La comunicazione in famiglia

La comunicazione in famiglia

di Margherita Marzario

Abstract: L’articolo scandaglia i meccanismi profondi della comunicazione intrafamiliare evidenziando percorsi virtuosi e circoli viziosi.

Tra genitori e figli (nella famiglia in generale) non dovrebbe esistere la telecomunicazione ma la comunicazione, non dovrebbe esserci un filtro tra i legami ma un feltro dei legami, invece così non è.

“La comunicazione non è un dato, ma un miracolo. Ma un miracolo che accade e ci fa desiderare di poterlo ripetere” (dal pensiero del filosofo Paul Ricoeur): così dovrebbe essere la comunicazione nella coppia sino ad estendersi alla comunicazione familiare. La comunicazione è ciò che arriva nel profondo e fa sì che non si cada nello sprofondo e non si subisca un affondo.

In base al secondo assioma della comunicazione dello psicologo Paul Watzlawick, in ogni comunicazione c’è un aspetto di contenuto ed uno di relazione. Il contenuto è cosa si sta comunicando. La relazione esprime il tipo di rapporto che quella comunicazione sottende (il classico esempio è la frase “Chiudi la porta”, che esprime un contenuto, cioè la richiesta di chiudere la porta, che a seconda del tono pacato o aggressivo rivela due tipi di relazioni diverse con l’interlocutore). La relazione è essa stessa comunicazione; e solo una relazione forte e significativa può dar senso al contenuto. Curare una buona ed efficace comunicazione nella coppia è garantire quell’assistenza morale e materiale di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ. da cui discende pure l’assistenza morale che si deve ai figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.).

L’art. 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia disciplina l’ascolto dei bambini nei procedimenti. Non bisogna attendere un procedimento per riconoscere ad un bambino la possibilità di essere ascoltato perché ogni giorno è un “procedimento”. Ah, se si ascoltassero di più i bambini! Anzi basterebbe osservarli (dal mangiarsi le unghie all’avere uno sguardo perso) o dedicare loro il silenzio (lontani da telefonate o altra routine). Uno dei problemi di oggi, e causa di parte dei problemi di oggi, è la mancanza degli adulti: molti fanno come i bambini che vogliono tutto, subito e senza sforzi ignorando responsabilità (“rispondere”) e sacrificio (“fare cosa sacra”), che sono richiesti dalla vita. I bambini, che hanno il diritto di essere bambini, per essere tali e per crescere come tali, hanno bisogno di avere accanto e di fronte adulti con cui confrontarsi e scontrarsi, da imitare e da cui distaccarsi.

Lo psichiatra Federico Tonioni scrive: “Ci sono delle responsabilità, questo è fuori dubbio. Ma a fare mea culpa dovremmo essere tutti noi adulti, perché l’era digitale l’abbiamo inventata noi, e perché siamo noi i primi a mettere nelle mani dei bambini telefonini, videogiochi portatili, applicazioni e tutto quanto è possibile per distrarli, viaggiare in macchina in silenzio e stare tranquilli. Lo facciamo anche a casa, perché non esiste una baby-sitter più funzionale e a basso costo di questi strumenti”. Spesso sono i genitori a indurre i figli verso le dipendenze tecnologiche con abitudini sbagliate sin dai primi mesi di vita: far mangiare i piccoli davanti a tablet, farli addormentare con dispositivi accesi, fotografarli o filmarli in continuazione, farsi vedere nel manipolare frequentemente congegni elettronici e altro ancora. I bambini dell’era digitale non sono diversi dagli altri bambini di qualsiasi altra epoca: hanno bisogno di attenzione ed emozione, relazione e comunicazione. E l’amore genitoriale ha sempre comportato fatica anche interiore e impegno quotidiano e non c’è nessun surrogato che susciti gli stessi affetti ed effetti.

I genitori devono: avere fermezza, che non è imposizione ma essere sicuri e dare sicurezza, stabilità, fiducia. Chiarezza nella comunicazione, ovvero né paroloni né spiegazioni scientifiche né edulcorazioni ma precisione in quel che si dice, specchio di quello in cui si crede e che si persevera. Regole: evitare il “non si fa così, perché si fa proprio così o perché lo dico io”, ma “facciamo così perché è più opportuno, più giusto, più…”, per inculcare rispetto, reciprocità e responsabilità, per indurre anche a pensare, reagire, contraddire, per far abituare al no che esiste nella vita e nei rapporti interpersonali, altrimenti si arriva a conseguenze estreme quando non si riesce ad elaborare fallimenti o rifiuti da parte degli altri (come suicidi o violenze sulle donne). Autorità, che non è autarchia o autocrazia, “qui comando io, scelgo io per te, decido io perché sono tuo padre o tua madre”, ma rivelarsi co-autori della vita, spingere all’autonomia, promuovere la vita, come fanno materialmente i genitori quando spingono le carrozzine o i passeggini o i figli in bicicletta o sull’altalena. Rigore, che non è rigidità, ma una “riga” di valori da conseguire e valori da perseguire, indicare un orizzonte. Severità, che non è infliggere sevizie. Rimproverare, che non è maltrattare o umiliare o mettere in punizione, ma richiamare al vero e bello della vita per sé e per e con gli altri.

Bambini e ragazzi non hanno bisogno di sermoni, predicozzi, paternali, ma di pratica, pratiche, prassi e prassia, anche nell’educazione all’ascolto da cui deriva, poi, l’obbedienza (basti analizzare l’etimologia di “ascoltare” – che è la stessa di “auscultare” – e di “obbedire”, verbi che fanno riferimento ad una dimensione interiore e interpersonale). La vita in famiglia deve essere una sorta di apprendistato in cui mettere mano in tutto ciò che serve per acquisire le competenze essenziali ed esistenziali (nel Preambolo e nell’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si dice che “occorre” o si “deve” “preparare il fanciullo”). Il pedagogista Daniele Novara spiega: “La capacità d’ascolto, così come la intende e la pretende il genitore dei nostri tempi, risulta molto difficile sia ai bambini che ai ragazzi. Entrambi lontani dalla concentrazione necessaria per fare proprie spiegazioni, incitazioni, esortazioni e quant’altro. Il discorso di due, tre minuti rischia di creargli solo confusione. L’adolescente vive nel bisogno di sfuggire al controllo dei genitori e, anche per lui, l’ascolto è un’impresa al limite del possibile. Meglio essere pratici”.

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman precisa: “Il monologo è più sicuro di un dialogo. Impegnandosi in un dialogo, ciascuno di noi rischia di esporre la propria fiducia in se stesso ai capricci del destino, oppure al pericolo di perdere un confronto ed essere smentito. Sono tutte esperienze dannose per la stima di sé e per la pace spirituale, dunque sono di solito rigettate o possibilmente evitate. Piuttosto che affrontare gli azzardi del confronto, si preferisce quindi il monologo, che di solito va di pari passo con il negare diritto di parola a chi porta visioni e opinioni contrarie, che non vengono prese in considerazione seriamente”. I bambini vanno educati al dialogo per lo sviluppo armonico della personalità. Costruttive sono le esperienze artistiche e culturali, come si ricava dalla Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (atto non prescrittivo presentato a Bologna nel 2011), in particolare dall’art. 13: “I bambini hanno diritto […] a una cultura laica, nel rispetto di ogni identità e differenza”. L’assurdo della vita (o di quella che, spesso, è una “non vita”) familiare di oggi: si deve parlare di diritto per far valere quella che dovrebbe essere una situazione normale, fondamentale, vitale, come la relazione con entrambi i genitori e conseguentemente con i nonni.

“Asservito in questo modo a una dimostrazione, il povero dialogo si svolgeva ammanettato di fronte a un tribunale invisibile. Invece dev’essere una creatura allo stato brado, il dialogo, e le sue parti possono avere tutte torto o venirsi incontro sulla spinta di istinti, sentimenti altre variabili” (Erri De Luca in “La doppia vita dei numeri”). Nella coppia e in famiglia si recuperi il dialogo e non si arrivi in tribunale per guardarsi in faccia e non riconoscersi più. Nelle difficoltà bisogna trovare insieme un passaggio e sostenersi per passare dall’altra parte, soprattutto se vi sono i figli che aspettano e s’aspettano che vada così.

In quasi tutte le fonti normative, a cominciare dall’art. 29 della nostra Costituzione, la famiglia è definita “naturale”, che deriva da “nascere”. La famiglia di oggi deve recuperare questa naturalità o naturalezza (che può chiamarsi “ortopatia”) e chiedersi da dove la famiglia nasca e cosa e chi faccia nascere e, per questo, è necessario o può rendersi necessario il sostegno di qualcuno che, in passato, era insito nel parentado o nel rapporto di vicinato. «La cultura diffusa tenta di inquinare addirittura le sorgenti dell’autentica comprensione dell’uomo e della donna. La famiglia si alimenta proprio della bellezza antica e sempre nuova della relazione della donna con l’uomo, e ciò presuppone un processo complesso di mentalizzazione obiettiva del maschile e del femminile fortemente radicato nella corporeità e nell’organizzazione emotiva dell’uomo e della donna. Oltre ad un’ortodossia, un’ortoprassi, ci serve oggi anche un’ortopatia, ossia una rinnovata capacità di equilibrio emotivo e relazionale nelle persone e tra le persone che compongono il sistema familiare. L’ascolto attento e competente offerto nei consultori familiari può molto contribuire a riarticolare il discorso familiare e la conversazione tra i coniugi e genitori. Riabilitare il dono della parola ed aiutare a verbalizzare emozioni e valori è la strada maestra della consulenza familiare e l’inizio di ogni percorso autenticamente terapeutico» (dagli Atti del XVIII Convegno Nazionale della CFC “Il futuro nelle nostre radici”, presso l’Università Cattolica a Roma, 14 aprile 2018).

La comunicazione è un bisogno e un diritto, è determinante per l’essere persona tanto che per la tutela di coloro che hanno qualche difficoltà esiste la Carta dei diritti della comunicazione (1992) e di comunicazione si parla diffusamente nelle “Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza” (a cura dell’AICS, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, 2021) e precisamente  vi è scritto che “La comunicazione svolge un ruolo fondamentale nella crescita e nel corretto sviluppo psico-fisico dei minori fin dalla più tenera età” (punto 4.9 “Comunicazione”).

Come nei casi di afasia c’è il coinvolgimento dei familiari per aiutare la singola persona per aiutarla ad uscire da questo stato così la famiglia faccia di tutto per uscire dall’afasia in cui è caduta: si torni a parlare, dialogare, comunicare e anche a litigare perché significa che ci si guarda, ci si considera, si “con-fligge” ma ci si ritrova.

Cultura della valutazione a scuola

Cultura della valutazione a scuola. L’anomalia italiana in Europa
Il “valore reale” di una certificazione deve corrispondere al suo “valore legale”? 

di Francesco Scoppetta

Il dibattito sulla valutazione (di sistemi scolastici o delle scuole o degli insegnanti) non si può dire che in Italia sia stato assente, ma oggi si può ben constatare come abbia prevalso una intenzione politica precisa: lasciare le cose come stanno. In un saggio del 15/5/2011 (Pino Patroncini, De merito. I sistemi di valutazione nei Paesi dell’Unione Europea, in www.flcgil.it), ad esempio, la situazione europea è ben descritta, ma, a rileggerlo, dopo 10 dieci anni dalla sua pubblicazione, alcune affermazioni balzano agli occhi.

CAUTI. NON CE LO ORDINA IL DOTTORE

La premessa di tutto il discorso è: “…Questo dovrebbe imporre a tutti di andarci più cauti su aspetti di questo genere. Non esiste un modello unico collaudato di valutazione di sistema. Perciò se si vuole diffondere una cultura della valutazione piuttosto che copiare a caso o inventarsi un altro sistema ancora sarebbe meglio partire dalla diffusione e dalla discussione diffusa dei dati che ci sono già. Quanto alla valorizzazione del lavoro degli insegnanti, più che da una valutazione che ancora è tutta da costruire, se proprio si vuole partire con un ragionamento di carriere (comunque non ce lo ordina il dottore!) si può partire dai più evidenti scompensi retributivi: che dire, ad esempio, delle maestre, che oggi si pretendono laureate, e che ancora si tengono bloccate al sesto livello?”.

A forza di tanta cautela e prudenza che i sindacati ci hanno inculcato si può forse sperare che ai posteri consegneremo un sistema perfetto, nel frattempo il fuoco di sbarramento ancora oggi si avvale degli stessi identici slogan (Non ce l’ ha ordinato il dottore/ Non bisogna copiare a caso un altro sistema) e così il tempo che passa inesorabile ha scavato un solco ormai incolmabile con gli altri paesi. Se mi si consente di fare un esempio calcistico (alla stregua di Alessandro Baricco) il discorso sulla valutazione nella scuola assomiglia alla esaltazione del gioco “all’italiana” che per molti anni è stato presente nel dibattito calcistico. Sembrava che non dovessimo snaturare il nostro dna guardando a come giocavano le squadre straniere, a cominciare dagli olandesi. Oggi si è capito che per ottenere vittorie e risultati ci sono in altri paesi pratiche teorie e metodi da studiare e adottare, insomma una contaminazione culturale nel calcio è ormai avvenuta. Nella scuola italiana al contrario sembra, a livello culturale, che nessun straniero abbia niente da insegnarci o da suggerirci.  Ciò detto, in tema di valutazioni, nel 2021 si possono incidere sul marmo le tre affermazioni seguenti:

1) IL MERITO E’ UN’ENTITA’ METAFISICA “Anche qui bisogna sfatare alcune credenze diffuse. Innanzi tutto quella che riguarda il cosiddetto merito, entità metafisica di difficile definizione, per altro”.

2) LA VALUTAZIONE E’ NEOLIBERISTA “…negli anni Novanta il tema della valutazione ha preso una piega più aziendalista e neoliberista, un po’ dovunque nel mondo, parallelamente a quello che avveniva nel resto del sistema economico (pensiamo ai controlli di qualità o di processo o all’ISO 9000) “

3) CI FA COMPAGNIA LA FINLANDIA “Comunque non è vero che l’Italia sia l’unico paese che non riconosce il merito. E’ in compagnia di ben 11 altri paesi UE: Belgio, Repubblica Ceca, Spagna, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Austria, Finlandia e Scozia. Poi quella riguardante le carriere: in primo luogo non è vero che le carriere siano di per sé di stimolo per la qualità degli insegnanti e della scuola. La scuola migliore d’Europa, quella finlandese, non prevede nessuna carriera. Uno nasce insegnante e muore insegnante, a meno che, come da noi, non faccia il concorso a preside”.

Cominciamo da quest’ultima affermazione che rende secondarie le prime due, nel senso che chi per ideologia (con al fondo quella specie di minoritarismo compiaciuto che arrivava nei Sessanta a disprezzare i Beatles perché piacendo a troppi significava che facessero musica “commerciale”) squalifica tutti gli altri sistemi scolastici europei definendoli “aziendalistici” o “neoliberisti” e fa assurgere il merito ad un’entità metafisica, poi è costretto ad arrampicarsi sugli specchi con il riferimento alla scuola migliore, quella finlandese. Il discorso, per quanto mi riguarda, potrebbe partire da qui e anche chiudersi qui se tutti, nessuno escluso, concordassimo che la scuola finlandese sia realmente una scuola modello. Se è un modello, secondo me e tutti quelli che ragionano come me, non dico che bisognerebbe copiarla ma quantomeno trarvi ispirazione. La gente di scuola che non sa riconoscere i grandi maestri è un po’ inquietante. Affermare che è un modello ma soltanto per corroborare una bugia (essa non prevede nessuna carriera insegnante) nel tentativo di sostenere la propria tesi ideologica (gli insegnanti italiani non devono avere una carriera e devono essere pagati tutti allo stesso modo) non è corretto.
La scuola finlandese è un sistema scolastico molto diverso dal nostro, basti pensare che prevede un periodo di scuola dell’obbligo di durata settennale, dai 7 ai 16 anni. Un sistema dunque che non ha la nostra netta divisione tra l’istruzione primaria e secondaria. La materna non esiste praticamente e i bambini abitano un paese che presume la possibilità di imparare giocando prima dei sette anni. Fino ai 13 anni sono previsti pochissimi esami, pochissimi compiti e quasi nessuna valutazione. Valutazione che ci sarà solo al termine del ciclo di studi e che assume la forma di una sorta di test. A conclusione del periodo di scuola obbligatoria i ragazzi e le ragazze possono optare per una specie di liceo e per una scuola professionale. Il primo viene strutturato ed organizzato come fosse un percorso triennale di preparazione all’università. La cosa curiosa è che i tre anni non prevedono l’obbligatorietà della frequenza per tutti gli anni perché se si opta per questa scuola si sostengono gli esami di ingresso all’università quando si ritiene di esser pronti. La scuola professionale prevede un percorso triennale che prepara ad affrontare il lavoro oppure a frequentare altri due anni di formazione universitaria professionale. Bene, aggiungo che alcune ragazze finlandesi sedicenni le quali hanno trascorso un periodo di studio nell’istituto tecnico che dirigevo mi dicevano che la loro “materia preferita” in Finlandia era “il bosco”. Una materia che si insegna soltanto all’aperto attraverso la scoperta delle loro foreste, della flora e della fauna. Una materia, preciso, che fa parte delle pochissime materie obbligatorie, perché gli studenti possono optare per le materie che considerano più affini ai loro interessi e predisposizioni. Questo per dire che quella scuola modello è costruita su presupposti culturali e ambientali molto forti, ma pur tuttavia una delle differenze fondamentali con il nostro paese è proprio il ruolo dell’insegnante, che ha uno status di professionista di importanza sociale. Gli insegnanti in Finlandia non hanno una carriera non perché sono appiattiti come i loro colleghi italiani sugli scatti di anzianità ma soltanto perché la selezione per insegnare è durissima: il 10% dei migliori laureati di qualunque facoltà viene preso a fare l’insegnante. Il percorso prevede un periodo di formazione di tipo pedagogico che si accompagna, nel corso della carriera, ad una continua formazione anche pratica. Gli insegnanti in Finlandia hanno riconoscimento sociale e guadagnano molto però trascorrono a scuola l’intera giornata e, ogni quattro ore di lezione, hanno diritto a due ore di perfezionamento professionale. Gli insegnanti vengono assunti dopo una valutazione fatta dal preside della scuola, da altri insegnanti e anche da un rappresentante del comune in cui si trova la scuola in questione. Non vi è dunque un controllo ministeriale ma essi vengono considerati dei professionisti e dunque sono passibili di licenziamento da parte della stessa scuola. L’insegnamento è considerato una vera e propria risorsa in Finlandia, un paese che investe sulla scuola addirittura oltre il 7% del suo PIL (noi, dati 2018, siamo al 4%).

Quando si parla di “Valutazione” ci si riferisce a due concetti diversi che tuttavia si intrecciano: la “valutazione degli insegnanti” e la “valutazione degli apprendimenti”. Pertanto le valutazioni in Europa presentano modelli diversi, nel prosieguo ci soffermeremo su quelle dei paesi più importanti, ma certamente il nostro modello “all’italiana” rappresenta nel panorama europeo un’anomalia.

Come si è capito parlando della scuola finlandese è del tutto evidente che ogni sistema faccia una scelta a monte. Se in ingresso selezioni rigorosamente gli insegnanti e ogni scuola può liberamente scegliersi i migliori, non hai motivo di controllarli durante la loro carriera. Se viceversa si entra in ruolo dopo essere stati precari e magari senza concorso ma con corsi abilitanti o sanatorie, tale sistema a maglie larghe deve valutare gli insegnanti periodicamente. Il caso italiano è anomalo in Europa perché la libertà d’insegnamento è diventata la nostra coperta di Linus, con una qualsiasi laurea puoi fare l’insegnante e una volta assunto a tempo indeterminato nessuno ti controlla più.  Non abbiamo infatti una valutazione degli insegnanti, la loro carriera (come quella dei magistrati) è basata soltanto sugli scatti di anzianità, tutti prendono lo stesso stipendio perché il merito abbiamo deciso che non si può misurare. Così come ogni magistrato è sottoposto soltanto alla legge, allo stesso modo ogni docente si sente garantito dall’art. 33 della Costituzione che viene interpretato dalla scuola militante come libertà di voto (per cui la stessa valutazione finale decisa collegialmente sarebbe un vulnus costituzionale!). Così i padri costituenti che avevano sancito quella libertà per bandire un regime che imponesse ai professori il giuramento di fedeltà al fascismo, non potevano immaginare di aver prescritto addirittura la formula “il voto è mio e ne dispongo come voglio”. Gli insegnanti italiani non sono valutati ma il guaio è che non sono neppure valutati gli apprendimenti, dal momento che gli esami, pensati come controlli del sistema, non funzionano più. Gli esami di terza media e quelli di Stato (la vecchia Maturità) non sono più controlli credibili.

Lo Stato italiano nel rapporto con il suo sistema di istruzione potrebbe dunque essere paragonato ad un produttore cinematografico che non visionasse un film finito da lui finanziato perché tanto ormai quel che è fatto è fatto.

Un alunno italiano nel suo percorso scolastico, nel suo passaggio da una classe ad un’altra, da un grado all’altro sino alla università, riceve valutazioni diverse (intuitive e discrezionali) nelle varie materie da insegnanti e docenti che spesso e volentieri entrano tra loro in conflitto. Le discussioni all’interno dei consigli di classe vertono sui voti e questo chiunque vi abbia partecipato lo sa bene. Voti estremamente positivi entrano in contrasto con voti negativi provocando incessanti discussioni sul “valore” reale dell’alunno. I professori di manica larga discuteranno con quelli rigidi, i difficili con i facili, i severi con i buoni. Cari studenti “non siete i voti che avete preso, siete molto di più”. O di meno, perché no? Alla fine della giostra un nostro laureato si presenta ad un colloquio di lavoro, in Italia o all’estero non importa. Che sai fare? gli chiede l’imprenditore e il giovane si limita ad esibire pagelle, diploma e laurea, magari anche attestati di lingue straniere e di competenze informatiche. Le competenze reali corrisponderanno a quelle certificate? Ecco il grande problema del nostro sistema scolastico, non riconosciuto come tale dagli addetti ai lavori. Questo problema concerne la valutazione e l’accountability dell’insegnamento. Per ogni promozione, ai voti positivi quali saperi e saper fare corrispondono? Il valore legale del titolo di studio in Italia ormai serve solo per i concorsi pubblici. Chi va all’università, non a caso, deve fare un test di ingresso, perché del voto di Maturità gli atenei non si fidano.

Il 28 ottobre 2021 è stata varata una nuova legge per le “lauree abilitanti” che si aggiungono a Medicina. L’esame di Stato per svolgere determinate professioni (Farmacia, Psicologia, Odontoiatria, Veterinaria) non sarà più necessario e basterà conseguire la laurea. Per facilitare l’accesso dei giovani al mercato del lavoro basterà il titolo legale ad abilitare all’esercizio delle professioni senza bisogno di svolgere un tirocinio pratico post lauream. Un altro passo lungo la strada da fare affinchè il titolo legale incorpori un valore reale di competenze. Di cosa stiamo parlando? Dell’anarchia certificativa, nella quale il “valore reale” di una certificazione non corrisponde al suo “valore legale”. 

La prima esperienza che feci da dirigente in un test preliminare per un concorso scolastico fu istruttiva. Eravamo in un laboratorio di informatica e i candidati avevano 90 minuti per finire la prova, ciascuno davanti al suo computer. Alla fine passavo con una chiavetta per dare il risultato finale. In quel minuto di attesa ogni candidato esprimeva il suo stato d’animo. Tutti quelli che mi dissero di aver studiato per affrontare la prova la superarono, mentre gli altri che apparivano incerti perchè ci stavano solo provando, non furono ammessi, ma se ne fecero subito una ragione. Fu la prima volta in cui vidi che anche in Italia un concorso può essere svolto celermente, in modo regolare e senza recriminazioni. Anche chi non lo supera apprende che non basta provarci, la prossima volta devi studiare.   

Se un insegnante entra in classe e legge il giornale lasciando liberi gli studenti di far quel che vogliono, alla fine sulla carta contabilizzeremo un’ora di lezione per il docente, un’ora di frequenza per gli alunni ma nessun apprendimento. “Che cosa apprendono” i nostri studenti? Ecco la domanda che in Italia viene rimossa, anzi non interessa per niente.

Già Paola Mastrocola ha spiegato bene la differenza tra “andare a scuola” e “studiare”, ma occorre aggiungere che possono esserci ore (addirittura si chiamano così anche quelle di 50 minuti) di insegnamento effettivo che non producono alcun apprendimento, rendendo la scuola tempo perso.

La scuola inclusiva, che non lascia indietro nessuno, dovrebbe considerare anche gli apprendimenti, altrimenti potremmo provare a far rientrare la nostra “dispersione” nei parametri europei (10%) giusto se riportiamo a scuola quelli che l’hanno abbandonata. Senza controllare però se insieme con la frequenza ci siano o non ci siano apprendimenti.

Che cosa devono apprendere gli studenti in Italia nelle scuole superiori è disposto, si chiamano “risultati di apprendimento”, ma essendo tanti e generici nessuno vi fa caso, e così essi si “presumono” ci siano in presenza delle promozioni deliberate dai consigli di classe.

In Italia, e in alcuni Paesi europei, la valutazione degli apprendimenti è regolata da norme nazionali soltanto per gli aspetti formali e non entrano nel merito di criteri e modalità che vengono stabiliti, invece, a livello scolastico dal Consiglio di Classe e dal Collegio dei Docenti. L’adozione di criteri comuni di valutazione riguarda la singola Istituzione scolastica autonoma e, pertanto, a livello nazionale non c’è uniformità di criteri e metodi. Inoltre, una disomogeneità degli esiti valutativi deriva dalla mancanza di standard e procedure nella preparazione delle verifiche in funzione delle prestazioni attese.

Nella pratica della vita quotidiana la patente di guida si consegue attraverso scuole che offrono una serie di lezioni teoriche e pratiche. Ma alla fine tutti, scuole, aspiranti guidatori, loro genitori e società sanno bene che la patente viene rilasciata (tranne eccezioni-reato che nel nostro mondo imperfetto ci sono sempre) a chi “sa guidare” e “conosce il codice della strada e altre nozioni importanti”. Che cosa l’aspirante guidatore deve sapere e saper fare è chiaro a tutti. Perciò si fanno i test e la prova pratica. A scuola invece non è così lineare, la promozione non è correlata al saper fare. Così tutti sono alla ricerca di scuole o università facili che promuovano senza troppe storie.

Abbiamo buttato il bambino con l’acqua sporca, abbandonata la selezione, a favore della scuola di massa (“non devono esistere scuole di serie A e B”), però non ci interessa neppure la “valutazione degli apprendimenti”. Il motivo viene spiegato in maniera molto semplice definendo tale valutazione come il cavallo di Troia per far passare la valutazione degli insegnanti.

In realtà è quel che è successo dagli anni novanta in molti paesi, si è cominciato con la valutazione della carriera degli alunni e poi si è passati a valutare la qualità delle scuole, fare classifiche ai fini delle iscrizioni, o valutare indirettamente gli insegnanti. Ecco spiegato il fuoco di sbarramento preventivo ogni volta che si pronunciano parole-allarme come “test”, “Invalsi”, “prove oggettive”, “curricolo nazionale”.

L’anomalia italiana sta tutta in una operazione ideologica che considera non trattabile la questione salariale degli insegnanti. Essendo limitate le risorse si preferisce che tutti abbiano lo stesso modesto stipendio e si arriva a negare che una “carriera” dei docenti possa rappresentare uno stimolo, un incentivo, una spinta gentile a migliorare il sistema.  

In realtà dico subito che la qualità della nostra istruzione pubblica cambierà davvero e sul serio nel momento in cui verrà condivisa l’affermazione espressa dal prof. Umberto Galimberti, “una persona non empatica non può fare il professore”. Al momento è solo la voce di un bimbo che riesce a gridare con innocenza “Ma il re non ha niente addosso” come nella fiaba di Andersen. E’ il paradosso italiano, tutti sappiamo e abbiamo visto cosa succede nelle nostre aule ma poi chiudiamo gli occhi e osserviamo soltanto il titolo di studio e facciamo concorsi per valutare la preparazione sui programmi. Solo che gli insegnanti dovrebbero essere scelti anche in base a criteri emotivi e non solo conoscitivi, così come non dovremmo arruolare poliziotti e giudici coraggiosi quanto don Abbondio.

Insomma, si preferisce mettere la testa sotto la sabbia ed evitare il confronto con le altre realtà scolastiche che ci superano proprio nei due elementi essenziali, i migliori risultati di apprendimento degli allievi e i dignitosi stipendi degli insegnanti. Se infatti ogni sistema che presenta stipendi differenziati per gli insegnanti è seppellito con l’etichetta di neoliberismo imperante e scuola-azienda, è conseguenziale che non interessi affatto la questione cruciale e fondamentale, gli apprendimenti degli alunni.  Un sistema efficace e funzionante, come vedremo fanno tanti paesi europei, ha il dovere di controllare che voti e risultati di apprendimento degli studenti siano comparabili su tutto il territorio italiano.

Capita di leggere affermazione del genere (Pino Patroncini) “A tutt’oggi, a dimostrazione che l’Italia non sarebbe l’unico, non si avvalgono di questa valutazione degli apprendimenti altri 5 paesi UE (Austria, Slovacchia, Cipro, Danimarca e Bulgaria)”.

In Austria esiste però un programma scolastico stabilito a livello centrale, che dev´essere rispettato e che è valido per tutte le scuole per garantire che venga impartita un’istruzione ampia ed approfondita. 

Paragonare poi la Danimarca all’Italia è soltanto grottesco. I danesi spendono per l’istruzione il 6,7% del Pil e sono uno dei sistemi migliori in Europa. Si pensi che l’istruzione è obbligatoria dai 5 ai 19 anni e il sistema è duale come in Germania (da noi il duale è un altro grande tabù quanto l’empatia). Il sistema scolastico danese è regolato dallo Stato nella definizione degli obiettivi formativi per ogni materia, cui deve puntare ogni istituto scolastico. Ogni scuola è però libera di organizzare le lezioni e gli argomenti di insegnamento a sua discrezione. In Danimarca non esiste la “scuola dell’obbligo“, ma piuttosto l’”educazione dell’obbligo“. La legge non sancisce l’obbligatorietà della frequenza scolastica, ma dell’educazione. Esistono, dunque, diverse alternative alla scuola pubblica danese (Folkeskole), che spesso consistono in scuole private, collegi (Efterskole) e scuole religiose. Potenzialmente, data l’obbligatorietà dell’educazione per sé, sarebbe possibile educare i figli anche in famiglia, a patto che vengano rispettate le linee guida nazionali di cui si parlava in precedenza.

L’89% dei giovani danesi frequenta la scuola pubblica. Alla fine della scuola dell’obbligo gli studenti possono scegliere fra due tipi di esami: uno di licenza normale da fare dopo il nono o il decimo livello, l’altro di licenza avanzato da fare solo dopo il 10 livello. Comunque gli esami sono facoltativi. Inoltre non esiste la media perché ogni materia viene valutata individualmente. Oltre ai corsi professionali, in Danimarca esistono due tipi di scuola secondaria non professionale: il gymnasium, dalla durata di tre anni, che prepara gli studenti a studi universitari e i corsi HF che preparano gli studenti ad affrontare gli esami a livello superiore in una o più discipline.

Un QUADRO RIASSUNTIVO ci dice che valutano sia le scuole che gli insegnanti il Portogallo, l’Irlanda, il Regno Unito, la Francia, la Germania, la Polonia, la Repubblica Ceca,la Slovacchia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, l’Olanda, Cipro e Malta.

Valutano invece solo le scuole la Spagna, la Slovenia, la Romania  e il Belgio fiammingo.

Valutano solo gli insegnanti la Grecia, la Bulgaria, il Belgio francofono e germanofono.

In Danimarca, Grecia, Portogallo, Regno Unito, Estonia e Spagna vi sono apposite agenzie, talvolta esterne, che procedono alle valutazioni. Nel resto dei paesi queste ultime sono affidate per lo più a ispettori, capi di istituto o speciali dipartimenti governativi.

In Svezia, Danimarca e Finlandia lo Stato non controlla direttamente le scuole, che sono affidate ai comuni, e quindi lo Stato valuta questi ultimi.

Molti di questi valutano però a campione: è il caso di Estonia, Spagna, Belgio fiammingo, Lituania, Ungheria, Polonia e Finlandia. Più che di vere e proprie valutazioni si tratta quindi di inchieste per tenere testato il sistema.

I risultati delle valutazioni vengono pubblicati solo nel Regno Unito, Repubblica Ceca, Olanda, Portogallo, Svezia, Ungheria, Belgio fiammingo e Slovacchia. Comunque quasi tutti i paesi che effettuano valutazioni sulle scuole comunicano i risultati, se non al pubblico, agli enti locali.

Alla base del nostro sistema scolastico c’è l’ANARCHIA CERTIFICATIVA. Ogni istituto e ogni Università applica criteri propri, di più, ogni singolo insegnante attribuisce voti e punteggi a suo insindacabile giudizio. Basti solo pensare alle differenze di attribuzione dei voti di maturità e di laurea tra Nord, Centro, Sud. Insomma, i nostri titoli legali soltanto sul piano burocratico-formale si equivalgono. Le università on-line e i diplomifici sono fabbriche a pagamento di certificazioni fasulle per non parlare dei titoli finti che forniscono punteggio aggiuntivo per le graduatorie. Ogni tentativo di introdurre sistemi di valutazione esterni per gli insegnanti, per i dirigenti scolastici, per i docenti universitari sono stati finora ferocemente contrastati e alcune motivazioni le abbiamo esaminate.

Noi siamo gli unici in Europa a non avere un sistema integrato di valutazione delle scuole ed a pagare gli insegnanti solo sulla base dell’anzianità. La conseguenza è che non riusciamo a riportare il nostro tasso di abbandono dal 13,5% (dati 2019) nell’obiettivo europeo (10%) nel mentre l’insoddisfazione dei docenti per i loro stipendi di fame sembra un dato ormai connaturato ad una professione senza carriera. 

Nelle scuole europee il processo valutativo comprende una molteplicità di metodi e strumenti. La tipologia è sempre formativa o sommativa di fine anno, la modalità può essere interna o esterna: nel primo caso, come avviene da noi, i docenti di ciascuna scuola sono i referenti e responsabili della valutazione. Nel secondo caso esiste un sistema nazionale di valutazione che prepara e somministra prove di verifica standardizzate, fermo restando che la valutazione in itinere resta  a carico degli insegnanti.

Anche in Italia esiste un sistema nazionale di valutazione gestito dall’INVALSI che guarda alle esperienze europee e che ogni ministro subentrante valorizza o marginalizza a suo piacimento, tuttavia il nocciolo duro resta la valutazione degli apprendimenti esclusivamente legata alla promozione/bocciatura degli alunni.

In quasi tutti i Paesi europei da almeno trent’anni vengono somministrati test nazionali per disporre di un quadro generale che consenta al sistema scolastico, ma anche a genitori, insegnanti e istituti scolastici di avere dati sulle conoscenze, abilità e competenze degli alunni. I test, si badi, non servono soltanto per essere promossi alla classe o al ciclo successivo, servono per orientare gli alunni nella scelta dei percorsi scolastici e della loro futura professione.

L’ostracismo italiano per le prove standardizzate nazionali è ancora tutto da decifrare nel profondo sol se si pensa che la valutazione degli apprendimenti è applicata nel Regno Unito, in Lussemburgo, in Olanda, Irlanda, Malta e Ungheria almeno da mezzo secolo. All’inizio  l’obiettivo di queste prove era essenzialmente quella di valutare l’apprendimento degli alunni e il loro orientamento ma poi in seguito venne finalizzata anche alla verifica della qualità dell’istruzione fornita dalle scuole, ciò che  oggi avviene in quasi tutti i paesi europei.

Gli Stati che, al contrario di noi, hanno capito come il miglioramento del servizio scolastico si potesse avere soltanto utilizzando prove centralizzate, altrimenti i voti dei singoli insegnanti non sono comparabili e il sistema educativo resta all’oscuro del suo funzionamento reale circa gli apprendimenti degli allievi, in tutti questi decenni hanno affinato rilevamenti e strategie. Lo scopo è evidente, occorre raggiungere un equilibrio tra la valutazione effettuata dal singolo insegnante e i test nazionali; è necessario rendere facilmente confrontabili gli esiti dei test nazionali svolti da allievi che frequentano indirizzi diversi ottenendo quindi una media nazionale. Non c’è altro modo per garantire che i diplomi e le qualifiche siano comparabili su tutto il territorio nazionale. Di conseguenza, le singole istituzioni scolastiche possono conoscere la loro posizione nella graduatoria generale rispetto ad altre scuole e alla media nazionale. Si migliora se qualcuno ti fornisce i dati sui quali ragionare per migliorarli, l’alternativa è rompere il termometro per non misurarsi la febbre.

La domanda è dunque: se la valutazione degli apprendimenti viene fatta da ormai lungo tempo in tutta Europa, per quali ragioni politiche e culturali viene osteggiata in Italia? E’ possibile che soltanto gli italiani siano speciali e abbiano capito qualcosa che sfugge ad altre nazioni importanti? Spesso le persone presuntuose si riconoscono perchè tendono a nascondere le loro debolezze mentre la superbia si nutre di ignoranza e insicurezza.

In Francia sono al lavoro 3mila ispettori, in Inghilterra ci sono controlli ogni tre anni, in Spagna appaiono classifiche sul web. Ovunque gli insegnanti sono più pagati dei nostri ed i migliori ricevono dei premi in base ai risultati. Può essere tutto sbagliato e senza una logica? E’ possibile che siamo noi ad aver capito tutto, certo, magari siamo i più intelligenti. Tutto il discorso lo potremmo catalogare nel proverbio “Paese che vai, usanza che trovi” come se ogni Paese avesse le proprie usanze e i propri costumi sulla valutazione scolastica. Oppure, viceversa, potremmo capire che ognuno ha un proprio modo di affrontare una determinata questione culturale e la nostra arretratezza assomiglia sempre più a quella di un paese non sviluppato?

I modelli di valutazione più diffusi variano sulla base dell’autorità pubblica che ne risponde. 

VALUTAZIONE SCOLASTICA INGLESE

In Inghilterra l’OFSTED (Office for standard in Education) è un organismo indipendente di metà Ottocento  («dobbiamo pagare i maestri sulla base dei risultati» diceva la regina Vittoria) che mantiene ancora un rapporto diretto con la Monarchia. Con un budget annuale di 130 milioni di euro (al nostro Invalsi devono bastare 10 milioni) tutte le 25mila sedi delle scuole del Regno Unito sono ispezionate almeno ogni tre anni. Con un preavviso massimo di cinque giorni gli ispettori inglesi arrivano a scuola ed esaminano i risultati ottenuti dagli alunni e i target fissati ai dirigenti, nonché la qualità dell’insegnamento in ciascuna materia.

Ogni  visita attribuisce ad ogni scuola un voto, in una scala di quattro gradini (ottimo, buono, sufficiente e insufficiente), e i risultati vengono comunicati agli studenti, alle famiglie, e diffusi sul web. Questa pubblicità sulla valutazione delle scuole incide perfino sui valori del mercato immobiliare: le case vicine a scuole ottime, infatti, hanno un prezzo superiore. Per gli istituti insufficienti, se non si arriva alla chiusura o all’accorpamento con altre scuole, si ricorre a un tutor esterno con il compito preciso di migliorare la classifica. L’operazione ha successo nel 60 per cento dei casi e basti pensare alla situazione di Londra, passata da 9 scuole valutate come “ buone” ad una proliferazione di scuole ottime concentrate proprio nella capitale.

VALUTAZIONE SCOLASTICA IN FRANCIA, SPAGNA, GERMANIA, PORTOGALLO

Francia, Germania, Spagna e altri paesi prevedono per gli insegnanti in forma diversa le carriere ma prevedono anche gli scatti di anzianità. Le carriere nascono in questi paesi innanzitutto dalla esistenza di vari ruoli docenti che risalgono alla storia di questi sistemi scolastici, e poi sia pure in maniera indiretta con elementi di valutazione.

Il sistema francese è simile al nostro perchè la Diretion de l’évolution de la prospective et de la perfomance fa capo direttamente al ministero della Pubblica Istruzione. Tutto è incentrato sui due rapporti generali annuali prodotti (su carta e sul web) da 3.000 ispettori (2.700 territoriali e 300 generali) in visita nelle scuole, uno sugli aspetti pedagogici e l’altro sulle questioni amministrative. Il Ministero semplicemente intende capire l’efficacia dei 40 miliardi di euro che spende per il suo funzionamento. La cifra è identica a quella italiana ma noi spendiamo e ci basta. Al contrario del sistema inglese le valutazioni delle singole scuole, degli insegnanti e dei capi di istituto sono considerate riservate e vengono utilizzate per gratificare gli insegnanti che lavorano meglio. Il sistema scolastico francese è molto competitivo pertanto i controlli devono certificare che le condizioni di partenza degli studenti siano uguali e non si verifichino forme di discriminazione. Un problema, questo dell’equità, che a noi italiani non interessa, dal momento che se uno studente di prima media ha un insegnante bravo e un altro un insegnante insufficiente, per noi è frutto del destino e nessuno può farci niente.

C’è comunque un elemento storico che rende il sistema francese ben diverso dal nostro, un corpo di élite di 50.000 superprofessori superpagati che nacquero in seguito all’espulsione dei gesuiti(che gestivano i licei) nel 1700, in aggiunta ad una frammentazione scolastica che solo nel 1975 si è risolta con la costituzione della scuola media unica. Oggi resta quindi la divisione fra professori agrégés (che insegnano principalmente nelle scuole più prestigiose e hanno prospettive di carriera più interessanti) e “certifiés”. Anche la remunerazione è diversa.

I concorsi francese poi non hanno nessun punto di contatto con quelli italiani.

Quello di secondo livello, collèges e lycées (equivalenti delle nostre medie e superiori, dai 12 ai 18 anni) è molto severo e selettivo, si svolge su base nazionale e quindi i professori delle superiori si spostano di continuo.

L’agrégation, cui concorrono i titolari di una laurea lunga come la “maîtrise”, è ancora più severo, con in media un candidato promosso su sei, ma con grandi differenze a seconda delle materie.

Il nostro sistema basato su continue sanatorie del precariato storico non possiamo paragonarlo neanche a quello tedesco dove per diventare insegnanti bisogna affrontare un percorso che definirlo lungo ed impegnativo è un eufemismo.

Il costo della vita in Germania è alto per cui si parte da uno stipendio che in Italia equivale a quello di un dirigente, ma le ore settimanali di lezione sono 26 ore di insegnamento frontale, 3 ore di supplenze e 3 sorveglianze di 20 minuti ciascuna. Colà, visto che non esistono i bidelli, gli insegnanti devono assumere anche le mansioni di sorveglianza e insegnano tutti almeno due materie.  

La valutazione delle scuole in Germania è decentrata, affidata ai 16 Länder (più grandi delle nostre regioni), con un metodo originale, che articola analisi esterne quantitative, interviste, valutazioni qualitative e visite alle scuole. Il metodo di valutazione è contraddistinto dal fatto che non contempla nessun test, ma si appoggia su un ventaglio di metodi, ben sei approcci valutativi diversi, che insieme servono a rendere le informazioni raccolte le più attendibili possibili. Non viene svolta nessuna autovalutazione della scuola, la valutazione è rigorosamente esterna. Tutte le scuole sono ispezionate ad intervalli regolari. Per le ispezioni ogni agenzia si avvale anche del contributo di numerosi insegnanti qualificati formati appositamente e chiamati “co-ispettori“.

Il quadro di riferimento per le ispezioni esterne (Orientierungsrahmen Schulqualität, ORS) è un documento di 40 pagine nel quale si definiscono i criteri che concorrono a definire il profilo della “buona scuola”. Tutti gli elementi di una ispezione devono essere impostati adottando i criteri del quadro di riferimento che sono articolati attorno a due concetti essenziali:

1) la qualità delle lezioni

2) il buon esito degli apprendimenti da parte di ogni alunno.

In Germania la carriera docente consiste nel passare da uno all’altro dei sette corpi (come i nostri ruoli) svolgendo dei percorsi abilitanti che variano dai 7 ai 12 semestri con i relativi esami finali. Il sistema scolastico è infatti molto frammentato non solo per gradi ma anche per ordini: ci sono i maestri che insegnano nella scuola primaria, altri che insegnano nella secondaria inferiore di tipo professionale (hauptschule), ci sono professori che insegnano nella secondaria inferiore di tipo tecnico  (realschule), altri in quella di tipo ginnasiale (gymnasium) e nel liceo, e altri ancora che insegnano nelle scuole tecniche superiori, altri nelle scuole speciali (sonderschule) per portatori di handicap o alunni in difficoltà.

La stessa cosa avviene in Spagna su scala ridotta: ci sono maestri che insegnano alle elementari e altri nei primi due anni delle medie e poi professori della secondaria. Anche qui la carriera consiste nel passare da un ruolo all’altro, sempre avendo raggiunto i dovuti titoli (diplomadura e licienciadura). I professori arrivati ad una certa età possono concorrere a un posto di “cattedratico”, un po’ come da noi una volta c’era il merito distinto.

In Spagna c’è un organismo nazionale (l’Instituto de Evaluaciòn) e 1.500 ispettori regionali che dipendono dai provveditorati locali. Se una scuola viene bocciata dagli ispettori l’anno successivo sarà ancora sotto esame, perché il sistema si occupa dell’attività dei docenti, della gestione dei presidi, e di obiettivi di carattere generale. E’ proprio grazie alla valutazione che gli spagnoli sono riusciti ad abbattere gli abbandoni scolastici che presentavano percentuali troppo alte in periferia.

Anche in Portogallo la carriera dei docenti presuppone l’avanzamento stipendiale legato ad una valutazione fatta sulla base di una relazione: un docente deve rendicontare ogni tre o quattro anni (due all’inizio, e cinque alla fine) il lavoro svolto per ottenere il passaggio al gradone stipendiale successivo.

Nel caso di una doppia valutazione negativa l’insegnante viene allontanato dall’insegnamento e riconvertito. E’ anche prevista una valutazione straordinaria alla quale si accede dopo 15 anni di servizio oppure per aver ottenuto il risultato massimo nelle valutazioni ordinarie o infine alla fine di un periodo di formazione specialistica.

Conclusioni

Qualunque sia il modello scelto, in tutta Europa carriere e stipendi del corpo insegnante dipendono dalla valutazione. Nei modelli di cui abbiamo parlato un 20 per cento degli insegnati sono considerati “eccellenti” e come tali riconosciuti pubblicamente: diventano catedraticos in Spagna, agrégés in Francia, advances skills teachers nel Regno Unito. In Inghilterra, Germania, Francia e Spagna, il docente  riconosciuto come bravo ha uno stipendio che arriva già nei primi anni di insegnamento a 45.000 euro, con una parte variabile pari anche a un terzo del totale. Al contrario  l’Italia senza valutazione e senza carriera docente riconosce uno stipendio dove la parte fissa è non meno del 97 per cento e sale, ogni sei-sette anni, solo sulla base dell’anzianità di servizio, arrivando a un tetto di 39.000 euro lordi l’anno a fine carriera. Stipendi bassi in cambio di nessuna valutazione, di possibilità di trasferimento a domanda per stare vicino alla propria abitazione e non equi per il minor costo della vita al Sud. Doppio lavoro consentito (e incentivato) largamente, organi collegiali che limitano fortemente la direzione del preside (sceriffo o meno che sia), parte variabile dello stipendio incrementata soltanto dalla scuola progettificio e dalle ore aggiuntive. Il bonus per la valorizzazione del merito del personale docente, comunemente chiamato “Bonus docenti” o “Bonus merito” (istituito dalla L. 107/2015) ormai viene contrattato e ha perso la sua connotazione iniziale. Una scuola senza valutazione e senza spazio per il merito, ben lontana dai modelli stranieri ormai collaudati da decenni, e che pur tuttavia, a sentire i docenti e i dirigenti, potrebbe migliorare soltanto a partire dall’affrontare la questione salariale. Dunque le scarse risorse distribuite a pioggia, senza considerare gli apporti personali e i risultati, sono un connotato soltanto italiano e potrebbero essere giustificate soltanto se nelle classifiche internazionali sui risultati di apprendimento occupassimo i posti di eccellenza.

NOTE

www.nonsprecare.it

Andrea Genzone, Sistemi educativi a confronto, quali sono i più virtuosi? www.lenius.it, (29/7/21)

Abele Bianchi, La valutazione nei sistemi scolastici europei, oppi.it

Francesco Scoppetta, già dirigente scolastico

Autore di “La fabbrica dei voti finti” (Armando editore, 2017)

LETTERA APERTA AL MINISTRO BIANCHI SUGLI ESAMI DI MATURITÀ

LETTERA APERTA AL MINISTRO BIANCHI SUGLI ESAMI DI MATURITÀ

Gentile Ministro Bianchi,

a quanto abbiamo letto, Lei sarebbe orientato a riproporre un esame di maturità senza gli scritti come lo scorso anno, quando molti degli stessi studenti, interpellati dai giornali, l’hanno giudicato più o meno una burletta.  

Nonostante i problemi causati dalla pandemia, per far svolgere gli scritti in sicurezza a fine anno molte aule sono libere per ospitare piccoli gruppi di candidati. E che l’esame debba essere una verifica seria e impegnativa è nell’interesse di tutti. In quello dei ragazzi – per cui deve costituire anche una porta di ingresso nell’età adulta – perché li spinge a esercitarsi e a studiare, anche affrontando quel tanto di ansia che conferma l’importanza di questo passaggio. Solo così potranno uscirne con soddisfazione. È nell’interesse della collettività, alla quale è doveroso garantire che alla promozione corrisponda una reale preparazione. Infine la scuola, che delle promozioni si assume la responsabilità, riacquisterebbe un po’ di quella credibilità che ha perso proprio scegliendo la via dell’indulgenza a compenso della sua frequente inadeguatezza nel formare culturalmente e umanamente le nuove generazioni.

Non si tratta quindi solo della reintroduzione delle prove scritte, per molte ragioni indispensabile (insieme alla garanzia che non si copi e non si faccia copiare, come accade massicciamente ogni anno); ma di trasmettere agli studenti il messaggio di serietà e di autorevolezza che in fondo si aspettano da parte degli adulti.  

Grazie per la Sua attenzione. 

GRUPPO di FIRENZE per la scuola del merito e della responsabilità

Roberta De Monticelli, Già Professore ordinario di Filosofia della Persona, Università Vita Salute San Raffaele

Nicla Vassallo, Professore ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Genova

Gustavo Zagrebelsky, Giurista e accademico, Presidente Emerito della Corte Costituzionale

Giulio Ferroni, Professore Emerito di Letteratura italiana Università di Roma La Sapienza –

Carlo Cottarelli, Economista, dirige l’Osservatorio sui Conti Pubblici della Cattolica di Milano

Elsa Fornero, Docente di Economia  Università di Torino,  Ministro del Lavoro nel Governo Monti

Donatella Di Cesare, Docente Ordinario di Filosofia teoretica, Università di Roma La Sapienza

Alessandro Barbero, Docente Ordinario di Storia medievale, Università del Piemonte Orientale

Marco Santambrogio, Docente di Sistemi di Elaborazione dell’Informazione presso il Politecnico di Milano

Alberto Giovanni Biuso, Professore Ordinario di Filosofia Teoretica, Università di Catania

Chiara Frugoni, già Docente di Storia Medievale e della Chiesa presso l’Università di Pisa

Carla Bagnoli, Professore di Filosofia teoretica all’Università di Modena e Reggio Emilia

Fulco Lanchester, Docente ordinario di Diritto Costituzionale e Comparato, Università La Sapienza, Roma

Rino Di Meglio, Coordinatore Nazionale della Gilda degli Insegnanti

Renza Bertuzzi, Docente nelle scuole superiori, dirige “Professione Docente”, organo della Gilda degli Insegnanti

Roberta Lanfredini, Professore Ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Firenze

Maurizio Dardano, Accademico della Crusca e docente emerito di Storia della lingua, Università Roma Tre

Carlo Fusaro, Già Ordinario di Diritto pubblico comparato Università di Firenze

Giovanni Belardelli,  Professore Ordinario di Storia delle dottrine politiche Università di Perugia

Ferdinando Luigi Marcolungo, Docente Ordinario di Filosofia teoretica, Università di Verona

Paolo Crepet, Psichiatra, sociologo e saggista

Francesco Perfetti, Già Docente ordinario di Storia contemporanea, Università LUISS Guido Carli di Roma

Adriano Prosperi, Professore Emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale di Pisa

Giovanni Orsina, Docente Associato di Storia Comparata dei Sistemi Politici Europe, Università LUISS di Roma

Renato Mannheimer, Sociologo e Accademico, Esperto di sondaggi demoscopici, partener di Eumetra Monterosa

Anna Oliverio Ferraris, Psicologa e psicoterapeuta, già Docente di Psicologia dello sviluppo, Università La Sapienza

Giuseppe Nicoletti, Docente Ordinario di Letteratura Italiana, Università di Firenze

Maria Cristina Grisolia, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale, Università di Firenze

Stefano Poggi, Docente Ordinario di Storia della Filosofia presso l’Università di Firenze

Giacomo Poggi, Professore Onorario di Fisica generale, Università di Firenze

Lorenzo Strik Lievers, Già Docente di Didattica della Storia presso l’Università di Milano Bicocca

Roberto Tripodi, Responsabile Formazione dell’Associazione Scuole Autonome della Sicilia

Enrica Lisciani-Petrini, Professore Ordinario di Filosofia Teoretica, Università di Salerno

Scuola, “educazione attiva” come nuova frontiera

Cuzzupi: scuola, “educazione attiva” come nuova frontiera

Ma anche stato di agitazione e pronti ad azioni dure e incisive!

Intervenendo al Convegno “L’autonomia scolastica oggi – Tra principio di sussidiarietà e dimensionamento degli Istituti” tenuto a Matera in queste ore, Ornella Cuzzupi, Segretario Nazionale UGL Scuola ha sottolineato con forza le problematiche legate all’istituzione scolastica.

Il dramma della Pandemia sembrava aver portato la scuola alla ribalta e, per un attimo, è stata a essa riconosciuto il ruolo che le compete – ha detto il Segretario UGL – Abbiamo assistito a vere e proprie gare sulle prospettive offerte e su quanto sembrava fosse pronto a esser fatto. A parole era una vera è propria autostrada proiettata verso l’alba di una nuova scuola, funzionale, inclusiva e ricca di potenzialità. Tutto questo è però rimasto nelle intenzioni e oggi siamo ancora alla ricerca di un’istituzione adeguata e aderente alla realtà”.

In pratica Cuzzupi ha ribadito quello che da mesi l’UGL Scuola sta affermando e cioè che alle parole non si da seguito mentre servirebbe un’urgente cambio di passo.

La scuola ha bisogno di ben altro. L’assurdo balletto di circolari in merito alle procedure da seguire in caso di contagi – continua Cuzzupi – è l’esempio più evidente di quanto si stia navigando a vista. Persino le cose più semplici come l’adozione di mezzi d’areazione e purificazione dell’aria nelle classi sono state sacrificate sull’altare dell’apparire, del mostrarsi capaci di grandi disegni per poi concludere poco o nulla mentre nelle classi si rimane con la finestra aperta anche d’inverno. Tutto ciò è intollerabile.”

Ma il Segretario punta la barra dritta al futuro. “Non possiamo consentire che la scuola continui ad affidarsi alla volontà e alla capacità dei singoli. Occorre un diverso modo di far didattica, una scuola a dimensione giusta, che interagisca con i territori, con le realtà locali, con le famiglie dando ai giovani un senso di completezza e d’interconnessione con il loro mondo. Occorre realizzare quella che definisco “educazione attiva”, un’istruzione che si adatti alle dinamiche sociali formando al rispetto delle regole e a una corretta socializzazione. Questo – afferma Cuzzupi – non deve essere un sogno, occorre battersi e lottare per raggiungere l’obiettivo e dare il giusto peso a tutti gli operatori della conoscenza siano essi docenti, ATA, dirigenti. Da qui l’UGL Scuola intende partire e su questo chiediamo per l’ennesima volta al dicastero un confronto. Se il silenzio di chi fugge dai problemi dovesse persistere, allora saremo pronti a dar vita ad azioni incisive in tutte le sedi opportune. La scuola non può continuare a boccheggiare sotto i colpi dell’inefficienza. Per questo motivo dichiariamo lo Stato di Agitazione di tutto il personale della Scuola”.  

Federazione Nazionale UGL Scuola

Covid scuola, il docente in quarantena non è considerato in malattia

da La Tecnica della Scuola

Di Lara La Gatta

L’assenza di un docente in quarantena non si configura come assenza per malattia (a meno che non sussistano ulteriori sintomi che esulino dal COVID): egli, pertanto, dovrà svolgere la DID nella/e classe/i in quarantena, mentre potrà svolgerla (ad oggi senza alcun obbligo) nella/e classe/i in presenza solo nei casi in cui il DS possa garantirne la sorveglianza con personale in servizio. In caso contrario il DS provvederà alla sua sostituzione fino al termine del periodo di quarantena disciplinato dalla Circolare del Ministero della Salute n. 36254 dell’11 agosto 2021.

Questo è quanto si legge in una faq, aggiornata al 2 dicembre, pubblicata dall’USR Veneto.

L’Ufficio scolastico spiega anche la differenza tra quarantena e isolamento: a differenza della quarantena, misura di salute pubblica rivolta ad una persona sana che sia risultata contatto stretto di un caso COVID-19, l’isolamento riguarda la persona affetta da COVID-19 e consiste nel separarla dal resto della collettività, per prevenire la diffusione del contagio durante il periodo di trasmissibilità.

L’USR conclude: “Qualora il docente dovesse essere posto in isolamento, al contrario, in attesa della possibile approvazione del “Contratto Collettivo Nazionale Integrativo concernente le modalità e i criteri sulla base dei quali erogare le prestazioni lavorative e gli adempimenti connessi resi dal personale docente del comparto “Istruzione e ricerca”, nella modalità a distanza, fino al perdurare dello stato di emergenza”, bisognerà prevederne la sostituzione fino al termine del periodo di isolamento e al conseguente rientro del docente, previa presentazione del certificato di fine isolamento”.

Quarantene scolastiche, cosa succede se qualcuno rifiuta di fare il tampone

da La Tecnica della Scuola

Di Lara La Gatta

Nei casi in cui non fosse possibile ottenere una descrizione esaustiva della situazione epidemiologica del gruppo, ad esempio per la mancata effettuazione (es. rifiuto) dei test di inizio sorveglianza di una parte dei
contatti, il Dipartimento di Prevenzione, oltre a porre in quarantena i contatti senza test di screening, può valutare le strategie più opportune per la tutela della salute pubblica, inclusa la possibilità di disporre la quarantena per tutti i contatti individuati (a prescindere dal loro esito al test di screening).

Questo è quanto leggiamo nel documento interministeriale, trasmesso il 3 novembre scorso, Indicazioni per l’individuazione e la gestione dei contatti di casi di infezione da SARS-CoV-2 in ambito scolastico.

SCARICA LA CIRCOLARE

Tale documento rappresenta tuttora il riferimento per la sorveglianza con testing da attivare nelle scuole in caso di riscontrata positività di uno studente o del personale.

Quindi, se ad esempio uno degli studenti della classe in cui si è riscontrato il primo caso positivo rifiutasse di sottoporsi al test rapido T0 (quello da effettuare entro le 48 ore dall’ultimo contatto), di sicuro lo stesso ragazzo sarà posto in quarantena; e c’è addirittura il rischio che la disposizione possa riguardare l’intero gruppo classe.

Rapporto Censis 2021. DaD: 6 presidi su 10 pensano che i docenti non abbiano offerto una didattica innovativa

da La Tecnica della Scuola

Di Carla Virzì

Nulla di nuovo sotto il sole: i dirigenti pensano che i docenti debbano formarsi di più sulla didattica digitale e attribuiscono loro parte degli insuccessi rilevati dall’Invalsi sul fronte degli apprendimenti nei due anni di pandemia, a dispetto della buona volontà degli insegnanti nell’adattarsi alla novità della didattica a distanza. Lo aveva già rilevato la Fondazione Agnelli in una indagine di qualche mese fa e lo rileva oggi il Censis nel suo ultimo rapporto 2021.

Il punto di partenza, anche per il Centro Studi Investimenti Sociali, l’istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964, è rappresentato dalle rilevazioni Invalsi, che hanno evidenziato un peggioramento delle performance degli studenti italiani rispetto al 2019.

Ora – spiega il Censis – sebbene ci sia la consapevolezza, da parte dei dirigenti scolastici, in accordo con quanto dichiarato da Roberto Ricci, presidente dell’Invalsi, circa il fatto che la regressione degli apprendimenti non sia da imputare del tutto alla DaD ma abbia radici ben più lontane nel tempo, restano delle responsabilità e delle criticità importanti legate alla didattica a distanza.

Il comunicato stampa del Censis

Ad ogni modo – si legge nel comunicato stampa dell’istituto di ricerca -, è molto diffusa l’opinione che il peggioramento delle performance sia conseguente a un uso della DaD basato sulla mera trasposizione online della tradizionale lezione frontalesenza una reale innovazione didattica: il 65,4% è molto o abbastanza d’accordo.

E ancora:una percentuale di presidi analoga (65,3%) rimarca che con la DaD non si è riusciti a instaurare una valida relazione educativa, mentre il 59,5% imputa una responsabilità non all’uso della Dad in sé, ma al suo utilizzo in un periodo come quello pandemico, con tutto il suo portato di disagio per studenti e docenti.

Problematiche psicologiche

Disagi che sempre secondo i dirigenti scolastici hanno conseguenze sul fronte emotivo-psicologico.

L’81,0% dei 572 dirigenti scolastici di scuola secondaria di secondo grado intervistati dal Censis segnala che tra gli studenti sono sempre più diffuse forme di depressione disagio esistenziale.

E se da un lato molti alunni chiedono di andare a scuola in presenza e che venga scongiurata la DaD per ripristinare relazioni e contatti personali, dall’altro lato il 76,8% dei dirigenti sottolinea che gli studenti vivono in una fase di sospensione, senza disporre di prospettive chiare per i loro progetti di vita, alle volte apatici e indifferenti a qualunque sollecitazione (lo pensa il 46,3% dei dirigenti), alle volte sommersi di stimoli e informazioni al punto di non riuscire a districarsi e a operare una selezione (è il parere del 78,3% dei dirigenti scolastici).

Sensazioni accresciute dalla pandemia, naturalmente, dato che le certezze dei ragazzi rispetto al proprio futuro hanno subito un duro colpo. Non a caso per il 46,6% dei dirigenti scolastici l’atteggiamento prevalente tra i propri studenti è il disorientamento.

Tematiche che anche La Tecnica della Scuola ha affrontato nell’ambito della diretta sul fenomeno dell’Hikikmori.

Super green pass, cosa cambia per la scuola da lunedì 6 dicembre

da La Tecnica della Scuola

Di Carla Virzì

Al via il Super green pass. Da lunedì 6 dicembre e fino al 15 gennaio in vigore la certificazione rafforzata per vaccinati guariti dal Covid. In alcune circostanze non basterà più il semplice tampone. Lo stabilisce il Decreto Legge n. 26, già pubblicato in Gazzetta Ufficiale,

Ad ogni modo, come abbiamo anticipatochi possiede già un green pass per vaccinazione o guarigione non deve scaricare una nuova Certificazione. Sarà l’App VerificaC19 a riconoscerne la validità.

Cosa cambia per la scuola?

  • Per quanto riguarda la scuola, a partire dal 6 dicembre servirà per chiunque (al di sopra dei 12 anni) usi i mezzi pubblici, quindi anche per gli studenti over 12, il green pass tradizionale, sebbene poi questo non serva per l’ingresso in classe.
  • Quanto all’obbligo vaccinale, questo entrerà in vigore a partire dal 15 dicembre. Tutto il personale scolastico è tenuto ad adeguarsi all’obbligo, sia in relazione alla prima dose, per chi fino a questo momento si fosse rifiutato di vaccinarsi; sia in relazione al richiamo, quindi alla terza dose, che diventa necessaria alla scadenza dei 9 mesi dall’ultima somministrazione. In altre parole, cosa è vincolante e cosa facoltativo per i docenti? I docenti possono sin da ora prenotarsi per la terza dose di vaccino ma devono farlo necessariamente qualora l’ultima dose di vaccino sia stata somministrata loro nove mesi fa.

IL DECRETO-LEGGE 26 novembre 2021, n. 172 in G.U.

Sanzioni

Per chi non dovesse adempiere all’obbligo o per chi, in qualità di datore di lavoro, non dovesse effettuare regolarmente i controlli, scatteranno le sanzioni. Ecco cosa ci spiega a riguardo l’esperto, l’avvocato Dino Caudullo.

In quali altri contesti servirà il super green pass?

Il super green pass sarà adottato anche in zona bianca. Per una serie di attività – bar e ristoranti al chiuso, palestre, impianti sportivi, spettacoli, feste, discoteche e cerimonie pubbliche – servirà il vaccino; per recarsi al lavoro sarà sufficiente il tampone, quindi il green pass tradizionale.

La validità passa da 12 a 9 mesi

Dal 15 dicembre 2021, la validità della Certificazione verde COVID-19 da vaccinazione, per le dosi successive alla prima o dose dopo guarigione, passa da 12 a 9 mesi dalla data di somministrazione.

E’ pertanto necessario controllare quando è stata somministrata l’ultima dose: se sono passati più di 9 mesi, la Certificazione verde è scaduta, per cui bisogna prenotare la dose di richiamo entro il 14 dicembre 2021, per ricevere così la nuova Certificazione entro 48 ore dalla somministrazione del vaccino, che varrà per 9 mesi.

Per informazioni e assistenza sulla Certificazione verde COVID-19 si può chiamare il numero di pubblica utilità 1500 attivo tutti i giorni 24 ore su 24.

Maturità 2022, Floridia: ‘Se la pandemia lo permetterà, proveremo a tornare verso un esame tradizionale’

da Tuttoscuola

“L’esame sarà diverso da quello dello scorso anno, ma se la pandemia lo permetterà cercheremo di tornare verso la normalità, verso un esame tradizionale”. Così sula Maturità 2022 la sottosegretaria all’Istruzione Barbara Floridia, che lo scorso 2 dicembre ha dialogato con gli studenti durante la GDS Academy.  Secondo le parole dell Sottosegretaria, sul prossimo esame di Stato “c’è una riflessione in corso con il Ministro”.

Floridia ha ribadito il concetto: “Tenendo conto della didattica a distanza e delle carenze che senza colpa di nessuno sono state accumulate, l’esame di maturità di quest’anno sarà modulato rispetto a ciò che sarete in grado di affrontare”.

Sembra dunque prendere corpo l’ipotesi che si decida per lo svolgimento di una prima prova scritta, che insieme al colloquio orale andrebbe a comporre un esame di Stato non molto distante da quello tradizionale.

D’altronde il ministro dell’Istruzione aveva già toccato l’argomento Maturità 2022 dichiarando di avere “In mente una maturità che faccia tesoro di tutto quello che abbiamo vissuto fino ad adesso”, ma anche “che faccia un passo in avanti, anche rispetto agli altri”. Si attendono tuttavia conferme dal Ministro: “Stiamo lavorando – aveva detto Bianchi – facendo tesoro dell’anno scorso e di tutto: faremo passi in avanti, però ascoltando tutti”.

Più libri più liberi

Lorenzo Mattotti firma il manifesto per il ventennale di Più libri più liberi.

Dal 4 all’8 dicembre torna alla Nuvola la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria.

Il tema di questa edizione è la Libertà.

Più libri più liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, promossa e organizzata dall’Associazione Italiana editori (AIE) torna in presenza alla Nuvola dell’Eur, dal 4 all’8 dicembre dopo essersi fermata per un’edizione a causa della pandemia.

L’evento editoriale più importante della Capitale, dedicato esclusivamente agli editori italiani piccoli e medi compie 20 anni, un traguardo importante che arriva in un momento particolarmente significativo per la storia del nostro Paese: l’Italia esce finalmente dal lungo periodo buio dell’emergenza sanitaria e scommette sul futuro, un domani pieno di incognite ma anche e soprattutto di grandi speranze e aspirazioni. 

 

Più libri più liberi è sostenuta dal Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura, dalla Regione Lazio, da Roma Capitale, dalla Camera di Commercio di RomaUnioncamere Lazio, e da ICE-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, con il contributo di SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori e di BNL Gruppo BNP Paribas. È realizzata in collaborazione con Istituzione Biblioteche di RomaATAC Azienda per i trasporti capitolina, EUR SpA e si avvale della Main Media Partnership di RAI. Più libri più liberi partecipa ad Aldus Up, la rete europea delle fiere del libro cofinanziata dall’Unione Europea nell’ambito del programma Europa Creativa.

 

Il tema dell’edizione 2021

 

La Libertà è il tema di quest’anno, il modo più appropriato per celebrare questo momento di rinascita ma anche di nuova condivisione. Un concetto cruciale per le vite di tutte e tutti, che la Fiera dei piccoli e medi editori – non a caso – contiene nel suo stesso nome, nel suo stesso DNA. Un ideale a lungo anelato e, dopo i duri mesi di lockdown, finalmente ritrovato. Ma anche un tema portante di ogni passata edizione, coniugato nelle sue molte possibili declinazioni: le libertà collettive e quelle personali, l’impegno per i diritti civili e politici, la libertà di stampa e di espressione, un dato concreto e irrinunciabile per milioni di persone nel mondo. 

Ma c’è anche un altro significato: sono proprio i libri che ci liberano e ci elevano. E allora insieme ai grandi ospiti nazionali e internazionali si rifletterà su quali sono stati i libri che ci hanno liberato, rompendo schemi, barriere e tabù. 

Sarà questo il focus di una manifestazione che in vent’anni è diventata non solo un appuntamento irrinunciabile ma un autentico rito collettivo per tanti appassionati e addetti del settore. 

E tutto questo verrà raccontato anche attraverso gli stand degli editori, gli incontri, le letture, le tavole rotonde. Torneranno scrittrici e scrittori provenienti da ogni parte del mondo, grandi ospiti da Jonathan Safran Foer Alessandro Baricco,  Roberto Saviano, Guadalupe Nettel, Zerocalcare, Chiara Valerio, Francesca Mannocchi, ma anche nuove scrittrici come Reni Eddo-Lodge e tantissimi altri. Tutti di nuovo a Roma, per discutere e confrontarsi.

 

Il manifesto di Lorenzo Mattotti

A firmare il manifesto dell’edizione 2021 di Più libri più liberi è Lorenzo Mattotti. Anche quest’anno la Fiera sarà ospitata nello splendido scenario della Nuvola dell’Eur, che in questo momento speciale di rinascita assume un particolare significato simbolico. Non a caso il fumettista, illustratore, regista e sceneggiatore bresciano (ma parigino d’adozione) ha voluto mettere la nuvola al centro del manifesto, trasformandola in una mongolfiera con a bordo due lettori. Un’immagine eterea che – come nel finale delBarone Rampante di Calvino – richiama il potere della letteratura di portarci in volo verso gli infiniti territori della fantasia.

 

Lorenzo Mattotti è nato a Brescia nel 1954 e dal 1998 vive e lavora a Parigi. Alla fine degli anni Settanta esordisce come autore di fumetti. Dopo aver frequentato la facoltà di Architettura a Venezia si trasferisce a Bologna, dove nel 1983, insieme ad altri disegnatori, fonda Valvoline, un gruppo che si prefigge di mettere il fumetto in dialogo con i linguaggi dell’arte, della musica, della moda e della pubblicità. Il suo primo lavoro a colori è Il signor Spartaco, nel 1982, seguito nel 1984 da Fuochi, opera emblematica che rivoluzionerà il linguaggio del fumetto e metterà in luce alcuni degli elementi caratterizzanti dello stile dell’autore: da un uso del colore sensuale, evocativo e avvolgente alla marcata espressività del tratto.

Numerosissimi i volumi per adulti e per l’infanzia pubblicati successivamente da Mattotti, molti dei quali tradotti in più lingue, come le collaborazioni internazionali con quotidiani e magazine come New Yorker, Vanity Fair, Cosmopolitan, Le Monde, Nouvel Observateur, Das Magazin, Süddeutsche Zeitung, Repubblica, Internazionale e Corriere della sera. Negli anni disegna molte copertine di libri per diverse importanti case editrici e manifesti per eventi culturali di rilievo. Ha lavorato anche in ambito cinematografico. Tra le altre cose, nel 2019 ha firmato il film d’animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia, tratto dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati, presentato al Festival di Cannes e nominato per la 45a cerimonia dei César.