La BESbetica indomata

La BESbetica indomata

di Claudia Fanti

 

Ma ci si rende conto di cosa sia l’inclusione per chi ha fatto del verbo insegnare una specie di religione?

Allora, prima di tutto, inclusione, parola che non mi piace per nulla, è semplicemente attenzione a qualunque persona mi si pari di fronte. Se si tratta di un bambino o di una bambina stranieri, non farò nulla che lo/la allontani dalla classe. La/lo farò interagire sempre e comunque con qualsiasi mezzo, mani, gambe, piedi, parole, giochi con i compagni della classe. Se invece dovesse essere un bambino o una bambina portatore di qualsiasi diversità fisica o psichica, avrò cura di interagire con insegnanti di sostegno e educatori cercando di capire le indicazioni loro, della famiglia e dei medici che li seguono, con modestia e umiltà, perché io sono nessuno in molteplici campi e perfino nel mio sebbene ce la metta tutta per studiare e aggiornarmi, ma Dio non sono!

Mi infastidiscono le ricette, i menù, perché nel momento in cui faccio ingabbiare me e bambine, bambini ritenuti “speciali”, ci irrigidiamo, non sperimentiamo, ci fossilizziamo, prova ne siano i tanti “copia e incolla” di documenti prodotti che girano fra insegnanti per “salvarsi” dalle nuove pretese burocratiche sui BES…

Io so soltanto che maestra sono e loro  bambini sono, tanti/e e profondamente diversi e per la tale evidente ovvietà, devo ascoltare e agire, evitando tutti gli ostacoli che mi pone di fronte l’amministrazione. So che bambini e bambine hanno la precedenza, e che se anche io mi arrabbio o ritengo ingiuste le politiche scolastiche devo andare avanti e al contempo lottare perché ognuno e ognuna abbia un posto a scuola e fuori.

I miei orecchi devono farsi enormi, le mie mani e le mie braccia devono farsi tentacoli, affinché io possa aiutare, affiancare mamme, papà e figli/e insieme.

So che, fra pari, bambine e bambini collaborano, lo sperimentiamo da anni e anni. Si affinano modalità cooperative che inevitabilmente includono, si migliorano e si perfezionano, senza alcun bisogno di marcare le differenze, bensì usandole per far sì che i singoli tutti se ne avvantaggino, a volte perfino senza l’apporto della famiglia, se ciò non è possibile.

Che se ne fa una scuola che io insegnante scriva relazioni e programmazioni differenziate quando non una volta quel bambino sarà quello del giorno prima?! All’amministrazione cosa cambia e a noi insegnanti? Se anche io domani non ci fossi più, chi mi dovesse sostituire, che farà? Andrà a leggere il mio “piano”…forse per un minuto, ma poi entrerà lui/lei in azione di relazione e le carte cambieranno. Gli assi andranno scovati nuovamente, perché insegnamento è relazione e rete di relazioni influenzate da ogni new entry!

Un insegnante oggi più che un tempo deve ricordare e rispondere per Costituzione alla propria coscienza, non a regolette di innumerevoli, contraddittorie circolari e direttive. Non deve escludere nessuno/a, deve farsi piccolo, ancor più piccolo di quanto non sia, e ringraziare mille volte chi ha fiducia e le/gli consegna figli/e. Deve essere debole con i deboli e forte con quei forti che le/gli stanno uccidendo la pedagogia sotto il naso.

Il  naso deve farsi alquanto selettivo per fare in modo che l’unico “verbo” che riconosce sia quello della Costituzione. L’insegnante sa che tutto passa, passano i ministri, i dirigenti, i partiti, le politiche, lo sa con grande esperienza e ha le prove di una vita a sostenerlo/a.

Il vero insegnante non è un buonista, è uno che insieme  con i suoi colleghi/e tenta di avviare ogni piccola persona che incontra a un’istruzione-educazione, la quale esalti quello che è in potenza e ancora non è riuscita a dare e a far emergere.

Il resto è sovrastruttura: programmi, Indicazioni, circolari, riunioni, commissioni, Bes, Invalsi, voti…sovrastruttura, quisquilie e pinzellacchere… se lui/lei, docente, non sa cosa e come fare per agire volta per volta. Tutto il resto è scempiaggine, finzione. Il docente sa che il proprio lavoro ha un’importanza capitale per la vita dei giovani che dovranno lottare al posto suo e quindi non demorde, non abbassa la guardia, si ingegna per superare difficoltà personali, insulti dei media e di famiglie che lo criticano aspramente su quotidiani e media in generale.

La politica in Italia non ha mai aiutato la scuola, sembra ritenerla passabile di attenzione nel momento di indagini valutative, ma prima e dopo in pratica se ne disinteressa, l’insegnante no: si allarma, si informa, si adombra, riprende e va in cerca, ricerca e si spinge oltre, ma non deve cercare la “gloria” minore di un vantaggio, bensì quella di strumenti e studi tramite i quali far volare gli altri. E si badi bene non occorre essere Don Milani, evocato da parti contrapposte e quando fa comodo, per insegnare, perché ogni persona che abbia competenze di pedagogia sa che cosa è necessario alle sue classi composte di tanti singoli profondamente diversi per esistenze e condizioni di partenza. Un Don Milani moderno sa che dovrà combattere con tanti nuovi miti, tante scorciatoie, tanti vuoti che non sono quelli di allora…anzi vi si sono aggiunti.

Bocciare è un fallimento ed un costo

Bocciare è un fallimento ed un costo

di Umberto Tenuta 

 

Bocciare è un fallimento ed un costo, dice la Ministra della Pubblica Istruzione.

Respingere un ragazzo è un sopruso, ribattono gli studenti!

 

Più che un sopruso, è qualcosa di molto più grave, qualcosa che nessun uomo di scuola dovrebbe mai fare e consentire che si faccia.

Bocciare è negare il diritto all’educazione riconosciuto nelle Carte Internazionali, diritto inalienabile che appartiene ad ogni figlio di donna, perché ogni figlio di donna ha diritto alla sua umanizzazione[1], come conferma il Poeta,: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”!

Peraltro, non si può venir meno alla norma positiva di cui all’art. 1 del D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, il quale, al comma 2, sancisce:  <<L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento>>.

Gli operatori scolastici tutti, personale docente, dirigente ed ispettivo, hanno l’obbligo di osservare e di fare osservare questa norma.

Non possono disattenderla, pena il venir meno ai loro ineludibili e precisi doveri professionali, con tutte le conseguenze che ne derivano.

 

Nella loro non riconosciuta saggezza, i giovani aggiungono che la scuola che essi sono costretti a frequentare −quando non sono i figli di papà che, come dice FRANCESCO, hanno altre scuole e frequentano altri più efficaci ambienti formativi− utilizza una  “una didattica nozionistica e vecchia nei metodi”.

 

Una didattica nozionistica!

Sì, una didattica nozionistica, seppure non si debba dimenticare, come purtroppo spesso avviene, che numerosi sono i docenti che ormai non chiedono più:

−le date di nascita, le vite e le opere dei poeti e dei filosofi

−l’elenco delle città e dei fiumi d’Italia

−le definizioni degli enti e delle operazioni geometriche

−eccetera eccetera

 

Una didattica vecchia nei metodi!

Metodi, anzi metodo didattico, perchè è uno solo, quello delle unità didattiche (unità didattiche, cioè unità di insegnamento) ovvero metodo della lezione (da lectio, lettura) ovvero della esposizione, presentazione, anche se con l’ausilio delle LIM che il MIUR si è premurato di inviare alle scuole, anziché lasciarle libere −come è loro diritto−  di provvedersi di notebook, anzi, meglio, di tablet che ormai abbondano nelle tasche dei giovani, seppure a spese dei genitori.

Metodo delle interrogazioni, e, vedi mirabolante novità, soprattutto delle verifiche, con tanto di test dell’INVALSI che pure qualcosa fa!

Sì, una valutazione degli apprendimenti sempre più quantitativa (dallo zero tagliato al dieci più) e appiattita sui test a numero chiuso!

 

Quanta saggezza pedagogica in questi nostri studenti, ogni mattinata costretti a stare seduti nei banchi, giovani studenti che gli uomini di scuola dovrebbero ascoltare più attentamente −assieme ai loro genitori− per una valutazione formativa, e non solo quantitativa, la quale non dice nulla per migliorare i processi di apprendimento[2].

Dovrebbe ormai essere acquisito che nella scuola del diritto all’educazione la valutazione deve assumere sempre valore formativo, anche nel caso, che dovrebbe essere raro caso, della bocciatura. Si valuta per educare, per ricercare le strategie che consentano agli alunni −a tutti i singoli alunni− di apprendere, perché tutti possono apprendere, in quanto non esistono giovani irrecuperabili, così come non esistono uomini irrecuperabili, tanto che in alcuni paesi nordici sono state chiuse finanche le carceri e i condannati vengono rieducati in apposite istituzioni, come peraltro vorrebbe anche la nostra Costituzione.

 

Oddio, quante volte sono state dette queste cose! 

 

Come è possibile che ancora oggi siamo fermi ad una scuola che −malgrado tutte le riforme più o meno innovative legiferate negli ultimi decenni− di fatto ripete ancora la scuola di un secolo fa, quando doveva risultare funzionale agli interessi dello Stato, e non a quelli del giovani?

E questo, malgrado l’avvenuto riconoscimento dei diritti degli uomini, dei diritti dei giovani, dei diritti dei bambini nelle più autorevoli Carte internazionali, e perfino nella Carta dei diritti degli studenti che per tutte le scuole dovrebbe essere testo ineludibile.

 

Oltre che nelle riviste professionali cartacee più accreditate, nelle varie rubriche delle due riviste digitali da me curate[3] ho ampiamente analizzato le problematiche più vive della scuola, sottolineando l’esigenza di superare la didattica dell’insegnamento, sostituendola con la didattica dell’apprendimento come problem solving e cooperative learning, e di bandire la valutazione punitiva e selettiva, sostituendola con una valutazione formativa.

Didattica dell’apprendimento come problem solving e cooperative learning che è realizzabile, come ampiamente, con le loro concrete esperienze −troppo facilmente dimenticate− hanno dimostrato le Sorelle Agazzi e la Montessori.

Valutazione formativa[4]: valutare per educare, valutare per promuovere, mai per respingere!

 

Vorrei chiudere, cari amici studenti di cui ho vissuto e vivo i tormenti, anche se nessuno è riuscito a impedire il mio successo formativo −seppure incompleto− con l’affermazione di E. FAURE[5]:

ogni uomo è destinato ad essere un successo

e

il mondo è destinato ad accogliere questo successo



[1] Scrive Kant che <<La bestia è già resa perfetta dall’istinto… L’uomo invece… non possiede un istinto e deve quindi formulare da sé il piano del proprio modo di agire… La specie umana deve esprimere con le sue forze e da se stessa le doti proprie dell’umanità. Una generazione educa l’altra… L’uomo può diventare tale solo con l’educazione>>(KANT E., Pedagogia, O.D.C.U., Rimini, 1953, pp.25-27.

[2] In INTERNET: “UMBERTO TENUTA” VALUTAZIONE FORMATIVA

[5] FAURE E. (a cura di), Rapporto sulle strategie dell’educazione, Armando-UNESCO, Roma, 1973, p. 249

Bando di concorso Franco Motroni

Bando di concorso Franco Motroni
Scadenza 15 dicembre 2013

L’associazione italiana per la retinite pigmentosa e Ipovisione AIRPI ONLUS, istituisce il  bando di concorso per due borse di studio intitolate al compianto socio sostenitore Franco Motroni. Tali borse di studio hanno come beneficiari bambini e ragazzi con deficit visivo RESIDENTI NELLA REGIONE Lazio, e sono finalizzate all’acquisto di materiali e  strumenti utili all’apprendimento e all’inclusione scolastica.
Le borse di studio consistono nelle somme di ottocento euro e € 700.

Modalità di partecipazione
La domanda di partecipazione va redatta e sottoscritta dai genitori.
Le domande devono essere inviate per posta elettronica all’indirizzo e-mail presidente@airpi.it debbono pervenire entro il 15 dicembre 2013, e debbono essere  composte da:
1) domanda di partecipazione alla borsa di studio franco Motroni , sottoscritta dai genitori, contenente tutte le generalità ed i recapiti del genitore, le generalità e i dati del bambino, l’indicazione della ISEE familiare 2012 . le domande vanno redatte
secondo il facsimile presente sul sito www.airpi.it .
2) illustrazione dettagliata del modo in cui si intende utilizzare i fondi del bando, Tale documento può essere redatto dai genitori da soli, oppure con la collaborazione degli educatori e delle altre figure professionali coinvolte nel progetto educativo della persona.
3) copia del PEI Progetto Educativo individualizzato dell’anno scolastico corrente.

Saranno ammessi file allegati nei seguenti formati: TXT, DOC, DOX, PDF (accessibile ).
Il regolamento del bando e il fax simile della domanda possono essere reperiti sul sito dell’associazione all’indirizzo www.airpi.it

 

Per far ripartire la scuola ci vogliono le “larghe intese”?

Per far ripartire la scuola ci vogliono le “larghe intese”?

di Gian Carlo Sacchi

Anche se nel momento in cui scriviamo le larghe intese si sono già ristrette, e chissà quali altri stravolgimenti ci saranno in questo periodo di concitata azione politica, vale comunque la pena soffermarci su quanto è accaduto nel Governo ed in Parlamento a proposito del così detto decreto Carrozza, approvato in tempi brevissimi, se si considerano le lungaggini legislative e senza l’ormai di prammatica voto di fiducia.

Non è che al momento della conversione in legge ci fossero tanti parlamentari presenti, ma tant’è, di questi tempi….; non è che si tratti di una grande innovazione, anzi non c’è proprio niente di nuovo, ma forse tappare i buchi storici è l’unico modo per far approvare la legge senza turbare sindacati e altre realtà sempre pronte ad alzare steccati; non è che ci siano in ballo tante risorse, ma quanto basta per aver fatto dire al ministro che è il primo provvedimento che esce dalla logica dei tagli, prendendo i voti anche di chi ha contribuito a tagliare per troppi anni.

Certo si è trattato di rispettare accordi a monte, ma seguendo il dibattito nelle commissioni parlamentari, viene  da fare qualche altra considerazione di merito, rilevando come deputati e senatori, ieri contrapposti  in modo da sembrare insanabile, abbiano smussato più di un angolo per favorire l’approvazione del provvedimento.

Non si tratta soltanto di un pannicello caldo, ma della condivisione di una linea di fondo, che, come hanno fatto notare alcuni osservatori, conferma un impianto centralista e dirigista del governo nazionale sul sistema scolastico, tornando ad occupare, con quei pochi soldi, tutti gli spazi che timidamente si era in passato cercato di decentrare ai territori ed affidare alle responsabilità professionali.

Una tale impostazione con una mano da e con l’altra (la spending review) toglie, deprimendo i servizi e non contribuendo a smantellare le cariatidi burocratiche. Di piani triennali di assorbimento del precariato poi ne abbiamo sentiti troppi senza esito e quindi anche questa volta si può esprime un certo scetticismo.

Quindi si è capito chiaramente che il problema non sta più nel conflitto tra destra e sinistra, ma tra centro e periferia, con buona pace del nuovo, si fa per dire, titolo quinto della Costituzione e delle politiche liberali, pur con qualche fuga nel privato.

Ancora una volta si conferma che il sistema scolastico non riesce ad emanciparsi dalla politica; con l’autonomia ci eravamo illusi che fosse il sistema stesso a diventare autonomo e non le singole scuole schiacciate tra l’amministrazione statale e gli enti locali e che fossero le professionalità a costituire un punto di riferimento non solo per le prove INVAlSI, ma per la loro capacità di sostenere, mediante la dimensione educativa, la  crescita della società locale e così via fino al livello nazionale, passando per l’assunzione di responsabilità diretta da parte di altri ambiti territoriali. Una nuova governance in tal senso non è infatti solo un problema amministrativo, evoca quella “società educante” di cui si sono perse le tracce, che sembra essere stata delegata ai social network, che non riesce nemmeno a raggiungere per quanto riguarda il nostro Paese l’obiettivo europeo della longlifelearning.  Di questo fa parte una nuova politica del personale, non solo del precariato o di una mobilità rallentata, un passo indietro è il reclutamento dei dirigenti scolastici mediante la scuola della pubblica amministrazione ed uno avanti è l’aver sancito l’obbligo della formazione in servizio dei docenti, ma a rischio risorse.

Di fronte a nuove condizioni, crearle non sempre costa all’erario, anzi forse ottimizza quello che c’è, si potrà spingere sulla leva dell’innovazione dall’interno, che è l’unico modo per realizzare il miglioramento continuo e porre in essere la capacità di elaborazione e di innovazione.

Entrando più in profondità negli emendamenti proposti dalle varie parti politiche, soprattutto alla Camera, dove si è avuto il più ampio confronto, si intravvedono due linee, una più concentrata sul ruolo della scuola istituzione come garanzia di cittadinanza e di uguaglianza delle opportunità e l’altra più diluita su diversi ambiti riconducibili a strategie di tipo formativo, compreso il lavoro. L’alternanza scuola-lavoro, arenatasi ai tempi della Moratti e ridotta a tirocini, ritorna  con la previsione di un regolamento per la definizione dello status giuridico degli studenti impegnati in tali percorsi. Nel sistema di istruzione e formazione si possono acquisire competenze anche mediante attività realizzate in ambito lavorativo con la possibilità di ricavare utili economici per la scuola. Si pensi a quanto già introdotto circa la possibilità di assolvere all’obbligo di istruzione mediante contratti di apprendistato. Alcuni emendamenti avrebbero voluto istituzionalizzarli già dal primo biennio del secondo ciclo.

Abbastanza fuori da una riflessione appropriata sui curricoli appare l’introduzione della geografia negli istituti tecnici e professionali e le solite esortazioni, anche se socialmente rilevanti, sull’educazione all’affettività e la lotta alle discriminazioni. Bene per il ritorno delle compresenza nella scuola primaria e il generale consenso sugli istituti comprensivi, mentre le complicate questioni sui libri i testo e gli e-book, danno come al solito un colpo al cerchio dell’editoria ed uno alla botte della didattica.

Anche la lotta alla dispersione, come l’orientamento dimostrano che le scuole non possono farcela da sole e non con soli controlli o ritornando ad operazioni legate alla compatibilità occupazionale. Si tratta di un grosso investimento pedagogico prima che strutturale e finanziario, che inevitabilmente coinvolge con precise responsabilità attori sociali e politiche territoriali.

Non tutto quanto proposto in sede di emendamenti è diventato legge, anche perché un tale provvedimento non poteva trasformarsi, come capita per quelle rare volte sulla scuola, in un assalto alla diligenza, ma si è potuto verificare che la nuova maggioranza ha fatto registrare un qualche passo in avanti. Si tratta solo di convenienza o qualcosa è cambiato nella cultura politica, almeno per quanto riguarda la possibilità di instaurare un confronto costruttivo. Qualcos’altro a portata di mano per il ministro Carrozza ci sarebbe: l’organico di istituto e di rete, legge del governo Monti e la proposta già approvata dalla settima commissione della Camera, sulla riforma degli organi collegiali, che speriamo sia stata l’ultima occasione per fare le barricate.

Il nuovo liceo sportivo: uno scientifico con economia dello sport al posto del latino

da Corriere della Sera

Il nuovo liceo sportivo: uno scientifico con economia  dello sport al posto del latino

Non basta essere bravi atleti, bisogna studiare  le discipline specifiche dell’indirizzo anche dal punto di vista del diritto

Mariolina Iossa

Se ne parla da tempo, doveva partire già a settembre ma è stato poi rinviato di un altro anno. E adesso ci siamo: il nuovo liceo sportivo prenderà il via ufficialmente nell’anno scolastico 2014-2015, questo vuol dire che i genitori dei ragazzi in uscita a giugno dalla media potranno iscrivere i propri figli al nuovo indirizzo entro fine febbraio come per tutti gli altri licei e istituti superiori. Il liceo sportivo sarà di fatto un liceo scientifico dove non si studierà il latino ma si approfondiranno tutte le materie scientifiche e dal terzo anno si aggiungeranno due discipline specifiche, economia e diritto dello sport. Sarà un liceo dove le ore dedicate alle attività motorie saranno ovviamente maggiori rispetto a tutti gli altri licei ma non solo, i docenti saranno obbligati ad una “curvatura” del 20 per cento dei programmi delle loro materie verso tematiche sportive.

UN LICEO NON UNA SCORCIATOIA – Si tratta dunque di un liceo a tutti gli effetti, e non quindi di una scuola per atleti, ma per accedervi occorrerà praticare agonisticamente un qualche sport, anche se lo sbocco lavorativo punta a professioni che hanno a che fare con il mondo dello sport, dal cronista sportivo al medico sportivo al fisioterapista per atleti e così di seguito, professioni che comunque necessitano di un proseguimento degli studi in ambito universitario. E’ bene che i ragazzi sappiano subito tuttavia che iscriversi al liceo sportivo non significa trovare una scorciatoia per arrivare alla maturità giocando a pallone e studiando poco. Si studierà come in un liceo scientifico ma ovviamente si prenderanno in considerazione i casi di quegli allievi che praticano lo sport in maniera agonistica e che si sottopongono ad allenamenti costanti e intensivi e che partecipano a campionati nazionali e internazionali. Ma mentre in passato per molti ragazzi continuare a praticare l’attività sportiva significava dire addio agli studi, adesso si cercherà di conciliare le due cose per non negare a giovani atleti la possibilità di formarsi e di fare agonismo.

NON BASTA ESSERE ATLETI – Allo stesso tempo non bisognerà essere solo atleti ad alto livelli per entrare in un liceo sportivo, lo sport può essere un punto di partenza per costruire un proprio futuro professionale. Sono centinaia le scuole che si sono messe in lista al ministero per ottenere l’indirizzo sportivo ma non per tutte sarà possibile: il dpr 52 del marzo 2013 ha indicato tutte le modalità e i necessari requisiti perché un liceo chieda e ottenga l’indirizzo sportivo. Inoltre, nella fase iniziale, la norma prevede un solo liceo sportivo per Provincia, quindi in tutto ci saranno un centinaio di licei sportivi da Nord a Sud. Il limite potrebbe cadere in futuro se questo corso di studi ottenesse grande successo ma forse il timore del ministero è che se si attivassero molti sportivi gli altri licei si svuoterebbero. Intanto si comincia, una commissione è da tempo al lavoro per mettere a punto offerta formativa e requisiti e sono anche partiti i corsi di formazione per insegnanti che dovranno inquadrare le loro materie, dall’italiano alle scienze, dalla matematica alla filosofia, in un’ottica sportiva. Il prossimo mese, e poi a gennaio, le famiglie potranno saperne di più direttamente agli open day degli istituti che avranno ricevuto l’ok del ministero. I licei paritari hanno avviato la sperimentazione già da quest’anno.

Marinare la scuola fa male ai risultati. E gli italiani sono i terzi al mondo

da Repubblica.it

Marinare la scuola fa male ai risultati. E gli italiani sono i terzi al mondo

I nuovi dati diffusi dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. I nostri studenti più presenti solo di turchi e argentini. E chi va meglio sono i cinesi, con presenze record. I risultati della ricerca Ocse-Pisa

BIGIARE, Fare sega, Nnarggiare o Foldare. Città che vai, modo di dire per definire sempre lo stesso comportamento diverso che trovi. Il concetto però è sempre quello: marinare la scuola. Con gli studenti italiani che sono campioni (quasi) mondiali, preceduti sul podio dai soltanto dai quindicenni turchi e argentini, che sono in vetta. La sorprendente statistica arriva direttamente da Parigi, dove quattro giorni fa l’Ocse  –  l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico  –  ha presentato i dati dell’indagine Pisa (Programme for International Student Assessment) 2012 sulle competenze in Lettura, Matematica e Scienze dei quindicenni di 65 paesi di tutto il mondo industrializzato.

A confessare l’abitudine di assentarsi  –  non si sa quanto strategicamente, per problemi di salute o per saltare qualche giorno di lezione  –  sono gli stessi studenti intervistati attraverso il questionario che raccoglie una serie di informazioni sulle abitudini di vita dei ragazzi e sulle condizioni socio-economiche degli stessi. E le assenze, a quanto è possibile dedurre dai risultati disaggregati forniti dall’Osce, hanno un peso piuttosto consistente sulle performance. Addirittura 100 punti  –  che corrispondono a due anni scolastici  –  tra coloro che si assentano pochissimo e gli habitué. La domanda posta era la seguente: nelle ultime due settimane quante volte hai saltato una giornata intera di lezione?

Tra i quindicenni italiani che dichiarano di non essersi assentati neppure una volta nelle ultime due settimane prima del test, i risultati sono di tutto rispetto: 506 punti, in media, in Lettura, 503 in Matematica e 509 in Scienze. Più della media Ocse  –  496 punti in Lettura, 493 in Matematica e 503 punti in Scienze  –  e ben oltre la media italiana: 490 punti in Lettura, 485 in Matematica e 494 in Scienze. Tra coloro che invece dichiarano di assentarsi spesso  –  da 5 volte in su, nelle due settimane prima della prova  –  le performance crollano: 406 punti in Lettura, 407 in Matematica e 418 in Scienze. E guardando bene i numeri, ci si accorge che l’assenza fa parte della settimana scolastica italiana.

I giovani intervistati del nostro paese che dichiarano di non essersi assentati nelle due settimane precedenti la prova ammontano al 51,6 per del totale, poco più di turchi (al 45,5 per cento) e argentini, al 41,4 per cento. La rimanente parte si concede pause più o meno lunghe durante la settimana scolastica. La più gettonata è quella di pochi giorni: uno o due ogni quindici giorni. Problemi di salute o fuga da un ambiente che gli studenti italiani non riescono a sopportare? Al contrario, i quindicenni cinesi della provincia di Shanghai, in  testa alla classifica internazionale in tutte e tre le competenze indagate dall’Osce, sono i più presenti in classe: 99,2 per cento di studenti senza assenze.

Ma il test Ocse-Pisa fa cadere anche una serie di luoghi comuni su cui si è discusso per anni. Le cosiddette classi-pollaio non sembrano così deleterie per l’apprendimento: in quelle con 26/30 alunni si registrano le migliori performance. Stesso discorso per le tecnologie: nelle scuole dove si utilizzano i tablet e internet durante le lezioni le performance sono meno buone. Il Pisa mette in discussione anche la presunta superiorità delle ragazze sui compagni maschi, che prevalgono in Matematica e Scienze. E riguardo alla rivalità tra privato e pubblico, le scuole statali vincono 2 a 1: i quindicenni delle scuole statali superano di misura i compagni che hanno scelto la scuola privata in Lettura e Matematica. Sono costretti a soccombere, sempre di misura, in Scienze.

Fenomenologia dello scappellotto

da Tecnica della Scuola

Fenomenologia dello scappellotto
di Pasquale Almirante
Riflessione semiseria sui benefici delle punizioni corporali per contrastare bullismo, maleducazione e neghittoseria, e in omaggio agli straordinari risultati didattici delle scuole gesuitiche di appena mezzo secolo fa.
Forse bisogna riscoprire il rigore e mettere mano a una serie di punizioni corporali codificate dal diritto naturale per cui il maestro, a fronte di comportamenti poco consoni coi principi della scuola, possa assegnare un numero di pene equivalenti al danno. Del resto fino a tutti gli anni cinquanta non si usava forse la bacchetta in classe? Lo scappellotto è invece scomparso solo da alcuni decenni, in coincidenza col sessantotto, ma aveva alte quotazioni e una buona dose di pregio deterrente. Acquattato è rimasto solo il rimprovero, aspro e forte, ma è in via anch’esso di estinzione vista la facilità di denunzia di certi genitori e con buoni esiti. Sopravvive ancora il rapporto disciplinare, ma considerata la sua bassa utilità pratica è solo spreco di inchiostro e di tempo per imbrattare il registro elettronico. E allora che fare di fronte all’avanzata della maleducazione e degli atti di violenza? È vero cha la violenza figlia violenza, ma se ad ogni delitto corrisponde una condanna, occorrerebbe sapere quale pena si possa comminare a chi fa il bullo e quale ancora per chi vandalizza banchi, aule e suppellettili, compresi i bagni che spesso vengono allagati per marinare la scuola. E quale scotto per chi con arroganza aggredisce il maestro (lo chiamiamo così piuttosto che insegnante) e non solo con oggetti contundenti, ma anche a parole che è pure peggio. Ci si arrovella (ed era nel programma del centrosinistra ora al Governo con le larghe intese) per capire come il maestro possa riacquistare il prestigio perduto che, a parte lo stipendio da fame, è sempre più umiliato e offeso, e non solo e perfino dalle competenze del posteggiatore abusivo, che ha una sua autorevole funzione in tutti gli slarghi possibili delle città, ma anche da quelle del più semplice impiegato del catasto o del comune di fronte al quale, per il fatto semplice che gestisce un ufficio delicato, molte schiene si piegano. Non diciamo che il maestro debba ottenere rispetto alle stessa strega di costoro, diciamo solo che bisognerebbe ridargli un tantino di più potere e l’uso della punizione esemplare contri i “malfattori” potrebbe essere un ottimo mezzo. E quanto sia salutare basta riflettere sui metodi pedagogici adottati dai gesuiti nei loro collegi dove si insegnava, con pieni esiti, a suon di bacchettate. All’epoca non si conoscevano i wi-fi, internet, le app, gli smartphone, né le sofisticate strategie didattiche sempre più di moda, ma il risultato era straordinario, molto di più di quello di oggi. Era, ed è, proverbiale infatti la cultura dei gesuiti. Ma all’epoca si conosceva pure il senso del sacrificio e non solo per conquistare qualche innocente sfizio, ma anche per avere il semplice pane quotidiano. Il sacrificio e il senso del sacrificio e la sacralità del lavoro. E studiare, checché se ne dica, è sacrifico, impegno, volontà, sforzo, sudore: ma chi ne pretende dai nostri ragazzi? I compiti a casa, che impegnavano pomeriggi e spesso nottate, non sono più tra gli usi e i costumi degli alunni del nostro tempo, mentre la ministra si affanna a dire che va affrontato il benessere degli studenti e che bisogna tutelare i ragazzi dal disagio fisico, psichico e sociale per cui i docenti (non i maestri) devono stare sempre all’erta sul fronte della prevenzione, intervenendo per scardinare piaghe sociali come il bullismo, la tossicodipendenza, l’obesità, la xenofobia, il femminicidio, l’omofobia ecc. ecc. Il docente, dice ancora la ministra, deve soprattutto “promuovere la cultura della legalità, prevenire gli incidenti stradali e dare informazione sulla salute anche per disincentivare le tossicodipendenze.” Al solito non si capisce come bisognerebbe prevenire, considerando che dal un lato è obbligo completare il programma, interrogare, correggere i compiti, valutare, assegnare i voti e dall’altro è opportuno aprire le scuole (come suggerisce qualche illuminato che però non sa dove reperire i soldi) perfino di pomeriggio per sobillare il benessere degli studenti e le loro tendenze creative, spronandoli alla socializzazione pacifica. Nello stesso tempo tuttavia alcune scuole, per sbarcare il lunario e pagare i supplenti, stanno pensando di tappezzare le aule di reclami pubblicitari per avere qualche soldo, almeno dagli sponsor, che poi siano venditori di caramelle o di brioche (a proposito della salute alimentare) poco importa. E allora insieme allo scappellotto bisognerebbe pure che si riesumasse l’altro salutare spauracchio: quello di saltare la cena per punizione.
NB: La presente riflessione, nata su suggerimento di un gruppo di docenti di una scuola di frontiera, è stata pubblicata su La Sicilia di qualche anno addietro, la riproponiamo, ma, considerato l’argomento, al solo scopo di aprire un pacato dibattito, ben sapendone, e conoscendole, le delicate implicazioni e le evidenti critiche.

Cosa succede nel cervello di un dislessico?

da Tecnica della Scuola

Cosa succede nel cervello di un dislessico?
La dislessia, scrive Giornalettismo,  secondo le stime più recenti questo disturbo interesserebbe almeno il 10% della popolazione, ovvero circa 700 milioni di persone in tutto il mondo. A fare un po’ di chiarezza, si legge, ci ha pensato il quotidiano spagnolo El País che spiega
Un recente studio ha preso in esame 23 volontari, di cui uno soltanto dislessico, che si sono sottoposti a un esame di imaging cerebrale. Nel soggetto dislessico le rappresentazioni fonetiche cerebrali sarebbero risultate intatte ma è stato rilevato un deficit tra le tredici aree del cervello che concorrono all’elaborazione e allo sviluppo del linguaggio. Sarebbe proprio questo deficit a causare la dislessia la cui “cura” dovrebbero essere volte a migliorare la connettività tra le aree cerebrali deputate al linguaggio. La dislessia dunque è un disturbo dell’apprendimento che rende più difficoltoso imparare a leggere con scioltezza e comprendere la totalità del testo letto. È quindi un disturbo che riguarda la struttura stessa del cervello indipendentemente dalle capacità cognitive dell’individuo e gli psicologi hanno spiegato che chi è dislessico ha difficoltà ad associare i fonemi ai rispettivi segni grafici – che sono i «mattoni» del linguaggio umano, scritto e parlato. Le difficoltà di lettura di un dislessico non sono legate alla percezione visiva dei grafemi e il disturbo, che peraltro sembra essere più comune negli uomini che nelle donne, ha una forte componente genetica. I risultati dello studio di molti accademici neuroscienziati, che saranno presto pubblicati su Science, hanno evidenziato notevoli differenze tra le mappe di connettività dei soggetti affetti dal disturbo paragonate a quelle dei soggetti normali: i collegamenti tra il giro frontale inferiore e l’area della corteccia uditiva sarebbero molto più deboli, rendendosi quindi responsabili dell’insorgere del disturbo. Non tutti gli scienziati sono convinti della validità di questa tesi, e cioè che la dislessia sia totalmente indipendente dalla rappresentazione fonetica a dalla capacità di distinguere chiaramente un fonema dall’altro. Su una cosa, però, gli esperti sono tutti concordi: poiché l’articolazione del linguaggio e la lettura sono processi mentali estremamente complessi, la dislessia può apparire sotto molteplici forme, rendendo più difficile una diagnosi. Solitamente, il problema si palesa nei primi anni di scuola e, come viene sottolineato da esperti “le difficoltà a imparare a leggere e a scrivere non vanno a impattare solo sull’istruzione e lo sviluppo cognitivo, ma anche sul benessere socio-emotivo dell’individuo”.

Nei casi di infortunio a scuola la responsabilità ricade solo sul Dirigente scolastico?

da Tecnica della Scuola

Nei casi di infortunio a scuola la responsabilità ricade solo sul Dirigente scolastico?
di Aldo Domenico Ficara
Secondo il parere della Corte Costituzionale, sentenza n. 19280/2010, nei casi di infortunio sul luogo di lavoro la responsabilità datoriale si pone come elemento centrale in caso di mancata adozione delle protezioni di legge
Di conseguenza nel caso specifico delle scuole, ovvero nei casi in cui si riscontrino insufficienti livelli di sicurezza ( anche se segnalati ), la responsabilità dovrebbe ricadere soprattutto sul Dirigente scolastico. Inoltre nel caso in cui si verifichino  gravi incidenti sul lavoro, il risarcimento è dovuto non solo al lavoratore ma anche all’intera famiglia, tutto ciò lo ha stabilito la Corte di Cassazione (Cassazione 3^ sez. n.19517/2010 ) evidenziando che danni di questo genere determinano uno “sconvolgimento delle abitudini di vita” che incidono anche in ambito familiare. A tal proposito si precisa che la decisione  della Terza sezione civile (sentenza n.19517/2010)  si riferisce alla condanna ad un risarcimento danni di complessivi 120.000 euro (per danni non patrimoniali) in favore della moglie e di due figlie di un dipendente Telecom infortunato, che aveva riportato una invalidità dell’80%. In questo caso è stata confermata la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali che i giudici di merito avevano accordato alla moglie (60mila euro) e alle due figlie (30mila euro ciascuna). Tra le altre cose la Cassazione (che non ha riconosciuto ulteriori danni morali) ha sottolineato che il danno conseguente all’infortunio è stato fonte di sconvolgimento delle abitudini di vita di relazione familiare.

Ferie e permessi di Ata e docenti arrivano al Senato

da Tecnica della Scuola

Ferie e permessi di Ata e docenti arrivano al Senato
di R.P.
Un gruppo di parlamentari del M5S ha presentato due interrogazioni al Ministro dell’Istruzione che adesso dovrà rispondere. Ma sulla interpretazione autentica del CCNL la competenza è solo di Aran e sindacati.
Il problema delle ferie e dei permessi del personale della scuola finisce in Parlamento con una interrogazione al Ministro presentata pochi giorni fa da un gruppo di senatori del M5S. I parlamentari sollevano in particolare la questione dei 3 giorni di permesso retribuiti previsti dal 2° comma dell’articolo 15 del CCNL per i quali è sufficiente  la presentazione della domanda corredata dalla documentazione (anche autocertificata) attestante la sussistenza di detti motivi. “Al dirigente scolastico – sottolineano gli interroganti – non viene lasciata alcuna discrezionalità in merito all’opportunità di autorizzare il permesso e le ferie per queste ragioni, laddove potrà disporre solo un controllo di tipo formale in merito alla presentazione della domanda e all’idoneità della documentazione a dimostrare la sussistenza delle ragioni poste alla base”. Ma, aggiungono i senatori del M5S, “sono giunte agli interroganti numerose segnalazioni in merito alla diffusa prassi di moltissimi dirigenti scolastici di disporre regole preventive che vietino o restringano la possibilità per i docenti di usufruire dei permessi o delle ferie in periodo di attività didattica anche nel caso in cui vengano chieste per motivi familiari e/o personali”. A questo punto i senatori chiedono che il Ministro intervenga con sollecitudine “per chiarire l’esatta applicazione delle norme contrattuali”. Richiesta che appare però alquanto irrituale in quanto il Ministro non ha il potere di intervenire sulle norme contrattuali e che la procedura della interpretazione autentica è esplicitata nell’articolo 2 del CCNL 2006-2009: “Quando insorgano controversie sull’interpretazione del contratto collettivo nazionale o integrativo, le parti che lo hanno sottoscritto si incontrano, entro 30 giorni dalla richiesta di cui al successivo comma 2, per definire consensualmente il significato della clausola controversa. La procedura deve concludersi entro 30 giorni dalla data del primo incontro”. Va anche segnalato che con un’altra interrogazione presentata un mese fa i senatori del M5S chiedono anche chiarimenti in merito alla questione del pagamento delle ferie dei supplenti temporanei; vicenda che, pur apparentemente chiara sotto il profilo testuale della norma, si è complicata (e non poco) proprio agli inizi del mese di settembre a seguito di due contrastanti note del Miur e del MEF che, di fatto, hanno messo in ulteriore difficoltà le segreterie scolastiche con il risultato concreto di procrastinare ancora il pagamento delle ferie di un gran numero di supplenti.