Linkiesta.it fa una fotografia della scuola italiana attraverso le riforme, epocali e no, sbalordite e no, che l’hanno investita, ma col risultato di averla lasciata sempre al palo, ovvero sempre simile a se stessa. Riuscirà finalmente a sbalordirci la riforma “sbalorditiva” di Renzi?
Come sarà la cosiddetta riforma della scuola firmata da Renzi e Giannini, o da Giannini e Renzi? Sarà davvero la volta buona o solo l’ennesima legge sulla scuola appuntata all’occhiello di un governo per pavoneggiarsi? A giudicare dai test Pisa, sottolinea Linkiesta, i nostri 15enni sono ben sotto la media Ocse, per cui si presume che le riforme del passato non sono servite a migliorare la qualità dell’insegnamento e le capacità dei nostri studenti, mentre le riforme non hanno mai finito per premiare il merito, la qualità degli insegnanti e di riflesso la qualità degli studenti.
Tuttavia, scrive Linkiesta, la scuola italiana ha perso per strada ben sei miliardi di euro di fondi tra tagli al personale e ai materiali didattici, cosicchè la Corte dei Conti ha potuto chiosare: “Nettamente inferiore alla media europea appare invece la percentuale della spesa per l’istruzione rispetto al complesso della spesa pubblica che passa dal 9,11 per cento del 2009 all’8,2 per cento del 2012 della spesa totale rispetto ad una media europea del 10,6 per cento, ponendo l’Italia in penultima posizione tra i 27 Paesi europei”
E i pochi soldi vengono pure spesi male, infatti oltre agli scarsi risultati dell’apprendimento dei nostri studenti, a parlare sono gli edifici scolastici che, secondo l’undicesimo rapporto sulla sicurezza nelle scuole di Cittadinanzattiva, sono per lo più cadenti.
A guardare poi la storia dell’istruzione italiana, le riforme per migliorare la condizione della scuola (non solo sul lato strutturale) sono state solo annunciate ma con pochi esiti.
Sulle spalle degli insegnanti sono passate leggi, leggine e riforme intestate a questo o a quel ministro in carica che cambiando venivano cambiate. Emblema delle riforme “vuote” è quella fatta da Luigi Berlinguer, che annunciò uno stravolgimento, ma poi arrivarono un nuovo governo e una nuova riforma che portava il nome dell’allora ministra all’Istruzione Letizia Moratti, la quale con un colpo di coda nel 2003 abrogò la legge quadro di Berlinguer e si fece la sua, contestatissima, e che conteneva l’abolizione dell’esame di licenza elementare, la riduzione del “tempo scuola”, nuovi programmi di storia, geografia e scienza, l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, la dualità tra sistema dei licei e la formazione professionale, e puntava sulle famose tre “i” berlusconiane, inglese, informatica e impresa.
Poi arrivarono prima Fioroni, che nel breve interregno Prodi fece in tempo solo a stabilire che il debito formativo doveva essere recuperato entro l’inizio del nuovo anno scolastico, e dopo Mariastella Gelmini.
La contestatissima ministra dell’Istruzione del quarto governo Berlusconi tagliò la spesa per l’istruzione riducendo il numero di insegnanti. Un’ora di scuola tornò di nuovo a durare 60 minuti ma vennero ridotte le ore di lezione complessive, ricomparve il maestro unico e per i docenti migliori veniva previsto un premio di produttività. Era il 2008, oggi le modalità per stimolare gli insegnanti sembrano gli stessi.
Ogni governo, ricorda giustamente Linkiesta, sulla scuola ha fatto e detto la sua, ma quel che rimane sono: gli oltre 620mila precari tra neolaureati, abilitati dalla vecchia Ssis (Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario) e dai Tfa (Tirocinio formativo attivo) in attesa di diventare maestri e prof, divisi tra graduatorie di ogni fascia e tipo.
I numeri li ha dati la stessa ministra Giannini durante la presentazione del piano programmatico del suo dicastero: 170mila circa iscritti nelle Gae (Graduatorie a esaurimento), 460mila iscritti in Graduatoria di istituto per supplenze annuali (a cui vanno sottratti i 170mila iscritti nelle Gae), 10mila nuovi abilitati con i Tfa, 70mila con titolo dei Percorsi abilitanti speciali (Pas), 55mila diplomati magistrali.
In questo calderone, circa 140mila sono quelli coinvolti nel sistema delle supplenze prese di mira, che ogni anno sono necessarie per far funzionare la macchina. Per arrivare all’organico necessario per l’anno scolastico 2014/2015, il ministero ricorrerà a 27.700 precari.
Per le posizioni rimaste vuote per via di aspettative o distacchi sindacali, vengono chiamati in servizio circa 42mila insegnanti. Oltre a questi supplenti più duraturi, c’è anche la giungla delle supplenze brevi per problemi di salute o altre emergenze. Sotto i dieci giorni, vengono coperti con i docenti di ruolo a disposizione, poi parte la chiamata all’esterno.
Solo le emergenze, costano al nostro ministero 680 milioni l’anno.
E sono questi costi che la riforma Renzi vorrebbe evitare, stanziando un miliardo e mezzo e assumendo 100mila precari delle Gae.
Che poi, specifica linkiesta, oltre a essere costoso, il sistema delle supplenze funziona pure male.
La precarietà del corpo insegnanti porta a risultati precari anche nel rendimento dei nostri studenti. E come se tutto ciò non bastasse, sottolinea Linkiesta, abbiamo insegnanti vecchi e insoddisfatti, e chiede: non sarà che i nostri studenti non sono così bravi perché gli insegnanti non lo sono altrettanto?
Il punto, scrive sempre Linkiesta, è che al contrario di Paesi come l’Inghilterra, la Francia o la Finlandia, dove esiste una valutazione esterna o interna (fatta dai dirigenti scolastici) degli insegnanti della scuola pubblica che coinvolge circa il 90% del totale, in Italia sette insegnanti su dieci lavorano in scuole in cui non esiste alcuna forma di valutazione del loro lavoro. Come viene fuori dall’ultimo rapporto Ocse sull’insegnamento e l’apprendimento (Talis 2013), una percentuale molto alta (67,9%) dei nostri insegnanti sostiene però che la valutazione ricevuta abbia migliorato la propria capacità di apprendimento.
Emerge però di contro una insoddisfazione rispetto all’avanzamento della propria carriera e un bisogno di formazione professionale soprattutto nelle capacità tecnologiche e informatiche (35%). Questo accade anche perché i nostri prof sono i più vecchi d’Europa: in media hanno 48,9 anni e di 19,8 anni di lavoro alle spalle. Solo il 12,5% pensa che il proprio lavoro sia tenuto in considerazione nella società, a fronte del 30,9% della media Ocse.
Per più della metà degli insegnanti italiani intervistati (54,3%), però, la valutazione migliorerebbe la percezione pubblica del proprio ruolo, per 7 su 10 sarebbe un modo per aumentare la fiducia in se stessi, e addirittura per 8 su 10 porterebbe a un miglioramento anche delle performance degli studenti.
Neanche in termini di stipendi i nostri prof se la passano bene e infatti gli stipendi dei nostri prof sono più bassi sia in termini assoluti sia in rapporto al Pil pro capite.
Un insegnante delle scuole primarie italiane ha uno stipendio tabellare di 21.447 euro lordi l’anno, che salgono a 24.849 sommando le indennità e le spese accessorie. Retribuzione inferire al pil pro capite dello 0,97 per cento. Di contro, un insegnante inglese guadagna 37.400 euro l’anno, pari all’1,27% del pil pro capite.
Stesso discorso anche nel caso di un insegnante delle scuole superiori: stipendio base di 23.471 euro, che sale a 28.547 con le indennità accessorie, pari all’1,12% del pil pro capite. In Inghilterra lo stesso docente guadagna 41.930 euro l’anno, pari all’1,42% del pil pro capite. Ma anche se guardiamo il confronto con altri Paesi dalla Francia alla Germania, la situazione non cambia.
E non è un caso che negli indicatori sul peso sociale degli insegnanti (Global Teacher Status Index) l’Italia si piazzi solo al 13esimo posto. Solo il 3% degli intervistati ammette “con certezza” che gli studenti nutrano rispetto verso chi sta dietro la cattedra.
I nostri studenti risultano in effetti tra i più irrispettosi d’Europa verso i propri insegnanti. Ma circa il 75% degli intervistati sostiene che i prof dovrebbero essere pagati in base ai risultati degli studenti.
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