’ingiustizia evidente di questi esiti va considerato che essi finiscono per legittimare livelli di insegnamento notevolmente differenziati nelle diverse aree del Paese. Si tratta di un meccanismo che non favorisce gli studenti meridionali, come potrebbe sembrare, ma al contrario li penalizza, perché li condanna ad uscire dalla scuola con una preparazione inferiore a quella dei loro colleghi, e dunque ad incontrare maggiori difficoltà nel proseguimento della vita attiva e di lavoro. Inoltre questo meccanismo autoreferenziale toglie credibilità, presso il sistema universitario e le imprese, ai punteggi dell’esame di Stato; il primo ricorre dunque all’uso di test di ammissione per l’accesso a molte facoltà, mentre i secondi devono ricorrere a svariati meccanismi di selezione della manodopera, tenendo poco conto del voto ottenuto nell’esame, a tutto scapito dei ragazzi che più si sono impegnati efficacemente nello studio.

Sarebbe dunque ora di attribuire un peso maggiore alle prove Invalsi nel curriculum dello studente, rafforzando anche la capacità dei docenti di sfruttare l’enorme potenziale informativo che deriva da queste prove per “aggiustare” la propria attività didattica, nella considerazione dei punti di forza e di criticità che ne emergono, e rafforzando la capacità dell’amministrazione scolastica di sostenere le situazioni che si dimostrano più deficitarie e di valorizzare le aree di punta del nostro sistema diffondendone le buone pratiche.

Scuole, allarme social Smartphone e tablet ormai fuori controllo

da La Stampa

Maria Rosa Tomasello
roma

Nelle scuole dilaga l’allarme per «l’uso improprio» dei telefonini in classe. Sono trascorsi dodici anni da quando una circolare del ministero della pubblica istruzione ha formalmente vietato i cellulari a scuola durante le ore di lezione, ma da allora la situazione è progressivamente finita fuori controllo tra atti di bullismo prima ripresi con gli smartphone poi condivisi sui social network e studenti sorpresi a copiare i compiti in classe da telefonini e tablet. Insomma, una valanga di incidenti di percorso «digitali» e utilizzi impropri delle nuove tecnologie.
Un’indagine del Laboratorio Adolescenza di Milano ha rilevato che la quasi totalità degli studenti italiani (98,8%) sono contrari al divieto di portare il cellulare a scuola e solo il 20% ritiene più giusto spegnerlo in classe. Per tutti gli altri basta che venga silenziato. Lo smartphone solo per una minoranza di allievi è utile ad apprendere.
A usare il telefonino per scopi didattici «spesso» sono il 29,4% e almeno «qualche volta» il 47,1%, ma, nonostante sia vietato, i numeri (riportati nella tabella qui accanto) raccontano una realtà opposta e descrivono l’abuso sistematico delle nuove tecnologie tra i giovani. E cioè: l’84% dei preadolescenti ha un profilo social, ma naturalmente al momento dell’iscrizione nessuno ha indicato la sua vera età, neppure chi l’ha fatto con un genitore presente. Internet per i ragazzi è un mondo a parte: il 91% non parla con i familiari di ciò che vede o dice durante la navigazione, eppure la vita degli studenti è fortemente influenzata dai messaggi che arrivano dai social, tanto che il 60% clicca addirittura sulle pubblicità e 8 su 10 rispondono ai sondaggi virtuali fornendo così dati fondamentali per campagne pubblicitarie mirate. In Italia la profilazione dei minori è vietata fino ai 14 anni, ma è divenuta una prassi. L’uso incontrollato del web è ormai un allarme che riguarda non solo il comportamento degli studenti ma anche dei professori. Nei giorni scorsi a ritrovarsi nei guai è stato Emanuele Castrucci, docente di Filosofia del diritto all’ateneo di Siena. Finito sotto accusa a causa dei tweet filo-nazisti per cui ora rischia di essere licenziato, il professore si è difeso facendo appello alla «libertà di pensiero» e parlando di «opinioni personali», espresse «fuori dall’attività di insegnamento». Eppure, nonostante la frequentazione quotidiana e soesso ossessiva delle piazze virtuali abbia indotto molti a credere che il web sia una “zona franca”, il suo caso ci ricorda, al contrario, che le regole da rispettare ci sono.
Ogni diritto ha un limite
«Non c’è diritto anche costituzionalmente rilevante che non abbia limiti» ricorda Vito Tenore, consigliere della Corte dei Conti e docente di Diritto del lavoro pubblico nella Scuola nazionale dell’Amministrazione, che cita Umberto Eco: «I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar» e «ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel». «Il tema è antico – ricorda Tenore – e se la libertà di pensiero è scolpita dall’articolo 21 della Costituzione, i limiti sono dati da altri diritti speculari: onore, reputazione, riservatezza, segreti come quello istruttorio o bancario». Oltre che da educazione e buon senso, questi limiti «sono fissati per tutti i cittadini dal codice penale e dal codice civile. Per certe categorie (giornalisti, magistrati, architetti o notai, militari, forze dell’ordine) sono stabiliti anche in codici deontologici, o, per alcuni dipendenti pubblici e privati, nei contratti collettivi di lavoro. Anche condotte extra-lavorative possono avere rilevanza disciplinare» perché «ledono l’immagine del datore di lavoro o del decoro e della dignità del dipendente stesso», provocando la perdita del vincolo di fiducia. Dal 2013, per chi lavora nella pubblica amministrazione, esiste un codice di comportamento che impone maggiore attenzione nelle esternazioni social.
Il monito del Capo dello Stato
A chiedere maggiore sobrietà anche ai magistrati, nell’aprile scorso, è stato lo stesso presidente Sergio Mattarella. Passando dalla chiacchiera da bar a Facebook o Twitter, insomma, si è realizzato il passaggio dal gruppo degli amici a un «numero indeterminato» e potenzialmente enorme di persone, come ha confermato la Cassazione il 27 aprile 2018 con la sentenza sul post denigratorio pubblicato da una lavoratrice che su Facebook si era scagliata contro la sua azienda: «Mi sono rotta i c… di questo posto di m. . » aveva scritto. Ma lo sfogo le era costato il posto.
I social, ha ribadito la Corte il 12 novembre dello scorso anno, devono essere considerati luoghi pubblici, e non serve “privatizzare” il profilo rendendolo visibile a un gruppo ristretto di persone, perché può comunque essere rilanciato da ciascuno dei contatti dell’utente. I rischi, per chi eccede, sono annidati ovunque: anche i messaggi di Whatsapp o la chat su Skype possono diventare prove documentali. A finire talvolta nella trappola dei social sono anche esponenti delle forze dell’ordine. C’è il poliziotto sospeso per avere usato i dati raccolti durante una denuncia per contattare una donna su Facebook, e il militare incappato nella sanzione disciplinare per avere pubblicato su Fb le foto di un servizio svolto durante l’Expo di Milano con le tende da campo allagate e commenti negativi per sottolineare le condizioni precarie in cui si trovava coi commilitoni. Con una circolare del 2011, l’Arma dei Carabinieri ha chiesto così «un utilizzo prudente del web». Provvedimenti analoghi hanno assunto l’Amministrazione penitenziaria e la Guardia di Finanza. «Un controllo di tutto ciò che postiamo è impossibile e non esiste un ordinamento che possa prevedere tutto in modo capillare – evidenzia Tenore –. Credo che sarebbe utile definire un “galateo dei social” mettendo attorno al tavolo soggetti come Google, Facebook, il Miur, l’Anac, linguisti e comunicatori».
Commenta Antonello Soro, presidente dell’Autorità Garante della Privacy: «La tensione, per certi versi inevitabile, tra libertà di espressione e diritti che confliggono deve essere composta secondo la gerarchia di valori espressa dalla Costituzione e dal diritto europeo. La libertà di espressione è “pietra angolare della democrazia”, ma poiché nessuno diritto “è tiranno” anch’essa deve soggiacere ai limiti necessari alla tutela di altri diritti fondamentali. Diritti che, on-line, devono godere delle stesse garanzie accordate off-line». Per Soro «il ruolo centrale assunto dalle piattaforme le carica di un potere cui non corrisponde uno statuto giuridico ancora del tutto adeguato in termini di responsabilità». In questo senso, afferma Soro, «si potrebbero promuovere misure che limitino non tanto la libertà di espressione quanto l’amplificazione». E se le grandi piattaforme hanno cominciato a intervenire «per evitare la propagazione di post spesso fortemente lesivi della dignità, aggiunge Soro, «le decisioni di ultima istanza sulla composizione tra diritti fondamentali devono restare di competenza dell’autorità pubblica. E con procedure rapide». Reati di opinione, illeciti contro l’onore, sono «quanto di più complesso e divisivo esista nell’ordinamento: possiamo davvero pensare che decidano sole e con effetto irrevocabile le piattaforme, con una sorta di giurisdizione privata?».
Servono nuove regole
Dice Bruno Saetta, avvocato e blogger, esperto di diritto applicato alle nuove tecnologie: «Una regolamentazione serve, perché il fenomeno si sta espandendo in modo preoccupante. Ma il problema è: che tipo di regolamentazione? Perché hate speech (discorsi d’odio) e fake news (notizie false) sono connaturati alla società, non nascono nei social. Limitarsi a rimuoverli è come nascondere la polvere sotto il tappeto, non risolve il problema, in più quando si parla di hate speech e di fake non c’è una definizione a livello internazionale: ma se non partiamo da una adeguata comprensione delle dinamiche qualsiasi regolamentazione rischia di fallire».
Forse è a uno psichiatra come Federico Tonioni, responsabile del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web alla Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, che si può chiedere perché sui social oltrepassiamo così spesso i limiti: «Perché i corpi non sono a portata di contatto fisico, e i corpi quando sono vicini contengono gli istinti. La persona si esprime da una distanza di sicurezza e si contiene meno, come quando ci si arrabbia al telefono e lo si fa in modo più veemente. Il meccanismo è lo stesso del cyberbullismo: sono situazioni in cui è più facile non prendersi del tutto la responsabilità di quello che si dice e si dà voce anche a pensieri discutibili. Chi scrive è disinibito ma consapevole e forse, com’è possibile quando c’è tanto pubblico, è alimentato anche da un certo narcisismo».

Stipendi: 20 euro di taglio ai docenti e 200 ai dirigenti. Sindacati verso sciopero

da Orizzontescuola

di redazione

“L’impegno del ministro dell’Economia Gualtieri di prevedere 200 milioni in più per il rinnovo contrattuale per tutta la PA, per una platea di 3 milioni di persone non ci soddisfa minimamente: per la scuola servono – come dice la relazione tecnica dell’Aran – 220 milioni solo per il comparto, che conta 1,2 milioni di persone tra docenti e personale Ata”.

Lo dice la leader della CISL Scuola, Maddalena Gissi, dopo l’incontro odierno a Palazzo Chigi tra Governo e sindacati.

Il rischio è che dal 1° gennaio le retribuzioni della scuola verranno decurtate di 20 euro in media per i docenti e fino a 200 euro medi lordi per i presidi perché c’è una carenza della copertura per il rifinanziamento del Fun (il Fondo unico nazionale per le retribuzioni dei dirigenti) che deve essere di 45 milioni per pareggiare quanto percepiscono oggi ed è invece di 30 milioni come ci è stato detto dal premier Conte”.

La richiesta dei sindacati punta ad un accordo quadro utile per discutere di tutti i temi della scuola, dell’università e della ricerca, dal precariato al reclutamento. “Diventa per noi una necessità ed una emergenza: le attività scolastiche non possono aspettare i tempi della politica e i 185 mila supplenti quantificati ad oggi sono sicuramente superiori ai posti che la politica ha previsto con i due concorsi che devono essere banditi a breve“, prosegue Gissi.

Abbiamo necessità di qualificare il personale ma dobbiamo riconoscere l’esperienza e l’assenza di attenzione per i facenti funzione, per gli insegnanti di religione e per i precari che hanno maturato anni di servizio è l’ennesimo tradimento che la politica perpetua a danno della scuola. Ci sono tutti i motivi per andare in piazza il 12 dicembre e per proseguire con la mobilitazione del personale”, sottolinea la segretaria generale della CISL Scuola.

All’incontro di oggi a Palazzo Chigi erano presenti i ministri Gualtieri e Dadone; per la scuola c’era la viceministra Anna Ascani. “Ancora una volta la legge di bilancio è fatta più per quadrare i conti che per garantire investimenti in un settore nevralgico come l’istruzione”, conclude Gissi

Graduatorie di istituto II e III fascia diventeranno provinciali, come funzioneranno

da Orizzontescuola

di redazione

Graduatorie di istituto seconda e terza fascia: previsto per la primavera – estate 2020 l’aggiornamento e la riapertura.

Riapertura e aggiornamento seconda fascia

In Seconda fascia delle graduatorie di istituto si iscrivono i docenti in possesso di abilitazione, non inseriti nelle GaE o in Gae con riserva

Riapertura terza fascia anche a nuovi inserimenti

Potranno inserirsi nella III fascia delle graduatorie di istituto, le seguenti categorie di docenti:

  • docenti già inseriti (potranno far valutare nuovi titoli e servizi, se conseguiti o anche cambiare provincia)
  • docenti in possesso dei titoli previsti dall’articolo 5, comma 1, lettera b), e comma 2, lettera b), del D.lgs. 59/2017.

Laurea + 24 CFU per i nuovi inserimenti

Alla luce della nuova normativa i docenti che vorranno inserirsi nella III fascia delle graduatorie di istituto (quindi non già inseriti), dovranno essere in possesso di:

  • laurea e 24 CFU nelle discipline antropo-psico- pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche;

Stando al testo del Decreto Scuola approvato alla Camera anche per gli ITP, cioè i docenti in possesso di diploma che permette l’accesso ad una delle classi di concorso della tabella B del DPR 19/2016 sono necessari i 24 CFU, oltre al diploma.

Graduatorie di istituto provinciali

Ad oggi è stato possibile inserire sino a 20 scuole con il limite di 10 per la scuola dell’infanzia e primaria, di cui massimo due circoli didattici (gli istituti comprensivi si considerano entro il limite di 10).

L’emendamento dunque trasforma le graduatorie di istituto in “provinciali”. Non bisognerà più scegliere tot scuole, ma si parteciperà alle supplenze da conferire in tutti gli istituti della città. La convocazione avverrà dopo il conferimento delle supplenze da GaE.

L’emendamento riguarda le supplenze: al 31 agosto e 30 giugno

Per le supplenze brevi rimane il limite di tot scuole da scegliere, che dovrebbe essere 20.

N.B. ricordiamo che il decreto scuola passa ora al Senato. Se approvato sarà trasformato in Legge entro il 29 dicembre.

Pensioni, prescrizione contributi: per lavoratori scuola nessuna scadenza il 31 dicembre 2019

da Orizzontescuola

di redazione

Prescrizione contributi: nessun allarmismo per eventuali scadenze al 31 dicembre 2019. Il lavoratore può comunque accedere in ogni momento al proprio estratto contributivo.

Prescrizione contributi: proroga al 31/12/2021

Il decreto su quota 100 decreto legge n. 4/2019 convertito in legge 26/2019 dedica l’articolo 19 ai termini di prescrizione suddetti, prevedendo che gli obblighi, relativi alle contribuzioni di previdenza e assistenza sociale obbligatoria, riguardanti periodi sino al 31 dicembre 2014, non si applicano sino al 31 dicembre 2021, fatti salvi gli eventuali provvedimenti passati in giudicato.

La regolarizzazione dei contributi da parte delle amministrazioni pubbliche, dunque, è possibile sino al 31/12/2021.

Verifica e variazione posizione assicurativa

Fermo restando che per il lavoratore non cambia nulla, secondo quanto detto sopra, è bene comunque verificare la propria posizione assicurativa. A tal fine, si deve visionare il proprio estratto conto contributivo. Approfondisci

Sintesi scadenze

Contribuzione obbligatoria per i periodi di competenza fino al 31 dicembre 2014, con riferimento alle contribuzioni dovute dalle amministrazioni pubbliche per le gestioni previdenziali esclusive amministrate dall’INPS:  i termini di prescrizione sono sospesi sino al 31/12/2021

  • Versamenti afferenti ai periodi retributivi del 2015 devono essere effettuati entro l’anno 2020 (prescrizione quinquennale)
  • Versamenti afferenti a dicembre 2015 potranno essere effettuati secondo gli ordinari termini di prescrizione, entro il 18 gennaio 2021

La circolare INPS

Pensioni scuola 2020, la circolare Miur slitta

da La Tecnica della Scuola

Era attesa per oggi, lunedì 9 dicembre, l’attesa circolare sui pensionamenti scuola 2020. Non sarà così, purtroppo, perché il provvedimento slitta a martedì o mercoledì, comunque entro la settimana in corso.

Sono sorti problemi di natura burocratica che hanno posticipato l’emanazione della circolare.

L’istanza di pensione dovrà essere presentata tra il 20 e il 30 dicembre 2019.

Si ricorda, a tal fine, che per il personale scolastico, sia come docenti che come personale ATA, la trasmissione della domanda di cessazione dal servizio dovrà essere presentata per via telematica tramite il portale Istanze online (SIDI).

Oltre a ciò sarà necessario presentare contestualmente domanda di pensione all’Inps via web autenticandosi mediante PIN.

Pensioni scuola 2020, i requisiti

Ecco, come segnalato dalla Cisl Scuola, i requisiti d’accesso per le pensioni scuola.

Per i requisiti per l’accesso alla pensione scuola si confermano quelli dello scorso anno, compresa la cosiddetta “pensione quota 100”.

Sono confermati fino al 2026, per effetto del decreto-legge 4/2019 convertito nella legge 28 marzo 2019 n. 26, i requisiti contributivi e di età anagrafica attualmente previsti, senza ulteriori incrementi legati all’aumento della c.d. “speranza di vita”.

Può presentare domanda di pensione il personale con 65 anni e 20 anni di anzianità contributiva in aggiunta al perfezionamento di un diritto a pensione (pensione di vecchiaia)con 42 anni e 10 mesi se uomo e 41 anni e 10 mesi se donna (pensione anticipata); con 38 anni di età e 62 anni di età anagrafica (quota 100), con 35 anni di contributi e 58 anni di età solo per le donne (opzione donna).

Il trattenimento in servizio può essere richiesto dal personale che compiendo 67 anni di età entro il 31 agosto 2020 non abbia maturato a quella data l’anzianità pensionistica di 20 anni.

L’Amministrazione sarà obbligata a collocare a riposo i dipendenti che in possesso dei requisiti della pensione anticipata, raggiungano i 65 anni di età entro il 31 agosto del 2020.

Le uscite nel mondo della scuola negli ultimi 10 anni

Pasto da casa, il tempo mensa fa parte del tempo scuola: lo ribadisce il Miur

da La Tecnica della Scuola

Si torna a parlare di pasti a scuola. Questa volta è il Miur che richiama le recenti sentenze sul tema, intervenute sulle richieste delle famiglie di far consumare il pasto portato da casa nei locali della scuola.

Il riferimento è in particolare alla sentenza n. 20504 del 30 luglio 2019 con la quale la Cassazione si è definitivamente pronunciata in merito alla sentenza n. 1049 della Corte d’Appello di Torino, circa la natura del servizio di refezione scolastica e la sussistenza di un diritto soggettivo perfetto delle famiglie al consumo, da parte dei propri figli, del pasto domestico all’interno dei locali destinati alla mensa e nell’orario della refezione.

Nel chiarire la natura del tempo relativo alla ristorazione scolastica, il giudice di legittimità ha statuito che “se il servizio mensa è compreso [] nel tempo scuola, è perché esso condivide le finalità educative proprie del progetto formativo di cui esso è parte, come evidenziato dalla ulteriore funzione cui detto servizio assolve, di educazione all’alimentazione sana” nonché “a quella di socializzazione che è tipica del pasto insieme, cioè in comunità.

La Suprema Corte ha, quindi, enunciato il “principio secondo cui un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici, non è configurabilee, pur riconoscendo, in merito ai profili organizzativi del servizio di ristorazione scolastica, un diritto delle famiglie alla partecipazione al procedimento amministrativo che ne definisce le modalità di gestione ai fini dell’individuazione della impresa di erogazione del servizio e della scelta dei cibi offerti, ha qualificato tale diritto non come diritto di libertà quanto, piuttosto, come “diritto sociale (all’istruzione), evidentemente condizionato e dipendente dalle scelte organizzative rimesse alle singole istituzioni scolastiche, sulle quali i beneficiari del servizio pubblico possono influire nell’ambito del procedimento amministrativo, in attuazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione pubblica, di cui all’art. 97 Cost., e con i consueti strumenti a tutela della legittimità dell’azione amministrativa”.

In proposito, il Miur, con parere del 9 dicembre, ha richiamato l’attenzione su alcuni punti che si possono così sintetizzare:

  • per i percorsi del tempo pieno e prolungato, il tempo curricolare comprende, unitamente alle attività propriamente disciplinari, attività formative in queste integrate, tra le quali rientrano inequivocabilmente quelle dedicate alla consumazione del pasto a scuola;
  • se il tempo dedicato alla refezione scolastica è ricondotto nell’alveo del tempo scuola, ne deriva la necessità che le istituzioni scolastiche lo considerino a tutti gli effetti parte integrante, e caratterizzante, della proposta formativa che, in ogni sua articolazione, presentano alle famiglie e che queste accettano al momento dell’esercizio del diritto di scelta educativa.

Sulla base di quanto sopra, le scuole dovranno dunque, analogamente a quanto avviene per ogni attività didattico-educativa, includere la programmazione del tempo mensa nel piano triennale dell’offerta formativa. Nel PTOF dovranno essere indicati gli aspetti connessi all’educazione alimentare, la concreta organizzazione della consumazione conviviale del pasto, gli spazi e i tempi ad esso dedicati e, per quanto possibile, le condizioni di consumo mirate a soddisfare specifiche esigenze.

Il Miur ad ogni modo raccomanda di garantire il contributo sereno e collaborativo delle famiglie, nel rispetto dei principi di buon andamento dell’amministrazione e di partecipazione al procedimento amministrativo. Così come dovrà essere garantita la massima trasparenza dei processi decisionali e la efficace preventiva comunicazione delle determinazioni assunte e degli obiettivi formativi perseguiti, al fine di consentire alle famiglie destinatarie del servizio scolastico di esercitare pienamente la libertà di scelta del percorso formativo per i propri figli e, una volta che abbiano aderito alla proposta, di assumersi consapevolmente la corresponsabilità della sua realizzazione.

Tutte le determinazioni in merito alla gestione della mensa scolastica dovranno essere infine condivise con gli enti locali, titolari dell’erogazione del servizio di ristorazione scolastica, e con le aziende sanitarie locali, competenti in merito agli aspetti igienicosanitari e di sicurezza alimentare.

Coding, servirà per accedere all’insegnamento. Che cos’è?

da La Tecnica della Scuola

Il 3 dicembre scorso l’Assemblea della Camera ha concluso l’esame del D.L. 29 ottobre 2019, n. 126, adottato dal Consiglio dei Ministri il 10 ottobre 2019 e pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 30 ottobre 2019, apportando alcune modifiche al testo.

Tra le principali novità, in tema di didattica digitale e programmazione informatica, è stato introdotto l’art. 1-ter, che prevede l’acquisizione, da parte del personale docente, di competenze relative alle metodologie e tecnologie della didattica digitale e della programmazione informatica (coding). Il coding dunque viene inserito tra le metodologie didattiche da acquisire nell’ambito dei crediti formativi o durante il periodo di formazione e prova legato al concorso.

In particolare, la norma dispone che le competenze dovranno essere acquisite nei corsi di laurea in scienze della formazione primaria per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria e nell’ambito delle metodologie e tecnologie didattiche da acquisire ai fini del conseguimento dei 24 CFU, uno dei requisiti necessari per l’accesso al concorso per docente e insegnante tecnico-pratico nella scuola secondaria, o durante il periodo di formazione e prova.

I settori scientifico-disciplinari all’interno dei quali sono acquisiti i Cfu/Cfa relativi alle competenze indicate, nonché i relativi obiettivi formativi, saranno individuati con decreto ministeriale.

Cos’è il coding?

Letteralmente coding significa «programmazione informatica». Alla base di questa disciplina c’è il pensiero computazionale, cioè tutti quei processi mentali che mirano alla risoluzione di problemi combinando metodi caratteristici e strumenti intellettuali.

In pratica, siccome i linguaggi di programmazione sono definiti da regole, alla base del coding c’è il saper riconoscere quali sono le regole necessarie affinché specifici comandi possano portare al risultato atteso. 

Perché il coding come accesso all’insegnamento?

Lo spiega l’onorevole Valentina Aprea di Forza Italia, cha ha proposto l’inserimento della disposizione in questione nel decreto scuola.

“Si tratta, colleghi, di una svolta epocale nel momento in cui deliberiamo l’assunzione di 48 mila docenti – ha dichiarato Aprea nel suo discorso alla Camera – epocale nel senso letterale del termine, poiché rimanda alla caratteristica della nostra epoca che è digitale, diversamente dal secolo scorso; ed è una norma che per la prima volta nella legislazione scolastica italiana non rimanda alla didattica digitale né con caratteristiche sperimentali né con riferimento solo ad alcuni docenti specialisti con competenze di tipo tecnologico, ma è finalizzata ad assicurare a tutti i docenti della scuola italiana, proprio tutti, le competenze dei docenti del terzo millennio”.

“Vorrei ricordare – ha aggiunto Aprea – che il nostro Paese, per ritardi di diversa natura, assenza di visione, non riuscirà a rispettare gli impegni presi in sede europea rispetto alla strategia Europa 2020, che include, come è noto, l’Agenda digitale europea 2020, una strategia per una crescita intelligente, sostenibile, inclusiva che prevede al punto 6 il miglioramento dell’alfabetizzazione, delle competenze e dell’inclusione appunto nel mondo digitale”.

“A fronte di questi obiettivi, che altri Paesi raggiungeranno nell’ormai prossimo anno 2020 – ha concluso la parlamentare di FI – l’OCSE nel rapporto Outlook 2019 ha evidenziato che ben il 75,2 per cento dei docenti italiani necessitano di una maggiore formazione in materia di ICT, risultando per questo la peggior performance dell’OCSE. Sempre l’OCSE ha per questo fissato in 15 anni il digital divide che separa l’Italia dagli standard della scuola europea. Insomma, in Italia per lasciare in una zona comfort i docenti della scuola italiana, che trascinano i modelli di insegnamento e apprendimento del Novecento nell’era digitale, stiamo rubando il futuro ai nostri giovani”.

Ex LSU e appalti storici, ecco il bando per l’assunzione nel ruolo di collaboratore scolastico

da La Tecnica della Scuola

È stato finalmente pubblicato l’atteso bando (D.D.G. 2200 del 6 dicembre 2019) che permette l’internalizzazione degli ex-LSU e dei lavoratori degli appalti storici nei ruoli di collaboratori scolastici della scuola statale.

Il bando fa seguito al Decreto Ministeriale n. 1074 del 20 novembre 2019 che disciplina la procedura selettiva, per titoli, finalizzata all’assunzione a tempo indeterminato di personale che sia in possesso del diploma di scuola secondaria di primo grado, conseguito entro la data di scadenza del termine per la presentazione della domanda di partecipazione e che abbia svolto, per almeno 10 anni, anche non continuativi, nei quali devono essere inclusi gli anni 2018 e il 2019, servizi di pulizia e ausiliari presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, in qualità di dipendente a tempo indeterminato di imprese titolari di contratti per lo svolgimento di tali servizi.

Ai fini del calcolo degli anni necessari per il raggiungimento del requisito di partecipazione, relativo all’anzianità di servizio decennale, i periodi di sospensione obbligatoria del servizio sono da considerare quale servizio effettivo.

Quanti posti?

Le assunzioni a tempo indeterminato saranno effettuate, mediante la stipula di contratti a tempo pieno e/ o a tempo parziale, nei limiti finanziari complessivi di 11.263unità di personale.

La procedura selettiva sarà indetta, anche in più fasi, dalla competente direzione generale dell’Amministrazione centrale del MIUR e si svolgerà su base provinciale.

Il bando indica il numero di posti disponibili a livello regionale e provinciale.

A livello regionale i posti disponibili sono:

  • Abruzzo 386
  • Basilicata 162
  • Calabria 612
  • Campania 536
  • Emilia Romagna 550
  • Friuli Venezia Giulia 40
  • di cui istituti scolastici con lingua di insegnamento italiana 30
  • di cui istituti scolastici con lingua di insegnamento slovena 10
  • Lazio 728
  • Liguria 128
  • Lombardia 392
  • Marche 259
  • Molise 82
  • Piemonte 498
  • Puglia 1.611
  • Sardegna 205
  • Sicilia 952
  • Toscana 595
  • Umbria 179
  • Veneto 348

Chi non è ammesso

Non possono essere ammessi alla procedura selettiva coloro che sono stati destinatari di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori, ovvero l’interdizione da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate abitualmente da minori e la misura di sicurezza del divieto di svolgere lavori che prevedano un contatto abituale con minori.

Non possono essere inoltre ammessi coloro che sono stati esclusi dall’elettorato politico attivo, nonché coloro che sono stati destituiti o dispensati dall’impiego presso una pubblica amministrazione per persistente insufficiente rendimento o dichiarati decaduti per aver conseguito la nomina o l’assunzione mediante la produzione di documenti falsi o viziati da nullità insanabile, ovvero licenziati ai sensi della vigente normativa di legge e/o contrattuale, nonché i condannati per i reati di cui all’articolo 73, del DPR 9 ottobre 1990, n. 309 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope) e i condannati per i delitti indicati dagli articoli 600-septies.2 e 609-novies del codice penale, ovvero gli interdetti da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate abitualmente da minori.

Presentazione delle domande

I candidati presentano l’istanza di partecipazione entro il termine perentorio del 31 dicembre 2019 (ore 14).

La domanda può essere presentata unicamente in modalità telematica attraverso l’applicazione “Piattaforma Concorsi e Procedure  selettive” previo possesso delle credenziali SPID, o in alternativa,  di un’utenza valida per l’accesso ai servizi presenti nell’area riservata MIUR con l’abilitazione specifica al servizio “Istanze on Line (POLIS)”.

In particolare, si accede alla pagina dedicata alla procedura selettiva sul sito www.miur.gov.it, area “Ministero”, sezione “Concorsi” (Ministero > Concorsi > Procedura selettiva per la internalizzazione dei servizi) (https://www.miur.gov.it/web/guest/procedura-selettiva-per-la-internalizzazione-dei-servizi). In alternativa, è possibile attraverso il bottone “vai al servizio” presente nella scheda relativa alla “Piattaforma Concorsi e Procedure selettive”, raggiungibile nell’area “Argomenti e Servizi” > “Servizi online“ (https://www.miur.gov.it/web/guest/servizi-dalla-a-alla-z). All’interno dello spazio denominato “presentazione della domanda” sono disponibili tutte le informazioni utili alla compilazione.