Ambientamento del bambino e Scuola dell’infanzia

Ambientamento del bambino e Scuola dell’infanzia

di Mario Maviglia

L’inserimento dei bambini nella scuola dell’infanzia è sicuramente uno dei momenti più delicati dell’esperienza scolastica dei piccoli in quanto segna il passaggio da un ambiente privato, qual è la famiglia, a un contesto pubblico, com’è la scuola, con tutto il corredo di significative differenze tra queste due agenzie educative in termini di approcci, di metodologie, di comportamenti e di regole sociali. Pressoché tutte le scuole adottano forme di ambientamento al fine di favorire un passaggio per quanto possibile non traumatico tra casa e scuola da parte del bambino. Sul significato di tale “ambientamento”, e soprattutto sui tempi che vi vengono destinati, esistono però scuole di pensiero diverse sia all’interno delle scuole che tra le stesse famiglie. Vi sono docenti che prolungherebbero sine die il periodo di frequenza ridotta della scuola da parte dei piccoli, e viceversa altri insegnanti preferirebbero un periodo molto breve di ambientamento per consentire al bambino di fruire in modo completo delle varie opportunità educative offerte dalla scuola e per sollecitare e rafforzare il processo di autonomia. D’altro canto alcuni genitori starebbero attaccati ai figli per tutta la durata della giornata scolastica per tranquillizzarli e non procurare loro disagi, mentre altri lascerebbero volentieri il bambino per tutto il giorno a scuola fin dall’esordio.

Dato per scontato che l’obiettivo finale è quello di fare in modo che il bambino frequenti la scuola per tutto il periodo stabilito dal Ptof della scuola stessa (ricordiamo che il Dpr89/2009 prevede un orario di funzionamento di 40 ore settimanali, con possibilità di estensione fino a 50 ore, oppure – laddove vi sia un numero di richieste sufficiente – un tempo scuola ridotto per 25 ore settimanali, limitato alla sola fascia del mattino), il problema è quello di stabilire quanto debba essere lungo di periodo di ambientamento. Detto in altre parole: per quanto tempo i bambini debbono frequentare la scuola per un numero ridotto di ore prima di fruire in modo completo della frequenza giornaliera ordinaria. Com’è facilmente intuibile, non esiste al riguardo una regola certa, né sul piano normativo (anzi, a onor del vero, la normativa non vi fa alcun a frequenze ridotte per l’ambientamento), né tantomeno su quello psicologico. Eppure, è incredibile come su questo aspetto vengano spesso adottate decisioni del tutto ideologiche e senza alcuna attinenza con la realtà empirica. Alcune scuole, ad esempio, stabiliscono che il periodo di ambientamento debba durare quattro settimane per tutti i bambini neo iscritti con una frequenza (molto ridotta) di un certo numero di ore nei primi giorni e progressivamente sempre più prolungata fino al raggiungimento dell’orario completo previsto. A ben vedere questo modo di operare nasconde una visione meccanica e, tutto sommato, ingenua dei bambini, come se fossero tutti uguali e reagissero allo stesso identico modo agli stimoli ambientali. La realtà è molto più variegata e meno ingabbiabile in schemi predefiniti: vi sono bambini di tre anni che non hanno alcuna difficoltà ad inserirsi in un nuovo contesto ed altri che abbisognano invece di tempi più lunghi. Generalmente i bambini che hanno frequentato l’asilo nido non necessitano di periodi di “rodaggio” particolarmente lunghi avendo già sperimentato ampiamente la frequenza di un contesto educativo diverso dalla famiglia. Insomma, vi sono tra i bambini delle variabilità individuali di cui tener conto ai fini dell’ambientamento. Certo, l’adozione di un modello uguale per tutti può essere una soluzione organizzativa più comoda per la scuola, ma non è detto che risponda alle esigenze dei diversi bambini. (D’altro canto le stesse tabelle di sviluppo utilizzate in pediatria per registrare lo sviluppo fisico dei bambini prevedono margini di tolleranza per ogni valore considerato. E stiamo parlando di dati fisici, non psicologici).

Vi è poi un altro aspetto da considerare, di un certo impatto sociale. Un periodo di ambientamento eccessivamente lungo (o comunque non tarato sulle effettive condizioni relazionali e psicologiche del bambino), crea non pochi problemi di carattere organizzativo alle famiglie che devono rimodulare i propri impegni di lavoro sulla base delle richieste della scuola. Sappiamo che il mercato del lavoro in Italia non è sempre così flessibilecome in altri Paesi e dunque i genitori sono costretti a non pochi funambolismi lavorativi per aderire alla proposta della scuola. E d’altro canto, non è disdicevole affermare che la scuola dell’infanzia e gli altri servizi educativi di cura e educazione per i bambini  del settore 0-6 anni favoriscono l’occupazione femminile e costituiscono un incentivo alla fecondità. Quando si fanno questi ragionamenti, alcuni insegnanti ribattono che “la scuola non è un parcheggio”, ma paradossalmente proprio la frequenza ridotta durante il periodo di ambientamento restituisce un’idea di parcheggio a ore. Ancor più icasticamente si può quindi replicare che proprio per evitare il fantasma del parcheggio – così temutoda certi docenti – il bambino deve frequentare la scuola per l’intero orario previsto (40 o 50 ore settimanali, o 25 se la sezione funziona per la sola fascia antimeridiana, come da norma di legge). 

Una soluzione di buon senso (“Capacità naturale, istintiva, di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche”, Treccani on line) è quella di condividere/negoziare insieme ai genitori il periodo di ambientamento del bambino tenendo conto delle sue caratteristiche personali (in fondo i genitori hanno del bambino una conoscenza molto più approfondita di quella che hanno i docenti, visto che ancora non lo conoscono) e delle esigenze pratiche della famiglia, non trascurando comunque che una eventuale decisione dei genitori di far frequentare già da subito al bambino la scuola dell’infanzia per l’intero orario giornaliero non può essere contrastata (non c’è Ptofche tenga…), non contemplando la norma una frequenza ridotta se non per motivi eccezionali dettati da motivi di sicurezza o logistici. Ma qui si entra in un altro campo.

L’inizio del prossimo anno scolastico: verso un nuovo disastro

da Il Sole 24 Ore

di Mauro Piras

Le lezioni del prossimo anno scolastico potrebbero iniziare il 14 settembre. Questa data è stata proposta dalle regioni, per una partenza comune, e rilanciata dalla ministra Azzolina. Diciamolo subito: siamo completamente fuori strada.

Tutti, la ministra per prima, ripetono che la scuola è una priorità, ma non lo è affatto se si riparte più o meno come al solito. Il prossimo non è un anno scolastico qualsiasi: è un anno che viene dopo un periodo drammatico di chiusura delle scuole, in cui più di otto milioni di studenti sono stati costretti a restare a casa per oltre tre mesi, lavorando in condizioni eccezionali e difficili nel migliore dei casi, o non lavorando affatto nel peggiore dei casi, quello di chi non è stato raggiunto dalla didattica a distanza.

Caduta degli apprendimenti

Sappiamo tutti che lunghi periodi di inattività scolastica comportano una grave caduta degli apprendimenti. Se la scuola è una priorità, la prima cosa da chiedersi è: come porre rimedio a questi danni? come rimettersi al lavoro velocemente per permettere agli studenti di recuperare il tempo perduto? La risposta più ovvia è: pur nel rispetto delle misure di contenimento, riaprire le scuole al più presto.

Al più presto significa il primo settembre. In questa direzione si era mosso il governo quando ha approvato il Decreto Scuola (DL 22/2020, convertito dalla Legge 41/2020), che prevede attività didattiche fin dal primo settembre. Tuttavia, iniziare le lezioni due settimane dopo impedisce di realizzare questo intento.

Le attività di cui parla il decreto sono il recupero e l’integrazione degli apprendimenti. Che cosa significa? Le prime sono rivolte agli studenti che hanno delle insufficienze; bene, in effetti non è un problema avviare dei corsi di recupero fin dal primo settembre, per poi iniziare le lezioni il 14, come ha detto la stessa Azzolina.

Tuttavia, questo è un modo del tutto ordinario di affrontare l’inizio del nuovo anno: tolto il fatto che non ci saranno gli esami di settembre, si fanno le solite cose, prima i corsi di recupero e poi l’inizio dell’anno per tutti.

Si rimuovono tre enormi problemi:

1) dopo un periodo eccezionale come quello della didattica a distanza, i ragazzi che hanno delle insufficienze difficilmente potranno recuperare in due settimane per poi iniziare normalmente il 14 settembre;

2) probabilmente, ci saranno quest’anno meno insufficienti, perché date le condizioni eccezionali molti docenti non hanno voluto penalizzare gli studenti, e anzi hanno premiato l’impegno che ci hanno messo, pur nell’emergenza: che fare di questi studenti che non sono destinatari di corsi di recupero in senso stretto?

3) infine, il decreto prevede delle attività di “integrazione”. Che cosa vuole dire? Vuol dire che tutti gli studenti, non solo gli insufficienti, avranno bisogno di riprendere con calma una parte delle cose fatte a distanza, per consolidare gli apprendimenti, perché occorre restaurare la relazione didattica in presenza, e perché molte cose sono state trattate poco o male.

Quindi c’è bisogno in generale di un inizio di anno scolastico in cui si ricomincia con calma, riprendendo quanto fatto a distanza, per tutti. Ecco perché il decreto ha previsto delle attività di “integrazione” da avviare già il primo settembre.

Inizio lezioni

C’è però un enorme problema: come si fa a iniziare queste attività di integrazione dal primo settembre se non iniziano le lezioni? come si fa a chiedere a tutti gli studenti e ai docenti di venire a scuola a fare delle lezioni di “integrazione degli apprendimenti” se non iniziano le lezioni? E infatti la ministra ha ammesso che dal primo settembre si faranno solo i recuperi, dimenticando del tutto l’integrazione. Così si esce fuori strada.

Il ministero ha previsto correttamente che le attività di recupero e di integrazione si possano svolgere durante tutto l’anno scolastico, se necessario. Se si inizia il 14 settembre, si rischia di cadere (come ha fatto la ministra, come stanno facendo molte scuole) nello schema abitudinario: prima i recuperi, poi le lezioni. L’integrazione si ridurrà a un veloce ripasso all’inizio delle lezioni, e dopo si andrà avanti come se fosse un anno scolastico qualunque.

Perché stiamo sbagliando così? Da dove nasce questo errore? Da due ragioni, una rimossa, e un’altra molto discussa, ma che ci ha portato fuori strada.

La ragione rimossa è il problema della stagione turistica: il governo non ha il coraggio di far ripartire le scuole a pieno ritmo il primo settembre, perché vengono enormi pressioni dal settore turistico per poter lavorare ancora le prime settimane di settembre. Dato il calo delle attività causato dalla crisi sanitaria, questa richiesta è del tutto legittima; dovrebbe però essere oggetto di un dibattito pubblico aperto, in cui si confrontano le esigenze della scuola e quelle del settore turistico, per trovare un compromesso ragionevole.

Invece il problema viene rimosso e quasi vergognandosi si decide di iniziare il 14 settembre, senza discutere le esigenze della scuola. La rimozione va a vantaggio dell’economia ma a svantaggio della scuola. Come in ogni rimozione, prevalgono le pulsioni più forti.

La seconda ragione di questo errore è invece l’andamento del dibattito pubblico sulla scuola nelle ultime settimane. Sulla ripartenza a settembre, il dibattito si è occupato solo di due problemi, invertendo l’ordine naturale delle cose e dimenticandone uno fondamentale: si è occupato delle misure di contenimento da adottare a scuola, e di come organizzare, eventualmente, una didattica “mista”, in parte a distanza e in parte in presenza.

Tutte cose importanti, ma discutere solo di questo presuppone che si sappia già che cosa si vuole fare a scuola da settembre: si è dato per scontato che si faranno sempre le solite cose, e che gli unici problemi sono quelli organizzativi, relativi alla sicurezza e alla didattica mista. Non si è discusso seriamente di come va impostato, nei contenuti e nei metodi, un anno scolastico che viene dopo una crisi scolastica drammatica e che deve sanare ferite profonde.

Si è dato per scontato che tanto si sa, quello che si farà. E così, arrivati al dunque, il problema dell’integrazione degli apprendimenti, cioè la cosa più importante, passa totalmente in secondo piano, anzi viene rimosso, perché si accetta come ovvio che le lezioni inizieranno a metà settembre, che prima si faranno i soliti recuperi organizzati alla meno peggio e che poi si farà un ripassino. Per il resto, si salvi chi può.

Elezioni amministrative

Se aggiungiamo che, iniziando il 14 settembre, rischiamo di dover chiudere le scuole dopo una settimana per le elezioni amministrative e per il referendum costituzionale che, sembra, si terranno il 20 settembre, allora stiamo andando incontro a un nuovo disastro.


Zaia: ecco le regole delle Regioni per tornare a scuola, senza mascherina

da Corriere della sera

Gianna Fegonara

Sono quasi pronte le linee guida per il rientro a settembre. Intanto nella conferenza stato regioni che si riunisce insieme alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina si saprà se la data di ritorno a scuola sarà effettivamente il 14 settembre. Il governatore del Veneto Luca Zaia nel frattempo ha anticipato la proposta di linee guida concordata tra le Regioni e consegnata martedì al ministero. «Ancora non sappiamo se sarà accettata», mette le mani avanti l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan, anche se informalmente «ci hanno detto che sono proposte valide».

La febbre

La novità principale rispetto alle prime indicazioni date dal Cts il 28 maggio è che le regioni chiedono che in classe, seduti al banco, gli studenti possano togliere la mascherina. La dovrebbero portare solo negli spazi comuni, in corridoio e all’ingresso. Rispetto alle prescrizioni del Cts le Regioni propongono che invece venga misurata la febbre all’ingresso a chiunque arrivi a scuola. Il Cts aveva ipotizzato di saltare questo passaggio, lasciando ai genitori l’incombenza di misurare la temperatura ai figli prima dell’uscita da casa, perché inevitabilmente rischierebbe di creare i famosi assembramenti all’ingresso: anche scaglionando l’orario di arrivo, ci sarebbero centinaia di persone davanti ai portoni.

Banchi più vicini

Infine le regioni suggeriscono, spiega Zaia, di ridurre un po’ la distanza tra i banchi, garantendo due metri quadrati (e non quattro) per ogni studente: una soluzione che permetterebbe di aggiungere qualche banco in ogni aula, riducendo la distanza tra le file visto che i bambini si danno la schiena e il rischio di contagio aereo è minore. Resterebbe invece la distanza di due metri con l’insegnante. Si tratta di una soluzione simile a quella annunciata dal ministro dell’Istruzione francese Blanquer per il ritorno a scuola il 22 giugno. A questo scenario di distanziamento ridotto starebbero pensando anche i tecnici di viale Trastevere: la soluzione ideale sarebbe quella di rendere alternative le due misure, cioè chi usa la mascherina può ridurre il distanziamento e viceversa, se c’è una distanza sufficiente si può togliere la mascherina.

No mascherine

La preferita di Zaia è questa soluzione: «Non possiamo pensare che i bambini respirino la propria anidride carbonica, dentro le mascherine per 5 o 6 ore al giorno», spiega per motivare la sua contrarietà all’uso del dispositivo di protezione. Certo però, se si volesse ridurre del tutto o quasi la distanza tra i banchi sarebbe invece la mascherina a garantire una maggior sicurezza, almeno per i più grandi.

Gli scenari del Miur

Al ministero dell’Istruzione qualche idea per le linee guida se la sono fatta in queste settimane, ma stanno aspettando un pronunciamento ulteriore del Cts: se infatti nelle regioni del Sud continuassero «zero contagi» anche nelle prossime settimane si potrebbe pensare ad un rientro in classe quasi normale: cioè mantenere le regole di igienizzazione ma poi lasciare le classi come sono. Per questo le linee guida avranno tre scenari: quello della normalità che prescrive poche regole di pulizia e sicurezza; uno scenario intermedio e molto complicato da realizzare – e demandato ai presidi, che dovranno disporre il piano per la loro scuola – con distanziamento, riduzione dell’orario e divisione delle classi a metà, turni per consentire in caso di recrudescenza del virus di portare i ragazzi a scuola. E infine lo scenario da lock down con didattica a distanza però non più improvvisata ma gestita con criteri e indicazioni nazionali. Un approccio quello delle tre diverse ipotesi che di fatto scommette sul ritorno alla normalità a settembre, lasciando gli altri due scenari come residuali e locali. Speriamo che non sia un azzardo.


La scuola in terapia intensiva

da la Repubblica

Massimo Recalcati

L’emergenza sanitaria ha sequestrato le parole e i pensieri. Il trauma del Covid 19 ha colonizzato pesantemente la vita collettiva. Una calamita mortifera ha bloccato le nostre energie e le nostre risorse. Ne è un esempio emblematico e drammatico quello della scuola. Tutto il dibattito attuale sul suo presente e sul suo futuro appare integralmente assorbito dal problema della sicurezza. Non è illegittimo considerata la gravità della bufera che ci ha investiti. Il problema della sicurezza in un contenitore istituzionale ampissimo com’è quello della scuola deve essere giustamente affrontato e risolto. Tuttavia limitarsi a ragionare sulle distanze necessarie da preservare, sul rischio degli assembramenti e sulle mascherine, sulla presenza o meno delle pareti di plexiglass spoglia fatalmente la riflessione della scuola schiacciandola sulla necessità della gestione della crisi sanitaria. Ma la scuola italiana è da tempo in terapia intensiva. Ben prima del Covid. Essa resiste solo grazie alla tenacia di molti dei suoi protagonisti, in primis quella degli insegnanti che preservano con il loro impegno e la loro passione il respiro vivo del corpo della scuola.

A settembre si ricomincia. Si discute solo di sicurezza.

Ma il paziente-scuola resterà di fatto ancora in terapia intensiva? Il problema vero è che la drammatica vicenda del virus ha indebolito e fiaccato ulteriormente la sua resistenza. Per risollevare la scuola italiana dalla sua condizione di malattia non sarebbe necessario allora prevedere una terapia d’urto? Alcune raccomandazioni per il suo prossimo futuro sono talmente ovvie che potrebbe sembrare inutile ricordarle ma esse si impongono dopo la vicenda del Covid. Ricordiamo almeno la principale: la relazione non è qualcosa che si aggiunge alla didattica come una sua appendice esterna, ma è la condizione di ogni didattica. Dunque non esiste didattica a distanza. La tecnologia non può supplire alla vita comunitaria della scuola. Ma ribadita questa raccomandazione il problema non è affatto risolto ma, al contrario, inizia a porsi. Cosa fare per il paziente-scuola? Avrebbe meno dignità di essere curato con attenzione rispetto ad altri? Se i nostri governanti riuscissero a non lasciarsi irretire dall’emergenza sanitaria dovrebbero indicare le linee guida per una cura che non deve coincidere con la gestione dell’emergenza Covid.

Il problema è più generale e radicale insieme: quale centralità la scuola sarà in grado di affermare nel tempo della ricostruzione? Il suo futuro sarà ancora una volta sbarrato, senza risorse, relegato ai margini di una rappresentazione del Paese che può fare a meno dell’istruzione, della formazione e della ricerca? Perché anziché battere insistentemente il chiodo della riapertura in sicurezza non si riapre davvero un dibattito intorno all’emergenza-scuola in quanto tale?

Bisogna ricordarlo: la scuola non ha come obiettivo la difesa della sicurezza dei suoi protagonisti, ma la difesa della condizione di civiltà di un Paese. Per questo la sua competenza non è settoriale ma investe la nostra comunità, la sua stessa identità.

Il dibattito sulla scuola non può restare ostaggio del virus e del problema della sicurezza. Non sarebbe allora il caso di ripensare alla ripartenza innanzitutto attraverso una rimodulazione profonda dell’attività didattica? Il campo è ampio: favorire l’interdisciplinarietà, rendere possibile una diversa circolazione degli allievi attraverso la composizione di piani di studio più adeguati alla loro attitudine come già accade in molti Paesi, portare la scuola verso la città, nei quartieri, nei territori, nei luoghi culturali, reinserirla come protagonista attiva della nostra vita sociale; insomma aprire e rinnovare gli spazi didattici della scuola tenendo anche conto delle nuove esigenze imposte dal virus; abolire definitivamente un uso solo sadicamente numerologico della valutazione ancora oggi tristemente diffusa anche nei licei più rinomati del nostro Paese; riqualificare seriamente la formazione e il lavoro degli insegnanti per favorire la permanenza nella scuola dei migliori.

Ma per fare questo occorrerebbe lo studio nel dettaglio di una ricomposizione inedita della didattica e del rapporto della scuola con la città. Chi vi si sta dedicando? È necessario uno sforzo politico e culturale di immaginazione e di pensiero. Meglio se collettivo, meglio se capace di coinvolgere gli insegnanti e le loro associazioni. In ogni caso libero, laico, vivo, insomma non pietrificato dallo sguardo di Medusa del virus.

Scuola, Ocse-Pisa: insegnanti italiani in ritardo sulla tecnologia

da la Repubblica

Corrado Zunino

ROMA – Ocse-Pisa, il Programma pubblico internazionale che si occupa di verificare lo stato dell’arte dell’educazione scolastica nel mondo, spiega che gli studenti italiani hanno ricevuto sapere a distanza nella media con quello dei 79 Paesi (industrializzati e no) presi in considerazione, ma che, invece, i docenti italiani hanno un serio ritardo sul mezzo digitale, sulle lezioni da impartire, sulla loro capacità di cambiare didattica nel momenti in cui si passa dalla presenza in classe al remoto (la stanza dei loro alunni).Il Covid, dice Ocse-Pisa, ha raggiunto oltre 140 nazioni (i siti di controllo quotidiano del contagio ne contano 215) e la risposta alla pandemia è stata, per molti governi, la chiusura delle scuole. L’impostazione dell’istituto è questa: la didattica a distanza offre opportunità inedite alla diffusione e all’apprendimento della scienza, “la tecnologia può consentire a insegnanti e studenti di accedere a materiali specialistici ben oltre i libri di testo, materiali che ci insegnano non solo la scienza, ma possono simultaneamente osservare il modo in cui studiamo e impariamo la scienza”. Servono, per tutto questo, “insegnanti brillanti”.

I dati, che sono quelli dell’indagine 2018 e si riferiscono a una platea di ragazzi di 15 anni (da noi frequentano la seconda superiore), dicono che sulla preparazione digitale c’è un grande lavoro da fare. A fronte di un solo studente su nove che a quell’età sa distinguere i fatti dalle opinioni, c’è ancora bisogno di una guida salda al vertice della classe: l’insegnante.

Europa in ritardo

Secondo i rilevamenti, che sono affidati in tutti i Paesi ai giudizi dei dirigenti scolastici, l’Italia è al 72° posto (su 79) per le competenze tecnologiche dei propri insegnanti. Metà esatta del corpo docente (che è formato da ottocentomila tra maestri e professori) le ha, metà non le ha. Non c’è differenza, di fronte a questa domanda, tra scuole svantaggiate o avvantaggiate.

La media Ocse (36 Paesi industrializzati dei 79 presi in considerazione) è vicina al 65 per cento. Diversi Paesi europei – Germania, Francia e Spagna, in ordine – sono al di sotto di questa media, ma hanno comunque risultati migliori dell’Italia. Guida la classifica di “percezione” (la percezione dei presidi) la Cina, dove il 92 per cento dei docenti ha sufficienti competenze digitali da trasferire ai discenti. I Paesi dell’Estremo Oriente guidano il ranking e hanno risposte di alto livello anche diversi dell’Est Europa. Sotto l’Italia, 72esima appunto, ci sono tra gli altri la Finlandia, considerata da sempre una delle nazioni con la migliore scuola al mondo e, ultimo, il Giappone.

I presidi: “I mezzi digitali ci sono”

L’Italia è al di sotto della media Ocse, ma qui non in maniera forte, nella voce “tempo a disposizione degli insegnanti per preparare lezioni digitali”: siamo 57esimi e il blocco docente che riesce in questo compito non raggiunge il 60 per cento. Nonostante il ritardo, i dirigenti italiani ritengono che, tutto sommato, maestri e professori del nostro Paese abbiano “risorse professionali efficaci per imparare ad utilizzare i dispositivi digitali”. Ne è convinto il 75 per cento dei presidi (siamo al 25° posto). I docenti italiani sono vicini alla media Ocse, inoltre, per gli incentivi a disposizione per integrare i dispositivi digitali. E alla domanda se l’Italia dispone di personale tecnico qualificato, riprecipitiamo nelle zone basse dei grafici dell’indagine: sessantesimi, con l’asticella appena sopra il 40 per cento.

Questa situazione di ritardo tecnologico della docenza avviene mentre, parallelamente, gli studenti, in questo caso quindicenni, hanno computer nel loro corredo (il 90 per cento), dispongono nella media di posti tranquilli dove studiare (oltre il 90 per cento), hanno connessione (sfiorano il 100 per cento).

L’analisi è di questi giorni, ma si basa su dati di due anni fa. E’ certo che l’obbligo di clausura trimestrale per i nostri ragazzi abbia spinto in avanti, per necessità, le competenze e le qualità digitali dei docenti italiani. Si avverte adesso, con l’emergenza che si va spegnendo, la necessità di un lavoro più strutturale in questo campo.

Certificazione disabilità: sarà il medico di famiglia a rilasciarla per ottenere le ore di sostegno scolastico

da Orizzontescuola

di redazione

Gli studenti con disabilità potranno, prima di cominciare la scuola, farsi certificare dal medico di famiglia la disabilità, che permette di avere il sostegno.

Successivamente l’INPS farà gli accertamenti di legge necessari per ottenere i diritti della Legge 104 e quindi il sostegno scolastico.

La certificazione del medico di famiglia servirà per chi necessita di una prima certificazione.

Per chi invece ha bisogno di un rinnovo, l’INPS ha spiegato che l’attestato in scadenza resta ancora valido.

Questa procedura, richiesta dalle varie associazioni, si rende necessaria per il lungo periodo di chiusura dovuti al Coronavirus, durante il quale sono state bloccate tutte le visite dell’INPS:  bambini e ragazzi con disabilità non resteranno privi del diritto allo studio.

Anno scolastico 2020/21, necessario nominare medico competente per nuovi rischi docenti, ATA e studenti. Nota

da Orizzontescuola

di redazione

Nota 8724 del 19 giugno 2020 dell’Usr per l’Emilia Romagna. Anno scolastico 2020/21, materiali per la ripartenza: il medico competente.

L’Ufficio scolastico regionale emiliano sta diffondendo attraverso delle note i materiali utili per la ripartenza a settembre, dopo i mesi di chiusura delle scuole per il contenimento del covid 19.

La quinta nota, quella odierna, si riferisce alla figura del medico competente.

Fra gli obblighi non delegabili del datore di lavoro, si legge nella nota, il Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 811, all’art. 17 individua la “valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’art. 28”, il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR).

I rischi comunemente rilevati contenuti nel DVR sono: uso dei videoterminali da parte del personale ATA; rischio chimico, soprattutto nelle scuole in cui vi siano laboratori; livello di rumorosità nelle aule e negli altri spazi comuni, in modo particolare palestre e mense; movimentazione manuale dei carichi; lavoratrici in stato di gravidanza; stress da lavoro-correlato; e così via. La nota sottolinea il nuovo rischio: il covid 19. Proprio questo nuovo rischio, scrive l’Usr, impone ai Dirigenti scolastici un aggiornamento del DVR con le procedure e le modalità necessarie ad evitare, per quanto possibile, il rischio di contagio e ad affrontarlo ove esso si presenti.

Lo stesso Decreto Legislativo sopra citato, all’art. 18, obbliga il datore di lavoro, qualora i lavoratori risultino esposti a rischio, a nominare il medico competente. In ragione dell’attuale contingenza, ove qualche Istituzione scolastica non avesse ancora provveduto, dovrà pertanto, con ogni
urgenza, provvedere in tal senso.

Salute studenti

L’Usr quanto alla salute degli alunni, nella nota sottolinea che le Istituzioni scolastiche contattino le famiglie di tutti gli alunni informando che, (solo) in caso di sussistenza di particolari condizioni di rischio a conoscenza delle famiglie stesse, queste vanno attestate tramite l’invio, in forma riservata, della relativa documentazione sanitaria. Il suggerimento è dunque di attivarsi fin d’ora, con la collaborazione del medico competente, del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), per un aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi che tenga in debito conto anche le situazioni di “fragilità” degli alunni. Il riferimento è non soltanto
a condizioni collegate a certificazioni Legge 104/92, ma anche agli allievi allergici alle sostanze a base alcolica o alle diluizioni di ipoclorito di sodio, indicate per la pulizia e la disinfezione degli ambienti.

La nota

Scuole infanzia, Ascani: approvata intesa su riparto 264 milioni per 0-6

da Orizzontescuola

di redazione

Approvata l’intesa sul riparto di 264 milioni destinati allo 0-6. La viceministra all’istruzione Anna Ascani ne parla al Corriere della Sera.

Ieri in Conferenza Stato Regioni è stata approvata l’intesa sul riparto di 264 milioni destinati allo 0-6, ovvero a scuole dell’infanzia e servizi educativi. L’anno scorso l’avevamo fatto a dicembre, quest’anno arriviamo con sei mesi di anticipo. Nel Fondo ci sono 15 milioni in più che andranno alle Regioni che hanno meno strutture. Un sostegno convinto e doveroso a un settore cruciale, che ha sofferto più di altri per la pandemia, e alle famiglie. Un atto fondamentale per garantire i diritti ai più piccoli“.

La viceministra è tornata poi sulla questione inizio lezioni a settembre e voto: “Bisogna trovare una soluzione e individuare altri luoghi per votare, ma non dipende solo da questo ministero“.

Coronavirus, vaccinazione obbligatoria per docenti e over 65. Approvata una mozione

da Orizzontescuola

di redazione

Si tratta di una mozione che ha trovato unità tra maggioranza e posizione della Regione Lombardia con la quale si punta al rafforzamento della sanità territoriale ai fini del contrasto ad eventuali nuove ondate di Coronavirus.

Tra le proposte quella del tracciamento epidemiologico tramite test sierologici agli over 65, e ai conviventi in caso di positività. I tamponi saranno resi gratuiti, anche se seguiti dal test.

Altra iniziativa riguarda la vaccinazione antinfluenzale obbligatoria per i cittadini over 65, le categorie fragili e gli insegnanti. Lo scopo è di ridurre per il prossimo autunno-inverno la possibilità di confusione tra i sintomi  Covid-19 e quelli influenzali.

Ecco il testo della mozione con la parte relativa alla vaccinazione

Concorso docenti di Religione, per partire serve l’accordo con i vescovi: fioccano le polemiche

da La Tecnica della Scuola

È alla stretta finale il confronto tra ministero dell’Istruzione e Conferenza episcopale italiana per trovare la quadra sul prossimo concorso per gli insegnanti di Religione previsto dal decreto scuola approvato lo scorso dicembre.

L’avvio del tavolo

Come già rilevato, al tavolo, presieduto dalla dottoressa Lucrezia Stellacci, consigliere della ministra Lucia Azzolina, si dovrà definire l’intesa su come gestire il concorso da bandire entro il prossimo 31 dicembre, finalizzato a coprire i posti per l’insegnamento di Religione Cattolica che risulteranno vacanti e disponibili nell’arco del prossimo triennio.

Resta fermo, ha tenuto a dire il ministero, quanto previsto dal decreto di dicembre circa lo scorrimento delle graduatorie generali di merito del precedente concorso.

Il problema da risolvere è però soprattutto quello degli oltre 10 mila precari che nel corso degli ultimi 15 anni si sono venuti a creare. E il concorso ordinario, così come previsto dal decreto, sembra volerne stabilizzare solo una piccola parte.

Pittoni (Lega): il concorso non piace

Secondo il senatore Mario Pittoni, presidente della commissione Cultura a palazzo Madama e responsabile del dipartimento Istruzione della Lega, la soluzione ai problemi di reclutamento dei docenti di Religione non è affatto vicina.

“Non ci risulta – ha detto il leghista – che al tavolo Ministero-Cei, avviato oggi, si sia discusso modalità e tempistica del concorso per docenti di Religione, notoriamente poco condiviso dagli interessati nella formula espressa dal decreto Scuola 2019. Nel comunicato del ministero si esprimono obiettivi solo del ministero. E se Azzolina ha deciso di aprire l’ennesimo fronte contro i lavoratori della scuola, siamo pronti…”.

Lo Snadir rammaricato: dov’è il concorso riservato?

Anche lo Snadir ha diverse perplessità su come si sta procedendo. E ricorda che “l’intesa tra Cei e Ministero dell’istruzione per la predisposizione del bando di assunzione in ruolo non è materia prevista dalla legge 121/1985”.

Poi il sindacato avverte: “Deve essere chiaro a tutti che qualsiasi decisione finale dovrà essere a favore dei docenti precari di Religione”.

Lo scorso anno, nel febbraio del 2019, i sindacati “strapparono” la promessa a don Daniele Saottini, responsabile del servizio nazionale per l’Irc della Cei, di procedere ad un reclutamento tramite concorso “straordinario”, aperto ai precari che avessero maturato almeno 36 mesi di insegnamento con incarico su cattedra senza titolare.

“La successiva legge n. 159/2019 – ricorda ancora lo Snadir – ci dice che le cose, purtroppo, sono andate diversamente: a fronte di concorsi da attuarsi con procedure straordinarie per i precari delle diverse discipline, solo per i docenti di religione precari è stata prevista una procedura ordinaria da bandire entro il corrente anno 2020”: quella procedura, contenente una quota riservata ai precari storici, su cui ora il ministero vuole trovare un accordo con la Cei.

Prof di Religione discriminati?

Intanto, il primo sindacato dei prof di religione pone un altro problema: “il Decreto ministeriale n. 499 del 21 aprile 2020 ha previsto l’accesso al concorso ordinario di scuola secondaria di I e II grado anche per i docenti già assunti a tempo indeterminato senza il requisito dei 24 cfu in discipline psicopedagogiche e metodologie didattiche di cui al dm 616/2017. Il requisito di accesso è per loro l’abilitazione già in possesso per la classe di concorso richiesta oppure per altra classe di concorso o grado di istruzione”.

“C’è però un problema – prosegue lo Snadir -: il menu a tendina presente nel sistema di “Istanze on line” non permette di inserire il superamento del concorso ordinario di cui al DDG 2 febbraio 2004, riguardante la procedura concorsuale per l’immissione in ruolo degli insegnanti di Religione cattolica, come disposto della legge 186/2003. Ancora una volta, un’intera categoria di docenti si trova davanti all’ennesima discriminazione da parte di un’amministrazione sorda, pigra e incapace di dar risposte a tutte le donne e gli uomini che da anni subiscono gli effetti nefasti delle politiche economiche del nostro paese”.

Per tali motivi, lo Snadir ha inviato una lettera al Miur ricordando che il superamento di una procedura concorsuale “abilita” all’insegnamento l’avente diritto, come più volte ribadito nelle diverse disposizioni di legge, evidenziando quella che considerano “la palese discriminazione relativa all’impossibilità di far valere l’abilitazione all’insegnamento per gli insegnanti di ruolo di Religione cattolica, che hanno legittimamente superato un concorso per esami e titoli indetto con la citata L. 186/2004”.

“In diversa ipotesi – conclude il sindacato guidato da Orazio Ruscia – saranno intraprese tutte le iniziative giudiziarie a tutela dei legittimi diritti degli insegnanti di Religione cattolica”.

Tutti gli alunni in classe il 1° settembre e test sierologico per docenti, Ata, presidi

da La Tecnica della Scuola

“Dal primo settembre tutti in classe, con un piano pedagogico nazionale per il recupero del debito formativo accumulato negli ultimi mesi da tutti gli alunni e gli studenti; una roadmap rigorosa sulla sicurezza: dai test sierologici per il personale scolastico alla sanificazione di tutti i locali; e una riserva del 15% di tutti i finanziamenti pubblici e del 20% di quelli europei da destinare a scuola e infanzia”. Sono le priorità per la ripartenza della scuola formulate in dieci punti nella Risoluzione presentata il 19 giugno in Commissione Cultura della Camera da oltre venti parlamentari di tutti i gruppi politici di maggioranza.

I presentatori della Risoluzione

La Risoluzione – con cui si vuole stimolare il confronto con il Governo – è stata sottoscritta dai deputati Fusacchia, Lattanzio, Quartapelle, Muroni, Palazzotto, Toccafondi, Di Giorgi, Fioramonti, Ruocco, Siani, Magi, Nitti, Prestipino, Carbonaro, Frate, Gribaudo, Rizzo Nervo, Schirò, Siragusa, Ungaro, Villani.

Nel testo della risoluzione, che verrà discusso la prossima settimana con un ordine del giorno specifico, “la comunità scolastica ha subìto un colpo molto duro a causa del COVID-19, l’urgenza ora è recuperare il terreno perso e fare un salto di qualità nella gestione della crisi. In questi mesi l’assenza di servizi per la fascia 0-6, una didattica a distanza troppo spontaneistica e poco monitorata, e il mancato rientro a scuola hanno lasciato forti contraccolpi su studenti e famiglie. Riportare gli studenti a scuola deve essere la priorità di tutto il governo e il parlamento, non solo del ministero dell’Istruzione e della Commissione Cultura”.

Il problema dell’abbandono scolastico

Secondo i parlamentari della maggioranza, “la preoccupazione è chiara, la chiusura delle scuole ha prodotto un pericoloso aumento del tasso di abbandono scolastico, esacerbato le disuguaglianze e creato sacche di povertà educativa sempre più ampie, oltre che una generale sofferenza diffusa. Molti studenti e studentesse a casa non avevano accesso alla rete e ai device necessari a seguire le lezioni, e nei casi peggiori nemmeno a pasti equilibrati o a un ambiente protetto e sereno. La carenza di socializzazione e sostegno è stata inoltre particolarmente grave per gli studenti con disabilità”.

Il mese di settembre sia usato tutto

“L’estate – si legge ancora nel teso – rischia di essere una occasione persa e non si può tardare oltre: il mese di settembre sia usato tutto, e per tutti gli studenti. L’urgenza è chiara: costruire una scuola inclusiva, resiliente, capace di valorizzare il meglio dell’innovazione didattica e digitale recuperando la socialità e la compresenza, e che dal primo settembre sia all’altezza della sfida che abbiamo di fronte”, concludono i firmatari della risoluzione.

Pensioni, a settembre via oltre 30 mila docenti, 8.860 Ata e 363 dirigenti scolastici: rimpiazzarli sarà difficile

da La Tecnica della Scuola

Prende dimensioni sempre maggiori il numero di cattedre prive del docente titolare: alle oltre 100 mila già esistenti se ne aggiungono ora altre 29.900. L’ultima tranche di posti liberi dalla titolarità arriva dai pensionamenti che scatteranno il prossimo 1° settembre: il numero è stato ufficializzato dall’Inps, con un comunicato ufficiale del 19 giugno. In realtà si tratta di un numero che sfora i 30 mila pensionamenti, perché vanno aggiunti 446 insegnanti di religione e 99 educatori, che sono da equiparare ai docenti.

Gli altri che vanno in pensione

A lasciare il servizio saranno anche 8.860 assistenti amministrativi, tecnici e collaboratori scolastico e 363 dirigenti scolastici.

Per il personale Ata, stando anche al numero di assunzioni degli ultimi anni, si prevede un numero di immissioni in ruolo non molto superiore ai pensionamenti. Quindi si manterranno le attuali supplenze, superiori alle 10 mila unità.

Per i capi d’istituto, invece, scalpitano i vincitori dell’ultimo concorso, ma per una serie di motivi non tutti i posti che si andranno a liberare verranno coperti dal turn over.

Quanti docenti nuovi?

Per tutti i profili professionali, sempre in base a quanto dichiarato dell’Inps, c’è ancora da “lavorare” un ulteriore 3% di pratiche, che potrebbe innalzare il numero di pensionamenti di un ulteriore migliaio di lavoratori della scuola.

La domanda da porre, ora, è la seguente: ci sono i docenti precari per sopperire al numero di cattedre giù libere o che si apprestano a liberarsi? Sicuramente no. Perché i concorsi, anche quello straordinario della secondaria, sono slittati. E nelle graduatorie esistenti permangono solo poche decine di migliaia di candidati abilitati (nelle GaE) o vincitori delle precedenti procedure selettive (nelle cosiddette graduatorie di merito).

E allora? Al ministero di Viale Trastevere confidano nelle “call veloci”, volute dal Governo proprio per dare possibilità ai precari in odore di ruolo di spostarsi in province dove si dispensano più posti.

Poi, per i (tanti) posti che avanzeranno, al MI sperano nelle graduatorie d’Istituto trasformate in provinciali: una opportunità, davvero provvidenziale, giunta per volontà della maggioranza, in particolare del M5S, nella versione finale del Decreto Scuola dopo che inizialmente era stato spostato l’aggiornamento al 2021.

Al ministero si lavora

Al ministero dell’Istruzione stanno lavorando alacremente, assieme agli Uffici scolastici regionali, per digitalizzare le procedure e permettere anche di velocizzare i tempi di assegnazione delle supplenze.

Rimane il fatto dell’eccesso di posti da coprire: un numero così alto, oltre 100 mila, che non potrà non creare problemi alla ripartenza della scuola “vera” e ai dirigenti scolastici, che soprattutto alle superiori potrebbero essere costretti a ricorrere anche quest’anno a scegliere i candidati, soprattutto di classi di concorso particolari atipiche, utilizzando le Mad ed in certi casi addirittura i social media.

Riapertura scuole: il PD vuole risposte dalla ministra Azzolina

da La Tecnica della Scuola

Continua il pressing di sindacati e forze politiche sulla ministra Lucia Azzolina per saperne di più sulla riapertura delle scuole a settembre.
E’ delle ultime ore una richiesta di incontro del Partito democratico, come fanno sapere la responsabile scuola Camilla Sgambato e la senatrice Vanna Iori.

“Il vuoto creato dalla chiusura delle scuole, in seguito all’emergenza Coronavirus e i limiti della DAD rilevati in questi mesi – scrivono parlamentari e dirigenti dem – richiedono con urgenza soluzioni per la ripresa delle attività scolastiche, che rispondano ad alcuni obiettivi, resi prioritari dall’emergenza: il contrasto alla diseguaglianza attraverso una scuola inclusiva che permetta lo sviluppo pieno delle potenzialità di ciascuno; la predisposizione e la cura di contesti di apprendimento declinati secondo le diverse fasce di età, che accompagnino bambini/e e ragazzi/e nel ricostruire la trama di relazioni e la quotidianità della vita scolastica che hanno lasciato prima del lock down; il monitoraggio degli apprendimenti che persegua il valore formativo della valutazione”.
“Le istituzioni scolastiche, i dirigenti e gli insegnanti non possono essere lasciati soli nella riprogettazione della scuola a settembre – aggiungono – e accanto a Linee guida chiare e coerenti che scuole ed enti locali attendono su regole e suddivisioni delle responsabilità, e con una ricognizione degli spazi disponibili nelle scuole e nelle città siamo convinti che sia necessario istituire un patto di comunità che sancisca un’alleanza fra Scuola e Territorio (enti locali, agenzie culturali, terzo settore, etc.) capace di valorizzare le risorse umane, educative e culturali presenti nelle diverse realtà locali”.

Su cosa fare per raggiunge questi obiettivi, il PD ha pochi dubbi: ingenti investimenti sul personale scolastico, organico aggiuntivo di docenti, personale ATA, e distacco di figure di sistema (le cosiddette figure di staff); senza dimenticare la necessità di garantire il mantenimento del numero di dirigenze scolastiche.

Per la verità le richieste del Partito democratico dovrebbero essere rivolte non solo a Lucia Azzolina ma anche – o forse soprattutto – al Ministro dell’Economia Gualtieri (che guarda caso è appunto un esponente dem).
Vedremo nei prossimi giorni se il MEF potrà e vorrà rispondere al grido d’allarme che si sta levando dalle scuole di tutta Italia.

Concorso DSGA, in Lombardia ammessi all’orale in numero insufficiente a coprire i posti

da La Tecnica della Scuola

Il Concorso DSGA tra proseguendo, anche se in alcune Regioni ancora un po’ a rilento.

LEGGI: Concorso DSGA, prove orali: la situazione nelle varie Regioni

Tra gli USR che hanno pubblicato gli elenchi degli ammessi all’orale e i calendari di svolgimento delle prove c’è anche quello della Lombardia. La situazione però, in questa Regione, presenta alcune anomalie, rispetto al resto di Italia.

Come ha rilevato la Deputata del MoVimento 5 Stelle Virginia Villani, “vi è un netto divario tra i risultati delle prove scritte in Lombardia e quanto accaduto in tutte le altre Regioni. E’ alquanto anomalo, che in Lombardia, a fronte di 1.362 candidati ammessi agli scritti per coprire 451 posti a concorso, sono stati ammessi agli esami orali solo 207 candidati, pari al 15% degli ammessi agli scritti e al 45% dei posti a concorso. In tal modo resteranno vacanti 244 posti.”

Ho chiesto quindi ai Ministri Azzolina e Dadone – continua la Villani – di verificare le anomalie riscontrate nella procedura concorsuale per Dsga in Lombardia, anche tramite l’invio di ispettori del Ministero dell’Istruzione e dell’Ispettorato per la funzione pubblica. Trovare una soluzione immediata su questi due temi è importante: se anche il concorso terminasse in tempo utile per le assunzioni a settembre, non sarebbero comunque assunti tutti i vincitori a fronte di un’evidente e cronica vacanza di posti che la scuola non può sostenere oltre”.

Con un’interrogazione presentata alle due Ministre inoltre la Villani ha chiesto, per ovviare al problema della carenza di Dsga a settembre, “come sarà garantita la conclusione del concorso per Dsga in tempo utile per procedere alle assunzioni entro il 1° settembre 2020 su tutti i posti vacanti. Potrebbe essere considerata anche l’ipotesi di aumentare il numero massimo delle assunzioni stabilito annualmente dal Consiglio dei Ministri, nonché la soglia complessiva del 30% degli idonei o si rischia di trovarsi in carenza di personale”.

E per i Dsga facenti funzione senza laurea?

Per gli amministrativi facenti funzione di Dsga senza laurea era stata annunciata una procedura straordinaria, della quale però non si hanno tuttora notizie.

In proposito, il Coordinamento nazionale dei facenti funzione ha rivolto alcune istanze a Deputati e Senatori, denunciando la situazione in cui versano le segreterie scolastiche: circa il 35% (il prossimo a.s. 43%) delle scuole italiane è infatti senza DSGA e sono i facenti funzione che hanno “contribuito per quasi un ventennio al buon funzionamento delle istituzioni scolastiche“.

Ci sono 20 anni di sfruttamento in capo all’Amministrazione Pubblica, – si legge nella lettera del 17 maggio – qualcuno dovrà pagare per questa indecente condotta da parte di tutti gli organi di potere politico, amministrativo e sindacale, non certo chi ha onorato con il proprio lavoro il buon andamento della scuola italiana”.

Questi, in particolare, i punti evidenziati dal Coordinamento nazionale dei DSGAff:

  1. non abbiamo nulla in contrario al concorso ordinario, siamo contrari alla riserva dei posti al 30% applicata alla fine delle prove concorsuali, così è inutile;
  2. Chiediamo a gran voce una procedura riservata in deroga al titolo di studio, come previsto dal concorso ordinario, Vi ricordo che il 90% dei facenti funzione non ha il titolo di accesso;
  3. la Nota prot. 17702 del 12/11/2019 dell’USR Sardegna, chiarisce che il servizio svolto è riconosciuto per la mobilità professionale verticale in deroga al titolo di studio,
  4. l’ATP di Roma con Nota prot. 29697 del 19/11/2019, ha demandato la valutazione dell’idoneità al Dirigente Scolastico della scuola in cui il facente funzione presta servizio, che logicamente ha confermato l’idoneità dello stesso, per evitare di annullare tutti gli atti d’ufficio, per il presente e per il passato, firmati con incarico di DSGA da parte del facente funzione;
  5. le procedure previste dal CCNI con le quali si stabiliscono i criteri per la sostituzione del DSGA della propria scuola, il titolo di studio è previsto solo come preferenza e non come requisito di accesso.
  6. l’ATP di Roma come quello delle altre provincie, da come priorità nello stilare le graduatorie provinciali per la sostituzione del DSGA la seconda posizione economica, poi il servizio svolto in precedenza e alla laurea da solo un punteggio;
  7. Concorsi per soli titoli A.T.A., i DSGA non sono ATA?

Serve una procedura riservata

Il Coordinamento nazionale dei DSGAff evidenzia dunque che per risolvere questa annosa situazione sarebbe sufficiente avviare una procedura concorsuale riservata ad hoc. “Questo sarebbe possibile – conclude la lettera – senza in nessun modo ledere i diritti di chi partecipa al concorso ordinario poiché vi è la disponibilità dei posti per entrambe le procedure”.

Concorso docenti di Religione, sarà bandito entro il 2020

da La Tecnica della Scuola

Nella mattinata di oggi, 19 giugno, si è svolta la  prima riunione del Tavolo di lavoro congiunto tra il Ministero dell’Istruzione (MI) e la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) per l’approfondimento delle diverse tematiche che riguardano l’insegnamento della Religione Cattolica e per la definizione dell’intesa sul prossimo concorso per gli insegnanti di Religione previsto dal decreto scuola approvato lo scorso dicembre.

Il concorso sarà bandito entro il 2020, dopo la sottoscrizione di un’Intesa tra MI e CEI.

L’obiettivo è di chiudere questo accordo in tempi brevi, per  procedere poi con la stesura del bando.

Questo consentirà al Ministero di procedere con l’emanazione del bando di concorso nei tempi previsti per coprire i posti per l’insegnamento di Religione Cattolica che risulteranno vacanti e disponibili nell’arco del prossimo triennio.

Resta fermo quanto previsto dal decreto scuola riguardo allo scorrimento delle graduatorie generali di merito del precedente concorso.