Sindrome di Asperger, Gemelli Roma: occorre un coordinamento in rete

Redattore Sociale del 17.02.2020

Sindrome di Asperger, Gemelli Roma: occorre un coordinamento in rete 

Domani è la Giornata mondiale di questo disturbo vicino all’autismo. A fare il punto è la neuropsicologa e psicoterapeuta Daniela Chieffo.

ROMA. Particolarmente intelligenti, evanescenti, affascinanti. A volte distaccati o improvvisamente immersi. Inibiti o “particolari”. Sono i bambini con la sindrome di Asperger che prende il nome dal pediatra austriaco (Hans Asperger) che agli inizi degli anni Quaranta diagnosticò questo modo di essere vicino all’autismo.
Domani è la Giornata mondiale della sindrome di Asperger, e a fare il punto è Daniela Chieffo, dirigente sanitario, neuropsicologa e psicoterapeuta della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma. “Chi ne soffre- dice- ha un’intelligenza viva, spesso sopra la media, con interessi ristretti e stereotipati. Intorno ai 7 anni molti bimbi con Sindome di Asperger definiti anche Aspie, già sognano sotterranei desideri, esprimono una conoscenza superlativa “selettiva”, costruiscono lego al di sopra della norma. Assorbono libri come fossero scanner. Ma proprio la loro capacità estrema di processare tutto ciò che è intorno, rende loro distanti dalle relazioni con gli altri. Paralizzati nel loro pensiero immaginativo, poco ideativi. Una mente cosi raffinata che non riesce a sintonizzarsi con la mente vicina. Quindi una vita costruita sulla fragilità nell’essere compreso. E nel non riuscire a comprendere il linguaggio emotivo dell’altro, l’interpretazione degli idiomi, delle metafore, della comunicazione e della reciprocità. Faticano a capire le teorie che regolano le relazioni, vanno in corto circuito di fronte alle bugie bianche. Tipicamente visti come eccentrici e particolari dai compagni di classe, le loro scarse abilità sociali, la goffaggine ed un interesse ossessivo per argomenti spesso poco comuni, li rendono vittime e capri espiatori ideali”.
Continua Chieffo: “La loro qualità di vita spesso fa i conti con l’ipersensibilità dei cinque sensi, la difficoltà di filtrare un rumore e interpretarlo. In un mondo sociale, talvolta vengono considerati come indifferenti o insensibili, ma in realtà sono al contrario, bambini o ragazzi che non riescono ad orchestrare le loro emozioni interne, ponendosi quindi in una distanza “apparente”. Solo negli ultimi anni si sta definendo in modo specifico una diagnosi quanto più precoce possibile, tale aspetto legato soprattutto all’interpretazione precoce di quei meccanismi che a volte potrebbero disinnescare un comportamento di distacco, cosi da fornire ai bambini con sindrome di Asperger, alle loro famiglie e a tutte le persone che operano intorno a lui, una ‘valigia’ di attrezzi al fine di favorire un’integrazione sociale e lo sviluppo e il recupero di un’intelligenza emotiva sommersa”.
“Sono molti gli autori, i film, i libri che riprendono le storie con sindrome di Asperger- dice ancora- mi piace ricordare Susanna Tamaro, nel suo ultimo libro “Il tuo sguardo illumina il mondo”, una serie di lettere commoventi scritte all’amico fraterno Pierluigi Cappello, nelle quali la scrittrice racconta la “prigione, in cui vive da quando ha memoria di se stessa”. “La mia testa – scrive – non è molto diversa da una vecchia motocicletta. In certi momenti la manopola del gas va al massimo, in altri le candele sono sporche e il motore si ingolfa”. “Le persone con questa sindrome vivono immerse in un innato candore. Non sono capaci di immaginare il male nelle persone con cui entrano in relazione, non comprendono le loro intenzioni e questo ci rende le vittime naturali di ogni bullo, di ogni sadico e di ogni pervertito. La nostra intima, inerme fragilità istiga il tribale predominio del gruppo. E il modo in cui questa forza si manifesta è quello cieco e perverso che nasce dalla zona d’ombra che ogni essere umano custodisce nel profondo del proprio cuore”. 
Nonostante nei decenni passati le scoperte di Hans Asperger abbiano goduto di una certa fortuna, nell’ultima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM 5, 2013, la Bibbia “americana” per neuropsichiatri e psicologi italiani ndr) la “sindrome di Asperger” non figura più, essendo stata sostituita dal “Disturbo dello spettro autistico”.
Continua Chieffo: “Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è sensibile al tema. In chiusura del discorso di fine anno 2018 ha mostrato a dieci milioni di italiani una ‘macchia di colore’ realizzata da Diego Salezze, 45 anni, artista autistico veronese. Nella comprensione di una qualità di vita degli individui con Sindrome di Asperger, bisogna interpretare la loro esistenza come impedita da una cecità emotivo relazionale che costringe nel non essere capaci di dedurre la gamma completa degli stati mentali (credenze, desideri, intenzioni, immaginazione, emozioni, etc) che causano le azioni. Costretti in uno spazio dove non si riesce ad accedere nella teoria della mente. Quest’ultima elemento cardine nell’essere capaci di riflettere sul contenuto della propria mente e su quello degli altri. La qualità di vita ha diverse sfumature, ma correlata in modo significativo a quanto il mondo sociale in cui è inserito un bambino o adolescente con Asperger,, riesca ad incoraggiare ad essere fedele a se stesso e raggiungere la consapevolezza di “non essere un errata corrige” (rif. Paziente di 12 anni seguito da noi) al contrario di funzionare con risorse alternative e di avere la possibilità di entrare nella relazione con l’altro. La loro qualità della vita attraverso il favorire il riconoscimento dei propri punti di forza e dei propri limiti, e la gestione dei ricorrenti momenti di vissuti negativi. Di negazione. Di rifiuto”.
“In assoluto, la forza risiede nella possibilità di esprimere le caratteristiche del proprio mondo, anche con colori confusi, e nella disponibilità da porte del mondo sociale di interpretare il loro modo di vedere le cose. La qualità di vita sarà migliore se nella relazione con un bambino, adolescente o adulto con Sindrome di Asperger, il binario sarà a due vie. Empatia da una parte e dall’altra, reciprocità emotiva da una parte e dall’altra. Altrimenti si crea la frattura e una distanza irreversibile. L’obiettivo è quello di trasformare, attraverso una solidarietà tangibile e rispettosa, una condizione di disabilità in una condizione di normalità in funzione del potenziale proprio di ogni singolo individuo, fornendo servizi e assistenza personalizzate. La sindrome di Asperger è annoverata tra i disturbi dello spettro autistico e la sua diagnosi non è semplice per la variabilità dei sintomi e per i gradi di disabilità che comporta. La solidarietà sociale non basta- conclude- occorre un coordinamento in rete, un impegno costante e un lavoro in sinergia e in rete tra operatori sanitari, associazioni, famiglie, centri di ricerca e istituzioni”. (DIRE)

QUANDO IL MERITO E’ PURA IPOCRISIA

DIRIGENTISCUOLA-Di.S.Conf.

IL VIRUS DELLE SANATORIE ATTINGE I PIANI ALTI: QUANDO IL MERITO E’ PURA IPOCRISIA

Abbiamo già espresso il doveroso apprezzamento alla onorevole Azzolina per avere anteposto cogenti disposizioni di legge tenendo duro di fronte alle assurde pretese di trasformare i concorsi riservati in una sanatoria mascherata, premiante l’esperienza di docenti privi dei titoli di studio e/o delle necessarie abilitazioni, assistenti amministrativi aspiranti DSGA senza le prescritte laure specifiche, collaboratori scolastici che passano dalla ramazza alle incombenze istruttorie di ricostruzioni pensionistiche, predisposizione di atti negoziali, denunce d’infortunio, nomine di supplenti. Esperienza che è un indubbio valore, ma per chi dimostri che dall’esperienza abbia imparato, sia pure attraverso prove selettive non particolarmente cruente.

Vogliamo sperare che il premier Conte la sostenga ora e la difenda dalle scomposte reazioni dei delusi, e inviperiti, vertici dei sindacati di comparto; che – anticipando al 6 lo sciopero prima proclamato per il 17 marzo, “ce n’est pas qu’un début” –  con inusuale asperità dei toni denunciano il “bullismo” di “una ministra incendiaria”,adusa ad “attacchi virulenti” alle loro – presunte – prerogative, dopo che lei stessa ha acquisito il ruolo docente non attraverso un concorso, bensì tramite le GAE: un velenoso argomento ad hominem e rovinosa caduta di stile.

Prerogative abusive. Che però pare abbiano subito trovato una sponda in rappresentanti di partiti, di maggioranza e di opposizione, in primis nella sua vice, a raccomandare alla ministra un ammorbidimento delle proprie posizioni e una ripresa del dialogo: per la disapplicazione di norme primarie a favore di un sistema di sempre più ramificate tutele impiegatizie del personale, facenti premio sulla funzionalità del servizio e sui diritti dell’utenza; che alla fine penalizza gli stessi beneficiati, in termini di – inesistente – autorevolezza e di – scarsissima – considerazione sociale.

Ed è un sostegno, quello del Presidente del Consiglio, di cui la ministra dell’istruzione ha ancor più bisogno per contrastare lo stesso virus che nel frattempo ha attinto anche i piani alti, sotto forma degli sconci emendamenti presentati – sempre da parlamentari della Repubblica e sempre rigorosamente bipartisan – alla legge di conversione del c.d. decreto mille proroghe: che trasformerebbero il concorso a dirigente tecnico previsto dal D.L. 126/19, convertito nella legge 159/19, in un’immissione nel ruolo ope legis  per i tanti, dirigenti scolastici e docenti, già destinatari degli inerenti incarichi per affiliazione politica e relazioni amicali, ovvero in virtù di conoscenze anziché di quelle competenze che già a suo tempo non hanno avuto modo di persuasivamente dimostrare. E né si chiede loro di dimostrarle adesso.

La foglia di fico è difatti una semplice prova orale, nella sostanza “una chiacchierata sull’attività svolta”. Nulla a che fare con un concorso vero e provando a cimentarvisi alla pari di tutti quei fessi irredimibili, ancora pervicacemente convinti che la preparazione, magari intrapresa da anni, conti qualcosa e, sia pure vagamente, possa declinarsi con il merito.

Che siamo indignati, è dire poco. Ma vorremmo non esserlo in solitudine.

Percorsi normativi per una scuola inclusiva di qualità

Percorsi normativi per una scuola inclusiva di qualità

(Relazione per il Seminario organizzato dalla FNISM – sezione di Manduria, tenutosi a Sava- TA il 13 febbraio 2020)

I

1. I principi fondamentali del diritto universale all’educazione e all’istruzione sono contenuti nella Costituzione italiana, poi replicati e dettagliati nelle varie Carte internazionali.

Seguendo l’ordine del testo, l’articolo 3 proclama, nel primo comma, l’uguaglianza di tutti i soggetti coinvolti nei processi di istruzione, educazione, formazione; e, più ancora, nel secondo comma impegna la scuola, quale istituzione della Repubblica e per quanto di competenza, a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, già dall’articolo 2 riconosciuta e garantita nei propri diritti inviolabili, sia come singola che nelle formazioni sociali (e la scuola è – dopo la famiglia ed accanto alla famiglia – luogo di formazione sociale) in cui si svolge la sua personalità. Persona umana che, così formata, è, per contro, investita di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale: doveri ripresi e rinforzati nel secondo comma dall’articolo 4.

L’intera Repubblica, nella sua massima estensione, è chiamata poi, nell’articolo 9, a promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

L’articolo 30, primo comma, dichiara il dovere e il diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli. E non v’è dubbio che tale diritto-dovere legittima la famiglia, tutt’altro che corpo estraneo, come qualificato soggetto istituzionale nella scuola pubblica e lo rende contitolare e corresponsabile, nei limiti e nei modi previsti dall’ordinamento, del progetto educativo che in detta scuola viene elaborato, attuato e verificato; sino al diritto di scelta di una scuola, anche marcatamente di tendenza – sia paritaria che privata – i cui indirizzi e i cui metodi siano ritenuti confacenti ai valori e ai principi di vita ai quali sempre la famiglia impronta la propria condotta.

Per quanto concerne lo specifico diritto all’istruzione – di una scuola aperta a tutti (art. 34), anche se inabili, minorati o aventi bisogni educativi speciali (art. 38) – esso è fondato sulla libertà d’insegnamento, nel senso che la stessa non può subire immotivate restrizioni o imposizioni ideologiche, ma – per dottrina e giurisprudenza consolidate – dovendosi  il predetto insegnamento  concretizzare in esposizione ordinata e progressiva di nozioni, sostenute da adeguate motivazioni e/o da sufficienti argomentazioni, per adempiere al meglio la sua funzione di educare-formare-istruire.

Perciò, quando erogato in strutture pubbliche come le scuole, deve vincolarsi a regole legittimamente poste, quali sono le norme generali sull’istruzione (ordinamenti, indicazioni nazionali, linee guida), e in misura sempre più stringente quando siano rilasciati titoli di studio aventi valore legale: vincolo che vale sia per le scuole statali, laiche per definizione, che per le scuole di tendenza, quali possono essere le scuole paritarie, previste nella Costituzione e istituite dalla legge 62/2000.

2. Il primo intervento strutturale del legislatore ordinario, a quindici dall’entrata in vigore della Costituzione, si ha con l’istituzione della scuola media unica, di cui alla legge 1859/62 e contestuali nuovi programmi di studio, per l’istruzione obbligatoria successiva a quella elementare, impartita gratuitamente, che ha la durata di tre anni ed è scuola secondaria di 1° grado.

Segue l’istituzione della scuola materna statale con legge 444/68.

3. Preparata dalla legge 820/71 della scuola a tempo pieno, si apre la stagione dei decreti delegati del 1974 e successiva legge 517/77. E dal modello ministeriale, centralistico-burocratico-omologante, si passa all’integrazione vertico-orizzontale del sistema scolastico, per la partecipazione nella gestione della scuola.

4. Nello stesso anno è riordinata la scuola media e dotata dei nuovi programmi del 1979, contestualizzati dalla programmazione educativa-didattica e mirata all’individualizzazione dei percorsi formativi, anche per gli alunni diversi (handicappati e svantaggiati), sulla scia della legge 517/77.

A seguire è la scuola elementare dell’alfabetizzazione culturale, dei nuovi linguaggi e dei nuovi saperi, non più del maestro unico (Nuovi programmi del 1985 e legge 148/90 sui moduli organizzativi)

E’ poi la volta dei Nuovi Orientamenti del 1991, della scuola materna che si allontana dalla sua tradizionale dimensione familistica e assistenziale ed inizia a connotarsi come scuola dell’infanzia.

Nessun intervento organico si registra invece ne settore della secondaria superiore, sottoposta per contro a modifiche disordinate tramite le sperimentazioni di ordinamenti e strutture, unitamente alle sperimentazioni metodologiche-didattiche, ex d.p.r. 419/74.

Il periodo si chiude idealmente con lariforma incompiuta dei cicli scolastici (riforma Berlinguer, ex legge 30/2000), a cavallo tra il tradizionale assetto centralistico e il nuovo assetto autonomistico: scuola di base e allungamento dell’obbligo scolastico, obbligo formativo, flessibilità e differenziazioni dei percorsi, saperi essenziali e opzionalità, ingresso delle competenze, prefigurazione di un sistema formativo integrato anche a livello di istruzione superiore (IFTS, exart. 69, legge 144/99).

5. L’odierno scenario è il frutto di una combinazione di intrecci, riveniente dall’integrazione delle riforme Moratti e Gelmini, intervallate dal cacciavite di Fioroni e collocate nel nuovo assetto autonomistico del sistema scolastico e formativo (legge 59/97 e legge costituzionale 3/01, nel segno della sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza), laddove al secolare modello del government subentra il modello della governance, che ridisegna i poteri dei diversi soggetti istituzionali secondo uno schema che attribuisce:

allo Stato le norme generali e livelli essenziali delle prestazioni, a presidio dei livelli unitari del servizio su tutto il territorio nazionale (obiettivi formativi, indicatori, standard);

– alle regioni ed EE.LL. la programmazione e organizzazione del servizio sui territori, più il supporto alle istituzioni scolastiche e formative;

–  alle singole istituzioni scolastiche e formative, dotate di personalità giuridica e di autonomia funzionale, la progettazione-erogazione-rendicontazione del servizio (tecnico-professionale) di istruzione-educazione-formazione,”mirato allo sviluppo della persona umana, adeguato ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento” (art. 1, D.P.R. 275/99, Regolamento dell’autonomia, ripreso dall’art. 1 della legge 107/15).

5.1 LaRiforma Moratti è avviata dalla legge delega 53/03 e resa puntuale nei decreti legislativi n. 59/04 (riordino della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione); n. 286/04 (riordino dell’Invalsi); n. 77/05 (alternanza scuola/lavoro); n. 76/05 (diritto/dovere di istruzione e formazione); n. 226/05 (riordino del secondo ciclo d’istruzione); n. 227/05 (formazione in ingresso degli insegnanti).

In sintesi, l’intelaiatura del sistema scolastico è costituita da:

– monte ore annuali dei curricoli, in luogo dei rigidi orari settimanali;

 – indicazioni nazionali in luogo dei programmi di studio;

– apprendimento personalizzato;

– valorizzazione della progettualità delle istituzioni scolastiche;

– sistema formativo integrato, certificazione delle competenze, capitalizzazione dei crediti;

– facilitazione/flessibilità dei percorsi nell’ambito del generale sistema dell’istruzione e dell’istruzione e formazione professionale.

5.2  Su quest’assetto è poi intervenuto il ministro Fioroni smontando e rimontando pezzi del suo predecessore. Anche qui in rapida sintesi, le più significative novità registrano:

– l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni (legge 296/06);

– le indicazioni nazionali sulle competenze e i saperi che tutti i giovani devono possedere a 16 anni, declinate sui quattro assi dei linguaggi, matematico, scientifico- tecnologico, storico-sociale (D.M. 139/07);

  – le indicazioni nazionali sperimentali per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione ex D.M. 31-7-07, liberamente sostitutive di quelle allegate al morattiano D. Lgs 59/04;

 – il ripristino degli istituti tecnici e ripristino-ristatalizzazione degli istituti professionali  quinquennali;

 – la maggiore severità negli esami di Stato dell’istruzione secondaria superiore (legge 1/07) e nel  recupero dei debiti scolastici (O.M. 92/07).

5.3 Allaministra Gelmini è intestata la razionalizzazione del sistema scolastico, avviata con l’articolo 64 della legge 133/08 e regolamenti di attuazione, seguita dalla legge 169/08 in materia di valutazione del rendimento scolastico, dei processi e del comportamento, con in più l’introduzione  dell’insegnamento (non materia) di Cittadinanza e Costituzione.

Nel’ordine, questi gli essenziali riferimenti normativi:

D.P.R. 122/09, di coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni;

D.P.R. 81/09, di riorganizzazione della rete scolastica e razionale utilizzo delle risorse umane per tutti gli ordini e gradi d’istruzione;

D.P.R. 89/09, di revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione;

D.P.R.  87/10, di riordino degli istituti professionali (il cui assetto è stato rivisto in profondità dal D. Lgs. 61/17, attuativo di una delle otto deleghe previste dalla legge 107/15;

D.P.R. 88/10, di riordino degli istituti tecnici;

D.P.R. 89/10, di revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei.

Tutti questi interventi normativi vogliono essere preordinati alla costruzione del curricolo per competenze da parte delle singole istituzioni scolastiche nel doveroso esercizio della loro autonomia funzionale.

Con una definizione sintetica, la competenza è intesa come attitudine a usare consapevolmente un sapere (un insieme di conoscenze acquisite sia nell’ambito formale che in quelli non formali e informali) e un saper fare (abilità in termini del loro utilizzo) al di fuori del luogo e dello scopo immediato in cui/per cui sono stati acquisiti. Essa perciò va oltre la dimensione prettamente cognitiva, coinvolgendo gli aspetti affettivi (come la disponibilità ad impegnarsi), motivazionali (la spinta ad agire per ottenere un risultato soddisfacente o qualificante), sociali (apertura al confronto, al rispetto dei diversi punti di vista, alla collaborazione). Ed in questo significato plurale è considerata nella Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, declinante le otto competenze-chiave, ora sostituita dalla nuova versione del 22 maggio 2018.

Nelle Indicazioni nazionali sia la scuola dell’Infanzia (nei cinque campi di esperienza) che la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado (nelle loro dieci discipline) riportano i rispettivi traguardi di sviluppo delle competenze; così considerate come un qualcosa di non cristallizzato ma di dinamico, che evolve gradualmente e pertanto richiede un impegno lungo un arco temporale di un intero grado scolastico per il raggiungimento di un dato livello.

La certificazione delle competenze avviene su modelli unici nazionali, e lo stesso è per la certificazione al completamento dell’obbligo scolastico al sedicesimo anno di età; mentre non vi è ancora un modello standard per il triennio conclusivo della scuola secondaria superiore.

6. In coerenza con lo scopo oggi compendiato in apertura del Regolamento dell’autonomia (ante, par. 5), si declina la legislazione ordinaria per la concretizzazione dell’uguaglianza sostanziale, di cui è parola nell’articolo 3 della Costituzione, da garantire a tutti, inclusi i soggetti diversi, che si discostino dai canoni della – presunta – normalità: rientranti nella generale categoria di bisogni educativi speciali (BES)

6.1. Pietra miliare è la, sintetica e al contempo organica, legge 517/77; che ha sancito il pieno riconoscimento agli alunni con handicap psico-fisico del diritto all’integrazione scolastica nelle allora scuola elementare e nella scuola media, superando il riduttivo approccio medico della legge 118/71, peraltro limitata a facilitare la frequenza degli invalidi civili e dei mutilati.

La legge 517 è stata estesa prima alla scuola materna con la legge 270/82 e poi, con la sentenza della Corte costituzionale 215/87, ai successivi gradi di istruzione, fungendo da prodromo della legge-quadro 104/92 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate: termine sostituito con disabilità, in attuazione della Convenzione ONU del 16 dicembre 2006;  che, in luogo di enfatizzare ciò che manca, dà rilievo alle potenzialità e al valore di una persona semplicemente diversa, nei cui confronti vanno pertanto approntate modalità e strumenti di intervento affinché questa diversità non si trasformi in disuguaglianza e infine innescando un processo di emarginazione, prima scolastica e poi sociale.

La disciplina dell’inclusione dei soggetti con disabilità è stata di recente rivista dal D. Lgs. 66/17, attuativo di una delle deleghe contenute nella legge 107/15; che in parte modifica l’impianto della menzionata legge-quadro 104, con decorrenza dal primo gennaio 2019.

L’obiettivo delle apportate modifiche è duplice: il superamento della parcellizzazione dei singoli interventi – sanitari, assistenziali, scolastici – tramite l’integrazione programmata dei servizi di sostegno al disabile; l’allargamento di una prospettiva che vada oltre il periodo scolastico ed apra l’orizzonte di un condiviso futuro possibile dopo la conclusione del percorso formativo istituzionale.

6.1. La seconda categoria riguarda i soggetti che presentano deficit di funzionamento in determinate aree: come i disturbi nella percezione o nella produzione di messaggi o in altre prestazioni.

La  legge 170/10 ha classificato tali disturbi come disturbi specifici di apprendimento (DSA) e contestualmente istituito percorsi di formazione dei docenti al fine di sostenere il diritto allo studio dei soggetti dislessici, disgrafici o affetti da discalculia: situazioni che ben possono essere compresenti (comorbilità).

Le successive Linee guida, emanate con D.M. 12 luglio 2011, forniscono ai docenti le indicazioni per individuarli e per predisporre adeguati percorsi di recupero e potenziamento; e se essi persistono impongono loro di dare formale comunicazione alla famiglia e suggerirle di ricorrere ad uno specialista ovvero ai servizi di neuropsichiatria infantile.

Questi valutano la situazione e, nel caso, certificano la presenza di uno o più DSA, anche combinati fra loro, consegnando alla famiglia la relativa diagnosi con le prescrizioni ritenute opportune.

La predetta certificazione, se rimessa alla scuola, consente l’adozione degli strumenti compensativi e delle misure dispensative previste dalla legge.

Sulla sua base e in accordo con la famiglia è quindi redatto il Piano didattico personalizzato (PDP) entro il primo trimestre dell’anno scolastico, in cui risultano le attività didattiche personalizzate contestualmente alle modalità di utilizzo di strumenti compensativi e delle misure dispensative.

Gli strumenti compensativi sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta, anche assicurandosi tempi più distesi per realizzarla (sintesi vocale, registratore, programmi di videoscrittura con correttore ortografico, oltreché le tradizionali tabelle, mappe concettuali ed altro).

Le misure dispensative consistono nell’esentare il soggetto da alcune prestazioni non essenziali all’apprendimento (ad es., accorciando e/o esemplificando un lungo brano).

Va ad ogni modo sottolineato che l’obiettivo della legge non è quello di creare percorsi immotivatamente facilitati, al di sotto dei livelli essenziali delle prestazioni o degli standard nazionali, e tali da vanificare il diritto al successo formativo.

Nello specifico, per il primo ciclo l’alunno sostiene prove differenziate coerenti con il percorso svolto e con valore equivalente ai fini del conseguimento del diploma, che non deve menzionarle.

Per il secondo ciclo vi è il rilascio del diploma se si è seguito un PDP equipollente su tutte le materie di studio; ovvero vi è la possibilità di sostenere prove differenziate con l’esonero totale dall’insegnamento delle lingue straniere, in tal caso rilasciandosi solo un attestato di credito formativo, la cui struttura e i cui contenuti sono indicati nel D. Lgs. 62/17.

Le misure organizzative e i dispositivi poc’anzi compendiati possono essere estesi a tutti gli altri soggetti non classificati portatori di DSA, ma solo per periodi temporanei e per il resto valendo la normativa ordinaria della valutazione.

6.2. Rientrano, o possono rientrare, nei BES anche gli alunni stranieri, per la cui integrazione lo strumento normativo primario è rinvenibile nell’articolo 45 del D. Lgs. 394/99, recante norme di attuazione del Testo unico sull’immigrazione.

Le ultime Linee guida del MIUR, emanate nel  2014, dispongono che le iscrizioni possono avvenire in qualsiasi momento dell’anno scolastico, contestualmente chiedendo la scuola il permesso di soggiorno, i documenti anagrafici attestanti gli studi compiuti nel Paese d’origine, i documenti attestanti le vaccinazioni obbligatorie. E se mancano e/o in attesa di acquisirli, l’iscrizione è con riserva; e se riguardano lo stato vaccinale, la famiglia è indirizzata ai servizi sociali e senza che ciò precluda la regolare frequenza scolastica, essendo dunque valutato prioritario il diritto all’istruzione rispetto alla considerazione di eventuali irregolarità dei loro genitori.

Per migliorare l’accoglienza e facilitare la comunicazione con la famiglia, la scuola può far ricorso, ove possibile, a mediatori culturali o avvalersi di interpreti.

La tipologie degli alunni stranieri, e le inerenti problematiche, sono oggi fortemente differenziate e riassunte nelle istruzioni operative presenti nella menzionata ultima versione delle Linee guida.

In ogni caso, lo strumento essenziale della loro integrazione resta la competenza linguistica, per costruite la quale si punta sui laboratori linguistici; che in una fase iniziale prevedono otto-dieci ore settimanali e per la durata di tre-quattro mesi, da dedicare all’italiano come L2.

Per evitarsi indesiderati effetti di ghettizzazione, agli uffici scolastici regionali è affidato il compito di assicurare il rispetto del limite del 30% delle iscrizioni nelle singole classi, nonché di promuovere azioni che preservino il legame con la cultura e la lingua del Paese d’origine.

In assenza di documenti e/o di nulla-osta, la classe cui inizialmente iscriverli è individuata considerando una serie di fattori, in primo luogo il livello di conoscenza della lingua italiana.

La competenza è del Consiglio di classe sulla scorta dei criteri deliberati dal Collegio dei docenti, che ha altresì il compito di attivare interventi di prima alfabetizzazione e/o di consolidamento delle competenze linguistiche, nonché di adattare i programmi d’insegnamento (oggi ed estensivamente: curricolo dell’autonomia) in  relazione al livello di competenza dei singoli alunni stranieri.

E’ quindi possibile privilegiare inizialmente la valutazione formativa, che rimodula il percorso in esito alle verifiche intermedie, rispetto a quella sommativa o certificatoria.

Ma al momento della valutazione finale, per l’ammissione alla classe successiva e agli esami di Stato conclusivi dei cicli scolastici, però il criterio legale è quello prescritto dal D.P.R. 122/09, ripreso e confermato dal D. Lgs. 62/17, in forza del quale i minori con cittadinanza non italiana presenti nel territorio nazionale sono valutati nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani.

L’unica eccezione, e limitata alla scuola secondaria di primo grado, è che qualora l’alunno straniero risulti esonerato dallo studio della seconda lingua comunitaria, non è soggetto né alla prova scritta né alla prova orale in questa disciplina.

6.3. Adifferenza dei soggetti tradizionalmente diversi (disabili, affetti da disturbi specifici di apprendimento, portatori della variegata categoria dei bisogni educativi speciali), le azioni di sostegno all’eccellenza restano marginaliper il sistema scolastico, nonostante le risalenti sollecitazioni rivolte agli stati membri dall’Unione europea per la cura dei talenti e nonostante le ultime disposizioni normative nazionali enfatizzino il merito.

Allo stato, l’unico intervento che abbia espressamente affrontato il problema è il D. Lgs. 262/07, cui ha fatto da ultimo seguito il D.M. 182/15 di attuazione, volto ad incentivare l’eccellenza degli studenti nei percorsi di istruzione.

I punti salienti si possono riassumere nella valorizzazione delle prestazioni sia  individuali che di gruppo; nell’individuazione delle eccellenze mediante procedure di confronto e di competizioni nazionali e internazionali; nella partecipazione alle olimpiadi o certamina, dal livello di singola istituzione scolastica a quello nazionale.

Il riconoscimento delle eccellenze deve avere a riferimento un’autorità scientifica significativa (università, accademie, istituzioni di ricerca, organizzazioni professionali) e garantisce l’acquisizione di crediti formativi, oltre a dare origine a varie forme di incentivo anche di tipo economico.

La legge 107/15 assegna alle scuole il compito di assicurare un maggiore coinvolgimento degli studenti e di valorizzare il merito scolastico e i talenti.

II

Se il quadro normativo è coerente, crediamo, con le istanze di una scuola inclusiva di qualità, è la sua piena implementazione a richiedere interventi mirati o selettivi, che dir si voglia, rifuggendo da logiche meramente additive che, a un tempo, non rendano ipertrofici i curricoli scolastici  – l’ultima è l’introduzione del coding –  e non soverchino le capacità professionali del personale.

1. E’ fondamentale far partire la sistematica e ben cadenzata formazione iniziale e di accesso al ruolo docente: curricolare, di sostegno e insegnante tecnico pratico nella scuola secondaria, come previsto dal D. Lgs. 59/17, “funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione”; mentre resta confermato il percorso di formazione iniziale e di accesso al ruolo per la scuola dell’infanzia e per la scuola primaria, di cui alla legge 341/90, attesa la valenza professionalizzante degli inerenti corsi di laurea a ciclo unico in Scienze della formazione primaria.

Sicché potrà risolversi, o almeno contenersi entro i limiti fisiologici, l’attuale incredibile proliferazione delle supplenze, per lo più assegnate a soggetti privi di titolo; così come – secondo il dato ISTAT del 6 febbraio u.s. – è privo del titolo di specializzazione il 36% dei docenti, che scontano altresì la mancanza/carenza di educatori e assistenti dell’autonomia e della comunicazione, involgenti le competenze di ASL ed Enti locali.

Nel rispetto dei vincoli di legge, potrà ben riconoscersi l’esperienza maturata; ma per chi dimostri che dall’esperienza abbia imparato, sia pure attraverso prove selettive non particolarmente cruente, e sempreché sia in possesso dei titoli di studio e/o delle necessarie abilitazioni.

2. Non meno eludibile è la riconfigurazione dell’intera governance delle scuole, unitamente alla focalizzazione del profilo della figura dirigenziale orientata sull’organizzazione dell’attività educativa e didattica nei luoghi istituzionali predisposti dall’ordinamento: nel Consiglio d’istituto, nel Collegio dei docenti, nei consigli di classe e nei dipartimenti, ovvero nei gruppi di progetto o nei gruppi di studio, di ricerca-azione; e seguire in maniera sistematica la suddetta attività didattico-educativa per apprezzarla sulla scorta di coordinate di natura tecnica-professionale deducibili dalle fonti normative, siccome contestualizzate e formalizzate nei documenti programmatici e progettuali.

Rivisitatone il profilo, si tratterà di renderlo poi agibile, costruendo finalmente – per legge – un middle management con ampi poteri istruttori, e correlate responsabilità, nel quadro di una unità d’indirizzo: incardinato nell’organico dell’autonomia di ogni istituzione scolastica.

Dovrebbe rendersi plurale, dopo vent’anni e più di tentativi puntualmente naufragati, il profilo professionale della docenza, con le necessarie – integrate – differenziazioni funzionali e non gerarchiche. Perché solo una  sorta di fictio iuris – la mai persuasivamente chiarita unicità della funzione – rende ogni soggetto, perfettamente fungibile, in grado di presidiare in modo pieno e congiunto tutte quelle“competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate e interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistemazione della pratica didattica”; le cui inerenti prestazioni, giuslavoristicamente esigibili, “si definiscono nel quadro degli obiettivi generali perseguiti dal sistema nazionale di istruzione e nel rispetto degli indirizzi delineati nel piano dell’offerta formativa della scuola” (art. 27, CCNL, Comparto Istruzione e Ricerca, del 19 aprile 2018).

E – il middle management – riguarderà  altresì il c.d. ufficio di segreteria per supportare il dirigente nella gestione amministrativa e contabile  e correlati adempimenti della contrattualistica, della gestione della sicurezza, dell’attuazione della trasparenza e dell’accesso agli atti …

3. Secondo la logica di sistema, occorrono interventi normativi e/o esperibili in via amministrativa, sul versante della governance esterna.

3.1. Nella riorganizzazione dello spacchettato susseguente al decreto legge 1/2020, il resuscitato Ministero dell’istruzione dovrebbe assumere propriamente funzioni di indirizzo e di controllo, oltre che assicurare la provvista delle risorse umane e finanziarie alle istituzioni scolastiche.

Dovrebbe, di conseguenza, porre un freno all’emanazione di circolari, note e risposte a FAQ, non ravvisate strettamente necessarie: che, in luogo di chiarire reali o presunte disposizioni oscure della fonte primaria, finiscono per complicare e/o appesantire l’azione della dirigenza scolastica e delle serventi strutture amministrative oramai prossime al collasso. E al riguardo si renderebbe opportuna la costituzione di una struttura di coordinamento delle direzioni generali centrali e rispettive articolazioni regionali: la sola che s’interfacci con le istituzioni scolastiche affinché non siano invase da plurime, e non di rado contraddittorie, richieste di dati, documenti, monitoraggi et similia, spesso imposti all’ultimo momento e spesso già posseduti dall’Amministrazione.

3.2. Occorrerebbe ripristinare la filosofia dei mai decollati Centri servizi per lo sviluppo delle istituzioni scolastiche autonome, dotate di personale adeguato e da specializzare in compiti di supporto, consulenza e assistenza tecnica alle istituzioni scolastiche, di regola deficitarie, se non del tutto prive, delle indispensabili competenze esperte in materia di sicurezza, contrattualistica, finanziamenti comunitari, privacy e quant’altro incida su queste pubbliche amministrazioni (art. 1, comma 2, D. Lgs. 165/01), evidentemente – e inconferentemente – ben oltre la loro autonomia funzionale giustificante tale qualificazione.

3.3. Da ultimo e riassuntivamente, s’imporrebbe una rivisitazione delle regole e dei rapporti tra le istituzioni scolastiche ed enti locali, organismi istituzionali e le varie agenzie latamente educative operanti sul territorio, per meglio chiarire i rispettivi ambiti d’intervento e le correlate responsabilità.

Corsi per il sostegno, al Sud metà dei posti

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno e Claudio Tucci

L’ultima fotografia dell’Istat non lascia scampo. L’inclusione in classe degli studenti con disabilità o con disturbi dell’apprendimento è ancora lontana. Sia per ragioni strutturali, come dimostra quel 33% di istituti che ha abbattuto le barriere architettoniche. Sia per questioni organizzative, come testimonia quel 57% di alunni che cambia insegnante di sostegno da un anno all’altro. Una tendenza che – complici i continui avvicendamenti a viale Trastevere – neanche gli stanziamenti ingenti sull’edilizia scolastica (si veda altro articolo qui sotto) e le stabilizzazioni di massa varate dalla Buona Scuola in poi sono riusciti a invertire. Chissà se ci riuscirà adesso Lucia Azzolina.

Per ora si può dire che la neoministra dell’Istruzione ha ben presente il tema. E non solo per il suo passato da insegnante di sostegno. Ma anche perché tra i primi atti del suo mandato c’è stato l’avvio – insieme al suo collega dell’Università, Gaetano Manfredi – del quinto ciclo di specializzazioni sul sostegno. Con un numero record di posti a disposizione (quasi 20mila sparsi in 47 università) e una curiosità in più: oltre metà dei posti sono al Sud. Nonostante la maggior parte di prof non specializzati eppure impiegati sul sostegno, stando sempre all’Istituto di statistica, al Nord raggiunga il 47 per cento. Un mismatch che da viale Trastevere motivano così: «La scelta arriva dagli atenei ma era inutile far spostare i ragazzi solo per formarsi». Facendo anche notare che è la prima volta che si bandisce «con continuità» due cicli di Tfa, per 33mila posti totali.

Il nuovo Tfa

Quello appena partito è il quinto ciclo di tirocini formativi attivi. Così si chiamano i corsi annuali da 60 Cfu che consentono di ottenere la specializzazione sul sostegno ma che non danno diritto alla cattedra. Per ottenerla bisogna comunque superare un concorso. Dopo il decreto a firma Azzolina-Manfredi tocca ai singoli atenei aprire i bandi sulla base dei posti su infanzia, primaria, medie e superiori a loro disposizione. Detto che 10.795 disponibilità su 19.585 sono allocate al Mezzogiorno spicca il record della Sicilia: 4.675 posti di Tfa, di cui 2mila nella sola Messina. Le singole università dovranno rispettare tre vincoli decisi centralmente: consentire la frequenza anche agli idonei, ai vincitori di più procedure e chi ha iniziato il percorso ma lo ha poi abbandonato; calendarizzare i test di ammissione per il 2 o il 3 aprile 2020 (a cui seguiranno una o più prove scritto e poi l’orale); chiudere i corsi entro maggio 2021.

Le mosse successive

Se è vero che gli specializzati del V ciclo non potranno partecipare ai concorsi da 66mila posti in arrivo nelle prossime settimane (se non allo straordinario ma solo in presenza dei 3 anni di precariato) potranno però farlo i 14mila che hanno terminato il IV ciclo di Tfa. Ammesso che tutti e 14mila passino le prove l’emergenza rimane. Ed è per questo che la ministra dell’Istruzione ha in serbo altre due carte. Da un lato, inserire nella formazione di tutti i prof la didattica inclusiva. Dall’altro, trasformare una quota dei posti “di fatto” (che sul sostegno quest’anno sono 50.529) in organico dell’autonomia. Quindi a disposizione dei presidi per le esigenze sorte di volta in volta. Due impegni che per ora sono sulla carta, nell’atto di indirizzo firmato la settimana scorsa, ma che presto saranno sul tavolo con i sindacati.

Nelle scuole superiori 1.700 cantieri senza fondi

da Il Sole 24 Ore

di Eu. B. e Cl. T.

Dalla Buona Scuola in poi l’edilizia scolastica è stata in cima ai pensieri di tutti i ministri dell’Istruzione. Almeno a parole. Ma qualcosa deve essere andato storto se, come è emerso da una recente ricognizione dell’Upi (Unione province italiane), solo nelle scuole superiori di proprietà provinciale ci sono oltre 1.700 cantieri pronti teoricamente a partire, ma in pratica ancora in attesa dei finanziamenti.

Il dossier consegnato a Conte

Nei giorni scorsi una delegazione degli enti locali si è recata a Palazzo Chigi e ha consegnato al premier Giuseppe Conte un dossier con 3mila piccole opere immediatamente cantierabili ma prive di finanziamento (su cui si veda Il Sole 24 Ore del 12 febbraio). Per un valore di circa 4 miliardi. Più o meno la metà riguarda le scuole superiori di competenza delle Province. E la fotografia che ne viene fuori la dice lunga sullo stato dell’edilizia scolastica italiana. Gli edifici che ospitano licei, istituti tecnici o istituti professionali sono in tutto 7.455 e accolgono 2.635.582 studenti suddivisi in 121.171 aule. Ebbene, oltre il 51% degli immobili è stato costruito prima del 1976 mentre appena il 10% è venuto su dopo il 1998. Tanto più che il 45% degli edifici è ubicato in zone ad alto rischio sismico.

I disagi sul territorio

Dalla ricognizione, che ha coinvolto le 76 amministrazioni provinciali sparse delle Regioni a statuto ordinario, l’Upi ha tirato fuori un «Piano nazionale dei fabbisogni delle scuole superiori italiane per il 2020 – 2021», che nel totale si compone di 1.745 progetti per 2,1 miliardi. Una grande lista d’attesa nazionale in cui compaiono gli interventi più disparati: dall’adeguamento sismico al rifacimento del solaio, dalla riparazione della copertura alla manutenzione degli impianti.

In testa, per entità delle risorse attese, si piazzano le Regioni del Centro-Nord. Con le prime tre piazze occupate – rispettivamente – da Piemonte (287 milioni), Lombardia (280 milioni) e Toscana (257 milioni). Mentre è Novara, con 112 milioni da spalmare su 19 opere, a conquistare la palma provinciale.

La replica di Ascani

A rispondere al dossier dell’Upi é la viceministra dell’Istruzione, Anna Ascani. Che annuncia come nel decreto milleproroghe sia contenuta una norma che consente di ri-allocare, dal Viminale al dicastero di viale Trastevere, un fondo da 3,1 miliardi di euro, dal 2020 al 2034, destinato proprio all’edilizia scolastica provinciale. «Grazie a un lavorio intenso in Parlamento dei partiti di maggioranza ora possiamo disporre di risorse importanti per far partire i lavori – spiega al Sole 24Ore del Lunedì la viceministra -. Di questi fondi, 850 milioni sono subito disponibili. Siamo già al lavoro per mettere a punto i provvedimenti attuativi. In media, secondo le primissime elaborazioni, contiamo di assegnare tra i 7 e gli 11 milioni di euro a provincia o città metropolitana. La sicurezza dei nostri studenti è per me, e l’intero governo, una priorità».

Asili, ci va solo il 12% dei bambini «Renderlo obbligatorio dai tre anni»

da Corriere della sera

Valentina Santarpia

In regioni come Calabria e Campania solo il 2,6% e il 3,6% dei bambini frequenta un nido pubblico, contro la media nazionale del 12,3%, che sale al 24% se si considerano anche i servizi integrativi. È da dati come questi, forniti da Save the children, che ritorna l’idea di rendere l’asilo obbligatorio fin dai tre anni. Una proposta, quella lanciata dal segretario dem Nicola Zingaretti, e ripresa dalla viceministra dell’Istruzione Anna Ascani, che punta a rendere la scuola dell’infanzia un diritto di tutti. Già ai tempi del governo Renzi, il disegno di legge di Francesca Puglisi, sullo 0-6, che in parte confluì nei decreti attuativi della 107, la Buona scuola, voleva far diventare la scuola materna l’inizio del percorso di istruzione, considerata sia l’importanza della scolarizzazione precoce che il tasso di disoccupazione femminile, che raggiunge picchi altissimi nelle regioni dove i bambini non possono frequentare l’asilo. Tra Calabria e Emilia Romagna, ad esempio, c’è un abisso: ma è anche vero che in molte regioni del centro-nord sono le paritarie ad assicurare il servizio. Se nella scuola materna statale sono iscritti 900 mila bambini, in quella paritaria ce ne sono 524 mila. I costi sono naturalmente molto diversi

Le risorse

Ma come si supera il gap? Con le risorse, che spesso non sono sufficienti. Negli anni passati moltissime regioni hanno utilizzato i fondi per il sociale per tanti altri scopi, avendo altre priorità che quelle degli asili. E questo ha penalizzato la realizzazione di una rete di scuole dell’infanzia. La Regione Lazio ha appena aumentato le risorse destinate a Comune e famiglie per asili nido e scuole dell’infanzia, portando il totale degli investimenti per i servizi educativi da 0 a 6 anni sale a 36,7 milioni di euro per il 2020, a fronte di circa 34 milioni del 2019. Nello specifico, 24,5 milioni di euro arrivano dal fondo nazionale Miur, mentre l’investimento regionale sale da 11 milioni di euro del 2019, a 12,2 per il 2020. Ma serve un intervento nazionale, che è quello a cui sta lavorando la maggioranza: la strada sarebbe quella francese, che utilizza le convenzioni con le strutture private per garantire alcuni posti ai bambini con tariffe statali. «Occorre garantire a tutti i bambini servizi educativi di qualità, che li accompagnino nelle diverse fasi della crescita, nonché misure a sostegno delle loro famiglie e della conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare. Solo così potremo contrastare i fattori che alimentano il divario tra nord e sud, rischiando di farlo diventare un baratro incolmabile, e che continuano a privare ancora troppi minori, specialmente coloro che vivono nel Mezzogiorno, di opportunità educative indispensabili per il loro futuro», ha affermato Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children. Ma la strada per la crescita passa dall’investimento.

Scuola: i sindacati anticipano lo sciopero al 6 marzo

da la Repubblica

E’  stato anticipato al 6 marzo lo sciopero della scuola indetto dai maggiori sindacati per difendere i diritti dei precari e protestare contro il mancato rispetto degli accordi sottoscritti con il Governo in tema di abilitazioni, reclutamento e contratto. “La decisione di anticipare la data della mobilitazione, inizialmente prevista per il 17 marzo – spiega Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Federazione Gilda-Unams – è dettata dall’urgenza e dalla gravità della posta in ballo e dalla totale chiusura dimostrata dalla ministra Azzolina che, invece di ricucire il dialogo con le organizzazioni sindacali preme sull’acceleratore per affrettare la pubblicazione dei bandi di concorso attualmente all’esame del Cspi”.

“Se dall’Amministrazione non arriverà alcuna risposta concreta, – conclude Di Meglio – lo sciopero del 6 marzo sarà soltanto il primo atto di una lunga mobilitazione”. Lo sciopero era stato inizialmente annunciato per il prossimo 17 marzo.

“Lo sciopero del 6 marzo mette al centro le questioni che riguardano in modo specifico precariato, reclutamento e abilitazioni, per le quali la ministra – e questa è una delle ragioni che inducono ad anticiparne la data di svolgimento – sta assumendo sempre più atteggiamenti di chiusura, apprestandosi a compiere scelte in netto contrasto con gli obiettivi condivisi in mesi di trattative fra le parti”, commenta addalena Gissi, leader della Cisl Scuola.

Quattro i temi di dissenso al centro dello sciopero:

Concorsi. Non è stato portato a positiva conclusione l’unico tavolo attivato relativo all’attuazione dei decreti, ora trasformati in legge, che doveva condurre alla definizione di procedure di reclutamento tali da riconoscere “la professionalità acquisita, grazie alla quale è stato possibile assicurare la funzionalità del sistema dell’istruzione”, come previsto dall’Intesa di dicembre Palazzo Chigi, accusano i sindacati. E’ stato disatteso quanto previsto nell’Intesa dell’aprime 2019, nella quale si condivideva l’esigenza di individuare “le più adeguate e semplificate modalità per agevolare l’immissione in ruolo del personale docente che abbia una pregressa esperienza di servizio pari ad almeno 36 mesi di servizio”, scrivono ancora i sindacati.

Facenti funzione Dsga. Non sono state attivate le procedure contrattuali o legislative per portare a soluzione il problema degli assistenti amministrativi, privi di titolo di studio specifico, che hanno svolto per almeno tre anni le funzioni dei Dsga, lamentano i sindacati.

Abilitazioni. Non è stato avviato il confronto politico in merito ai percorsi di abilitazione strutturali, rispetto ai quali deve trovare riconoscimento l’esperienza professionale acquisita. Questi percorsi devono riguardare anche i docenti di ruolo della scuola statale, i docenti non abilitati delle scuole paritarie e dei centri di formazione professionali; *

Mobilità Ata. Non è stato convocato il tavolo di contrattazione nazionale integrativa sulla mobilità, territoriale e professionale, del personale docente, educativo ed ATA, fanno infine notare i sindacati.

TFA sostegno V ciclo, quanto vale il servizio di insegnamento per accedere al corso

da Orizzontescuola

di redazione

TFA specializzazione sostegno V ciclo a.a. 2019/20: il 2 e 3 aprile si svolgeranno le prove preselettive, poi prova scritta e orale. Seguirà la valutazione dei titoli.

Il Ministero ha avviato il V ciclo TFA con il dm n. 95 del 12 febbraio 2020. Nei prossimi giorni le Università interessate pubblicheranno il bando con la data di scadenza per la presentazione della domanda.

Una nostra lettrice chiede

Sono una docente precaria al quarto anno di insegnamento su Sostegno, scrivo per sapere se il servizio svolto, ai fine dell’accesso al prossimo Tfa, viene in qualche modo valutato o chi ha già esperienza pluriennale è considerato alla stregua di chi accede solo con il titolo? ”

Il servizio di insegnamento vale per l’accesso al TFA sostegno

Il servizio di insegnamento vale per l’accesso al TFA sostegno e in certi casi può anche fare la differenza.

Bisogna precisare che il servizio vale solo per i candidati che avranno superato tutte le prove di accesso.

Quindi prima bisognerà superare prova preselettiva, prova scritta e prova orale. Solo successivamente, esclusivamente per i candidati che hanno superato tutte le prove, un’apposita commissione valuterà i titoli, tra i quali solitamente il servizio di insegnamento – soprattutto se specifico su sostegno – ha un’ampia valutazione.

Le tabelle di valutazione sono riferite alla singola Università, per cui non è possibile dire quanto in concreto verrà valutato, ma certamente in qualche caso potrà fare la differenza per conquistare un posto “ambito”.

Quali titoli sono valutabili

Si tratta di titoli culturali e professionali. L’Università stabilisce quali e il punteggio ad essi attribuibile, comunque non superiore a 10 punti complessivi, secondo quanto stabilito dall’art. 6 comma 1 lettera f del dm 30 novembre 2011.

Stabilito il numero di candidati che avrà superato le selezioni, la graduatoria sarà costituita da un punteggio comprensivo di prove + titoli

Sicuramente tutte le Università danno rilievo al servizio di insegnamento, con distinzione tra servizio su posto di sostegno (con punteggio maggiore) e servizio su posto comune.

Altro titolo sicuramente valido in numerose università è il dottorato di ricerca e le pubblicazioni, una seconda laurea.

Master e corsi di perfezionamento non vengono invece valutati in tutte le Università.

Dal 2021 scuole del Sud aperte il pomeriggio, a dirlo il ministro Provenzano

da Orizzontescuola

di redazione

Dal prossimo anno al Sud scuole aperte il pomeriggio. Lo ha detto il ministro per il Sud e la Coesione territoriale Giuseppe Provenzano a Mezz’ora in Più su Rai 3.

In attesa di estendere il tempo pieno in tutte le scuole meridionali, vogliamo aprire le scuole il pomeriggio, estendendo alcuni progetti europei – che in alcuni territori già funzionano – per attività extracurriculari e questo avverrà già dal prossimo anno scolastico. Ho poi incontrato le Sardine ed è passata una loro proposta sull’Erasmus. Inoltre bisogna liberare il potenziale delle donne anche sul fronte del lavoro. Vogliamo accompagnare con un incentivo all’assunzione delle donne, che sia di almeno 3 anni, per incentivare veramente l’occupazione femminile“.

La vera sfida del Piano per il Sud – ha proseguito il ministro – non è stanziare le risorse ma spenderle e spenderle bene. Per questo puntiamo ad un nuovo metodo: capire su cosa puntare, iniziando dai giovani e dall’istruzione. Questo piano è il frutto di un lavoro condiviso del Governo – ringrazio molto il premier Conte – non è un frutto della mia mente. La vera novità di questo Piano è nel metodo: abbiamo rafforzato il presidio centrale ma lo mettiamo a servizio degli enti locali“.

Il Piano per il Sud, si ricorda, prevede: 123 miliardi in 10 anni, di cui 33 per le infrastrutture e 21 miliardi per il prossimo triennio. “L’idea di fondo è che il ud non è una causa persa. Abbiamo presentato questo piano in una
scuola tecnica che il preside ha fatto diventare un modello d’eccellenza a Gioia Tauro. Per me è giusto mettere le giovani generazioni al servizio della cosa pubblica“, ha concluso Provenzano.

Monte ore formazione obbligatoria? In orario di servizio o si paga (e non con gli spiccioli)

da La Tecnica della Scuola

Sull’obbligo di un monte ore minimo per la formazione in servizio degli insegnanti, adesso il ministro Lucia Azzolina ci riprova.

A seguito dell’approvazione della legge 107/2015 (“Buona scuola”, …si fa per dire!) il Miur, con Stefania Giannini ministro dell’istruzione nel governo Renzi, aveva già provato a fissare un monte ore obbligatorio attraverso cinque unità formative da 25 ore per un totale di 125 ore nel triennio. In seguito alla ferma opposizione delle organizzazioni sindacali (visto anche che si trattava di una “pretesa a costo zero”!) tale proposta è stata ritirata e non è presente nel Piano nazionale di formazione successivamente rivisto.

Nessun monte orario minimo per la formazione in servizio. Le prerogative del Collegio docenti

Così, in seguito, nella nota n. 2915 del 15 settembre 2016, il Miur aveva precisato che “il principio della obbligatorietà della formazione in servizio” va inteso “come impegno e responsabilità professionale di ogni docente” e che “l’obbligatorietà non si traduce, quindi, automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del Piano”. Non esiste dunque nessun monte orario obbligatorio.

Nella suddetta nota si parla anche di “definizione e finanziamento di un piano nazionale triennale per la formazione”. Come ribadito dalla più recente nota n. 25134/2017, l’obbligo non è quello di conseguire un numero predefinito di ore durante un determinato periodo di tempo, quanto invece quello di rispettare il contenuto del Piano per la formazione degli insegnanti.

Le attività formative rivolte ai docenti sono infatti inserite nel Piano formativo d’istituto che è parte integrale del Ptof (Piano triennale dell’offerta formativa), in coerenze con le scelte del Collegio docenti che lo elabora. A proposito, detto per inciso, è davvero importante che sinora siano state conservate le prerogative degli organi collegiali, che in epoca di tentativi di aziendalizzazione della scuola pubblica, periodicamente sono state sotto attacco, con riforme che tenderebbero a depotenziare, se non annullare del tutto, gli effetti della democrazia partecipativa. Quindi, docenti, sappiate difendere e usare bene gli organi collegiali, che garantiscono l’autonomia nel quadro di norme che ne definiscono le competenze.

Ma il ministro Azzolina ci riprova e i sindacati (con tempestività la Gilda) ricordano che eventuali ore in più di impegno vanno pagate

Come detto, sull’obbligo di un monte ore minimo, adesso il ministro Lucia Azzolina ci riprova e nell’Atto di indirizzo a sua firma, diffuso dal Miur una decina di giorni fa, scrive che “sarà necessario, per il personale docente ed educativo, definire all’interno del nuovo Contratto di lavoro il monte ore annuale obbligatorio per la formazione e assicurare, attraverso opportuni monitoraggi, la qualità dell’offerta, ferma restando anche la necessità di implementare, a livello tecnologico, un sistema informatico in grado di contenere la storia formativa di ciascun docente e di farla ‘colloquiare’ con i dati anagrafici relativi al servizio prestato”.

Non si è fatta attendere la replica delle Gilda degli insegnanti (sempre attenta ai diritti dei lavoratori della scuola e non solo ad eventuali, e peraltro miserrimi, aumenti stipendiali), come segnalato in un altro articolo di questo giornale on line, in attesa delle prese di posizione ufficiali degli altri sindacati.

Il coordinatore Gilda, Rino Di Meglio, ha sottolineato che “inserire nel contratto le ore spese dai docenti per la formazione comporterebbe un aumento dell’orario di lavoro che in alcun modo è accettabile sia svolto gratis. Considerato che le risorse attualmente disponibili per il rinnovo del contratto sono ben lontane dal soddisfare la legittima rivendicazione di un dignitoso aumento di stipendio saremmo curiosi di sapere come la ministra intenderebbe retribuire le ore di formazione che rappresentano lavoro aggiuntivo per gli insegnanti“ e ha evidenziato che semmai “sarebbe preferibile, invece, inserire nel contratto periodi sabbatici per consentire l’aggiornamento degli insegnanti, analogamente a quanto avviene per i professori universitari”.

Ma già c’era stata nello scorso mese di gennaio una netta presa di posizione del segretario nazionale della Uil scuola, Pino Turi, dopo un’intervista di Radio1 alla ministra Azzolina che aveva detto perentoriamente: “I docenti vanno assolutamente formati. La formazione deve essere obbligatoria”. Formazione sì, ma in che tempi e in che modi?

Uil scuola: ventaglio di offerte per evitare una deriva dirigista, garantire le scelte dell’insegnante e rispettare la funzione docente

Dopo tali dichiarazioni Pino Turi ha replicato: “se il ministro vuol parlare di formazione apra subito il contrattoLa formazione iniziale degli insegnanti è obbligatoria ed è compito dello Stato, una precisa riserva di leggeLa formazione del personale in servizio, invece rientra nelle prerogative contrattuali e va affrontata in sede negoziale. Gli insegnanti sono dipendenti dello Stato, ma hanno una loro specificità. Non esiste una formazione di Stato che coinvolge l’istruzione pubblica. Al docente, nella sua dimensione individuale e collegiale va offerto un ventaglio di offerte per la formazione in servizio per evitare una deriva dirigista che potrebbe configurare perfino l’indottrinamento. È lui stesso che decide. Invece tutti si sentono ‘formatori’ di qualcun altro. Va rispettata la delicata funzione docente“.

“Questo tema – ha concluso il segretario nazionale della Uil Scuola – richiama una volta in più la necessità di sedi di garanzia della libertà di insegnamento. Anche per questo serve il rinnovo del contratto”.

Ecco dunque che la ministra infatti vorrebbe far passare nel nuovo contratto la decisione che la formazione dei docenti debba avere un monte orario definito.

Per la Flc Cgil occorre garantire i diritti ed evitare forzature. E’ materia contrattuale, ma per il contratto ci vogliono le condizioni giuste

Ma sul rinnovo del contratto pone delle condizioni anche la Flc Cgil, che in suo recente comunicato ricorda: “L’attuale presidente del Consiglio il 24 aprile 2019, in un testo con noi sottoscritto, si è impegnato ad avviare un processo di avvicinamento degli stipendi del nostro personale scolastico alla media dei colleghi europei. Le stesse dichiarazioni del precedente Ministro parlavano di un aumento a tre cifre” (e Fioramonti aveva anche indicato da dove ricavare una parte consistente delle risorse: una lieve tassazione di merendine e bibite gassate, ma ricorderete fu “sbeffeggiato” dagli oppositori politici e non solo, ma anche osteggiato da colleghi di governo! Anche se poi, un po’ ipocritamente, si parla – come da me segnalato in un articolo pubblicato su questa rivista nel settembre scorso – di percorsi di educazione alimentare… Evidentemente ancora una volta gli interessi di certe multinazionali sembrano essere “intoccabili”, seppure in altri Paesi provvedimenti simili sono stati attuati, n.d.R.).

“Ricordiamo – prosegue la nota della Flc – che ciò potrebbe voler dire anche 200 euro, se si vuole davvero iniziare a risalire la china verso il ripristino di un rinnovato patto educativo. Per questo le risorse finora stanziate vanno raddoppiate. Per questo chiediamo rispetto degli impegni e ritorno alla realtà dei fatti”.

Il comunicato della Federazione lavoratori della conoscenza inoltre ricorda “alla Ministra Azzolina che il taglio del cuneo fiscale è una misura di equità sociale oltre che di redistribuzione della ricchezza, ottenuta grazie alle battaglie sindacali. Per noi anticipa una più complessiva riforma del fisco capace di aggredire l’evasione e restituire ancora più risorse a chi lavora. Il rinnovo del Ccnl, invece, è un diritto che parla alle professioni e al salario della categoria. Per questo diciamo che le condizioni per iniziare il negoziato per il contratto dell’Istruzione per il triennio 2019-2021, ad oggi, non ci sono affatto”.

E sulla formazione del personale nell’ottobre scorso la Flc Cgil ricordava che bisogna garantire i diritti ed evitare forzature. “Per il personale docente – riportava il comunicato della Federazione lavoratori della conoscenza – la formazione si realizza secondo legge (obiettivi e finalità definite nel piano nazionale), in considerazione del Ccnl (per quanto riguarda i criteri di riparto delle risorse alle scuole) e, per i docenti, nel rispetto delle competenze centrali del Collegio che delibera la programmazione delle attività di formazione in coerenza con il Ptof. Le ore di formazione vanno retribuite, previa contrattazione d’istituto, qualora la previsione è oltre le 40 ore complessive destinate alle attività funzionali all’insegnamento”.

E anche per il personale Ata si ricordava che “nel Piano annuale delle attività, saranno evidenziate, sulla base dei bisogni formativi di ogni specifica organizzazione scolastica, le proposte concordate col personale nel corso dell’incontro specifico di inizio anno. Le attività di formazione vengono effettuate in orario di servizio e, qualora effettuate in orario eccedente, vanno retribuite o recuperate”.

La maggior parte dei docenti ha seguito corsi anche fuori l’orario di servizio senza chiedere niente in cambio, quindi il Miur si rallegri!

Quindi relativamente alla formazione dei docenti, se non ha risorse adeguate (non vengano fuori proposte con importi risibili per eventuali ore aggiuntive di impegno professionale per la formazione obbligatoria), il Miur si accontenti della solita buona volontà e disponibilità della maggior parte degli insegnanti che comunque partecipando a corsi in presenza fuori orario di servizio oppure on line segue attività di formazione su tematiche di interesse professionale senza chiedere un euro in più all’Amministrazione, ma almeno facendolo senza obblighi di monte ore o pretese simili (fuori l’orario di servizio) avanzate senza metter mano al portafogli (non quello dei docenti, ovviamente‼).

Semmai, l’Amministrazione chieda conto ai docenti che non avessero mai partecipato a corsi di formazione del perché, visto che la formazione è effettivamente obbligatoria (ma senza vincoli di monte ore): l’istituzione scolastica non ha proposto alcun percorso o gli stessi docenti hanno ignorato ogni possibilità, anche di formazione attraverso gli enti accreditati che non sono solo i singoli istituti o le scuole/polo (si possono anche richiedere permessi per l’aggiornamento professionale)?

Concludendo: il Piano nazionale per la formazione affida al Collegio dei docenti l’elaborazione, la realizzazione e la verifica del Piano di formazione dell’istituto inserito nel Piano triennale dell’offerta formativa, ribadendo le competenze del Collegio docenti, che è bene chiarirlo non è comunque tenuto a dovere quantificare le ore di formazione. E peraltro nel Piano di formazione d’istituto sono generalmente previste iniziative di autoformazione.

Peraltro il comma 124 della legge 107 recita: “le attività di formazione sono definite dalle singole istituzioni scolastiche in coerenza con il piano triennale dell’offerta formativa e con i risultati emersi dai piani di miglioramento delle istituzioni scolastiche previsti dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80, sulla base delle priorità nazionali indicate nel Piano nazionale di formazione, adottato ogni tre anni con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative di categoria”.

Nessun monte orario minimo quindi e il riferimento ai sindacati non è casuale, perché la formazione deve essere svolta “in servizio”, quindi nell’ambito delle ore retribuite previste dal Ccnl. Per capirci: “aggratis niente”!

Ma in effetti il Movimento 5 Stelle non voleva il superamento della legge 107? Qualcuno può ricordarlo al nuovo ministro?

Ma poi il Movimento 5 stelle non voleva il superamento della legge 107/2015 (“Buona scuola”, edito dalla collana “Enrico stai sereno”?) o abbiamo capito male e vuole inasprire, almeno sull’argomento qui trattato, quella tanto discussa legge? O magari ha capito male la Azzolina e qualcuno nel Movimento 5S, cui la ministra appartiene, dovrebbe spiegarglielo? Certe prese di posizione della neoministra hanno già provocato forti dissidi con i sindacati che hanno proclamato lo sciopero per il mese di marzo (“prima espressione di dissenso per le scelte politiche in materia di gestione del personale della scuola” (alcuni evidenziano “con particolare riguardo al personale in condizione di precarietà lavorativa”, altri sottolineano in modo più marcato anche la questione contrattuale).

Vuole Lucia Azzolina ripercorrere la strada (con epiloghi non lusinghieri, per usare un eufemismo) di alcuni suoi predecessori a Viale Trastevere che divennero alquanto impopolari per le proposte avanzate? Luigi Berlinguer (“concorsone”), Francesco Profumo (24 ore di cattedra nelle secondarie. Ma no, facciamo 36, propone un paio di anni dopo Roberto Reggi, sottosegretario all’Istruzione nel governo Renzi: poi smentisce, insieme al ministro Giannini, ma non gli basta per evitare che qualche mese dopo… venga destinato ad altro incarico extragovernativo!), la già citata Stefania Giannini (125 ore di formazione obbligatoria nel triennio). Talvolta, soprattutto i tentativi di aumentare il carico di lavoro dei docenti hanno fatto perno su beceri e infamanti luoghi comuni (precisiamo: non direttamente diffusi dagli estensori di quelle proposte) – peraltro smentiti da chi nelle scuola opera quotidianamente fra tanti impegni e difficoltà e da chi conosce davvero la realtà scolastica, nonché dal raffronto con la media settimanale di ore di lezione dei Paesi europei – contro i docenti, luoghi comuni (se non in alcuni casi palesi falsità) soprattutto negli anni precedenti per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica i tagli messi in atto da alcuni governi in particolare.

Nelle occasioni citate, come si vede, gli insegnanti e i sindacati sono stati compatti nel respingere proposte ritenute inaccettabili. O forse Azzarelli conta sul fatto che i docenti, segnati da anni di frustrazioni e stanchezza psico-fisica, siano ormai incapaci di reagire? O conta sul motto “divide et impera”, carta spesso vincente di altri governi e ministeri

Collaboratori dirigente scolastico, una risorsa indispensabile per la scuola?

da La Tecnica della Scuola

Valorizzare e promuovere la professionalità del personale scolastico è una delle priorità politiche dell’atto di indirizzo firmato dalla ministra Lucia Azzolina nei giorni scorsi.

A dichiararsi particolarmente soddisfatto di questo aspetto è il presidente nazionale dell’Ancodis (Associazione nazionale dei collaboratori dei dirigenti scolastici) Rosolino Cicero che dichiara: “Se al centro del sistema scolastico italiano c’è il diritto allo studio per tutti gli alunni, il garante di questo diritto è rappresentato dai docenti che ne attuano, nella libertà di insegnamento, l’azione educativa e formativa”.
Piace anche, all’Ancodis, il fatto che nell’atto di indirizzo venga ribadito che la formazione deve essere “obbligatoria, permanente e strutturale”.
L’Associazione fa poi rilevare che nel documento si sottolinea un aspetto importante: “Occorre promuovere, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, il valore sociale di tutte le professionalità della Scuola per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio”.
Da tutto questo Rosolino Cicero trae spunto per evidenziare che in tutte le istituzioni scolastiche ci sono collaboratori del dirigente che operano con grande impegno e che “sentono quale bisogno imperativo la formazione e l’aggiornamento professionale”.
“I docenti oggi impegnati nella collaborazione al DS o che desiderano accedere all’attività di collaborazione – dichiara Ancodis – rappresentano, insieme ai DS ed ai DSGA, una importante componente scolastica che è impegnata su tutti i temi e che dà ‘valore aggiunto’ alla funzione docente”.
“Anche se – aggiunge Cicero – a tutto questo importante e fondamentale lavoro non consegue nessuna prospettiva di progressione di carriera professionale né un adeguato riconoscimento nell’accesso a quella dirigenziale”.
“Alla Ministra – conclude Ancodis – di integrare l’atto di indirizzo con la proposta di una visione della governance prevedendo l’istituzionalizzazione delle figure di sistema che nessuno può più disconoscere e la possibilità di una diversa progressione di carriera”.
Vedremo se Lucia Azzolina, nel corso della prossima audizione in Parlamento per la presentazione del proprio programma di lavoro, farà almeno un accenno alla questione.
Questione che, storicamente e per diverse ragioni, non è mai stata attentamente considerata dalle organizzazioni sindacali. Ma forse, proprio con Azzolina, che sembra non voler considerare il consenso sindacale come dato imprescindibile per poter governare la scuola, potrebbe esserci una svolta.

L’alfabetizzazione finanziaria, uno strumento di ‘crescita’ per famiglie e donne

da Tuttoscuola

L’educazione finanziaria, secondo l’OCSE, è “quel processo mediante il quale i consumatori/investitori migliorano le proprie cognizioni riguardo a prodotti, concetti e rischi in campo finanziario e, grazie a informazioni, istruzione e/o consigli imparziali, sviluppano le abilità e la fiducia nei propri mezzi necessarie ad acquisire maggiore consapevolezza delle opportunità e dei rischi finanziari, a fare scelte informate, a sapere dove rivolgersi per assistenza e a prendere altre iniziative efficaci per migliorare il loro benessere finanziario”(OCSE 2005, Recommendation on Principles and GoodPractices for Financial Education and Awareness).

Gli italiani e, soprattutto, le donne sanno poco di economia e finanza. Lo dimostrano studi e indagini. Molte ricerche Ocse e in particolare “l’ultimo Rapporto sulle scelte di investimento delle  famiglie realizzate dalla Consob non fanno che certificare l’ignoranza degli italiani. Giovani e meno giovani, tutti bocciati in educazione finanziaria” (“Ora di finanza obbligatoria” di Beniamino Piccone, lavoce. Info del 21 ottobre 2016). Mentre negli altri Paesi le differenze di genere non sono significative, in Italia le donne sono meno alfabetizzate sul piano delle competenze finanziarie  degli uomini.

Anche i risultati dell’’indagine promossa dal Museo di Risparmio di Torino, in collaborazione con Episteme e con il sostegno di Intesa Sanpaolo, per l’acquisizione di puntuali informazioni del livello di consapevolezza e padronanza della popolazione femminile nella gestione del denaro, presentati lo scorso 25 ottobre da Giovanna Paladino, direttrice del Museo, documentano, in particolare, che il grado di educazione finanziaria delle donne è più basso di quello degli uomini. Le forme di discriminazione economica, osserva la professoressa Paladino “possono limitare l’indipendenza della popolazione femminile … Le donne che ne sono vittime perdono autostima e autonomia e tendono a isolarsi e a non avere il coraggio di denunciare abusi e violenze”. Sempre secondo Paladino, diventa essenziale “sensibilizzare le donne sull’importanza di acquisire un’educazione finanziaria di base e stimolare una gestione proattiva dei loro risparmi”.

Il problema non è solo la debole/insufficiente competenza sul tema finanziario, ma spesso la mancanza di interesse da parte delle donne su questi temi, vissuti come elemento maschile, fatto di grandi strategie incomprensibili e  “altro” rispetto alla gestione quotidiana del risparmio domestico.

La ricerca mette, ancora, in evidenza che un livello adeguato di studio non rappresenta una garanzia di maggiore esperienza a livello finanziario. Le donne sono meno preparate degli uomini, pur avendo livelli di formazione di base e terziaria comparabili o superiori.

La rilevazione del Museo del Risparmio ha coinvolto un campione rappresentativo della popolazione italiana compresa tra i 18 e 64 anni. Sono stai somministrati 1030 questioni di cui 752 a un campione specifico dell’universo femminile.

 Approccio sinergico caposaldo per un’azione efficace

Il basso livello di conoscenze finanziarie impone di promuovere riflessioni sui profili più delicati dell’educazione finanziaria, con particolare riferimento alla rilevazione dei bisogni formativi, all’individuazione dei destinatari delle iniziative, priorità e criteri d’intervento, alla definizione di una comunicazione innovativa e efficace. In assenza di puntuali iniziative il problema dell’ignoranza degli elementi economici-finanziario assumerà dimensioni sempre più preoccupanti.

Da qui la necessità di far crescere l’attenzione sull’educazione finanziaria, di parlarne in modo più ampio e diffuso non solo sulla stampa di settore ma anche in talk show e trasmissioni di divulgazione. Anche il sistema educativo potrebbe svolgere un ruolo importante facendo da traino allo sviluppo di azioni che possano stimolare il cambiamento culturale del Paese, assicurando un maggiore coordinamento fra le singole azioni e lo sfruttamento di sinergie tra le offerte disponibili.

I diversi soggetti istituzionali competenti sono chiamati a farsi carico della responsabilità di fare scelte e agire nel più breve tempo possibile. La credibilità della classe dirigente non è solo quella relativa al rispetto delle regole e della trasparenza, è anche quella dell’efficacia dell’azione. Azione che non può risolversi solo nei confronti estenuanti fra i singoli attori per ritrovarsi, infine, nell’ennesima urgenza, sotto la quale giustificare eventuali errori. Si deve assumere la responsabilità di agire, mettendo in conto di poter anche sbagliare perché il peggiore sgarbo che si può fare ai cittadini è il colpevole immobilismo.

Fare educazione finanziaria non è facile perché far parlare le persone dei propri “soldi” non è cosa agevole in quanto non hanno la piena consapevolezza che il denaro di per sé non è buono o  cattivo ma che può essere negativa la finalità per la quale si usa.

C’è la necessità di una strategia nazionale di educazione finanziaria decisa dalla Cabina di regia, presieduta dalla professoressa Annamaria Lusardi, istituita presso il Mef, basata su alcuni elementi definiti, anche sulla base di puntuali contributi del Miur che porti ad un miglioramento della cultura economico-finanziaria delle persone che dimostrano il più basso livello di conoscenza.

L’agenda politica, poiché una delle sfide per l’educazione finanziaria è misurarsi con una platea estremamente differenziata sia in termini di fabbisogni sia di capacità di accesso ai vari canali informativi, in via prioritaria, potrebbe puntare a intervenire su specifici gruppi della popolazione, segmentati per livelli di vulnerabilità finanziaria o bisogni contingenti a eventi del ciclo sociale.

Approccio di sistema per docenti di genere femminile

Poiché l’OECD PISA 2015 che misura l’educazione finanziaria tra gli adolescenti trova che il gap si è ridotto in tutti i paesi tranne che in Italia, potrebbe essere interessante puntare su interventi di informazione e formazione calibrati sul personale docente di genere femminile. Il punto centrale, l’elemento dirimente di questa ipotesi progettuale è il considerare gli insegnanti in quanto genitori e, come tali, portatori di un bisogno connesso principalmente alla sfera personale e familiare. Secondo questa prospettiva destinatari dei percorsi di educazione finanziaria, realizzati dai CPIA, che possono rappresentare un laboratorio di innovazione, sono gli insegnanti/genitori/madri delle scuole di ogni ordine e grado.

Lecito soffermarsi sul perché di tale priorità formativa, visto che può non apparire del tutto chiaro a chi culturalmente considera quel che attiene alle “finanze” come qualcosa di segreto da non “rivelare”.

In primo luogo gli insegnanti costituiscono un bacino d’utenza stabile e numericamente importante che il CPIA potrebbe coinvolgere nei propri percorsi di educazione finanziaria. In valori assoluti sull’intero territorio nazionale gli insegnanti sono oltre 800.000 unità e rappresentano il 6% della potenziale utenza del sistema di istruzione degli adulti. Di questi, oltre l’80% sono donne, target particolarmente interessante da coinvolgere: con riferimento alla ‘financial literacy’ il divario di genere ha un peso significativo.

In secondo luogo i docenti si trovano già nei luoghi presso i quali vengono erogati i percorsi dei CPIA e pertanto è più semplice e immediato intercettarli.

In terzo luogo gli insegnanti potrebbero mettere a profitto le conoscenze e le competenze acquisite nei percorsi di educazione finanziaria non solo per la propria vita personale e familiare ma anche per la loro attività professionale in momenti e in contesti successivi.

Infine, la prospettiva introdotta dalla legge 92/2012, che di fatto crea il diritto ad apprendere lungo tutta la vita, garantisce agli insegnanti – in quanto adulti – l’opportunità di fruire dei percorsi di cittadinanza sviluppati dai CPIA.

Benefit non obbligo

Gli insegnanti infatti sono generalmente visti come fruitori di formazione obbligatoria  in servizio o continua e non destinatari di benefit mirati. Il percorso si configurerebbe come un vero e proprio percorso di apprendimento assicurato dai CPIA nei confronti di uno specifico target (gli insegnanti/genitori/madri delle scuole di ogni ordine e grado) rispetto al più ampio insieme della popolazione adulta.

Questa  prospettiva, che ha risvolti significativi sul piano dell’analisi dei bisogni formativi della popolazione adulta, potrebbe aprire a scenari particolarmente interessanti, fare emergere una domanda di formazione latente e contribuire a ridurre il deficit formativo della popolazione adulta italiana in materia di alfabetizzazione finanziaria, che è tra i più alti nell’ambito delle economie avanzate.

Gli obiettivi della erogazione gratuita di programmi di qualità di educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale agli insegnanti-genitori, dovrebbero essere sostanzialmente finalizzati

a far acquisire consapevolezza relativamente al tema della propria vita economica presente e futura, dei punti di forza e debolezza della propria situazione economica e finanziaria, delle necessità presenti e future che consentiranno equilibrio e stabilità che influiscono sulla scelta consapevole di diritti e doveri ossia nell’autonomia di ogni cittadino.

Perché il progetto, un sentiero tutto da percorrere e un campo da arare, abbia successo occorre che i destinatari, per i quali viene pensata, comprendano che essa viene assunta per arrecare benefici futuri per sé e per le nuove generazioni, cioè i figli.

Molti se, ma senza sfide ambiziose non si realizzano risultati significativi. Perché trama e ordito producano più benessere finanziario è necessario un gioco di squadra, una convergenza di intenti fra tutti gli attori, ma anche la messa al bando di una miscela sterile di pessimismo e frustrazione.

Il Miur pensi in grande nel settore dell’educazione finanziaria: questa è la possibilità di vincere una grande sfida, sperando di coglierne i frutti presto.

Nota 17 febbraio 2020, AOODGSIP 679

Ministero dell’Istruzione
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione Direzione Generale per lo Studente, l’Inclusione e l’Orientamento scolastico

A tutte le istituzioni scolastiche di ogni ordine statali e paritarie

OGGETTO: Contributi alle scuole della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la promozione della lettura critica e l’educazione ai contenuti informativi.